Marckalada, l’America molto prima di Colombo

Francesco Marzella | Avvenire | 16 febbraio 2023

Che Colombo e i suoi non siano stati i primi europei a metter piede in America, è cosa ormai da tempo acclarata. Le saghe islandesi ricordano i viaggi di alcuni coraggiosi che intorno all’anno mille si spinsero dall’insediamento islandese in Groenlandia (“la Terra verde”) verso un occidente ignoto, approdando prima a una terra coperta da ghiacciai e caratterizzata dalla presenza di rocce lisce, che fu pertanto ribattezzata Helluland (“la Terra delle pietre lisce”) e poi navigando ulteriormente fino a raggiungere una regione pianeggiante e boscosa, che chiamarono Markland (“la Terra dei boschi”). Di lì proseguirono ancora, fino a una terra cui diedero nome di Vinland (“la Terra del vino”) dove si fermarono per un po’ prima di far ritorno in Groenlandia. Alcuni testi menzionano anche l’incontro, degenerato in scontro, con le popolazioni locali, che avrebbero costretto gli islandesi a riprendere il largo sulle loro navi.

L’evidenza archeologica provò in seguito che il racconto delle saghe poteva effettivamente avere basi storiche. A l’Anse aux Meadows, sull’isola canadese di Terranova, furono ritrovate negli anni ‘600 le tracce di un insediamento vichingo che ebbe vita breve e servì probabilmente come base per esploratori che si sarebbero spinti anche verso terre più meridionali. L’insediamento è databile intorno all’anno mille, un dato compatibile col racconto delle saghe che prova come quel continente sia già stato raggiunto da europei quasi cinque secoli prima di Colombo.

C’è però un’altra parte della storia del rapporto fra Europa e Nuovo Mondo prima di Colombo che attendeva ancora di essere raccontata e che riaffiora da un testo inedito di metà Trecento. Poche righe che descrivono una terra rigogliosa, chiamata Marckalada, posta a occidente della Groenlandia, che secondo quanto raccontano «i marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia», sarebbe popolata da giganti, come del resto si dedurrebbe da alcuni edifici costruiti con pietre così imponenti «che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi».

Si parla ancora di Markland, quindi. Non in Islanda o in un altro Paese scandinavo, ma questa volta in Italia, e più precisamente a Milano. Paolo Chiesa, professore di Letteratura latina medievale all’Università degli studi di Milano, ha dato notizia della scoperta per la prima volta nel 2021, con un articolo pubblicato sulla rivista accademica Terrae incognitae che ha suscitato grande clamore. Ora la scoperta viene raccontata anche in un saggio pubblicato nella collana I Robinson di Laterza, Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, che ha per protagonisti un autore trecentesco con la passione per la storia e la geografia e un manoscritto di cui a lungo si è sottovalutata l’importanza. Il cronista è un frate domenicano che risponde al nome di Galvano Fiamma, è attivo presso i Visconti e nutre ambizioni non necessariamente proporzionate al suo talento di prosatore. Sarebbe anche un autore prolifico, ma è troppo pedante e lascia spesso incompiute le sue opere per via delle revisioni continue mai portate a termine. Il manoscritto in questione non è un autografo, ma una copia eseguita da uno scriba milanese una cinquantina di anni dopo la morte dell’autore e forse commissionata dai Visconti. Sul finire del diciannovesimo secolo compare dall’altra parte dell’oceano, fra le donazioni fatte da un collezionista americano alla città di Omaha, nel Nebraska, mentre un centinaio di anni dopo viene messo all’asta perché l’amministrazione pubblica ha bisogno di far cassa e viene presentato come una copia del Cronicon maius di Galvano Fiamma. Grazie ai dettagli che trapelano dopo una seconda asta, si inizia a intuire, però, che il codice potrebbe contenere un testo diverso. Sarà proprio Paolo Chiesa, quando avrà la possibilità di esaminare il manoscritto per gentile concessione del nuovo proprietario, a confermare che in realtà si tratta dell’unico testimone di un’altra opera di Galvano, la Cronica universalis, ancora inedita. Dalle pagine del codice, trascritte dagli studenti coinvolti in un progetto didattico, è emersa, fra le altre cose, la menzione di Marckala(n)da, che rivela come anche nell’area mediterranea circolassero notizie di quella tersa lontana grazie alla «permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest». E dov’è che Galvano venne a conoscenza dei racconti dei marinai del Nord? Colombo dunque sapeva? Le possibili risposte a queste domande si possono trovare fra le pagine di Marckalada, che resta prima di tutto il racconto di una scoperta – di cui il lettore potrà valutare la portata – che illustra metodi e obiettivi del lavoro del filologo, esalta la ricerca «come atteggiamento e vestito» e vuole insegnare che «il sapere non è un dato, ma un processo» che porta a una comprensione della realtà sempre diversa e «mai definitiva».

Senso comune

“Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni”. Così scriveva Giacomo Leopardi nel 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Due secoli dopo, è ancora l’opinione pubblica a determinare i comportamenti collettivi. Perciò, per ritenere assolta fino in fondo la sua missione, un editore come Laterza non può limitarsi a pubblicare libri innovativi: è necessario in più che le idee veicolate da quei libri diventino opinione diffusa, cioè si trasformino in senso comune. Questo è uno dei motivi che ci hanno spinto a organizzare una serie di appuntamenti dedicati ad alcuni temi essenziali su cui si forma l’opinione pubblica. Questi podcast sono tratti da quegli incontri.

 

1. Elezioni politiche 2022: l’analisi del voto
Sono intervenuti Giulio Azzolini, Sara Bentivegna e Nando Pagnoncelli. Introduce Giuseppe Laterza.
Post-produzione e sigla a cura di Matteo Portelli.

2. Stato e mercato
Sono intervenuti Andrea Boitani, Sabino Cassese, Elena Granaglia e Vincenzo Visco. Introduce Giuseppe Laterza.
Post-produzione e sigla a cura di Matteo Portelli.

 

3. La qualità dell’informazione
Sono intervenuti Marzia Antenore, Stefano Feltri, Chiara Piotto, Francesco Oggiano e Giorgio Zanchini. Introduce Giuseppe Laterza.
Post-produzione e sigla a cura di Matteo Portelli.

Luciano Canfora racconta “Catilina”

“Se non fosse per la Pro Flacco, la notizia del sepulcrum Catilinae si sarebbe persa: non l’avremmo affatto, se non fosse servita a Cicerone nella discutibile sua strategia oratoria in difesa del suo aiutante di quattro anni prima ora a rischio condanna per estorsione. È un tipico esempio di come un frammento di verità, sfuggito alla granitica compattezza delle verità ufficiali, possa illuminare improvvisamente quella parte di accaduto che i vincitori pretendono, di norma, di cancellare per sempre.”

Un originale saggio su Catilina, una delle figure più controverse della storia antica, avversario di Cicerone e promotore della notissima congiura. Luciano Canfora rifiuta l’interpretazione ciceroniana di Catilina come sovversivo, come uomo desideroso di conquistare il potere con ogni mezzo, e ne tratteggia una figura inedita.

 

 

 

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Paghiamo i danni del capitale

La filosofa e femminista americana Nancy Fraser nell’ultimo saggio analizza ingiustizie e storture del libero mercato. E qui spiega come uscirne

Eugenio Occorsio | la Repubblica | 12 marzo 2023

«Tocca da molti secoli ai neri e a tutti gli emarginati l’infausta sorte di subire spoliazioni ed espropriazioni di beni e diritti, ed essere infine costretti a fuggire dalla violenza, dalla povertà e dai disastri, prodotti oggi anche dal cambiamento climatico, per poi venir confinati in gabbie alle frontiere o lasciati annegare in mare». Nelle parole di Nancy Fraser, filosofa, femminista, docente di scienze politiche in quella fucina del pensiero progressista che è la New School for Social Research di New York, c’è la disperazione per le sciagure sulle coste italiane, non diverse da quelle vissute sul Rio Grande alla frontiera fra Usa e Messico: «Un eterno memento dell’egoismo di una società opulenta che non vuole condividere le risorse con gli sventurati del Sud del mondo se non sfruttandoli: il capitalismo continua a nutrirsi di diseredati finché si distruggerà per la sua cieca ingordigia», dice la professoressa della quale è appena uscito per Laterza Capitalismo cannibale, uno spietato baedeker utile per la sinistra di tutto il mondo, inclusa quella italiana che si alimenta di rinnovate speranze.

Con il capitalismo, che come diceva Marx pretende che la proprietà dei mezzi di produzione risieda in pochi eletti, siamo ormai abituati, ci piaccia o no, a identificare il libero mercato. Perché è “cannibale”?

«Perché l’occidente storicamente ha espropriato e sfruttato risorse che non gli appartenevano senza dare nulla in cambio, anzi spesso riportandosi indietro uomini e donne per continuare a usarli come carne da lavoro. E perché ancora persegue la stessa logica con gli stipendi da fame che non arrivano a fine mese, con orari massacranti, con contratti inesistenti o non protettivi, e poi con speculazioni finanziarie, il più delle volte ai danni delle stesse classi svantaggiate che per esempio sono vittime dei prestiti capestro delle banche. Tutte queste tensioni portano sistematicamente a gravissime crisi economiche di cui tutti facciamo le spese: ecco il “cannibalismo” del capitalismo».

Un discorso parallelo, al quale dedica ampi capitoli, riguarda la condizione femminile. Malgrado i progressi, c’è ancora molto cammino?

«Resistono situazioni che ricordano il XIX secolo, quando la rivoluzione industriale portò al conflitto frontale tra la produzione e la parte “non economica” del contratto sociale: la cura di casa, bambini e anziani riservata alla donna e non pagata. Era così stridente lo scontro fra classi lavoratrice e riproduttiva che Marx ed Engels erano sicuri che si fosse vicini alla svolta. Invece il processo prosegue con esasperante lentezza».

Una politica progressista, chiamiamola socialista, farebbe meglio in questo come in tutti gli altri campi?

Certo. Un nuovo ordine sociale deve superare il dominio di classe, le asimmetrie sociali, l’oppressione etnica e razziale. Ma il capitalismo è un sistema più forte di qualsiasi Stato e impone le sue regole. Ogni tanto distrugge se stesso ma si riproduce senza che si riesca a creare una barriera di contenimento. Il potere dell’economia sulla politica ha ridotto la sfera del processo democratico: quando le decisioni, non solo relative alla produzione, sono devolute alle imprese e alle banche, a controllare il destino del pianeta non siamo noi ma la classe dominante dei capitalisti».

Thomas Piketty propone una supertassa mondiale sulla ricchezza e poi aliquote progressive fino all’80-90%. Basta a contenere il potere dei ricchi e consentire agli Stati di creare le infrastrutture necessarie?

«A parte che non mi sembra verosimile, non basterebbe. È il sistema in sé che va cambiato. Devono emergere forze politiche in grado di unificare i poveri, gli sfruttati, le vittime del razzismo compreso quello contro i migranti, per rinnovare completamente i rapporti economici e sociali».

Le sembra possibile?

«È dura. Eppure il vuoto da riempire c’è, l’occasione è a portata di mano: Gramsci direbbe che è in crisi l’egemonia del neoliberismo, che dà valore solo al libero mercato perché questo risolverebbe tutto senza interventi statali. Una teoria che ha pervaso l’occidente dal dopoguerra ma ha creato tali diseguaglianze che viene finalmente messa in discussione. Senonché gli unici a inserirsi di prepotenza nel malcontento diffuso sono i populisti di destra con le loro false promesse troppe volte vincenti».

Perché scrive che perfino il Covid è un byproduct del capitalismo?

«La pandemia è stata causata dallo sfrenato bisogno di arricchimento che calpesta qualsiasi regola del buon senso. Accomuna il mondo ma ha provocato la diffusione del virus, che viveva nel profondo delle caverne abitate dai pipistrelli ed è stato portato alla luce dal riscaldamento globale e dall’urbanizzazione frenetica di Wuhan in una zona selvaggia, due colpe lampanti del capitalismo. La sfrenata globalizzazione l’ha diffuso in un lampo».

È sicura che non sarebbe successo tutto lo stesso?

«Non si conoscono le origini del Covid ma di certo il virus è arrivato da noi perché gli è stato consentito, anche se inizialmente l’avevano imbavagliato in qualche laboratorio chimico. Ha avuto come vettori degli animali come le scimmie per l’Hiv o i maiali per la febbre suina. Cos’altro se non la sfrenata mania di dominare la natura porta a tutto questo?».

Un capitolo che invece non c’è, per motivi di tempi, è la guerra. Possiamo chiederle la sua posizione?

«L’attacco russo è feroce e orrendo. Però qualche espansione di troppo forse la Nato l’aveva tentata. Ormai è diventata una guerra per procura Usa versus Russia. A questo punto gli Stati Uniti devono rinunciare alla pretesa di ricreare l’immagine eroica da liberatori che si erano cuciti addosso nella seconda guerra mondiale ma poi hanno perso nelle tante disavventure successive. Non hanno più un’indiscussa autorità morale ed economica, quest’ultima messa in discussione dalla Cina, e devono sfoderare le armi della diplomazia. Se uno dei due vuole vincere sul campo, la guerra durerà in eterno».

Carlo Greppi racconta “Un uomo di poche parole”

In Se questo è un uomo Primo Levi ha scritto: «credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi». Ma chi era Lorenzo? Lorenzo Perrone, questo il suo nome, era un muratore piemontese che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Un uomo povero, burrascoso e quasi analfabeta che tutti i giorni, per sei mesi, portò a Levi una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del Lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare.

La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico.

Con Un uomo di poche parole, Carlo Greppi scrive la biografia di una ‘pietra di scarto’ della storia, di una di quelle persone che vivono senza lasciare, apparentemente, traccia e ricordo di sé. Ma che, a ben guardare, sono la vera ‘testata d’angolo’ dell’umanità.

 

I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie

>> Letture.org | 14 marzo 2023

Prof. Giusto Traina, Lei è autore del libro I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie, edito da Laterza: può precisare in che modo l’eredità degli antichi è stata spesso manipolata? E la cultura umanistica può essere un antidoto efficace alla barbarie dei nostri tempi?

Una premessa. Il mio libro è la decima uscita della collana Fact checking, i cui titoli hanno una caratteristica: non bisogna prenderli alla lettera. Così, nel recente La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo (2022), Tommaso Speccher vi ha spiegato che le cose sono andate diversamente. E Alice Borgna, l’altra antichista di questa collana infestata da contemporaneisti, nel solo libro italiano che non parla a vanvera o superficialmente di Cancel Culture non si schiera di certo con quel ‘wokismo’ becero e incolto che fa del mondo antico una storia di maschi bianchi morti.

Detto questo, è innegabile che i classici sono chiamati regolarmente in causa per giustificare la barbarie. Così, nazisti e fascisti hanno alimentato le rispettive ideologie in nome delle radici classiche dell’Occidente: se una certa propaganda fascista promosse una Roma antica virile quanto ridicola (che purtroppo ritroviamo fra molti seguaci di certe pagine social e di certi canali YouTube), alcuni ideologi nazisti si spinsero ben oltre, addirittura propugnando la comunanza biologica tra gli antichi greci e i tedeschi moderni, superando una certa corrente del pensiero tedesco che già nell’Ottocento rivendicavano la loro comunanza spirituale fra i due popoli.

E magari si trattasse solo di ideologie, come quella nazista e fascista finite nella pattumiera della storia (o no?). Anche oggi, in genere a sproposito, si chiamano in causa le nostre «radici greche e romane» per confermare la presunta superiorità della nostra civiltà, avallare le rivendicazioni di nazionalisti o sovranisti, e naturalmente per giustificare le malefatte dell’imperialismo occidentale.

È bene ricordarlo a chi continua a bearsi di una concezione irenica dei classici, visti come porto sicuro per rifugiarsi dalle brutture del mondo. Per carità, greci e romani ci rendono migliori (guardate me), ma a patto di non pretendere che salvino il mondo. Per intenderci: alla maniera del principe Miškin, illuso che a salvare il mondo basti la Bellezza. Non a caso, Dostoevskij definì il suo personaggio l’Idiota. Beninteso, non nel senso di ‘individuo di rozza intelligenza’, bensì di ‘sognatore buono e sincero ma ingenuo’.

Detto questo (almeno a quanto ho riscontrato sui social), sono certo che qualcuno acquisterà il libro senza badare al second degré del titolo, magari nella speranza di trovarvi un rimedio alla barbarie dei nostri tempi. Meglio così, non tanto per le vendite —non mi illudo certo di competere col duca di Sussex— ma nell’auspicio che, rimettendosi dalla delusione iniziale, continuino a leggermi e scoprire che la questione va affrontata con un approccio più smaliziato.

Di quale validità sono i principali argomenti utilizzati per la difesa degli studi classici?

Al netto dei vari esempi di ‘sfortuna dell’Antico’ presentati nel libro, le lettrici e i lettori coglieranno il messaggio subliminale ma fondamentale: i classici non salveranno il mondo, ma aiutano a star meglio. Occhio, però, al fuoco amico di quegli «arcadici “degustatori dell’antico”» evocati da Luciano Canfora, che essendo nato in pieno «secolo breve» può permettersi di prendersi gioco di questi personaggi, ben più giovani di lui ma dall’animo decisamente più anziano: «oggi essi sono investiti dalla durezza del mondo come si presenta all’inizio del XXI secolo e non hanno una stella polare o una bussola a portata di mano. Se le debbono costruire.» (dalla postfazione alla terza edizione di Noi e gli Antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, terza edizione, BUR, Milano 2012). Aggiungerei che continuare a parlare di «mondo antico» limitandosi ai greci e ai romani è una presa di posizione passatista che non aiuta i nostri studi a sopravvivere, e ancor meno a progredire. Per cui preferirei prendere le distanze da questa pur secolare e gloriosa concezione egli studi classici intesi come i soli punti di riferimento della nostra civiltà. E poi, chi l’ha detto che gli unici classici sono quelli greci e latini? Esistono classici cinesi, iranici, indiani. Un solo esempio: l’Arthaśāstra, un antico trattato sanscrito attribuito a un autore soprannominato Kauṭilya «l’Insidioso», che discute tratta delle qualità richieste a un sovrano nell’arte del governo, della politica e della guerra, e che qualcuno ha considerato come l’equivalente sanscrito del Principe di Machiavelli. Un trattato che per la sua modernità riscuote ancor oggi notevole successo, in India e non solo. Basti pensare a come Kauṭilya descrive i rapporti internazionali: la sua formula del «cerchio (maṇḍala) dei re» resta un valido strumento per orientarsi nelle complessità della geopolitica sia antica che moderna. E visto che ci siamo, mi permetto un’osservazione solo in apparenza paradossale, certo tirata un po’ per i capelli; se dovessimo confrontare due testi eterogenei, e non solo per ragioni linguistiche, quali la Politica di Aristotele e l’Arthaśāstra, a mio avviso è quest’ultimo testo, e non il pur importante trattato dello Stagirita, a permetterci di esaminare le vicende politiche di imperi, regni e comunità. Naturalmente, questo non implica l’esclusione della polis nel nostro armamentario analitico (anche se in un capitolo del mio libro affermo provocatoriamente che la polis «ci ha stressato»), ma non di soli greci vive lo storico antico. Tornando rapidamente alla domanda iniziale, risponderei infine che la difesa degli studi classici non è di mia competenza né mi riguarda troppo. Difendo invece, e anche con un certo piglio, gli studi antichi. E mi permetto di considerare con sufficiente alterigia quanti pensano che il lavoro dello storico parta dal 1789, del 1914, e nei casi più disperati dal 1945.

Quale sfida si trova ad affrontare, nella società contemporanea, la cultura classica?

Dovendo scegliere gli esempi più significativi di ‘Sfortuna dell’Antico’ dal Novecento a oggi, ho cercato di insistere su quelli più interessanti o curiosi, recuperando dibattiti vecchi e nuovi allo scopo di mostrare come la questione non si limiti alle consuete grida di allarme sulla decadenza degli studi classici (se ne parlava già al Museo di Alessandria nel III secolo a.C.), né tantomeno alla presunta minaccia dell’Uomo Nero della Cancel Culture venuta da oltreoceano.

Tra i casi selezionati: lo psicologo militare americano che si ispira ai poemi omerici; il dibattito senza esclusione di colpi tra Martin Bernal e i suoi detrattori; lo sciocchezzaio politico sulla democrazia dell’antica Grecia; l’uso e l’abuso del mito di Antigone, da Hegel a Agamben; le polemiche per il possesso o la distruzione delle antiche statue; il conflitto ideologico tra Grecia e Macedonia del Nord sull’identità di Alessandro Magno; il kitsch classicheggiante di Las Vegas; le polemiche antiche e moderne sull’integrazione degli stranieri a Roma. Chi si straccia le vesti di fronte alle manifestazioni della cultura woke (in realtà meno frequenti e minacciose di quanto si tenda a credere) dovrebbe anche riflettere su queste derive tossiche dell’uso dell’Antico, che hanno contribuito e contribuiscono tuttora a rendere il mondo attuale più brutto, ridicolo o imbarazzante.

Alle spalle di Catilina

Luciano Canfora, in un saggio pubblicato da Laterza, esplora i retroscena della congiura che vide protagonista l’aristocratico romano. L’ombra di Pompeo, la posizione di Cesare, l’autorappresentazione eroica e celebrativa di Cicerone

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 6 marzo 2023

La congiura dell’aristocratico Lucio Sergio Catilina – che sconvolse Roma nel 63 avanti Cristo concludendosi nel gennaio dell’anno successivo con la morte del capo dei congiurati nella battaglia di Pistoia – è ancora oggi uno dei casi più intriganti della storia antica. Apparentemente tutto è chiaro: un avventuriero con grandi complicità nel suo ceto di provenienza ordisce e mette in atto un colpo di Stato; Cicerone si erge a difensore dell’ordine repubblicano, convince Roma a reagire con il massimo dispiego della forza e a debellare il sovversivo. La Repubblica sopravvivrà. Ancora per poco. Ma già Sallustio – il primo a scriverne, una ventina d’anni dopo i fatti – lasciò intuire che non tutto era stato così lineare. Tant’è che ancor’oggi «sulle dimensioni e sulla durata della “congiura” né gli antichi né i moderni hanno certezze», scrive Luciano Canfora in Catilina. Una rivoluzione mancata, pubblicato per i tipi di Laterza. Allo stesso modo non è del tutto chiaro quale fosse l’autentico «programma» politico di Catilina. Quanto al fatto che l’aristocratico ribelle tramasse da anni, prima ancora di essere sconfitto alle elezioni del 64, «è soltanto un modo non benevolo di descrivere una circostanza ovvia». Cioè che Catilina come molti altri «capi» della sua epoca — ma anche di altre, perfino della nostra — avesse un «seguito strutturato». Fin dall’inizio della sua avventura politica, anni prima di ordire la celebre «congiura». In ogni caso, prosegue Canfora, possiamo considerare un dato acquisito che Catilina «ha imboccato la strada senza ritorno dell’insurrezione armata, quando ha constatato che per la terza volta consecutiva erano riusciti ad impedirgli di vincere le elezioni».

Lo storico dedica grande attenzione a Dione Cassio, che si occupa della congiura tre secoli dopo gli accadimenti. Rione ha scritto la maggiore opera storiografica su Roma dopo quella di Tito Livio e concentra la sua più che benevola attenzione su Pompeo. Pompeo che mentre è in atto l’insurrezione di Catilina tenta, per interposta persona, un autentico colpo di Stato. Durante l’intera vicenda catilinaria, si allunga sulla Repubblica quella che Jérome Carcopino in un libro scritto nel 1936 e ripubblicato più volte anche in Italia, Giulio Cesare (Bompiani) — ha definito l’«ombra di Pompeo». La notizia della morte di Mitridate (63) è giunta a Roma mentre Pompeo era a Gerico e si preparava all’assedio del Tempio di Gerusalemme. L’uomo che aveva sconfitto il re del Ponto e conquistato a Roma l’Asia, impresa davvero grandiosa sotto il profilo politico oltreché militare, era atteso dalla sua città come il più grande dei condottieri. La vicenda politica a quel punto è consistita, scrive Canfora, in «una lotta contro il tempo in vista del prevedibile rientro di Pompeo e del suo esercito». La scomparsa definitiva di Mitridate era un fatto «epocale», il conseguente prestigio di Pompeo «enorme». Secondo Carcopino Catilina e i suoi affrettarono i tempi della loro impresa proprio per prevenire il rientro di Pompeo. A Canfora questa non appare un’ipotesi convincente dal momento che l’atto di insubordinazione dei catilinari «fu, semmai, la reazione alla reiterata sconfitta elettorale». Plausibile gli appare invece che la repressione militare delle truppe catilinarie ammassate in Etruria sia stata affrettata con l’obiettivo — da parte ottimate, tra l’altro di chiudere la partita prima che Pompeo tornasse. O meglio decidesse di «affrettare il rientro in Italia» e di «mantenere in funzione le sue legioni» a motivo di un perdurante stato di guerra nella penisola. Va ricordato che Cesare in quel momento è schierato con Pompeo e lo sarà ancora a lungo.

Nel gennaio del 62 Metello Nepote, con l’appoggio di Cesare, propone due rogationes (progetti di legge) per affidare a Pompeo poteri eccezionali, cioè un comando straordinario per affrontare l’esercito di Catilina. Plutarco è esplicito nel denunciare la finalità «eversiva» del progetto di Metello Nepote. Concorderà anche Dione Cassio. Per i due storici la motivazione addotta («salvare Roma da Catilina») era pretestuosa, «mentre il vero fine era quello di conferire a Pompeo poteri dittatoriali». Strumento di tale presa del potere sarebbe stata, scrive Canfora, l’elezione al consolato di Pompeo in assenza. Magari «senza collega e comunque con effetto immediato». Il che avrebbe di fatto comportato «la decadenza (o sospensione?) di Silano e Murena, molto faticosamente eletti alla fine del 63 per il 62». All’autore sembra evidente che l’operazione fosse orchestrata da lontano dal medesimo Pompeo. Ed è proprio in contrasto con Pompeo che Catone organizza la resistenza del Senato a questa iniziativa, cercando un compromesso con Metello. II quale Metello reagisce minacciando il ricorso alla violenza nel caso dell’ingresso in città delle legioni pompeiane. Catone lo sostiene e giura che si opporrà al ritorno di Pompeo («in armi») finché sarà in vita. Poi Metello viene costretto alla fuga. Lo stesso Cesare è rimosso dalle funzioni di pretore. Ma ad essere davvero sconfitto è il tentativo di portare Pompeo al potere violando le regole della Roma repubblicana.

Pompeo, nel momento in cui Catilina si ribella, potrebbe prendere il potere con facilità. Ma «se ne astiene». Potrebbe essere «destinatario di onori smisurati». Ma li respinge. Sa bene, scrive Dione Cassio, che «tutti gli onori concessi dal popolo ai potenti fanno nascere il sospetto che siano il risultato di uno sperequato rapporto di forze e dell’azione manipolatrice dei potenti stessi».

Di qui l’ammirazione che Cassio Dione ha per Pompeo. Minor simpatia ha lo storico del terzo secolo d.C. nei confronti di Cesare. Quel Cesare, già raffigurato come «strumentalmente demagogo», viene colto nella sua doppiezza: vuole «abbattere la potenza di Pompeo», malo appoggia perché pensa di «ingraziarsi la massa» mostrandosi devoto del rivale. E conta di «rinsaldare così il proprio potere».

C’è infine Cicerone, al quale Cassio Dione guarda quasi con disprezzo. Quantomeno fastidio per il modo in cui l’arpinate ha costruito il proprio personaggio nell’azione politica e nell’auto-raffigurazione. Il celebre oratore è (agli occhi di chi ne scrive qualche secolo dopo) inadeguato rispetto alla propria pulsione al comando. Le sue sono miserevoli astuzie. Voleva, è chiaro, «un ruolo di comando nella Repubblica perché se ne considerava all’altezza». Per conseguire tale obiettivo, però, aveva scelto «una linea di condotta strumentalmente ambigua». Cicerone in altre parole intendeva «dimostrare sia al popolo sia agli ottimati che quello tra i due schieramenti al quale egli si fosse accostato avrebbe prevalso». Astuto. Anche troppo.

Un intervento «diretto e risolutivo» di Pompeo nella guerra contro l’esercito dei rivoltosi e dunque uno scontro diretto sul campo di battaglia tra Catilina e Pompeo (con la prevedibile vittoria di quest’ultimo) «avrebbe cancellato o quasi la centralità di Cicerone nella vicenda nonché il suo ruolo brutalmente conquistato e disinvoltamente proclamato di salvatore della patria». Ed è appunto Cicerone il temporaneo vincitore di questa partita giocata dietro le quinte della «congiura di Catilina». Pompeo a questo punto decide di restare ad occuparsi del riordino dell’Oriente. Tornerà solo alla fine di dicembre di quel 62. Fa un ultimo tentativo per far occupare da suoi uomini le «poltrone» consolari. Ma Catone stronca anche questo disegno. A questo punto Pompeo scenderà a patti con Cesare per dar vita — insieme a Crasso — al triumvirato. Triumvirato definito da Canfora «una pesante anomalia costituzionale che apertamente esorbitava dal quadro della tradizionale res publica». Un «mostro a tre teste». Vero. Però per ciò che riguarda Cesare quel patto con Pompeo si rivelerà un «colpo di genio». Cicerone e «il suo scomodo estemporaneo alleato Catone», vincitori nell’immediato, alla fine perderanno la partita proprio «in virtù di quel «colpo di genio» di Cesare. Che sarà pagato da Cicerone con l’esilio mentre Catone verrà messo fuori gioco. Il triumvirato porterà «a un vero e proprio mutamento nella prassi di governo: i comandi (militari e non) di lunga durata».

L’impeccabile ricostruzione di Canfora prosegue con storie di spie, lettere anonime, attentati, agguati, strani silenzi, fraintendimenti, ritocchi della cronologia e dei documenti. Cicerone resta un personaggio fondamentale di questa vicenda. Quantomeno finché inizia a maramaldeggiare contro Catilina (ormai in clandestinità) e ad enfatizzare il «rischio corso dalla Repubblica». Cicerone sbaglia i calcoli e prevede una sconfitta di Cesare, insinua che Cesare sia pronto per la tirannide, ma alla fine la prudenza gli impone di «salvare» lo stesso Cesare dalle accuse (da lui stesso avallate) di complicità con Catilina. Fino al giorno in cui, a congiura ormai fallita, nel dicembre del 63 Cicerone ordina l’uccisione immediata degli arrestati ormai condannati. Una mossa sospetta. Pur se, scrive Canfora, «non deve sfuggire quanto radicata fosse in Cicerone la mania omicida verso gli avversari politici». Sarà Publio Clodio Pulcro, entrato in carica come tribuno della plebe quattro anni dopo quei fatti terribili, nel dicembre del 59, a riaprire il dossier delle condanne a morte «eseguite contro le leggi Porcia e Sempronia». Clodio sostenne che Cicerone aveva addirittura falsificato il testo del Senatus consultum che aveva sancito quelle condanne. L’arpinate a quel punto si rassegnò a soccombere e «si autoesiliò prima ancora che l’azione promossa contro di lui giungesse a compimento». Il grande oratore andrà, «malvolentieri», a governare per un anno una provincia romana e al ritorno «troverà la guerra civile già quasi in atto». Cercherà di ritagliarsi ancora un ruolo da protagonista e chiede aiuto a Catone («che lo molla»). Continuerà a considerarsi «parte del “gruppo di testa” della Repubblica». Per mesi tentenna tra Cesare, «che lo corteggia», e Pompeo «dal quale non si sente né fino in fondo apprezzato né tanto meno rassicurato». Prova ad inserirsi nella lotta contro Antonio e dalla parte di Ottaviano. Ma il suo tempo è scaduto. Non «aveva più la percezione della realtà e pagò con la vita».

E Catilina? Nell’orazione Pro Fiacco, Cicerone riferisce, tre anni dopo la morte del sovversivo aristocratico, che sarebbe esistita una sua tomba «ricoperta di fiori» sulla quale «uomini sciagurati, nemici della patria hanno festeggiato con un banchetto». Forse era un’invenzione metaforica finalizzata a risuscitare antichi sentimenti «patriottici». Ma può darsi che nel 59 (quando Cicerone ne parlò) quel sepolcro esistesse davvero. Il valore politico di un monumento funebre, ricorda. Canfora, è grande nell’etica e nella prassi romane. Un esempio per tutti: le ceneri di Cesare da poco assassinato «e prevaleva ancora nell’opinione pubblica l’idea che si fosse trattato di un “tirannicidio” attuato da eroici “liberatori”» — vennero vegliate per notti e notti dalla comunità ebraica di Roma. Comunità memore dell’onta della profanazione del Tempio e del massacro attuato da Pompeo a Gerusalemme vent’anni prima.

Ma questa storia del sepolcro di Catilina è assai strana. A quel che fu tramandato, una volta fallita la congiura, la testa di Catilina venne tagliata e portata a Roma. Forse il corpo fu restituito alla vedova Orestilla (qualcosa del genere, annota Canfora, avvenne sul suolo d’Egitto per il corpo di un altro decapitato illustre: Pompeo). Possibile dal momento che Orestilla fu affidata da Catilina stesso alla protezione di un avversario che gli era stato amico: Quinto Lutazio Catulo. Di figli Catilina non ne ebbe. O meglio all’epoca si diffuse la voce che ne avesse avuto uno e che fosse morto di morte violenta. Quella che Canfora definisce una «leggenda nera». Anche questa usata per far rivivere l’ombra di Catilina destinata a incombere sul tramonto della Repubblica.

Gadda, Montale e il richiamo del fascismo

I due massimi scrittori italiani sono da sempre riconosciuti come oppositori del regime. In realtà, fino al 1938 ebbero rapporti alterni con la dittatura mussoliniana, che vanno da una convita adesione giovanile ai compromessi per conviverci. Un saggio ricostruisce questo legame complesso.

Mauro Querci | Panorama | primo marzo 2023

Vite parallele di fronte a illusioni e disillusioni della Storia. Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda sono i più importanti scrittori in poesia e prosa del Novecento italiano. L’autore degli Ossi di seppia e della Bufera e quello di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, incasellati come intellettuali in netta opposizione al fascismo, hanno avuto con il movimento e con il regime un rapporto ben più complesso, fatto di esaltazioni e allontanamenti, ritorni e compromessi. Lo ricostruisce Pier Giorgio Zunino, già ordinario di Storia contemporanea e studioso di movimenti politici del Novecento, che ha appena pubblicato da Laterza il saggio Gadda, Montale e il fascismo. Un arricchimento critico originale, approfondito e appassionante, per un equilibrato racconto letterario e civile del Paese. Adolf Hitler e Benito Mussolini durante la visita del Führer a Firenze del 1938. Questo episodio ispirò a Montale la drammatica e visionaria poesia La primavera hitleriana.

Dei suoi due personaggi lo studioso interroga gli epistolari arrivati fino a noi e i testi del periodo – le testimonianze più «in presa diretta» e meno filtrate di una biografia – e ne traccia le traiettorie esistenziali che spesso s’intrecciano. Con le posizioni rispetto agli esordi mussoliniani, all’affermazione della dittatura e, via via, al consenso popolare sempre più ampio, alle conquiste coloniali, allo scivolamento verso la Germania, alla follia bellica del Secondo conflitto mondiale.

Ecco, per esempio, che viene ricostruito in modo rigoroso e documentato l’entusiasmo di entrambi gli scrittori ancora ventenni verso le istanze fasciste del Primo dopoguerra.

AI di là del valore letterario del geniale narratore e del futuro Nobel per la poesia, vengono illuminati aspetti importanti delle due personalità: anche í «non addetti agli studi» ne scoprono una dimensione più sfaccettata, estranea alle etichette dove la realtà storica appare monolitica. È l’arrivo di un itinerario che parte, al contrario, da un convinto appoggio a quel movimento che pareva poter rigenerare un’Italia precipitata nella crisi, con 700 mila morti dalla Prima guerra mondiale, e poteva mettere un argine al comunismo bolscevico che nel 1920 agitava le fabbriche.

L’ex tenente in seconda Gadda, che aveva bollato il neutralista Giovanni Giolitti e i suoi trasformismi come «bojaccio», intravede nel Duce e nelle sue parole d’ordine la possibilità di reale cambiamento dopo la «vittoria mutilata» del 1919. E prende la tessera del Partito fascista nel 1921. In Montale c’è un’analoga adesione per le stesse ragioni post-belliche: da Genova, dove il poeta è tornato a vivere dopo aver combattuto in Trentino, sintetizza riguardo alla Marcia su Roma: «Speriamo nel futuro».

«Sia l’uno sia l’altro anche dopo la guerra risentono in un forte spirito nazionalista» riflette con Panorama Zunino. «Sono giovani e convintamente fascisti nei primi anni al potere di Mussolini, aderendo all’idea che grazie a questo cambiamento la disastrata realtà italiana potesse trovare finalmente un equilibrio». Ciò che convince, nel libro dello storico, è la capacità di seguire l’evoluzione dei due scrittori rispetto a un potere che si va strutturando. In quell’ideologia Gadda ritrova la sua fortissima concezione di patria e, con alterne vicende ci si identifica particolarmente, fino al 1928. E riconosce come il fascismo vinca «l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano».

Il percorso di Montale dopo il favore verso la «Marcia» è più incerto. Già nel 1923, in una lettera, confida a un amico: «La rivoluzione sono disposta a farla dentro di me tutti i giorni; ma fuori preferisco non bere olio di ricino o buscare legnate». In lui si precisa quella condizione di «outcast», di emarginato, di chi vive più che il disagio storico quello esistenziale, che in quegli anni lo portarono ad avere rapporti contraddittori, altalenanti, di adattamento alla realtà politica. Al riguardo è significativa la sua ricerca di un impiego degli anni Venti. Nel 1925 ha già stampato gli Ossi di seppia con un editore certo non allineato, qual era Piero Gobetti. Inoltre non è iscritto al Partito e ha pure firmato il manifesto di Croce degli intellettuali contro il regime… Eppure, paradossalmente, trova lavoro in un’istituzione culturale pubblica – quindi soggetta alle regole dello «spoils system», si direbbe oggi – come il Gabinetto Vieusseux. Ne diventa direttore nel 1929. E nonostante si proclami un «bigio», il suo valore è riconosciuto e raccomandato dalla famiglia Pavolini, un esponente della quale – Alessandro – diventerà in seguito ministro della Cultura del Duce.

In definitiva, in un’Italia ormai normalizzata, Montale si adatta a trovare un modus vivendi: «Avrò la pagnotta decisamente assicurata per molti anni» comunica. E, quasi mezzo secolo dopo, in un’intervista per il Nobel riconosce: «Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica, Tutti gli altri hanno vissuto prosperando all’ombra del regime».

Anche Gadda, all’indomani dei suoi pellegrinaggi come ingegnere in Sardegna e Argentina, inizia a vivere quelle che Zunino definisce «dissonanze». Precisa lo studioso: «La svolta delle leggi illiberali del ‘25 e ‘26 avevano consegnato il Paese a una dittatura aperta. Per il suo primo romanzo, La Meccanica, che sorprendentemente ha per protagonista un socialista, rinunciò anche a cercare un editore. E in alcuni suoi scritti privati parlava di “dogma del momento”, arrivando persino a dire che quei tempi erano “profondamente corrotti”».

Torniamo a Montale e al suo ruolo di direttore al Vieusseux. È qui, nell’antica biblioteca fiorentina al Palagio di Parte guelfa dove gli stranieri vengono a procurarsi volumi, nei primi anni Trenta conosce l’americana Irma Brandeis. Il poeta convive da tempo con Drusilla Tanzi, che vari decenni dopo diventerà sua moglie, ma s’innamora della giovane studiosa. Sarà lei la figura centrale nelle grandi raccolte de Le Occasioni e La Bufera: la donna-angelo, la figura salvifica che prende il nome di Clizia. Per lui, come responsabile culturale, il clima si fa pesante. Vagheggia di partire per gli Stati Uniti con la nuova compagna. Si rivolge allora a Giuseppe Prezzolini che, alla Columbia University di New York, dirige la «Casa italiana». Anche in questo caso cerca l’appoggio dì uno scrittore allora strettamente legato al regime (su un suo libro scrive anche una recensione), ma senza esito. Certi amici che lo dovrebbero sostenere non si espongono e il «salto» al di là dell’Atlantico diventa impossibile.

In queste ambigue prese di distanza, costellate di riavvicinamenti per utilità al regime, sia Gadda sia Montale ne appoggiano però un’impresa storica. «Nel 1935-36, tra Somalia ed Etiopia, con 500 mila italiani il fascismo cerca il suo posto al sole» sottolinea Zunino. «Ex combattenti della Grande guerra, entrambi i nostri protagonisti sono a favore della campagna coloniale. In Gadda si riaccende la fiamma nazionalistica e si fa banditore della conquista anche con alcuni scritti. Un punto di vista in contrasto con gli antifascisti che vivevano all’estero e vedono nella sconfitta di questa avventura la fine del fascismo» sottolinea lo storico.

La svolta anti-dittatoriale nei due autori, però, è solo rimandata. Mussolini ha deciso, scegliendo di legare il destino del Paese alla Germania. Si arriva al 1938 e un Montale ormai sull’orlo del licenziamento dal Vieusseux scrive un memoriale che indirizza addirittura al Duce. Se lui l’abbia letto o meno, si ignora. In ogni caso, una raccomandazione così tardiva, unita all’inutile tentativo di iscriversi al partito fascista, non salvano il poeta. E deve lasciare il suo incarico.

È un anno cruciale, questo. La visita del Fuhrer a Firenze, accolto dal dittatore italiano, è un trauma. Quell’episodio si trasforma in visione drammatica nella lirica La primavera hitleriana, in cui Montale evoca un «messo infernale». Il romanziere, da parte sua, vari decenni dopo dedica appunto a Mussolini il sulfureo pamphlet Eros e Priapo. E lo immortala come «Somaro Principe, Giuda imbombettato». La parabola che ha portato i due scrittori lontano dal fascismo è compiuta.

Nella tarda maturità Gadda accennerà a quel lungo e complesso legame come a «una ragazzata». La memoria seleziona e spesso riscrive la propria storia.