La generazione capace di preveder la fine di un’epoca

L’alba del Novecento, alle radici della nostra cultura

Claudio Natoli | L’Indice dei Libri del mese | febbraio 2023

Ha scritto Eric Hobsbawm in Il Secolo breve che la prima guerra mondiale rappresentò il crollo della civiltà occidentale dell’Ottocento: una civiltà che “si gloriava dei processi della scienza, del sapere e dell’istruzione e che credeva nel progresso morale e materiale” ed era anche “profondamente persuasa della centralità dell’Europa, luogo di origine delle rivoluzioni nelle scienze, nella arti, nella politica e nell’industria”, mentre nel contempo “la sua economia si era diffusa in tutto il mondo così come i suoi soldati avevano conquistato la maggior parte dei continenti”. Per la verità l’affermazione del liberalismo era all’epoca tutt’altro che compiuta e la realtà europea era caratterizzata da profonde diversità sul piano dei sistemi politici e degli assetti di potere, da una persistente influenza e capacità di resistenza da parte delle forze dell’ancient régime e da una configurazione delle classi dominanti che vedeva, più che una contrapposizione tra borghesia e ceti nobiliari, una rafforzata compenetrazione e una convergenza volta a sbarrare la strada al progredire del socialismo e all’avvento della democrazia. Cosicché, se si esclude la Gran Bretagna, le classi dirigenti dell’Europa si muovevano alla vigilia del 1914 in una logica di restaurazione conservatrice all’interno e di accentuata conflittualità internazionale ancora di segno Ottocentesco: valga per tutti il fatto che anche la prospettiva di una conflagrazione tra le grandi potenze veniva affrontata perlopiù nel segno di una guerra breve e vittoriosa, cosicché, riguardo agli avvenimenti dell’estate 1914, Christopher Clark ha intitolato il suo libro più noto I sonnambuli. L’intuizione del ministro degli Esteri britannico Edward Grey, secondo cui lo scoppio della guerra segnava lo spegnersi delle “luci sull’Europa” costituì un caso molto raro. Non erano per converso mancati soggetti capaci di percepire per tempo i segni premonitori di una catastrofe incombente, ma essi si collocavano nel vivo della società, in una sfera lontana dai vertici del potere, ed essi vanno individuati da una parte nella precorritrice denuncia dell’imperialismo e del pericolo di una guerra generale da parte della II Internazionale (peraltro destinata anch’essa al crollo di fronte alla prova dell’”unione sacra”), e dall’altra dalle avanguardie nel campo della letteratura, delle arti e della scienze.

Proprio a quest’ultimo tema è dedicato il volume di cui qui si discute. Il filo conduttore della ricerca è che la generazione degli anni ottanta, nei suoi esponenti di primo piano della letteratura, della pittura, della musica, della scienza e della tecnica, del cinema e del teatro, con la sue idee, le sue realizzazioni e le sue scoperte, non meno che nel modo di rapportarsi alla realtà politica e sociale esistente e al suo sistema di valori consolidati, non solo dimostrò una straordinaria percezione dell’imminente fine di un’epoca, ma pose le radici stesse della futura cultura del Novecento, e cioè di quella che si sarebbe affermata dopo il 1914 e nei decenni successivi. Come scrive l’autore, è “sulle idee generate durante il ventennio che va dal 1895 al 1914 che poggiano, in ogni campo del sapere umano, le radici della rivoluzione culturale da cui si è generata tutta la civiltà del Novecento”. Nella scienza e nell’arte, nella letteratura e nella tecnologia, nella filosofia e nel pensiero sociale e politico, si imposero principi e trasformazioni da cui fu impossibile recedere. Ciò che ne risulta è un quadro ricchissimo, che non solo segue la nascita e l’evoluzione delle avanguardie artistiche, letterarie, musicali, filosofiche e nel campo delle scienze nei principali centri dell’Europa nel periodo considerato, ma ne ricostruisce le reciproche interrelazioni, rompendo le barriere dei singoli settori disciplinari.

Si possono così seguire le nuove correnti espressive del postimpressionismo (da Cézanne a Matisse), la rottura segnata dalle Secessione viennese (da Klimt a Schiele, a Kokoschka) e gli albori dell’architettura funzionalista (Adolf Loos e Otto Wagner), la nascita dell’espressionismo tedesco (da Kirchner a Nolde), del cubismo e dell’astrattismo (da Picasso a Kandinskij e a Klee) sino all’irrompere del futurismo, le nuove frontiere nel campo della poesia e della letteratura (da G.B. Shaw a Wilde, a Gide, Schnitzler, Musil, Hofmannsthal, Rilke, Joyce, Kafka) e naturalmente in quelle della musica impressionistica, atonale e dodecafonica (Debussy, Mahler, Schonberg, Stravinskij, sino ai primi vagiti del jazz), Il tutto intrecciato con la scoperta freudiana dell’inconscio e la nascita della psicanalisi in quello straordinario laboratorio artistico e intellettuale che fu la Vienna di inizio secolo e con tutte le sue ricadute nel campo della filosofia e della sociologia (da Bergson a Husserl, da Durkheim a Simmel), a cui si potrebbe aggiungere l’affermarsi della moderna antropologia (Mauss). E infine, la vera rivoluzione nel campo delle scienze, dalla teoria della relatività alla matematica e alla fisica quantistica, con la ridefinizione dei concetti di spazio e di tempo: il tutto accompagnato da una serie di sensazionali innovazioni tecnologiche, dalla radiotelegrafia al motore a scoppio e all’aeroplano, dalle molteplici applicazioni dell’elettricità alla chimica sintetica, sino all’inaugurazione della prima fabbrica fordista. Al di là delle diverse sensibilità, il tratto che accomunava gran parte di queste esperienze artistiche e intellettuali fu la volontà di rottura con le tradizioni accademiche rivolte al passato e i sistemi di convenzioni e di valori dominanti, nonché la dissacrazione dei tabù e la ricerca di nuove forme espressive attente ai conflitti dell’interiorità: il tutto unito a una visione della modernità che aveva al centro le trasformazioni legate alla tumultuosa crescita dell’industria e delle grandi città, libera dai limiti positivistici del progresso e volta piuttosto a rimarcare il passaggio a una nuova epoca storica carica di incertezze, di lacerazioni e di conflitti, nel quadro dell’incombere della fine, se non della catastrofe, di un’intera civiltà. In questo le avanguardie artistiche e intellettuali dimostrarono una sensibilità e una capacità di percezione ben maggiore delle classi dirigenti europee. Più in generale, come scrive l’autore riprendendo la cornice interpretativa tracciata da Hobsbawm in L’età degli Imperi, il nuovo clima culturale che emergeva già prima del 1914 precorreva per molti importanti aspetti il secolo breve.

In uno scenario già così ampio e basato in massima parte su un vasto spoglio della letteratura secondaria, la contestualizzazione storica più ampia è affidata ai vivaci resoconti di alcuni quotidiani in occasione di eventi che all’epoca colpirono in misura maggiore l’immaginario collettivo (le esposizioni universali di Parigi, la prima trasvolata della Manica, il naufragio del Titanic, la cometa di Halley), mentre la “grande storia” compare attraverso alcuni brevi excursus sul colonialismo, la rivoluzione russa e le guerre balcaniche. Ciò non diminuisce il merito dell’autore di aver proposto, in una riuscita prospettiva interdisciplinare, una riflessione di ampio respiro su un tema di grande rilevanza nella storia del Novecento.

Vita e opere di Joyce Lussu

Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023

Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.

La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.

Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.

Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.

È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.

Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?

Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».

Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.

Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».

Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».

Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.

La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.

Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.

Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».

Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?

Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».

È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.

Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.

Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.

L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.

Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.

Il merito si conquista ma va riconosciuto a tutti

Le riflessioni filosofiche nel saggio di Santambrogío

Alessandra Peluso | La Gazzetta del Mezzogiorno | 6 febbraio 2023

Apparentemente un déjà-vu, ma, di fatto non passa mai di moda parlare di «merito» e al contempo, di «complotto». Per questo riprendere Il complotto contro il merito di Marco Santambrogio e soffermarsi risulta necessario. Con un titolo provocatorio quando in politica si vuole che a ogni costo passi il «merito» secondo parametri a noi sconosciuti Santambrogio trasporta il lettore in un’atmosfera ironicamente complottista. «Il complotto è il dispositivo in cui il potere si articola, si esercita, si dissimula» osserva Donatella Di Cesare, e nasce in particolare dal sentimento di paura e dall’isolamento del cittadino nel vedersi escluso dallo «spazio pubblico» (Arendt). Per questo il timore di non raggiungere le stesse opportunità che tutti meriterebbero di avere. Sorgono allora gli interrogativi: se tutti lo meritano, se può esistere un principio di uguaglianza e cosa occorra fare per avere un riconoscimento e non essere esclusi dalla società.

Il filosofo Santambrogio mostra attraverso fonti accreditate e voci di filosofi cosa sia la meritocrazia dimostrando come quelle società americana, inglese, che si presentano come meritocratiche non rispettino il principio dell’uguaglianza e sostenendo come il merito non sia qualcosa che si trasferisce da posizioni e da posti di lavoro. Il merito insomma si conquista. Con un’accurata argomentazione Santambrogio pone un’attenta disamina, snocciola la questione muovendo dai princìpi della meritocrazia e da Michael Young che critica il governo di Tony Blair per attuare una netta differenza tra ricchi e poveri e quindi impedire a tutti di emergere. Secondo Young occorrerebbe intervenire sul sistema fiscale; e, ancora, trova il piglio argomentativo in Michael Sandel che enuclea le differenze di coloro che si laureano ad Harvard e in altre Università e attribuisce la responsabilità ai genitori che sollecitano alla competizione e alla produzione, proponendo – per risolvere il problema delle differenze – di fissare una soglia di qualificazione e lasciare che sia la sorte a scegliere per eliminare o ridurre arroganza e umiliazione.

Marco Santambrogio non discute di certo sul riconoscimento della categoria del merito, bensì sulle modalità di come essa venga stimata e su ulteriori questioni che non possono essere tralasciate come appunto quella di «sopravvalutare i meriti di coloro che si trovano a occupare le posizioni migliori della società». È chiaro che tutto questo si evidenzia dalla Modernità ai nostri giorni, ovvero dagli inizi del progresso, di presenza di divario, di un’istruzione e un lavoro per tutti perché in fondo sappiamo sono diritti della Costituzione che dovrebbero essere tutelati ed estesi all’intera popolazione. E allora il merito?

Dalla modernità alla contemporaneità la società sembra far leva su concorrenza, competizione, lavoro, uguaglianza, diversità e perdonate se cito il saggio sulla Sociologia della concorrenza di Simmel che ci aiuta – sostenendo in qualche modo le riflessioni di Santambrogio – a riflettere su cosa sia la concorrenza e cosa comporti, dove devono sussistere gli stessi criteri di riconoscimento, lo stesso punto di partenza, le stesse regole tra i partecipanti, i cittadini, i singoli individui. Pertanto, non possiamo parlare né di socialismo né di liberismo che Simmel critica, ma di «autoresponsabilità» e «giustizia». Etica, diritto, politica: che vi piaccia o no non possono essere scisse, altrimenti i risultati sono sotto gli occhi di chi abbia voglia di rivolgere lo sguardo, ovvero corruzione, malaffare, inadeguatezza, risentimento, prevaricazione, ecc.

La meritocrazia ha il volto dell’umano, così quanto il potere e il complottismo. Comprendere che società vogliamo e soprattutto quali risultati raggiungere e dove si voglia andare forse questo risulta essenziale. Superare tale gap è fondamentale se vogliamo costruire uno spazio pubblico occupato da soggetti pensanti e responsabili. In altre parole, il saggio di Marco Santambrogio ci offre validi strumenti e opportunità di comprensione della complessità della «meritocrazia» e delle relazioni tra individuo, tra maestri e allievi, società.

CLUB LATERZA | Appuntamento con Valentine Lomellini

Club Laterza | La diplomazia del terrore: appuntamento con Valentine Lomellini

Alla fine degli anni Sessanta, Italia, Francia, Germania occidentale e Gran Bretagna – Paesi già colpiti dal terrorismo interno – si trovarono a far fronte a una nuova minaccia: le organizzazioni armate, nate in Medio Oriente, che internazionalizzarono la propria lotta esportando il terrorismo in Europa. Raggiunsero il loro obiettivo? Generarono il caos internazionale? O invece i Paesi europei riuscirono, almeno temporaneamente, a disarmare i terroristi, includendoli nel sistema delle relazioni internazionali?

Appuntamento giovedì 2 marzo alle 18 con Valentine Lomellini, professoressa associata di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Padova, per discutere insieme su Zoom del suo ultimo libro, La diplomazia del terrore.

>> Se sei iscritto al Club, non c’è bisogno di registrazione:
riceverai giovedì stesso il link Zoom via mail!

>> Se non sei iscritto, puoi iscriverti qui

 

 

I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia

Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»

Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023

Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».

Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».

Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?

«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».

Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?

«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».

Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?

«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».

Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?

«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».

Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?

«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».

Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?

«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».

Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?

«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».

Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?

«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».

Indagine sulle radici del sessismo

In occasione della nuova edizione di Psicosociologia del maschilismo di Chiara Volpato, pubblichiamo questo stimolante dialogo fra l’autrice e la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg

Annelore Homberg | Left | 4 gennaio 2023

Chiara Volpato perché questa nuova edizione di Psicosociologia dei maschilismo (Laterza), dopo la prima pubblicazione nel 2013?

Avevo finito di scrivere il libro nel 2012, esattamente dieci anni fa; nel frattempo è uscita nuova letteratura scientifica sull’argomento. In più, mi sembrava importante che il libro avesse una nuova vita perché in questo momento c’è una riflessione vivace su questi temi, che sta cambiando le cose. Ho aggiunto un capitolo intero sulle forme estreme del dominio. Nell’edizione precedente si parlava di oggettivazione e di violenza, ma la letteratura è cresciuta, la riflessione ugualmente, quindi ho pensato di dedicare più spazio a questi temi.

Lei apre il libro con un capitolo sulla “questione maschile” ricordando che gli studi sugli uomini inizialmente erano pochi rispetto alle ricerche sulle donne. La cito: «Essendo considerato prototipo dell’umano il genere maschile, allora le ricerche sono state più sui gruppi discriminati ma non sui maschi».

C’è stato un cambiamento a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, che ha portato a riflessioni di cui si sono occupati studiosi uomini e donne.

Questo pensiero del maschile come “prototipo dell’umano” con cui tutte le altre categorie si devono confrontare, è una specificità della cultura occidentale?

Non sono un’antropologa, ma so che ci sono state delle culture nelle quali non c’era questa caratterizzazione. Però sono veramente minoritarie. Penso che, nella grandissima maggioranza delle culture umane, la definizione del maschile come prototipo dell’umano esista e sia potente.

Ci sono delle ipotesi sul perché?

Dagli studi emerge l’ipotesi che nella Preistoria, nelle culture di cacciatori e raccoglitori, non ci fosse subalternità femminile. Pare che i ruoli fossero distribuiti non tanto per genere quanto per età. Si ipotizza che i giovani partecipassero in maniera più o meno paritaria a procacciare il cibo, mentre le generazioni più anziane si dedicavano al lavoro di cura. La differenziazione che penalizza il femminile inizia probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura, quindi con il Neolitico. Lì viene introdotta la proprietà privata, vengono create le classi sociali, appaiono i ricchi e i poveri. E si crea anche la differenziazione tra maschile e femminile. La forza fisica maschile probabilmente ha fatto sì che gli uomini si occupassero della gestione militare e politica e le donne venissero relegate al lavoro di cura.

Lei descrive magnificamente l’iter del concetto di “vero uomo” nella cultura occidentale.

Ritengo che i ruoli sociali e quindi anche i ruoli di genere siano delle costruzioni storiche, cambino quindi a seconda delle epoche. Dall’Ottocento in poi, assistiamo a vari mutamenti, a momenti di ripensamento, di “crisi del maschile”, ma secondo un andamento non lineare. Nel corso del Novecento – soprattutto in concomitanza con le Guerre mondiali – si sono verificati anche dei momenti di recupero della visione maschile tradizionale. Poi, i movimenti degli anni Sessanta, soprattutto quello femminista, hanno cominciato a creare delle incrinature. Penso che ci troviamo tuttora all’interno di questa prospettiva, anche se, negli ultimi anni, assistiamo a preoccupanti recuperi del modello maschile tradizionale. Ci sono movimenti di contrattacco e ritorsione nei confronti della nuova autonomia femminile e figure politiche che li hanno incarnati, come Donald Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.

Prima di Donald Trump c’era Barar Obama, che per certi versi proponeva un’altra immagine di uomo, sempre legato al potere ma con un atteggiamento più empatico, almeno a livello personale. Personaggi come Trump sono la reazione a quest’altro tipo di mascolinità?

Penso che Trump incarni una reazione sia ai nuovi modelli del maschile, sia a tutta una serie di cambiamenti sociali in atto. Interpreta una parte della società che, a mio avviso, guarda indietro invece che avanti.

Apprendiamo dal suo libro che in psicologia sociale si adopera costantemente il concetto dei Big Two, due caratteristiche che notiamo subito negli altri, distinguendo cioè tra il fattore della communality, attribuito alle donne, e la agency che sarebbe un po’ il compito e il nucleo dell’identità maschile.

Questa però non rispecchia la realtà oggettiva delle cose. È l’interpretazione stereotipica: il nucleo di credenze stereotipiche fa sì che alla donna vengano attribuiti i trarti collegati con la capacità di entrare in empatia con gli altri, di relazione, di calore. E all’uomo, invece, i tratti legati all’agency, al muoversi nel mondo, alla forza, alla conquista, al potere. Le cose oggi stanno cambiando, perché l’immagine femminile non è più quella tradizionale. È un’immagine più variegata, più complessa, caratterizzata anche da una serie di ambivalenze. Questa nuova immagine femminile suscita i contrattacchi e le ritorsioni della “mascolinità risentita”.

Nel libro ci sono pagine molto efficaci sulla difficoltà degli uomini di corrispondere allo stereotipo del “vero uomo”. La loro socializzazione in questa direzione appare quasi più difficile della socializzazione femminile e passa, così lei scrive, attraverso i legami tra uomini, il male bonding.

Questi legami profondi tra uomini sono molto importanti nella socializzazione maschile. Credo che contribuiscano anche a un certo maschilismo, perché l’uomo deve diventare tale di fronte agli altri uomini. Non può perdere la faccia, non può comportarsi “da femminuccia”. Pensiamo, per esempio, a tutto il discorso militare, come è stato e come è tuttora, perché le guerre esistono ancora ed esiste tuttora una certa mentalità militare da macho. Il “vero uomo” non deve avere tratti femminili e deve reprimere tutto ciò che può far interpretare il suo comportamento come incline all’omosessualità. La costruzione dello stereotipo tiene sempre presente l’allontanamento da questi due aspetti: dal femminile e da tutto ciò che non è eterosessuale.

Allora, una donna è tale perché viene considerata “femminile”, desiderabile e valida dagli uomini. Mentre gli uomini non devono essere confermati nella loro identità dalle donne, ma dagli altri uomini?

Certo, nella visione tradizionale sono gli uomini a decidere cosa è valido sia per se stessi sia per le donne. Si tratta di una costruzione per opposizione, per divaricazione tra i tratti tipici femminili e i tratti tipici maschili.

Lei riporta una serie di studi secondo cui la supremazia maschile non è indolore nemmeno per i diretti interessati.

La supremazia maschile comporta un prezzo molto alto che per tanto tempo è stato sottovalutato. Se si costruisce il militare come paradigma del “vero uomo”, non si può lasciare spazio all’emotività, alla tenerezza, alla confidenza. Le amicizie maschili sono soprattutto amicizie del fare, mentre quelle femminili sono amicizie basate sulla confidenza, caratterizzate dal disvelamento. Gli uomini pagano il non potersi aprire all’altro in termini di salute psicologica e fisica. Vi sono molte malattie, o difficoltà a far fronte alla malattia, che colpiscono più gli uomini che le donne. Su questi piani gli uomini hanno meno risorse. La costruzione di un’identità forte, tutta d’un pezzo, corrazzata li rende più deboli di fronte ad alcune difficoltà esistenziali.

Descrivendo invece gli stereotipi di genere relativi alle donne, lei annota che non esiste soltanto il noto stereotipo del disprezzo, basato su una presunta inferiorità femminile, ma anche altri stereotipi.

Esiste una specie di tassonomia degli stereotipi che ne prevede quattro tipi tra cui quelli di ammirazione e di disprezzo. Il disprezzo nei confronti delle donne era molto presente nell’antichità, ma lo troviamo anche oggi. Lo stereotipo di ammirazione nei loro confronti è invece molto raro, perché di solito il pregiudizio di ammirazione si prova nei confronti dei gruppi sociali favoriti, e le donne, per definizione, non lo sono. Però, verso le donne si trova il cosiddetto women wonderful effect, che le definisce meravigliose. Si tratta di una maniera di lodare il loro essere stupende nelle relazioni e nella cura – con l’obiettivo però di mantenerle al posto loro assegnato. Quindi, anche questo non può essere interpretato come uno stereotipo di ammirazione.

Un filo rosso che attraversa tutti i suoi libri è l’indagine sui motivi che fanno sì che le categorie oppresse siano d’accordo con la loro discriminazione. Che si considerino, in qualche modo, giustamente non considerate alla pari.

C’è spesso un’accettazione del ruolo subalterno perché può essere comodo. È difficile essere sempre allerta, in uno stato di ribellione. Allora si accetta il sessismo benevolo, quell’atteggiamento che dice “sei una persona meravigliosa, che però ha bisogno della protezione maschile”. C’è l’accettazione della complementarietà dei ruoli, sia nelle relazioni private che nel lavoro in cui spesso le donne accettano di stare un passo indietro. Anche per motivi oggettivi, perché hanno bisogno di spazio per l’affettività, il lavoro di cura, la maternità. A volte c’è lucidità nell’attuare questa collusione; a volte invece le donne la attuano in modo inconsapevole, magari prendendone coscienza solo anni dopo. L’ho visto succedere ad alcune studentesse. Gli anni dell’università sono anni importanti per le scelte che richiedono, che sono spesso scelte di vita sul piano affettivo e su quello del lavoro. Spesso però non c’è molta consapevolezza o lucidità nel fare tali scelte.

Lei menziona anche limitazioni imposte dall’esterno, invisibili ma efficaci.

Ci sono degli indici oggettivi che ci dicono, sulla base dei numeri, che in effetti esiste il “soffitto di vetro” e il fenomeno della “conduttura che perde”. Le ragazze spesso sono le più brave all’università, ma poi incontrano difficoltà specifiche e rischiano di perdersi per strada. Qualche anno dopo la laurea, i posti migliori o più remunerati vanno ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Mi ha colpito quando lei parla della paura del successo da parte delle donne, di questa sensazione per cui si pensa “non devo emergere troppo, non sta bene”.

Ho trovato interessante uno studio secondo cui che le donne che hanno più successo del partner tendono a nasconderlo o a farsi perdonare cercando di essere iperfemminili nella gestione della casa e delle relazioni.

Tuttavia, ci sono stati cambiamenti enormi, come forse mai prima nella storia. Essi riguardano sia le donne che gli uomini?

Le ricerche hanno constatato che lo stereotipo femminile si è molto diversificato negli ultimi trent’anni. Non ha perso i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti maschili, diventando più complesso. Questo è successo molto meno con lo stereotipo maschile. Teniamo però presente che stiamo parlando di stereotipi! Nella realtà, anche il maschile sta cambiando. Un’esperienza personale: ad agosto ho fatto un viaggio nella parte orientale della Turchia. Anche lì ho visto uomini che portano in giro i bambini in carrozzina. Ho notato cioè una certa vicinanza al figlio o alla figlia, che non penso tradizionalmente fosse così esibita e accettata socialmente. E anche lì si vedono molte donne che lavorano, che hanno cambiato il loro ruolo nella società.

Lei sottolinea più volte nel libro che arrivare a un superamento degli stereotipi di genere non favorisce solo le donne, ma è anche nell’interesse maschile.

Sì, perché va a beneficio di entrambi. Se queste visioni e questi ruoli cambiassero, non ne beneficerebbero solo uomini e donne, ma la società tutta, come provato da molte ricerche anche di tipo economico: le società in cui le donne hanno una partecipazione attiva alla vita economica e politica del Paese sono società che stanno meglio delle altre, decisamente meglio delle società in cui la partecipazione femminile è ridotta.

Un anno fa è finita l’era Merkel, in Italia abbiamo la prima presidente del Consiglio: sto parlando delle donne al potere. Anche lei pensa, come molti, che una volta al potere una donna si comporta esattamente come gli uomini?

Penso che sia difficile generalizzare. Alcune donne – l’emblema è Margaret Thatcher – sono andate al potere con delle strategie tipicamente maschili e con una visione tradizionale della società. In altri Paesi invece le donne arrivate al potere hanno cercato di portare una visione un po’ diversa basata sulla loro esperienza storica, che implica una maggior attenzione alla cura, alle relazioni, all’ambiente. Se ci pensiamo, anche l’attenzione all’ambiente ha a che fare con le relazioni di cura. È una cura per ciò che ci sta intorno… Però le donne al potere con questa visione sono poche, le troviamo soprattutto in alcune situazioni particolarmente favorevoli come nei Paesi del Nord Europa, Paesi ricchi e con una popolazione poco numerosa. Penso che le donne, per poter portare un cambiamento in politica, non devono essere sole. Possono innescare un cambiamento quando sono almeno in un piccolo gruppo, che permette di darsi forza e sostegno reciproco.

Storicamente parlando, quindi, piuttosto che la singola Thatcher o Merkel, è più significativo che nei Parlamenti – in alcuni Paesi – sono presenti sempre più donne?

Quando le donne sono un certo numero possono indirizzare la politica del Paese verso certi temi rispetto ad altri. L’attuale però non è un buon momento da questo punto di vista, perché con l’aggressione russa all’Ucraina, si è tornati a una visione più militarista della società.

Se in Russia e in Ucraina ci fossero più donne nel governo, la guerra non sarebbe scoppiata o sarebbe già finita?

Probabilmente sì. La guerra mi dà l’impressione di un ritorno al Medioevo. Ha innescato una contrapposizione militare e maschilista, che speravo non avremmo rivisto.

L’Italia come si colloca rispetto al superamento degli stereotipi di genere?

L’Italia continua a coltivarne molti. Nelle ricerche sul sessismo non si colloca bene, siamo tra gli ultimi tra i Paesi europei sia dal punto di vista degli stereotipi, sia da quello dei posti di lavoro. L’Italia non fa una politica per le donne. Non aiuta né promuove la maternità, non aiuta né promuove il lavoro delle donne Pensiamo, ad esempio, alla carenza di asili nido.

A concludere il suo libro sono delle pagine veramente belle che non vorrei anticipare perché ognuno deve leggerle da sé. Ripeto solo la domanda che lei si pone lì: “Che cosa si può fare per migliorare la situazione”?

Oltre alla lotta politica, quello che le singole persone possono fare è avere maggiore attenzione. Resto sempre colpita dal fatto che spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Spesso non mettiamo in discussione i rapporti di collusione di cui parlavamo prima, un certo sessismo quotidiano, non particolarmente aggressivo, ma molto radicato, perché non lo vediamo. Secondo me, il primo lavoro da fare è imparare a vedere e a prendere in mano le cose, una volta che le abbiamo viste. Non vuol dire combattere 24 ore al giorno, ma tenere presente che un certo modo di vivere non è scontato e impossibile da affrontare. Lo diventa se lasciamo che sia così. Questo è il primo lavoro: vedere ed essere critici. E poi bisogna fare un lavoro di rivalutazione. A me pare che la cura – il Covid dovrebbe avercelo insegnato – che noi esseri umani possiamo prenderci l’uno dell’altro sia una delle cose più importanti e preziose della vita. Però è sempre stata sottovalutata, proprio perché attribuita al femminile. Non diamo abbastanza importanza né alla cura delle relazioni, né alla cura della persona sofferente, né alla cura dell’ambiente, aspetti molto vicini tra di loro. La cura delle relazioni e dell’ambiente nel quale viviamo è un valore fondamentale, il primo a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non lo sia costituisce un motivo di allarme: rischiamo di precipitare in una situazione molto pericolosa.

Enzo Traverso, la rivoluzione, il neoliberalismo autoritario e la nuova sinistra

Un’intervista del nostro Giuliano Battiston con lo storico delle idee Traverso, autore di Rivoluzione, Malinconia di sinistra, del recente La tirannide dell’io, e fresco vincitore del Premio Napoli 2022

Giuliano Battiston | Lettera22 | 4 gennaio 2023

«L’800 è un secolo che si apre con la rivoluzione francese; il 900 nasce con la grande guerra, ma il suo orizzonte d’attesa è fissato dalla rivoluzione russa; il XXI secolo nasce invece da una controrivoluzione, dalla sconfitta e dall’eclissi dell’orizzonte di attesa utopico e rivoluzionario, con la grande svolta del 1989». Secondo Enzo Traverso, è all’interno di questa svolta storica e della «paralisi utopica» che ne deriva che vanno lette la sconfitta della sinistra in Italia e l’affermazione del neoliberalismo autoritario del governo presieduto da Giorgia Meloni. Storico della Cornell University di Ithaca, New York, tra i più rigorosi intellettuali del nostro tempo, in questi giorni Traverso è in Italia per il Premio Napoli 2022, di cui è finalista con Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli 2021), una monumentale storia intellettuale del concetto di rivoluzione, da leggere insieme a Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (Feltrinelli 2016) e al suo ultimo libro, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona (Laterza 2022).

Con Rivoluzione, lei intende «riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave d’interpretazione della modernità», evitando le trappole simmetriche della stigmatizzazione conservatrice e dell’apologia cieca. Cosa ne deriva per la comprensione del presente?

La rimozione del concetto di rivoluzione dal paesaggio culturale, politico e ideologico del presente fa sì che oggi si pensi sì la politica, ma che nessuno pensi più alla rivoluzione come via possibile al cambiamento. Ricostruirne la storia è indispensabile per capire che il XXI non sarà un secolo senza rivoluzioni. Le rivoluzioni sono scomparse solo dal nostro universo mentale, non dalla realtà. E non è escluso che nel XXI secolo lo stesso concetto subisca una nuova metamorfosi, come quella avvenuta con la rivoluzione francese: non più il ritorno alle condizioni originarie dopo un movimento rotatorio ciclico, secondo la definizione dell’astronomia, ma una rottura sociale e politica, la proiezione della società nel futuro. Una proiezione resa possibile dalla dialettica storica di cui parlava Reinhart Koselleck: la storia come dialettica tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di attesa. Oggi quella dialettica si è inceppata.

Lei sostiene che, dopo questo passaggio, una nuova sinistra globale non possa rinascere se non elabora l’esperienza storica che ha trasformato il socialismo in un’utopia fredda. Anziché eluderla, dovrebbe inoltre farci carico della “malinconia di sinistra”. La malinconia è una premessa all’azione politica?

Non faccio della malinconia una prescrizione, una terapia. Ma neanche un sentimento di impotenza e rassegnazione: è un processo di elaborazione di una coscienza storica senza il quale le future rivoluzioni non potranno pensare il futuro. I movimenti degli ultimi venti anni hanno una vasta elaborazione critica, ma non si inscrivono in una continuità storica. Le rivoluzioni arabe non avevano modelli di riferimento, non erano socialiste, comuniste, panarabe, islamiste, terzomondiste o antimperialiste. I Gilets jaunes in Francia non scendevano in piazza con la bandiera rossa. Esistono movimenti radicali con forti potenzialità, ma sono privi di memoria e di coscienza storica.

Per lei la malinconia è produttiva, performativa. Ma nella storia della sinistra è apparsa spesso come un segno di debolezza e impotenza…

Nella cultura della sinistra la malinconia è stata a lungo rimossa come illegittima, anche a causa di un retaggio virilista, maschilista e guerriero. Per Raymond Williams, invece, la malinconia fa parte della struttura dei sentimenti della sinistra. D’altronde, ha svolto un ruolo attivo in molti casi. Le madri di Plaza de Mayo in Argentina sfilavano con i ritratti dei desaparecidos. Manifestazioni di lutto, ma scintille per la lotta contro la dittatura militare. Black Lives Matter è un altro esempio di come il lutto e la malinconia possano sfociare nella rivolta e nella lotta.

L’abbandono del sogno di un’umanità liberata ha prodotto un regime di storicità che nLa tirannide dell’io definisce “presentismo”. La stessa immaginazione è chiusa dentro i confini del presente o, se rivolta al futuro, è distopica, segnata da catastrofi ecologiche. Come interpreta il “catastrofismo”?

Il fascismo è una minaccia, ma è un’opzione che si può evitare, mentre la catastrofe ecologica è un destino ineluttabile se non modifichiamo il modello di civiltà ancor più che alcune politiche economiche. Per le nuove generazioni è la premessa per pensare un futuro capace di scongiurare la catastrofe. Il 900 era un secolo dominato da quello che Ernst Bloch definiva il principio speranza, il secolo dell’anticipazione, del non-ancora, dell’utopia. Ora l’unica anticipazione possibile è quella dell’escatologia negativa. Vale quel che Günther Anders ha definito principio disperazione, che pone il problema dell’etica della responsabilità.

Una certa storiografia ha favorito l’idea che l’utopia di una società liberata e il socialismo reale fossero la stessa cosa e che il totalitarismo sia l’esito inevitabiledi ogni utopia rivoluzionaria. Oggi si dà per scontato che non ci sia alternativa a democrazia liberale e società di mercato

Se osserviamo quel che è avvenuto in Italia negli ultimi mesi – le elezioni, il nuovo governo, la sua composizione – non solo con una lente contingente, ci accorgiamo che è l’esito di questo lungo processo storico. Oggi si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, rivolte contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi, dunque: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda.

L’ultimo capitolo di Rivoluzione si intitola “Storicizzare il comunismo”. Ritiene che l’attuale deficit della sinistra in Italia dipenda anche dal non aver fatto i conti con quella storia, storicizzandola?

In Italia abbiamo assistito non solo alla sconfitta del comunismo, del socialismo e delle rivoluzioni del 900, ma all’auto-dissoluzione del più grande partito comunista del mondo occidentale. La sconfitta è stata non solo accettata, ma quasi rivendicata. Il passato, dimenticato e rimosso. Da un lato c’è chi ha chiuso quell’esperienza senza elaborarne l’eredità, aderendo in modo acritico a un nuovo modello: la democrazia liberale e la società di mercato come ordine naturale del mondo. Dall’altro la reazione di una minoranza ancorata a un modello ormai obsoleto, sterile. In una prospettiva di lunga durata siamo ancora dentro questa impasse.

In un’intervista al manifesto ha parlato del governo Meloni come «l’espressione più vistosa di una tendenza verso il neo-liberalismo autoritario che permette la convergenza tra la democrazia liberale classica e il post-fascismo», che fa propri i valori del capitalismo. La sinistra può “sfruttare” la situazione?

Tensioni e contraddizioni dell’ascesa della nuova destra, in Italia e altrove, non vanno sottovalutate. Più che alle sue scelte ideologiche, il successo di Giorgia Meloni è dovuto alla sua “coerenza politica”, al fatto che sia apparsa l’unica forza di opposizione, alternativa. La stessa chiave spiega l’ascesa delle nuove destre radicali su scala globale, apparse come l’unica alternativa – di destra, conservatrice, reazionaria – al neoliberalismo. Eppure, se diventano l’incarnazione di un neoliberalismo autoritario, vanno inevitabilmente incontro a problemi: possono apparire forze di governo legittime agli occhi delle élite, ma perderanno consenso tra i ceti popolari che le hanno sostenute.

La “coerenza politica” di Giorgia Meloni è passata per la rivendicazione dell’autonomia del politico: l’idea che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a rappresentare gli interessi del popolo, non della finanza globale. Ma dentro l’economia politica neoliberista i governi hanno margini di autonomia ridotti. Come ne uscirà il governo?

In Italia, almeno a partire dal governo Monti, l’autonomia del politico è stata sostituita dall’autonomia dell’economico. Oggi l’autonomia del politico può spiegare la capacità di Giorgia Meloni di far rinascere un partito che sembrava un residuo dell’estrema destra, raccogliendo un forte consenso elettorale, passando come interlocutore credibile per l’Unione europea e per l’élite economico-finanziaria, senza rinunciare alla periferia di neonazisti e neofascisti. Ma arrivata al governo la stessa Meloni diventa l’incarnazione dell’autonomia dell’economico, la cifra dell’era neoliberista, ultima di una serie di governi votati dai parlamenti ma sovradeterminati da forze esterne. È una tendenza generalizzata. Se vuole essere una forza di alternativa, la sinistra non può che opporsi radicalmente a questo modello. E nella misura in cui è la destra a governare, deve saperne gestire tutte le contraddizioni che ne derivano.

Il Medioevo in 21 battaglie

letture.org | 27 dicembre 2023

Prof. Federico Canaccini, Lei è autore del libro Il Medioevo in 21 battaglie: che spazio ha occupato, la guerra, nella vita degli uomini dell’Età di Mezzo?

Quando si dice “Medioevo” si compie un’astrazione talmente grande che è difficile offrire una definizione soddisfacente, e lo si fa sia nello spazio che nel tempo. Medioevo dove? Medioevo quando? La geografia del Medioevo a cui siamo abituati si ferma quasi sempre poco oltre Costantinopoli e da un punto di vista cronologico raramente ci si spinge prima del 476 e oltre il 12 ottobre del 1492. Mille anni di storia racchiusi in una sola parola: come a dire di associare gli uomini del 2022 con quelli del 1022. Un po’ eccessivo! Nel libro si offre un’Età di Mezzo volutamente non eurocentrica e che rompe gli argini geografici e cronologici a cui siamo stati abituati sin dai tempi della scuola. Altro aspetto ineludibile del Medioevo è una scansione degli eventi legata alla guerra, alla perenne conflittualità, ad un apparente stato endemico di violenza, sempre e dappertutto. “La guerra pubblica o privata è uno dei meccanismi funzionali della società medievale. Nella mentalità delle élites medievali, la guerra è un’eredità ancestrale e una costante antropologica. Non solo l’economia, ma tutta la vita quotidiana del Medioevo è largamente influenzata da questa antica festa crudele” ha scritto Mario Sanfilippo citando anche il titolo di un famoso libro di Franco Cardini. La storia medievale ha inizio, come è noto, con un grande scontro di civiltà che ha determinato uno dei più grandi preconcetti nella storia del pensiero occidentale. Il confronto tra le popolazioni germaniche e la civiltà classica – e l’aggettivo la dice già lunga! Classica: il punto di riferimento a cui dovranno adeguarsi tutti gli altri! – ha creato nel corso dei secoli un’antinomia fra una certa idea di stato, di bellezza, di estetica a cui è stata contrapposta una di rozza barbarie. I secoli a cavallo della fine di Roma furono certamente caratterizzati da una fase di violenza, ma fu probabilmente più l’idea che Roma morisse sotto i colpi dei Barbari a determinare l’idea di un Medioevo barbarico e violento. I secoli centrali sarebbero stati caratterizzati da lotte tra signori, tra regni nascenti, tra comuni, ma anche tra civiltà profondamente diverse fra loro. Infine anche la conclusione del Medioevo è associata a uno stato di guerra endemico: un conflitto secolare tra Francia e Inghilterra, un altro pure eterno contro il Turco, e infinite guerre a livello regionale. Davvero l’idea che venne trasmessa fu quella di un’epoca fatta di guerre e di violenza: ad ereditare questo concetto furono gli Umanisti che, idealmente, si collegarono ancora una volta all’età romana. Ecco allora che i brutali uomini d’arme prezzolati, i mercenari, diventano i “condottieri”, non deprecati, ma quasi esaltati per le loro doti assimilabili a quelle dei grandi generali romani, rinforzati dal concetto del Miles christianus di epoca medievale. La statua del Gattamelata non è forse l’imitazione di un Marco Aurelio? Eppure si sta parlando di un soldataccio che fa la guerra per arricchirsi, non certo di un eroe positivo. O forse sì: si tratta di quale interpretazione si decide di dare.

Perché sono proprio ventuno le battaglie da Lei individuate e raccontate?

Il libro è in parte eccentrico: 21 e non 20, una copertina non ordinaria e in parte fastidiosa, con quel fiotto di sangue anti-convenzionale per l’editoria, e una scelta di episodi militari medievali che, col Medioevo occidentale, hanno apparentemente poco o nulla a che fare. La volontà di uscir fuori da quei limiti mentali che ci siamo autocostruiti come identità di Occidente medievale, doveva dunque in qualche modo apparire già nel titolo. Quella “ventunesima battaglia”, volutamente stridente anche al nostro sistema decimale, non deve essere necessariamente identificata con l’ultimo capitolo, anche se è quello che forse meglio si presta a rendere l’idea di travalicamento degli spazi e dei limiti cronologici del “nostro Medioevo”. Il capitolo finale è, infatti, dedicato alla conquista di una favolosa città edificata in mezzo ad un enorme lago salato, una laguna, con case intervallate da canali e solcate da decine di piccole imbarcazioni: non sto parlando della conquista di Venezia, ma di Tenochtitlàn, capitale dell’Impero azteco. Lo spartiacque del 1492 – forse la data che ha avuto più successo tra quelle proposte dagli storici quale cesura tra Età Medievale e Moderna – ci induce ad arrestarci ancor prima che Colombo salga a bordo della Santa Maria: ciò che sta per accadere non appartiene, infatti, più al Medioevo! Ma, invece, quegli uomini sono figli del Medioevo, sono nati nel Medioevo, le idee che portano con sé sono le stesse, le armi e le strategie non cambiano. Piuttosto, gli Spagnoli – che proprio quello stesso anno completano la secolare Reconquista della penisola iberica – arriveranno sulle coste del Messico, intrisi di profetismo e convinti della necessità di recuperare il Santo Sepolcro, usando l’oro che abbonda in quelle terre: sono le idee propugnate da Enrico V Lancaster e quelle scritte su una missiva ai reali di Spagna da Cristoforo Colombo. Quanto di vero e quanto di propagandistico ci fosse in tutto ciò, questo, naturalmente, fa parte dello sporco gioco della guerra e degli affari.

Negli ultimi decenni, gli storici si sono progressivamente svincolati da quella che è stata polemicamente definita Histoire-bataille, la storia fatta solo di battaglie: in che modo le battaglie possono essere considerate come la chiave per accedere ad un mondo in realtà molto più ampio?

Le battaglie sono un argomento che affascina molti lettori: ciò è dovuto in parte alla apparente facilità di accesso all’argomento, ai colori dei due schieramenti – colori politici, etnici, culturali, linguistici ma anche i colori legati alle divise, alle bandiere, ai pennacchi – al responso finale – un vincitore e un vinto – e alle conseguenze di tale scontro. Purtroppo c’è anche il fascino della violenza e della guerra che attira in modo piuttosto morboso l’uomo e il lettore: per questo sarà utile provare a lasciare tra le righe anche qualche spunto di riflessione tra le pagine di un libro che di guerra parla, ma che di certo non la esalta. Raccontare la storia di mille anni e di un mondo così vasto, come quello tratteggiato nel libro, tramite appena 21 fatti d’arme è naturalmente un escamotage. La cosiddetta Histoire bataille è stata a lungo celebrata e poi criticata dalla storiografia che la vedeva come riduttiva: non si può, in effetti, ridurre la storia a una sequela di scontri, come se fossero questi a decidere le sorti dell’umanità. Ma se l’approccio è magari in parte nuovo, allora forse le battaglie possono divenire una chiave di lettura per esplorare un’epoca, anche lunga, come quella del Medioevo, e mondi che di volta in volta si scontrano. Ecco: la battaglia rappresenta certamente lo scontro tra due o anche più civiltà. Ciò che ho voluto tentare di fare è stato anche osservare gli incontri e magari gli scambi che sono intercorsi. Di certo 21 battaglie, e altrettanti capitoli, non esauriranno la storia medievale, ma non è questa la pretesa del libro. Al di là delle pagine dedicate al mero scontro militare, ogni capitolo offre pagine e pagine dedicate alla popolazione, o alla civiltà presa in esame: si parla di evoluzioni tecnologiche legate alla guerra – certamente! – ma si delineano anche usi e costumi dei popoli analizzati. Si tratteggiano i protagonisti, dove si può, mettendo a frutto fonti contrastanti tra loro, spesso finalizzate a demonizzare l’avversario, delineato come un violento conquistatore assetato di sangue, ma si parla anche di credenze e pratiche religiose e perfino di abitudini alimentari: insomma, alla fine, le battaglie sono un ottimo pretesto narrativo per parlare di molto altro.

Nel volume troviamo tutte le battaglie più note, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma anche ‘fatti d’arme’ remoti come quelli di Badr, Tarain e Diu o la battaglia combattuta sulle rive del lago Texcoco, in Messico: in che modo il loro racconto ci permette di valicare i confini culturali del nostro Medioevo?

Nello scrivere l’indice del libro mi sono reso conto di come anche io fossi imbevuto della visione eurocentrica ricevuta nel mio percorso di studi. Sono stati certamente i viaggi compiuti – forse più che le letture – in luoghi remoti e decisamente più sfortunati della ricca Europa a farmi interessare sempre più all’Altro, anche da un punto di vista narrativo e storiografico. La scelta dei 21 capitoli è stata dettata dalla volontà di raccontare in modo diacronico più di dieci secoli, includendo gran parte della storia mondiale, non per vezzo o per originalità obbligatoria. Scorrendo le pagine ci si renderà conto, infatti, che questi mondi – largamente esclusi dalla manualistica occidentale – per più di un verso sono intimamente connessi con la “nostra storia”. E non parlo solo di quei capitoli palesemente lontani, come quello dedicato al mondo del Giappone o dell’India. A ben guardare, già il mondo slavo e quello balcanico, non hanno goduto della dignità di figurare nella storia d’Europa, né medievale né moderna. Quando è accaduto è stato sempre e solo in funzione degli eventi d’Europa: quando gli Ungari attaccano l’Europa, allora si può dedicare loro un paragrafo, specie dopo che decidono di convertirsi al cristianesimo, quando si parla di Gerusalemme è perché la città è méta dei pellegrini occidentali, quando ci si dilunga sull’Impero di Bisanzio è perché è contrapposto a quello d’Occidente. Talvolta ciò è dovuto alla penuria delle fonti, ma in larga parte anche ad una quasi naturale volontà di inconoscibilità degli altri. Ogni capitolo, invece, vuole provare a ampliare un poco la conoscenza su singoli mondi, creando talvolta delle connessioni, dei riferimenti, dei rimandi che spesso relativizzano il “nostro orizzonte del Medioevo europeo”. Facciamo un esempio. Lo stesso giorno del 1260 in cui sulla piana di Montaperti si consumava lo scontro tra Siena e Firenze, battaglia percepita come episodio chiave della storia comunale italiana, ad Ayn Jalut una gigantesca armata di fede islamica sconfiggeva un esercito mongolo, definendo il confine tra mondi diversi, con conseguenze ben più significative di quelle locali legate alla lotta comunale, amplificabile al conflitto tra Svevi e Angioni e financo tra Papato ed Impero. Se osservati da un punto di vista geopolitico, il paragone non regge: ma nella mentalità italiana, complice anche Dante Alighieri, Ayn Jalut semplicemente non esiste. E, in fondo, che in questo libro non ci sia neppure una battaglia tra i comuni, sembra quasi un affronto!

Come è avanzata l’arte della guerra nei mille anni del Medioevo?

La guerra è sempre stata portatrice di progresso tecnologico: per quanto triste e tragico sia doverlo ammettere, per affinare il modo di uccidere il nemico, l’uomo da sempre ha messo a frutto il proprio ingegno, piegandolo a fini mortali. Lo ha espresso bene Salvatore Quasimodo nella sua poesia “Uomo del mio tempo”, e il poeta si riferiva all’uomo del XX secolo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta”. Lo stupore di Quasimodo non era poi così diverso da quello di intellettuali medievali come Bernardino da Siena o Giacomo della Marca.

Nel corso del Medioevo si è assistito ad una serie impressionante di evoluzioni e certamente non solo nell’arte della guerra. Ma ciò che poteva essere utile in ambiti non bellici, ha trovato ben presto impieghi letali in ambito militare: l’evoluzione delle forme degli elmi, segue di pari passo l’evoluzione delle armi offensive, ed è impressionante vedere quante varianti appaiano nel giro di pochi decenni nelle armi in asta, letali trasformazioni per lo più di strumenti agricoli. I secoli iniziali del Medioevo sono caratterizzati da un confronto tra tattiche diverse, ma sbaglieremmo ad immaginare le legioni romane di V secolo uguali a quelle di Traiano, che combattono con orde di barbari come quelli che vide Cesare in Gallia. Si diffonde la staffa, la balestra, gli scudi appaiono e scompaiono, si allargano, si restringono. Alla fine del Medioevo compare in Occidente l’impiego della polvere pirica, l’esplosivo, che ha rivoluzionato il modo stesso di fare la guerra. Ad oggi, purtroppo, la guerra si fa ancora così: si sono solo evoluti gli strumenti per lanciare quelle medesime bombe che atterrivano i campi di battaglia già nel XIV secolo. Un tempo si parlava di falconetti e bombarde, poi si parlò di cannoni e spingarde, per arrivare a carri armati e katiusce. Oggi si parla di droni: ma il risultato non cambia.

Faccia a faccia con i primi Sapiens

Claudio Tuniz | La Lettura | 8 gennaio 2023

Secondo le Nazioni Unite, il 15 novembre 2022 la popolazione umana ha superato gli 8 miliardi di persone (pari al 7% di tutti gli esseri umani mai vissuti). All’inizio della rivoluzione agricola, circa 10 mila anni fa, eravamo meno di 4 milioni, numero che è lentamente salito a circa 800 milioni alle soglie della nostra prima rivoluzione industriale. Rispetto alla tempistica dell’evoluzione umana, che supera i due milioni di anni, il numero di umani in vita si è dunque impennato (e concentrato) soltanto negli ultimi due secoli. Oggi abbiamo talvolta la sensazione di vivere in un formicaio, con metropoli che superano i 20 milioni di abitanti. Secondo le stime dei paleo-demo grafi, intorno a 100 mila anni fa la nostra specie comprendeva in tutto qualche decina di migliaia di persone raggruppate in bande che non superavano il centinaio, e gli incontri con altri gruppi erano rari. Vivevano quasi tutti in Africa, la cosiddetta culla dell’umanità, ma incominciavano a disperdersi verso altri continenti. Noi Sapiens non eravamo i soli umani intelligenti del pianeta, ma le altre specie «diversamente umane» costituivano una presenza più discreta.

Oggi abbiamo le prove che noi scuri e slanciati Sapiens africani, dalla testa tonda e dal volto aggraziato ed espressivo, abbiamo avuto incontri molto intimi con altre specie intelligenti, come i pallidi Neanderthal eurasiatici, dal corpo più robusto, faccia prognata, arcate sopracciliari prominenti, e cranio allungato all’indietro. Lo stesso è accaduto con una seconda specie umana di origine asiatica, di cui purtroppo non conosciamo ancora la fisionomia. Alcuni resti di una donna appartenente a questa specie, soltanto il dito mignolo e pochi denti, sono stati rinvenuti pochi anni fa nella caverna di Denisova, alle pendici dei monti Altai, in Siberia. Nello stesso luogo è stato trovato anche il frammento del femore di una donna ibrida con padre denisoviano e madre neanderthaliana.

Sappiamo tutto questo grazie a Svante Paabo, il premio Nobel 2022 per la Fisiologia e la Medicina, che ha inventato la paleogenomica, una disciplina che ci rivela questa e sorprendenti storie del nostro passato profondo. Nel 2010, il gruppo da lui diretto al Max Planck lnstitute for Human Evolution di Lipsia ha sequenziato sia il genoma dei Neanderthal che della denisoviana senza volto. Ma per noi è molto importante conoscere la fisionomia dei nostri lontani antenati.

Guido Barbujani, genetista di fama internazionale e gran divulgatore, ci spiega il perché nel suo libro più recente Come eravamo. Storia dalla grande storia dell’uomo (Laterza, 2022). Immaginare i loro tratti e il loro stile di vita ci aiuta a stabilire con loro un contatto emozionale: un elemento chiave della nostra evoluzione. Con l’aiuto di splendide illustrazioni, veniamo guidati nella preistoria attraverso una divertente galleria di ritratti. Nell’incontrare lo sguardo di Lucy, l’australopiteco che fu forse un nostro parente diretto, cerchiamo di interpretare il suo sorriso enigmatico. Nell’osservare il Ragazzo del Turkana, vissuto 1,6 milioni di amni fa in Africa Orientale, e appartenente a Homo ergaster, ci emoziona sapere che fu probabilmente il primo umano a controllare il fuoco, e quindi a dare una svolta decisiva alla nostra linea evolutiva. Nella Caverna delle Ossa (Pestera cu Oase) in Romania, incontriamo un Sapiens di 37 mila anni fa che aveva un trisavolo neandertaliano.

In seguito, ci imbattiamo in Otzi, lo sciamano tatuato vissuto 5.200 anni fa, emerso dal ghiacciaio di Similaun nel 1991. In Inghilterra incontriamo Cheddar Man, un Sapiens che, 10 mila anni fa, aveva ancora la pelle scura (nonostante la latitudine), i capelli neri e riccioluti e gli occhi azzurri.

Quest’ultimo caso offre a Barbujani l’opportunità di promuovere la sua instancabile battaglia contro il razzismo. Ci rendiamo conto che tutti questi parenti lontani non erano «anelli mancanti» o umani incompleti, nella grande marcia verso il progresso (cioè verso noi Sapiens di oggi) ma esseri perfettamente adattati all’ambiente in cui vivevano.

Le immagini del libro derivano da ricostruzioni a grandezza naturale prodotte da bravissimi paleoartisti, come la francese Elizabeth Daynés. Visitando il suo atelier di Parigi, ho potuto constatare di persona quanto sia laborioso ottenere una fedele replica di un Neanderthal. Volto e corpo sono modellati con i metodi delle scienze forensi. La struttura ossea viene ricoperta con una fedele replica dei nostri tessuti. Peli e capelli vengono inseriti con precisione. Il tocco finale è costituito dagli occhi, anch’essi incredibilmente realistici. Questo può avvenire grazie alla paleogenomica, che ci permette di conoscere con esattezza il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di un reperto. In particolare, forse solo noi Sapiens siamo dotati di una sclera perfettamente bianca, un dettaglio che si rivelerà importante per la nostra socializzazione, poiché aumenta le capacità espressive dei nostri occhi.

Le tecniche isotopiche forniscono molti indizi sullo stile di vita dei nostri progenitori. Conoscendo l’ambiente e il clima, tra le diverse ere glaciali e interglaciali, possiamo valutare i loro spostamenti sul territorio, la loro dieta e i loro impatti sull’ambiente. Con le analisi dei loro denti — vere «scatole nere» della vita riusciamo a determinare quando raggiungevano l’età dello sviluppo e perfino rilevare eventuali sofferenze fetali. Possiamo quindi generare sia modelli sulla loro evoluzione biologica (grazie alla paleoantropologia) sia modelli sulla loro evoluzione culturale (grazie all’archeologia) con lo studio di strumenti litici, arte rupestre e altri prodotti materiali.

Ma è stata la paleogenomica a dare il maggiore contributo a questi studi, con l’uso di nuove tecniche di sequenziamento del Dna e dell’intelligenza artificiale per analizzare i Big Data genetici. Il confronto del nostro genuina con quello dei Neanderthal e dei Denisoviani svela non solo la promiscuità delle diverse specie umane, ma anche effetti che ci riguardano direttamente. I frammenti di Dna ereditati dai Neanderthal sono associati, fra l’altro, alla nostra predisposizione al diabete, alla cirrosi epatica, alle dipendenze e ai sintomi più gravi del Covid-19. In passato, ci sono stati anche effetti positivi, che hanno accelerato l’adattamento dei nostri antenati agli ambienti glaciali dell’Eurasia. Questi però sembrano diventati controproducenti nel mondo attuale, caratterizzato da minori rischi di sopravvivenza nell’ambiente naturale e da maggiori rischi legati alla nostra socialità e a uno stile di vita più sedentario.

La genetica permette di studiare anche le migrazioni dei Sapiens del passato profondo e l’emergere di società più complesse e gerarchiche, in presenza di surplus di risorse, già a partire da 10 mila anni fa. Le cause della straordinaria crescita demografica di questi ultimi secoli potrebbero risalire al tardo Pleistocene, quando emergono importanti differenze genetiche, anatomiche, neurali, fisiologiche e comportamentali tra noi e le altre specie umane estinte. La singolare rotondità del nostro cranio, dovuta al rigonfiamento della corteccia parietale, si associa, ad esempio, alle componenti cerebrali coinvolte nell’integrazione visuo-spaziale e nel coordinamento cervello-corpo-strumenti-ambiente. Questo comincia a favorire una maggiore socialità e una migliore integrazione con l’ambiente. A queste trasformazioni viene associata l’emersione di nuove capacità cognitive, quali saper contare, sviluppare una memoria prospettica, generare pensiero simbolico e persino produrre musica. I Sapiens svilupparono anche tratti anatomici più gracili, un aspetto meno minaccioso (più vicino a quello femminile) e il mantenimento di comportamenti giovanili in età adulta. Si tratta di caratteri tipici della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in alcuni animali, nella quale l’aggressività diminuisce all’interno di una certa domus, ma aumenta nei confronti dell’esterno.

Per concludere, il cantiere per la costruzione di Homo sapiens ha una lunga storia ed è ancora aperto. Come dice Edoardo Boncinelli, l’essenza dell’umano è in continuo divenire. Si tratta di un processo circolare tra biologia e cultura che coinvolge cervello, corpo, oggetti, strumenti, ambiente naturale e sociale. Dall’analisi dei singoli individui serve procedere verso l’analisi delle società che hanno saputo e voluto formare. Se questo è stato sicuramente il segreto del nostro successo, alla fine potrebbe costituire anche la ragione del nostro declino. Siamo ormai tutti vincolati alle condizioni di sopravvivenza determinate dal nostro organismo sociale, un corpo collettivo che recentemente è cresciuto a dismisura fino a formare un superorganismo, sempre più energivoro, bellicoso, conflittuale e invasivo, con effetti devastanti sul pianeta.

Anche se come individui possiamo fare poco, potremmo comunque guardarci negli occhi e usare i nostri neuroni specchio anche per generare empatia e cooperare, e non solo per dividerci in tribù eternamente contrapposte.