Iain Chambers, il manifesto, 5 giugno 2024
Parlare di democrazia, diritti e giustizia all’ombra della Palestina, di Israele e del genocidio in corso a Gaza significa registrare i limiti stessi degli spazi storici e delle pratiche politiche che questi concetti dovrebbero promuovere e incarnare. Il linguaggio dell’Occidente – il suo governo, i suoi media e la sua politica – si è rivelato estremamente carente. Al massimo può identificare un problema umanitario, mai uno politico liberatorio. Il primo è separato e distante dalla nostra vita quotidiana; il secondo ci investe direttamente. Il primo richiede un aiuto momentaneo e superficiale, il secondo un cambiamento profondo. La Palestina ci interroga.
In questo libro importante e tempestivo (Gaza davanti alla storia), Enzo Traverso ha il coraggio di fare delle connessioni che in questi giorni e settimane sono invariabilmente bloccate, rifiutate e censurate per difendere l’indifendibile. In questo clima scoraggiante, la sua disamina senza fronzoli ci sottrae al linguaggio auto-assolutorio trasmesso dai governi e dai media occidentali. Attraverso il prisma della violenza oscena che si sta svolgendo a Gaza, ci espone a una discussione molto più estesa e approfondita sulla storia, i diritti e la giustizia dell’ordine globale. Ci porta dinnanzi all’intreccio tra la costituzione coloniale della modernità occidentale e la Shoah.
Il sionismo, anche nelle sue forme storiche più socialiste, era e resta colonialismo di insediamento che come tale continuamente cerca l’annientamento fisico e simbolico dei palestinesi, della loro storia, della loro cultura e delle loro voci. Ed è stato accompagnato dalla memorizzazione istituzionale dell’Olocausto, trasformato in un evento morale che maschera la responsabilità occidentale nei processi storici che hanno portato alla sua realizzazione. Il successivo spostamento della responsabilità europea per la Shoah sul mondo arabo, attraverso il sostegno incondizionato allo stato di Israele e l’imposizione ai palestinesi del peso di portare la colpa occidentale, è l’ulteriore svelamento di questa genealogia coloniale. Il nodo tra il sionismo, che tradisce ogni giorno la sua ideologia di supremazia razziale, e il colonialismo occidentale, si declina oggi nell’imminente fascismo di Israele che Primo Levi già intuì quarant’anni fa e che ora infesta il presente.
Quasi come una piega del tempo, la potente miscela ottocentesca di imperialismo, razzismo scientifico, nazionalismo e sionismo, che cercava con le sue pretese universali di civilizzare il pianeta mentre imponeva idee di unità nazionale omogenea in patria, continua a gettare il suo cuore di tenebra nel profondo del presente, sia nel massacro consentito dei palestinesi che nell’esecuzione giuridica dei migranti «illegali». Nell’economia politica del nostro «progresso» le vite che contano di meno vengono scartate: mandate nelle riserve dei nativi americani, nei campi di identificazione, sorveglianza ed espulsione degli immigrati, nella più grande prigione a cielo aperto del mondo che è la Palestina, e nei ghetti delle città occidentali. La modernità è un’impresa colonizzatrice e, quando necessario, genocida. Ascoltare oggi lo storico israeliano Ilan Pappé che insiste sulla traiettoria dei regimi coloniali e sull’imminente implosione di Israele ci spinge a tornare a queste storie per liberarci in un futuro più democratico. Alla fine, fissando l’atrocità dell’abisso, il suo colonialismo, l’Olocausto e Gaza, scopriamo che siamo noi stessi Israele/Palestina.
La violenza strutturale del colonialismo, spiegata così bene da Fanon, colpisce sia a livello fisico sia psicologico il colonizzato e il colonizzatore. Cancella l’innocenza di entrambi. Nella resistenza all’imposizione brutale e all’esercizio malevolo di poteri asimmetrici, Hamas è una risposta sintomatica, non una fonte. È inevitabilmente etichettato come terrorismo da coloro che controllano i meccanismi di definizione. Come nelle rivolte degli schiavi nei Caraibi, quando i padroni bianchi furono massacrati, la ripugnanza morale non può nascondere la comprensione politica e, osiamo dire, anche la giustificazione storica. Forse, piuttosto che rispondere al grido dei media «Condannate Hamas?», un’organizzazione certamente fondamentalista, patriarcale e autoritaria (come tutte le istituzioni militarizzate a fini anticoloniali: dal Fln algerino ai Vietcong), dobbiamo chiederci perché Hamas è emerso e a cosa risponde storicamente e strutturalmente.
Nella sua dettagliata discussione sugli atti di terrorismo nel XX secolo, Traverso ci aiuta a comprendere la terribile ambivalenza del termine nei movimenti storici di liberazione. Ciò rende la violenta (ed esecrabile) esplosione carceraria contro l’occupazione militare di quasi ottant’anni, avvenuta il 7 ottobre 2023, difficile da condannare semplicemente. Come direbbe la filosofa afro-brasiliana Denise Ferreira da Silva, è qui che le categorie prevalenti della modernità si sgretolano per fare uscire dalla Palestina la questione del nostro tempo. Non si tratta semplicemente di una questione geopolitica o storica, ma epistemologica. Coloro che hanno il diritto di raccontare, definire e spiegare la questione (chiaramente non i palestinesi che rimangono largamente senza voce) rivelano un preciso dispositivo di potere-sapere in cui la nostra «oggettività» corrisponde sempre alle esigenze della nostra soggettività. Anche questo è colonialismo, che, in fin dei conti, richiama la supremazia bianca.
Pensare con la Palestina è qualcosa di radicalmente diverso. Solo la precisa domanda politica e storica che Hannah Arendt avrebbe posto scuote la retorica occidentale e la costringe al silenzio: i palestinesi hanno diritto ad avere dei diritti? Rispondere affermativamente implica il superamento dell’attuale situazione coloniale e la riconfigurazione di Israele nella complessa eredità storica, politica e culturale del territorio, che, come Enzo Traverso conclude, dovrebbe diventare libero per tutti i suoi abitanti dal fiume al mare.