Gadda, Montale e il richiamo del fascismo

I due massimi scrittori italiani sono da sempre riconosciuti come oppositori del regime. In realtà, fino al 1938 ebbero rapporti alterni con la dittatura mussoliniana, che vanno da una convita adesione giovanile ai compromessi per conviverci. Un saggio ricostruisce questo legame complesso.

Mauro Querci | Panorama | primo marzo 2023

Vite parallele di fronte a illusioni e disillusioni della Storia. Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda sono i più importanti scrittori in poesia e prosa del Novecento italiano. L’autore degli Ossi di seppia e della Bufera e quello di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, incasellati come intellettuali in netta opposizione al fascismo, hanno avuto con il movimento e con il regime un rapporto ben più complesso, fatto di esaltazioni e allontanamenti, ritorni e compromessi. Lo ricostruisce Pier Giorgio Zunino, già ordinario di Storia contemporanea e studioso di movimenti politici del Novecento, che ha appena pubblicato da Laterza il saggio Gadda, Montale e il fascismo. Un arricchimento critico originale, approfondito e appassionante, per un equilibrato racconto letterario e civile del Paese. Adolf Hitler e Benito Mussolini durante la visita del Führer a Firenze del 1938. Questo episodio ispirò a Montale la drammatica e visionaria poesia La primavera hitleriana.

Dei suoi due personaggi lo studioso interroga gli epistolari arrivati fino a noi e i testi del periodo – le testimonianze più «in presa diretta» e meno filtrate di una biografia – e ne traccia le traiettorie esistenziali che spesso s’intrecciano. Con le posizioni rispetto agli esordi mussoliniani, all’affermazione della dittatura e, via via, al consenso popolare sempre più ampio, alle conquiste coloniali, allo scivolamento verso la Germania, alla follia bellica del Secondo conflitto mondiale.

Ecco, per esempio, che viene ricostruito in modo rigoroso e documentato l’entusiasmo di entrambi gli scrittori ancora ventenni verso le istanze fasciste del Primo dopoguerra.

AI di là del valore letterario del geniale narratore e del futuro Nobel per la poesia, vengono illuminati aspetti importanti delle due personalità: anche í «non addetti agli studi» ne scoprono una dimensione più sfaccettata, estranea alle etichette dove la realtà storica appare monolitica. È l’arrivo di un itinerario che parte, al contrario, da un convinto appoggio a quel movimento che pareva poter rigenerare un’Italia precipitata nella crisi, con 700 mila morti dalla Prima guerra mondiale, e poteva mettere un argine al comunismo bolscevico che nel 1920 agitava le fabbriche.

L’ex tenente in seconda Gadda, che aveva bollato il neutralista Giovanni Giolitti e i suoi trasformismi come «bojaccio», intravede nel Duce e nelle sue parole d’ordine la possibilità di reale cambiamento dopo la «vittoria mutilata» del 1919. E prende la tessera del Partito fascista nel 1921. In Montale c’è un’analoga adesione per le stesse ragioni post-belliche: da Genova, dove il poeta è tornato a vivere dopo aver combattuto in Trentino, sintetizza riguardo alla Marcia su Roma: «Speriamo nel futuro».

«Sia l’uno sia l’altro anche dopo la guerra risentono in un forte spirito nazionalista» riflette con Panorama Zunino. «Sono giovani e convintamente fascisti nei primi anni al potere di Mussolini, aderendo all’idea che grazie a questo cambiamento la disastrata realtà italiana potesse trovare finalmente un equilibrio». Ciò che convince, nel libro dello storico, è la capacità di seguire l’evoluzione dei due scrittori rispetto a un potere che si va strutturando. In quell’ideologia Gadda ritrova la sua fortissima concezione di patria e, con alterne vicende ci si identifica particolarmente, fino al 1928. E riconosce come il fascismo vinca «l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano».

Il percorso di Montale dopo il favore verso la «Marcia» è più incerto. Già nel 1923, in una lettera, confida a un amico: «La rivoluzione sono disposta a farla dentro di me tutti i giorni; ma fuori preferisco non bere olio di ricino o buscare legnate». In lui si precisa quella condizione di «outcast», di emarginato, di chi vive più che il disagio storico quello esistenziale, che in quegli anni lo portarono ad avere rapporti contraddittori, altalenanti, di adattamento alla realtà politica. Al riguardo è significativa la sua ricerca di un impiego degli anni Venti. Nel 1925 ha già stampato gli Ossi di seppia con un editore certo non allineato, qual era Piero Gobetti. Inoltre non è iscritto al Partito e ha pure firmato il manifesto di Croce degli intellettuali contro il regime… Eppure, paradossalmente, trova lavoro in un’istituzione culturale pubblica – quindi soggetta alle regole dello «spoils system», si direbbe oggi – come il Gabinetto Vieusseux. Ne diventa direttore nel 1929. E nonostante si proclami un «bigio», il suo valore è riconosciuto e raccomandato dalla famiglia Pavolini, un esponente della quale – Alessandro – diventerà in seguito ministro della Cultura del Duce.

In definitiva, in un’Italia ormai normalizzata, Montale si adatta a trovare un modus vivendi: «Avrò la pagnotta decisamente assicurata per molti anni» comunica. E, quasi mezzo secolo dopo, in un’intervista per il Nobel riconosce: «Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica, Tutti gli altri hanno vissuto prosperando all’ombra del regime».

Anche Gadda, all’indomani dei suoi pellegrinaggi come ingegnere in Sardegna e Argentina, inizia a vivere quelle che Zunino definisce «dissonanze». Precisa lo studioso: «La svolta delle leggi illiberali del ‘25 e ‘26 avevano consegnato il Paese a una dittatura aperta. Per il suo primo romanzo, La Meccanica, che sorprendentemente ha per protagonista un socialista, rinunciò anche a cercare un editore. E in alcuni suoi scritti privati parlava di “dogma del momento”, arrivando persino a dire che quei tempi erano “profondamente corrotti”».

Torniamo a Montale e al suo ruolo di direttore al Vieusseux. È qui, nell’antica biblioteca fiorentina al Palagio di Parte guelfa dove gli stranieri vengono a procurarsi volumi, nei primi anni Trenta conosce l’americana Irma Brandeis. Il poeta convive da tempo con Drusilla Tanzi, che vari decenni dopo diventerà sua moglie, ma s’innamora della giovane studiosa. Sarà lei la figura centrale nelle grandi raccolte de Le Occasioni e La Bufera: la donna-angelo, la figura salvifica che prende il nome di Clizia. Per lui, come responsabile culturale, il clima si fa pesante. Vagheggia di partire per gli Stati Uniti con la nuova compagna. Si rivolge allora a Giuseppe Prezzolini che, alla Columbia University di New York, dirige la «Casa italiana». Anche in questo caso cerca l’appoggio dì uno scrittore allora strettamente legato al regime (su un suo libro scrive anche una recensione), ma senza esito. Certi amici che lo dovrebbero sostenere non si espongono e il «salto» al di là dell’Atlantico diventa impossibile.

In queste ambigue prese di distanza, costellate di riavvicinamenti per utilità al regime, sia Gadda sia Montale ne appoggiano però un’impresa storica. «Nel 1935-36, tra Somalia ed Etiopia, con 500 mila italiani il fascismo cerca il suo posto al sole» sottolinea Zunino. «Ex combattenti della Grande guerra, entrambi i nostri protagonisti sono a favore della campagna coloniale. In Gadda si riaccende la fiamma nazionalistica e si fa banditore della conquista anche con alcuni scritti. Un punto di vista in contrasto con gli antifascisti che vivevano all’estero e vedono nella sconfitta di questa avventura la fine del fascismo» sottolinea lo storico.

La svolta anti-dittatoriale nei due autori, però, è solo rimandata. Mussolini ha deciso, scegliendo di legare il destino del Paese alla Germania. Si arriva al 1938 e un Montale ormai sull’orlo del licenziamento dal Vieusseux scrive un memoriale che indirizza addirittura al Duce. Se lui l’abbia letto o meno, si ignora. In ogni caso, una raccomandazione così tardiva, unita all’inutile tentativo di iscriversi al partito fascista, non salvano il poeta. E deve lasciare il suo incarico.

È un anno cruciale, questo. La visita del Fuhrer a Firenze, accolto dal dittatore italiano, è un trauma. Quell’episodio si trasforma in visione drammatica nella lirica La primavera hitleriana, in cui Montale evoca un «messo infernale». Il romanziere, da parte sua, vari decenni dopo dedica appunto a Mussolini il sulfureo pamphlet Eros e Priapo. E lo immortala come «Somaro Principe, Giuda imbombettato». La parabola che ha portato i due scrittori lontano dal fascismo è compiuta.

Nella tarda maturità Gadda accennerà a quel lungo e complesso legame come a «una ragazzata». La memoria seleziona e spesso riscrive la propria storia.

Il Capitale bestia onnivora

Secondo Nancy Fraser viviamo in un sistema cannibalesco che consuma senza sosta risorse umane e materiali. Anche se riesce a mascherarsi assumendo forme rassicuranti

Carlo BordoniLa Lettura | 19 marzo 2023

L’uroboro è un serpente che si morde la coda, simbolo alchemico del potere che si consuma e si rigenera. Ma anche della circolarità del tempo (Nietzsche) che si ripete all’infinito. Per Nancy Fraser, filosofa femminista della New School for Social Research di New York, l’uroboro può rappresentare bene il capitalismo. In Capitalismo cannibale (Laterza) ipotizza la sua capacità di crescere a dismisura attraverso la pratica auto-fagocitatrice degli stessi elementi che servono alla sua sopravvivenza. Cannibalizza le ricchezze della natura, soprattutto, senza provvedere a reintegrarle, assieme ai lavori di cura, le cui energie sono dirottate altrove, e persino le capacità politiche, destituite di ogni potere decisionale, con una continua opera di sfruttamento ed espropriazione a carico delle persone più deboli. Malgrado questa continua attività autodistruttiva, il capitalismo riesce a progredire e a rigenerarsi, in barba a ogni logica.

Fraser non ha dubbi: partendo da una tesi che sembrava superata, la traduce in un manifesto di critica sociale ed economica dai toni durissimi. Infatti di capitalismo non si parlava quasi più, sembrava un termine obsoleto, da «padroni delle ferriere», fuori luogo in tempi di lavoro immateriale, di finanziarizzazione e di globalizzazione. Persino la classica equazione «capitalismo uguale lotta di classe» sembrava caduta per effetto della dismissione dei termini. Che senso ha una lotta di classe senza il capitalismo?

L’ultima volta primeggiava nelle pagine del saggio di Marshall Berman Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria (il Mulino), ma erano gli anni Ottanta. Partendo da un’affermazione di Karl Marx, Berman scriveva che il capitalismo è per sua natura mutevole, proprio perché moderno. È instabile, si nutre di una modernizzazione continua, consuma risorse, idee, prodotti, mode. Crea nuovi equilibri, seguendo un processo incessante di dissolvimento e di ricreazione. Se si vuole contrastarlo è necessario cavalcare il cambiamento e magari precederlo.

Dell’idea di Berman resta molto in Nancy Fraser, grazie alla quale scopriamo che il capitalismo aveva alimentato le varie crisi che si sono succedute, compresa la pandemia, per tornare ogni volta più forte che mai. A perire sono stati semmai i suoi avversari, debitamente cannibalizzati o cooptati al suo servizio.

Perché c’è un aspetto su cui insiste: che il capitalismo non è un sistema economico, bensì un sistema sociale. Nato con la modernità, ha realizzato la prima grande frattura con il passato separando il «lavoro produttivo salariato» dal «lavoro riproduttivo non salariato», con una netta divisione dei ruoli. La produzione (retribuita) è riservata principalmente al genere maschile e i compiti relativi alla riproduzione e alla cura (non retribuiti) al genere femminile, determinando così «le moderne forme capitalistiche di subordinazione delle donne». Unitamente a un sistematico sfruttamento e a un’espropriazione delle ricchezze, al punto di privare di energia gli stessi agenti produttivi e riproduttivi da cui trae sostegno.

È in questa contraddizione insanabile, in questa continua dispersione e cannibalizzazione delle ricchezze naturali, umane e politiche che lo supportano, che il capitalismo si rafforza.

L’analisi di Fraser è radicale, svolta a tutto campo, quasi globale, nella sua comprensione degli eventi e delle tendenze. Offre al lettore una visione complessiva lucidamente destabilizzante dell’idea che abbiamo di una società tendenzialmente progressista, che deve ancora fare i conti con tante criticità e disuguaglianze.

Fraser avverte che per comprendere il reale status del nostro mondo è necessario andare a scavare nelle «sedi nascoste» della produzione. Si scoprirà che il capitalismo come forma di vita, stabilmente radicato nella mente dell’umanità moderna, nella sua capacità proteiforme, ha assunto volti rassicuranti e ha palesato soluzioni in apparenza innovative, sulle quali si è riversata la critica collettiva. Come nel caso del neoliberismo, che non è altri che il vecchio capitalismo sotto mentite spoglie, utile a deviare l’attenzione generale verso obiettivi secondari.

Alla fine Nancy Fraser non perviene a soluzioni, se non quella di «affamare la bestia». Obiettivo non facile, se dopo secoli di lotte e di faticose conquiste (in parte ritirate) dipendiamo ancora dalle idee di Marx esposte nel suo capolavoro Il Capitale.

La società attuale, sempre più individualizzata, sembra avere risolto i problemi generali a livello strettamente personale, ma sempre all’interno della stessa logica di accumulazione del valore. La privatizzazione delle vite riserva a ognuno il compito di risolvere i propri problemi, senza intaccare il sistema nel suo insieme. È una forma di sopravvivenza basata su un tacito accordo tra il singolo e il grande cannibale: l’importante è che lasci intatto il piccolo spazio personale in cui agire. In attesa della giusta soluzione, che non avverrà affamando la bestia e neppure attraverso una rivoluzione, meglio affidarci alla speranza di un lento declino. Se il capitalismo è nato con la modernità, solo la fine della modernità potrà cancellare la «sede nascosta» in cui nasce la cultura del capitalismo. È solo questione di tempo.

La famiglia Rosselli Carlo, Nello, Amelia e la libertà come religione

La nuova edizione del saggio di Giuseppe Fiori

Paolo Di Paolo | la Repubblica | 29 gennaio 2023

Che incredibile famiglia! Per metterla a fuoco, serve un romanzo polifonico, anche solo potenziale, una biografia corale, ramificata, il racconto multiforme di uno speciale «universo affettivo» che guadagna spessore storico- politico. Nelle pagine di Casa Rosselli, opportunamente riedito da Laterza, Giuseppe Fiori riesce nell’impresa di dare sostanza narrativa a un intricato albero genealogico e lo fa con uno stile vivido, crepitante; mi ha ricordato in diversi passaggi quel Vite di uomini non illustri in cui Pontiggia inventava e condensava biografie immaginate. Ma qui le biografie condensate sono tutte dal vero: e dove qualche tratto appare romanzesco, una nota a piè pagina rivela la matrice documentale e testimoniale. I fratelli Rosselli, certo, Carlo e Nello, diventati, come scrive Giovanni De Luna nell’introduzione, «un simbolo; molto presenti nella toponomastica delle nostre città». Ma prima di loro e accanto a loro la madre Amelia, le mogli Marion Cave e Maria Todesco, i figli, gli amici. Ogni pagina è fitta di date, perfino di orari, di indirizzi: la sostanza dei giorni, la membrana sottile che separa il privato e il pubblico, le serate a teatro, la lettura dei giornali, battesimi, funerali, lettere spedite e ricevute, malattie, angosce finanziarie. E la bufera della Storia che spazza via le certezze: Carlo, ragazzo del ‘99, si ritrova a fare la Prima guerra mondiale, e Nello pure, classe 1900, «l’uno e l’altro sempre in retrovia, distanti dalle linee di combattimento. Vita di caserma o di baracca; nessun rischio». Gli anni del dopoguerra, la passione per gli studi — Nello si laurea con Gaetano Salvemini! È il 21 marzo del 1923, un secolo fa; titolo della tesi “Mazzini e il movimento operaio in Italia dal 1861 al 1872”. Ed è proprio Salvemini a raccontare i Rosselli come due ragazzi di carattere: «Erano modesti ed erano onesti. Sapevano ascoltare e imparare». Il fascismo avanza, i Rosselli — parte della confraternita dei “salveminiani” con Ernesto Rossi — stringono amicizia con un coetaneo come Gobetti, ma fino al delitto Matteotti sono convinti di avere davanti una carriera di studiosi: uno da economista, l’altro da storico. Ma è dalla terribile estate del ‘24 che l’attività politica antifascista li occupa integralmente, con una rete di sodali, di compagni di strada e di clandestinità, ragazze-mogli comprese. Marion Cave, sposata con Carlo (nel ‘30 nascerà Amelia, la poetessa), è ricordata — ancora da Salvemini — come colei che teneva nascosti in casa sua i documenti, che attraversò tutta Firenze per portare una corona di fiori per celebrare Matteotti assassinato alla lapide in ricordo di Cesare Battisti. «Pronta a lasciarti bastonare insieme a noi», le riconosce Salvemini. «Per quella volta ce la cavammo».

Fiori corre narrando, e riesce a far sentire anche con la rapidità del montaggio la concitazione di queste vite di passione, di coraggio, di sprezzo del pericolo. Una fibrillazione storica che sembra assorbita dai corpi, dai gesti: l’autore offre una sorta di sismografo emotivo a parole. «I cuori scoppiano»: gli istanti fatali in cui gli umori, gli stati d’animo, le avventatezze, le scelte radicali diventano i capitoli più vorticosi di una educazione sentimental-politica che gira attorno a una serie di domande incandescenti. Fino a quale limite ci si sacrifica — e si sacrificano gli affetti — per un ideale? Che cos’è la militanza politica? «L’azione assistita dalla ragione e illuminata dalla luce morale». E la religione della libertà «come mezzo e come fine»? Religione, sì, perché — proprio guardando all’esperienza di Giustizia e Libertà — Piero Calamandrei osservò che bisognava conformare a un’idea le proprie azioni «con fedeltà religiosa». Una nobile illusione? A un loro cugino di rango come Alberto Moravia, i Rosselli sembravano per l’appunto «illusi e ottocenteschi e con un sacco di idee generose ma poco pratiche per la testa». Questo libro appassionante di Fiori, giornalista, scrittore e politico che in questi giorni avrebbe compiuto cent’anni, smentisce benevolmente Moravia nella capillare ricostruzione degli “atti”: i fratelli Rosselli e la loro famiglia alla prova del giorno per giorno. Le relazioni, le strategie, le «avventurose traversate» conciati da parere vagabondi, «i capelli arruffati, la barba di più giorni, i soprabiti sudici, frusti», gli spostamenti, gli arresti, i processi, le fughe, gli inverni al confino, le scritture segrete («ai confinati è proibito scrivere di politica»). Forse un sottotitolo nascosto di Casa Rosselli, una smagliante epigrafe involontaria è in un’espressione che Fiori usa al momento di raccontare la fondazione di Giustizia e Libertà. La pesca dalle parole di Emilio Lussu: «Noi non pensammo ad altro, nei primi anni d’esilio: complotti, attentati, insurrezione e rivoluzione». Ecco, dunque: l’età del gesto. Di più: la cultura del gesto.

Hackers: storia e pratiche di una cultura

Su Letture.org, un’intervista a Federico Mazzini a partire dal suo Hackers. Storia e pratiche di una cultura.

 

Innanzitutto, cos’è un hacker?

Buona parte del libro è dedicata a descrivere i cambiamenti del significato della parola in diverse epoche storiche e dal duplice punto di vista dei media e degli hacker stessi. Forse è più semplice cominciare da cosa non è necessariamente un hacker: non è per forza un criminale e non si occupa soltanto di tecnologie informatiche. Secondo un celebre esempio di Richard Stallman, uno degli hacker più famosi e influenti di sempre, trovare il modo di usare quattro bacchette invece di due per mangiare in un ristorante coreano è un buon esempio di “hack”: una trovata che richiede eleganza, semplicità e originalità nel rapporto con la tecnologia.

Vero è che la parola nasce in ambito informatico: ma obiettivo del libro è provare che le motivazioni e i tratti culturali dell’hacking esistevano ben prima del computer, ad esempio in comunità di appassionati di radio e di telefoni. Ho proposto così una definizione che mi potesse guidare nei cento anni di storia che prendo in considerazione: un “hack” è un qualsiasi atto originale, operato su qualsiasi tecnologia, che volto ad ottenere funzioni o performances non previste dal suo designer originale.

 

In cosa consiste la cultura hacker?

Importante corollario alla definizione precedente è che un “hack” per essere tale, deve essere comunicato e riconosciuto all’interno di una comunità. Proprio per evidenziare la lunga storia dell’hacking ho preferito parlare di “culture tecniche” piuttosto che di cultura hacker. E i tratti che caratterizzano queste culture tecniche, dai radio amatori di inizio Novecento fino agli hacker degli anni Novanta, sono sorprendentemente costanti. Composte perlopiù da giovani bianchi, maschi e di classe media, le culture tecniche novecentesche disegnano la propria gerarchia sulla capacità individuale di piegare la tecnologia al proprio volere, in costante competizione interna (tra membri della stessa comunità o di comunità contrapposte) ed esterna (con chi ha creato la tecnologia, la commercializza o tenta di renderla impervia all’intervento esterno). Un forte accento è posto sull’apprendimento pratico, attraverso l’uso e non attraverso lo studio, e sul libero accesso e scambio delle informazioni. Per questo le posizioni politiche delle comunità hacker tendono spesso verso un generico libertarianesimo estremamente diffidente verso ogni tipo di autorità centrale che possa impedire o limitare l’accesso alla tecnologia o alla comunicazione.

 

Quando e come nascono gli hackers?

Per lungo tempo si è creduto che l’hacking fosse nato dove è nata la parola “hack” riferita all’informatica: nei campus statunitensi tra gli anni Sessanta e Settanta. E in un certo senso, se ci riferiamo soltanto al computer hacking, questo è vero. Ma studiando i “phone phreaks”, appassionati di telefoni che tentavano di piegare il sistema telefonico pubblico al proprio volere al pari di quanto stavano facendo gli hacker nelle università e con i computer, mi sono reso conto che questa ricostruzione era semplicistica. Le comunità phone phreaks si sviluppano esse stesse tra gli anni Sessanta e Settanta e, nonostante siano inizialmente formate da studenti medi che non avevano niente a che vedere con le università, evidenziano caratteristiche culturali del tutto analoghe a quelle che si stavano sviluppando nei laboratori informatici universitari. Come è possibile che due comunità sviluppassero gli stessi caratteri a scapito degli scarsi contatti tra di esse? La mia risposta è che sono entrambe frutto di idee che caratterizzano la cultura statunitense: l’idea che il giovane (maschio e bianco) abbia un rapporto privilegiato con la tecnologia, che il giocare e imparare attraverso l’uso fosse una attività appropriata per la gioventù statunitense. L’idea, correlata, che l’innovazione tecno-scientifica non fosse guidata da laboratori e istituzioni, ma dal genio individuale, spesso in contrapposizione con università e centri governativi. Il gusto per l’under-dog, il singolo individuo che, a scapito dei suoi limitati mezzi e di un contesto che sembra schiacciarlo, riesce a piegare il sistema (tecnologico e sociale) al proprio volere. Andando a ritroso nel tempo possiamo vedere queste idee nella divulgazione scientifica dedicata ai giovani e nella fantascienza popolare alla fine del diciannovesimo secolo e, in maniera molto evidente, nelle comunità di radio amatori di inizio Novecento.

 

Come si è articolato il processo di mediatizzazione e parallela criminalizzazione degli hackers avvenuto dalla fine degli anni Ottanta?

I giovani che giocano con la tecnologia hanno goduto di ottima stampa per buona parte del ventesimo secolo. Anche i primi episodi di computer hacking illegale negli anni Settanta sono stati presi con bonaria sorpresa più che con ostilità o paura: l’idea che dei ragazzini potessero farsi beffe di istituzioni e centri di ricerca universitari, dominando una tecnologia ancora per molti misteriosa come quella del computer evocava la tradizionale figura del “whiz-kid”, il bambino prodigio e autodidatta che tanta parte aveva avuto nella fantascienza e nella stampa popolare. Questo inizia a cambiare quando la stampa e la popolazione si rendono conto, verso la fine degli anni Ottanta, che il computer è parte integrante della quotidianità: questi ragazzini potevano avere accesso al sistema elettrico, telefonico, sanitario o bancario e questo accesso poteva avere serie conseguenze. Non ci sono in quegli anni episodi in cui questi sistemi siano stati messi seriamente in pericolo: ma il pericolo bastava per suscitare l’attenzione, spesso sensazionalista ed eccessivamente catastrofica, degli organi di informazione, del cinema, della letteratura e infine dei legislatori.

Questo non significa però che l’hacker sia stato descritto in maniera esclusivamente negativa. Da whiz-kid l’hacker si trasformava in bandito, una figura come sappiamo sempre ambivalente, capace di ispirare sia disprezzo e paura che ammirazione e fascino.

 

Quali vicende hanno segnato la storia dei movimenti Free Software e Open Source?

La nascita dei movimenti Free Software e Open Source segna una nuova risemantizzazione dell’hacker, in chiave nuovamente positiva. Il movimento Free Software è fondato da Richard Stallman, allora ricercatore del MIT, a metà degli anni Ottanta, in risposta alla nascita dell’industria del software. Prima di allora la commercializzazione dei computer riguardava solo l’hardware: il software era fornito gratuitamente con la macchina e il suo codice era “aperto”, di libera consultazione per chiunque fosse in grado di leggerlo ed eventualmente modificarlo. Con il diffondersi dei personal computers e la nascita di un’industria dedicata, il software veniva fornito protetto da diritti di autore che ne impedivano la modifica. In luogo di piegarsi a questa imposizione, che vedeva come pericolosa per la sua comunità (hacker) di appartenenza, Stallman decise a creare un sistema operativo libero da diritti di autore, che chiamò GNU, e una comunità che lo curasse e lo facesse crescere – la Free Software Foundation. Inaspettatamente il risultato più importante della fondazione non fu un software, ma un dispositivo legale. Il sistema operativo non vide infatti mai la luce, e sarebbe stato completato indipendentemente dal movimento, sotto il coordinamento di Linus Torvald e con il nome di Linux. Ma Linux non sarebbe stato possibile senza l’apporto dei programmi scritti dalla FSF e soprattutto senza la protezione della licenza creata da Stallman, la GNU Public License. La GPL è un vero e proprio hack sulla legge: laddove questa è disegnata per proteggere il diritto di autore la GPL serve a renderlo impossibile e a convertire programmi proprietari in programmi “free”. Chiunque usi del codice protetto dalla GPL è obbligato a rendere l’intero programma all’interno del quale inserisce il codice leggibile e modificabile.

Il movimento Open Source nasce alla metà degli anni Novanta, almeno in parte in contrapposizione al movimento Free Software e in seguito al successo di Linux come esperimento di creazione collettiva e gratuita di un sistema operativo. Il problema che si poneva al tempo era: come convincere attori istituzionali e grandi corporation a adottare Linux e il modello Open Source? La risposta fu: liberandosi in primo luogo dei significati etico-politici che Stallman aveva infuso nel concetto di Free Software. Open Source significava sì che il codice era leggibile e modificabile, ma in nessun modo che esso doveva essere gratuito, e men che meno che ogni software che utilizzasse codice Open Source fosse obbligato a rendere l’intero programma Open Source. Da un certo punto di vista Open Source significa un arretramento rispetto alle aspirazioni di apertura e democrazia del Free Software. D’altra parte è innegabile che il restyling sia stato un successo: molti attori istituzionali e industriali usano Linux e altri programmi Open Source.

 

Cos’è l’«hacktivismo»?

Per hacktivismo si intende genericamente l’hacking messo al servizio di cause politiche. Il termine nasce negli anni Novanta da un gruppo di hacker texani, il Cult of the Dead Cow, ma le culture tecniche avevano cominciato a occuparsi di politica ben prima. Uno dei punti centrali del libro è che le modalità della comunicazione politica di gruppi hacker recenti (ad esempio Anonymous) ha i suoi natali nelle riflessioni della controcultura statunitense degli anni Settanta e in particolare negli Yippies. Il loro fondatore, Abbie Hoffman, aveva teorizzato il “monkey theatre”: una forma di comunicazione politica basata sullo scherzo oltraggioso ed esagerato, volto a dare visibilità mediatica a un gruppo minoritario e di nicchia. Si trattava, nei fatti, di un hack sui media: conoscendo a fondo il sistema mediatico, gli Yippies furono capaci di usarlo a proprio vantaggio, ad esempio minacciando di versare LSD nell’acquedotto di Chicago, o di travestirsi da taxisti per rapire dei politici. La serissima reazione di media e istituzioni a quelle che erano evidentemente assurde provocazioni dava al gruppo una visibilità che era sproporzionata rispetto ai suoi numeri o al suo ruolo nella politica del tempo. Al contempo dimostrava a chi capiva lo scherzo la stupidità del sistema e dei suoi protagonisti istituzionali. Abbie Hoffman fu anche il fondatore di una delle più importanti pubblicazioni dedicate ai phone phreaks, YIPL, e della cultura tecnica che si sarebbe formata attorno ad essa. E anche se molti hacker non conoscono direttamente Hoffman, il suo monkey theatre si ritroverà come strumento fondamentale del successivo hacktivismo. Il Cult of the Dead Cow dichiarerà ad esempio di essere in grado di “inoculare l’Alzheimer” in tutti i presidenti statunitensi, o di mettere in ginocchio Microsoft attraverso un software chiamato “Back Orifice” (orifizio posteriore). Anonymous debutterà con la minaccia di “smantellare Scientology ed espellerla da Internet”. Nessuna di queste minacce aveva la minima possibilità di essere realizzata: ma ebbero successo nel richiamare l’attenzione divertita, spaventata o oltraggiata degli organi di informazione, determinando infine il successo dei gruppi, l’allargarsi delle loro fila e la diffusione del loro messaggio.

 

Che rilevanza assume, oggi, l’hacking?

Se ci liberiamo dell’idea che l’hack è soltanto un crimine informatico, ci accorgiamo che l’hacking è oggi dappertutto. Circa la metà di tutti i server che quotidianamente visitiamo quando entriamo in un sito web gira su Apache, un software Open Source nato grazie alle culture hacker. Linux è recentemente atterrato su Marte, installato dalla NASA sulla propria strumentazione. Le pagine di Wikipedia sono proposte sotto licenza Creative Commons, direttamente ispirata alla GPL di Stallman. I concetti di Open Access e Open Science, adottati esplicitamente come linee guida dall’Unione Europea, hanno origine nelle comunità hacker.

Ma non è solo questo: oggi la parola hacker, è applicata ai fenomeni più diversi, dalla modifica genetica (bio-hacking) ai consigli di economia domestica (life hacking) alla guerra e alla politica internazionale (hacking di stato). Non si tratta più di comunità relativamente ristrette e omogenee: tra di esse si trovano militari e spie professionisti, amatori, imprenditori rampanti o affermati, scienziati… ognuno con i propri valori, obiettivi e “cultura hacker”. Per questo ho deciso di chiudere la ricostruzione storica con Anonymous, attorno agli anni Dieci del nuovo millennio: la definizione di hacking che mi ha guidato nella ricerca non si applica più a tutti i fenomeni a cui la parola è oggi (a volte impropriamente) applicata. Il destino di tante sub-culture è quello di essere riassorbite dalla cultura mainstream, diventandone parte integrante: si pensi al rock and roll o alla sub-cultura geek/nerd. Con l’hacking il processo di riassorbimento è stato particolarmente difficile: la sua natura tecnica ha fatto sì che esso rimanesse a lungo un oggetto misterioso e in qualche modo isolato e deformato nel dibattito pubblico. Sono convinto che, grazie all’onnipresenza del computer e di una più ampia cultura digitale, l’hacking sia ormai diventato parte della cultura mainstream e della nostra quotidianità. Anche per questo ho deciso di scrivere il libro.

Relazioni pericolose

Un saggio di Valentine Lomellini sottolinea che la posizione morbida assunta da molti Paesi verso la guerriglia palestinese convinse gli arabi che la violenza indiscriminata fosse un valido strumento diplomatico

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 6 febbraio 2023

Davvero strano il fatto che gran parte dei libri di storia sugli ultimi cinquant’anni, costretti a fare i conti con il terrorismo internazionale del dopo 11 settembre 2001, abbiano del tutto (o quasi) trascurato le analoghe forme di violenza che hanno contrassegnato il trentennio precedente all’abbattimento del Torri Gemelle. Si tratta di fenomeni terroristici che ebbero caratteristiche in parte diverse: laico e social rivoluzionario il primo, quello arabo-palestinese; di radicalizzazione religiosa il secondo, quello islamista. Ma i due fenomeni hanno avuto altresì evidenti punti di contatto. In più hanno conosciuto un abbondante ventennio, gli anni Ottanta e Novanta, di accavallamento. Ed è di questo che si occupa Valentine Lomellini in un importante libro, La diplomazia del terrore. 1967-1989, in uscita il 17 febbraio per Laterza.

Il terrorismo arabo-palestinese, scrive Lomellini, «fu il primo a internazionalizzare la propria lotta». E, pur con una matrice diversa, «la sua eredità appare evidente nello sviluppo nella successiva ondata di terrorismo, quella religioso-islamista». La «rimozione del terrorismo arabo-palestinese e l’assenza di un discorso pubblico ad esso relativo hanno avuto un effetto deformante sugli studi che si sono occupati del terrorismo islamico dopo l’11 settembre». Se è vero che l’attacco alle Torri Gemelle costituì «un evento senza precedenti nella storia del terrorismo per target, numero di vittime e conseguenti reazioni», fingere «che esso sia stato un’autentica sorpresa» genera inevitabilmente «una distorsione nella lettura del fenomeno». A questo punto va resa esplicita una cosa evidente: il terrorismo arabo-palestinese e poi quello islamista «avevano optato per l’esportazione della propria lotta quarant’anni prima che Al Qaeda abbattesse il complesso del World Trade Center». Contestare questo dato o cercare di annacquarlo equivale a negare sia la storia che la memoria.

Un tema, questo, già affrontato da Francesco Benigno in Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi). Ma allora perché una riflessione del genere non si è affacciata in importanti libri come L’Europa nel vortice. Dal 1950 ad oggi di Ian Kershaw (Laterza)? O Tensioni globali. Una storia politica del mondo 1945-2020 di Wilfried Loth (Einaudi)? Non è comprensibile che una correlazione così rilevante, a causa di una evidente sottovalutazione, non sia stata approfondita da John L. Harper in La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico (il Mulino). Quantomeno Antonio Varsori in Storia internazionale. Dal 1919 a oggi (il Mulino), Eric J. Hobsbawm nel celeberrimo Il secolo breve. 1914-1991 (Rizzoli) e Marcello Flores in Il secolo mondo. Storia del Novecento (il Mulino), si sono sentiti in dovere di citare il fenomeno. E per questo meritano una menzione che contiene un qualche riguardo da parte di Valentine Lomellini.

Nessuno (o quasi) ricorda — sottolinea Lomellini — che il terrorismo internazionale «ha per prima colpito l’Europa». E ha prodotto «una serie di attentati con un esito più o meno tragico in termini di vittime per vent’anni» Con un impatto forse relativo per quel che riguarda i morti. Può essere — concede l’autrice — che questo spieghi, almeno in parte, perché l’Europa sia stata così recalcitrante a prendere in considerazione il fenomeno. E perché, quando lo ha fatto, l’Europa si è mossa con i piedi di piombo. Di più: il nostro continente, ad evitare nuovi attentati, ha cercato un’intesa pacificatrice con i Paesi che furono a ogni evidenza i mandanti di alcuni atti terroristici. Ma perché ridimensionare fino quasi a ignorare fatti che hanno insanguinato l’Europa per una trentina d’anni?

Nella teorizzazione quelle forme di terrorismo furono concepite in ambito arabo-palestinese già nella prima metà degli anni Sessanta. Nel luglio del 1968 il Fronte popolare per la liberazione della Palestina inaugurò l’epoca della messa in pratica di quelle forme di terrorismo con il dirottamento di un volo della compagnia israeliana El Al partito da Roma e diretto a Tel Aviv. In quel momento — scrive Lomellini — il Vecchio Continente diventava uno degli scenari di lotta. Ben 47 anni prima dell’attacco al Bataclan di Parigi (novembre 2015), «gli europei diventavano ostaggio del terrorismo mediorientale». La cui variante religiosa sarebbe nata dopo il 1979. Evolvendosi in forme differenti sino ad Al Qaeda e all’Isis.

Fu solo nei mesi successivi alla strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972 che l’Europa mise in piedi un network informale per affrontare il tema del terrorismo internazionale. Anche se da documenti declassificati nel 2014 si evince che già nel 1965 il ministero dell’Interno italiano aveva proposto, in una riunione a Roma nel quadro del Mercato comune europeo, «un accordo di collaborazione» fra gli organi di sicurezza di sei Paesi: Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Segno che, in margine a questo problema, qualcosa era stata intuita già alla metà degli anni Sessanta. Ma fino agli anni Settanta i movimenti contestatori di orientamento rivoluzionario costituivano la principale preoccupazione dei governi occidentali. Con l’eccezione (già nel 1969), nota Lomellini, della Gran Bretagna che, pur afflitta dalla questione nord-irlandese, si mostrò attenta al fenomeno emergente del terrorismo arabo. Rivelandone «una buona conoscenza».

Al centro dell’attenzione dei Paesi europei era però il «ruolo del Cremlino nella genesi della sovversione internazionale». L’autrice cita ad esempio la convinzione del ministro dell’Interno francese che dietro la «guerra politica permanente», fatta di «intossicazione pianificata dell’opinione pubblica, penetrazione insidiosa nella società e manipolazione dei réseaux rivoluzionari e terroristici», vi fosse l’Unione Sovietica. Già alla fine degli anni Sessanta, i rappresentanti olandese, belga e tedesco in seno al network di cui si è detto sottolineavano l’utilizzo di «esplosivo di fabbricazione russa» negli attentati arabi all’Aja e a Bonn; gli italiani suggerivano una diramazione nei «movimenti rivoluzionari arabi» operando una distinzione tra quelli di «osservanza moscovita» (come Al Fatah) e quelli «di tendenze estremiste», cioè filocinesi e castriste. Con l’implicita considerazione che con le emanazioni dell’Urss dovesse essere alternato un atteggiamento benevolo nei confronti di Fatah ad uno più ostile nei confronti dei gruppi più radicali. Anche se, come sarà evidente in seguito, tra queste diverse entità la separazione non era così netta come all’epoca esse stesse seppero far apparire.

Il libro cita una nota del ministero degli Esteri francese all’epoca di Maurice Schumann (1969-1973) da cui emergeva «tutta la difficoltà di prendere una posizione unica» nei confronti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e del suo leader Yasser Arafat, il quale aveva aperto un canale di dialogo con il Quai d’Orsay. La Francia si trovò in una posizione difficile a causa della sua volontà di sfruttare quest’apertura. Volontà manifestata a dispetto della «consapevolezza dell’esistenza di anime differenti in seno all’Olp, alcune delle quali utilizzavano la violenza armata come metodo di lotta e auspicavano la scomparsa di Israele». Le cose andarono proprio così: nei primi anni Settanta «il prisma della guerra fredda impediva di leggere con chiarezza la specificità del terrorismo arabo». Questo «prisma» produceva «distorsioni non secondarie nell’analisi del fenomeno terroristico». Il punto non è che Mosca non fosse coinvolta nel fenomeno. Ma adesso è chiaro che «il sostegno dell’Urss ai movimenti terroristici non implicava un’eterodirezione».

I movimenti terroristici avevano un’identità tutta loro e «perseguivano i propri scopi». Talvolta «i loro interessi e quelli di Mosca andavano nel medesimo senso di marcia». Ma spesso non era così. II Cremlino «fornì in alcuni casi un supporto diretto». Che riteneva dovesse servire «non tanto alla destabilizzazione mondiale bensì a ottenere benefici più limitati e immediati». Ad esempio «informazioni sui sistemi di intelligence occidentali, aumento del mercato della vendita di armi, sviluppo dei rapporti con gli Stati arabi che sostenevano direttamente il terrorismo mediorientale».

E qui iniziò, a dispetto del fatto che l’Europa si fosse trasformata nel «campo di battaglia» del terrorismo internazionale, la politica di appeasement dei Paesi del Vecchio Continente nei confronti delle organizzazioni palestinesi (anche le più radicali, era sufficiente che adottassero ogni volta nuove sigle) e dei Paesi ai quali esse facevano capo. Quasi sempre i Paesi europei erano in concorrenza tra loro. Ma Francia e Repubblica federale tedesca furono le più attive in questa direzione.

Solo nell’aprile 1986, dopo diciott’anni di attentati, l’Unione europea occidentale decideva di prendere posizione contro alcuni Paesi considerati sponsor del terrorismo internazionale. Ma — scrive Lomellini — lo fece «con estrema circospezione», nonostante gli Stati Uniti chiedessero una qualche risolutezza quantomeno nei confronti della Libia. Cosa impedì, si chiede la storica, un coordinamento politico contro il terrorismo internazionale tra Stati europei che condividevano storia, principi, tradizioni e il comune intento di consolidare la Comunità europea, e che si ritrovavano periodicamente?

Fermo restando che il dialogo, con l’Olp prima e quindi con l’Anp, sia stata un’ottima cosa, va ora messo in evidenza come i palestinesi avessero raggiunto il proprio obiettivo di accreditamento nei confronti dei Paesi europei, divenendo un interlocutore nel processo di pace mediorientale. Ciò che avvenne anche (sottolineiamo: anche) per effetto del terrorismo internazionale. Terrorismo che, secondo Lomellini, generò «un frutto perverso»: quello di «una stabilità basata sull’uso della coercizione terroristica». Per ottenere quella stabilità, «gli Stati europei caddero tuttavia in una contraddizione» A partire dalla strage di Monaco del 1972, poi con l’attentato contro la sede dell’Opec a Vienna nel dicembre 1975 e la crisi di Entebbe dell’estate 1976, «fu chiaro che il terrorismo era in grado di generare crisi diplomatiche internazionali». E l’Europa reagì con una politica di appeasement. M che viene naturale una domanda: quanto incise questa politica «nel generare la convinzione che il terrorismo internazionale fosse un utile mezzo di coercizione diplomatica»?

Molto. La strategia dell’appeasement «funzionò nel medio termine e garantì ai Paesi europei una certa sicurezza rispetto all’attuazione degli attentati». Talché sarebbe facile trarne la conclusione che l’appeasement «ebbe come effetto diretto la proliferazione dei movimenti terroristici di origine e orientamento islamista che hanno colpito l’Europa incessantemente e per vent’anni dall’inizio del terzo millennio». La correlazione però non è così semplice da dimostrare e non fu diretta. Inoltre, l’aiuto degli Stati considerati «empi», come l’Unione Sovietica, fu rifiutato dai jihadisti degli anni Ottanta e Novanta. Anche qui con delle eccezioni e delle sovrapposizioni. Ad esempio, Abdullah Azzam (morto nel 1989), grande combattente della guerriglia antisovietica in Afghanistan e altrettanto grande teorico della jihad contemporanea, aveva maturato le sue convinzioni islamiste prendendo parte alla Resistenza palestinese (e restandone deluso). I «casi Azzam» sono innumerevoli. Ciò rende evidente che è giunto il momento di occuparci dell’intreccio tra i due terrorismi, quello palestinese e quello islamista: Ma soprattutto del radicale cambio di atteggiamento dell’Europa nei confronti di questi fenomeni. Un tema meritevolmente messo in evidenza da Valentine Lomellini che, si spera, dovrebbe, d’ora in poi, essere affrontato dagli storici che si occupano degli ultimi sessant’anni. Senza reticenze.

La scoperta di un’altra America

Lo studioso Paolo Chiesa parte da un frammento scritto da un frate del Trecento per avventurarsi in un mistero storico appassionante. Tra indizi e riflessioni sul metodo

Umberto Gentiloni | Robinson – la Repubblica | 21 gennaio 2023

Il nuovo mondo appare una scoperta imprevista quando Cristoforo Colombo inizia il viaggio verso le Indie e si ritrova in terre sconosciute e inospitali. I confini mobili del globo si aprono verso orizzonti e prospettive ignote, tutto cambia: dai viaggi alle distanze, dalle prospettive alle compatibilità geografiche. Ma mentre il tempo ha messo in questione il rapporto gerarchico tra chi scopre e chi viene scoperto, tra Oriente e Occidente, tra la forza di chi vuole imporsi e le debolezze delle popolazioni indigene, un manoscritto di un frate milanese del Trecento, Galvano Fiamma, sembra spingere indietro le prime tracce dell’America.

Un nome compare due volte con grafie leggermente diverse, marginale e nascosto in un testo più ampio. Una breve notizia, dentro un ritrovamento prezioso: «I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia […] e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche». Ha ricostruito l’avventura del manoscritto Paolo Chiesa (Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, Laterza) in un volume che tratteggia un contesto avvincente spingendo curiosità e interrogativi ben oltre il perimetro di un medioevo misterioso e lontano.

Le tracce dell’America risalirebbero, secondo il manoscritto, a un secolo e mezzo prima del viaggio di Colombo. Ma procediamo con ordine seguendo la trama dell’autore nei suoi snodi essenziali. Prima di tutto il documento e il suo ritrovamento, una ricerca a tappe, quasi fosse una caccia al tesoro dove «non è perduta la mappa del tesoro, ma quella del mondo». Il testo va all’asta prima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna: nel 1996 da Christie’s (quasi 15 mila dollari) e due anni dopo da Sotherby’s (oltre 42 mila dollari). Le vendite contribuiscono ad attirare attenzioni e a spargere curiosità e notizie su voci riconducibili all’ambiente genovese, al passaparola tra marinai, esploratori, mercanti che si muovono dal Mediterraneo. Chiesa riesce in coda a una serie di circostanze propizie a vedere il manoscritto Cronica Universalis nel 2015, presso il prestigioso Grolier Club nell’Upper East Side a Manhattan. Lo fotografa, ne acquisisce rapidamente l’essenza, salvo poi dover chiedere supplementi d’immagini a preziosi compagni di strada che infittiscono la rete di relazioni attorno al testo e al suo racconto. Intermediari e luoghi di conservazione restano in parte nascosti, non rivelati dallo stesso autore. Il testo appare noioso e ripetitivo fino al passaggio in questione, alla possibile scoperta di un nuovo inizio: «Si tratta della più antica menzione storica di questo continente che sia stata finora trovata nell’area mediterranea».

Più che certezze consolidate l’autore riesce a condurre il lettore nei quesiti più profondi che investono le ragioni portanti della ricerca in campo umanistico. Cosa si nasconde dietro l’unicità dei manoscritti nel tempo della rivoluzione digitale e perché sono cosi preziosi? Chi era Galvano Fiamma e cosa si cela dietro un frate che riporta stralci di notizie che arrivano dal porto di Genova fino a noi in una storia lunga settecento anni? E ovviamente la questione sul rapporto tra vero e falso nei sentieri della ricerca storica e nelle domande sulla veridicità del manoscritto analizzato. Tali questioni mettono persino in secondo piano il richiamo alla Marckalada con buona pace di Cristoforo Colombo. Il manoscritto incrocia la storia del tempo presente: i rifiuti di riviste internazionali alle proposte di un saggio (ben due bocciature), il valore di un lavoro di squadra che dalla penna dell’autore diventa collettivo, il lascito di una scoperta utile a percorrere con intelligenza tracce di passato. «Nulla di nuovo su chi ha scoperto l’America, se non dimostrarci la permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest; un contatto che non passa da libri o governi, ma da esperienze di viaggio».

La trama di un tempo che riaffiora: «Una storia stretta, dove i documenti sono piccoli e pochi, ma ciascuno pesa molto; quello che dice Galvano è una tessera in più, e per questo importante. Non cambia, forse, per Colombo, ma permette di vedere le cose in un modo diverso. Dimostra un’ampiezza di scambi e una circolazione di notizie che finora si sospettavano soltanto, ma di cui non si aveva la prova; dimostra che viaggiatori e studiosi comunicavano fra loro, e l’esperienza degli uni valeva alla conoscenza degli altri».

La guerra delle tasse: i trent’anni che hanno cambiato il mondo

Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato | Domani | 3 febbraio 2023

La mia nipotina ha 11 anni, è figlia unica, ha due zii che non hanno figli e due prozie che non hanno discendenti diretti: nel corso della sua vita, dopo alcuni passaggi intermedi, erediterà i beni di sette famiglie, prevalentemente immobili, e quindi sarà una donna molto più benestante rispetto alle famiglie di origine. Se le leggi non cambieranno, non dovrà pagare tasse di successione di ammontare rilevante. Se deciderà di utilizzare uno degli immobili ereditati come prima casa, non pagherà nemmeno l’imposta immobiliare. Se sceglierà di affittare gli altri immobili ricevuti, pagherà un’imposta ridotta sui proventi degli affitti, e lo stesso accadrà se investirà parte delle eredità in titoli. Praticamente tutto ciò che potrebbe decidere di fare con i guadagni delle eredità sarà, dal punto di vista fiscale, più vantaggioso che lavorare.

Per le persone della mia generazione, che hanno vissuto il periodo in cui le diseguaglianze in Italia, e non solo, si sono ridotte, si tratta di un risultato paradossale. Un esito che in parte dipende da fattori demografici – la riduzione dei tassi di natalità conduce inevitabilmente a un aumento della concentrazione della ricchezza – ma anche dal fatto che i sistemi fiscali sono diventati sempre più sfavorevoli al lavoro.

Il lavoro è infatti quell’attività da cui il nostro Paese continua a estrarre più risorse da investire in sanità, scuola, sicurezza, per finanziare i servizi essenziali a disposizione di tutti. In un mondo in cui la quota di redditi da lavoro si sta riducendo, significa che per tenere in piedi il Paese chiediamo sempre più a una sola fonte di ricchezza, quella prodotta dal lavoro quotidiano, e a una platea che non corrisponde alla totalità dei cittadini.

Se niente cambierà, quello che consegneremo a mia nipote e anche ai vostri nipoti sarà un Paese reduce da una guerra combattuta più o meno in sordina, che dura da anni: la guerra delle tasse. Vinta dai privilegiati ma anche, battaglia dopo battaglia, eccezione dopo eccezione, da tutti quelli che sono riusciti ad ottenere da una classe politica in ostaggio di pressioni lobbistiche una miriade di eccezioni particolaristiche che hanno reso il fisco di questo Paese un castello di piccoli e grandi privilegi.

La posta in gioco della guerra delle tasse è molto alta: il sistema fiscale di un Paese è esattamente lo specchio del patto sociale, o comunque dell’assetto politico-sociale, di una comunità. Lo è dalle origini della civiltà: le tasse nascono con le prime comunità dell’homo sapiens per finanziare esigenze condivise, perfino di carattere solo rituale. Le imposte sono, quindi, un elemento costitutivo della vita sociale perché la verità è che senza tasse non può esistere una società organizzata. Le tasse rappresentano “un sacrificio individuale” per il raggiungimento di un fine collettivo.

La ricerca storica e archeologica conferma insomma che sulle tasse si costruiscono gli equilibri sociali, e i sistemi fiscali che si sono susseguiti nella storia ci rivelano, come fossero l’equazione che spiega un fenomeno del mondo fisico, la natura della nostra organizzazione sociale.

E la nostra formula del patto fiscale, che è appunto un patto sociale, è stata negli ultimi quarant’anni profondamente modificata a favore di alcuni e a sfavore di altri, sia sullo scenario internazionale sia in Italia, e con essa i rapporti di forza tra le parti sociali sono profondamente cambiati. Lo Stato, oggi, impone ad alcuni di contribuire per i servizi di tutti, a partire dalla sanità pubblica che ha fatto da argine alla pandemia, e ad altri invece no, o in misura ridotta.

L’inizio. Questa guerra delle tasse che ha modificato il nostro patto sociale parte da lontano e non è ancora finita. Una delle più importanti battaglie dovrebbe essere, ma non è detto che lo sarà, la riforma del fisco, su cui almeno per certi aspetti il nostro Paese si è impegnato con il Piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Unione europea. Ma per capirla nella sua complessità, per comprendere la situazione italiana con tutte le sue peculiarità e anche il contesto internazionale che l’ha influenzata, bisogna partire dall’inizio.

La storia della tassazione del Novecento va di pari passo con le grandi fratture del secolo. E non potrebbe essere diversamente. Negli anni Venti del secolo breve, per usare la categorizzazione dello storico britannico Eric Hobsbawm che risulta calzante anche per l’evoluzione dei sistemi fiscali, la maggioranza dei Paesi industriali aveva una imposta generale sul reddito personale. Con i conflitti mondiali e in particolare durante la Seconda guerra mondiale, l’imposta generale sul reddito personale è diventata una delle principali fonti di risorse per gli Stati. Ma l’altra caratteristica comune alle nazioni uscite dal secondo conflitto mondiale è che queste imposte erano progressive e che questa progressività si traduceva in moltissimi scaglioni di aliquota, contrariamente a quanto accade oggi nei Paesi sviluppati. Per dare un’idea del diverso patto sociale: negli Stati Uniti nel 1944 e 1945 gli scaglioni erano 24 e le aliquote, cioè la percentuale di tassazione sul reddito compreso nello scaglione, variavano dal 23 al 94%. Venti anni dopo, tra il 1965 e il 1974, gli scaglioni erano comunque 26, l’aliquota minima era scesa al 14% e quella massima al 70%. In Italia tra il 1974 e il 1982 l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) aveva 32 scaglioni, un’aliquota minima del 10%, e una massima del 72%.

Questo schema, insieme ai contributi sociali sui redditi di lavoro, è stato la base per la creazione del sistema di welfare del nostro Paese e in generale della maggioranza delle democrazie liberali occidentali: cioè amministrazione pubblica, infrastrutture, scuola pubblica e, in Europa, anche servizi sanitari nazionali. Attorno agli anni Ottanta però la formula è cambiata: le tasse, soprattutto la loro progressività, hanno iniziato a ridursi in maniera vistosa, se non a scomparire.

Prima di tutto, per rendere i sistemi fiscali più semplici – obiettivo condivisibile – la maggioranza degli Stati ha iniziato a ridurre il numero degli scaglioni, anche a scapito della equità che per forza di cose si è ridotta assieme ad essi, costringendo nelle stesse classi di aliquota cittadini con redditi anche molto diversi tra loro. Ma assieme alla semplificazione c’è stata un’altra tendenza: la riduzione delle tasse per i cittadini più ricchi. La riduzione del numero degli scaglioni, e delle aliquote più elevate, implica, a parità di gettito (e talvolta, come in Italia, anche nel caso in cui il gettito complessivo venga ridotto), un aumento del prelievo sui ceti medi, fermo restando il livello del prelievo per i più poveri.

In quegli anni iniziano ad essere progressivamente esclusi dal sistema di estrazione delle risorse, e quindi dal patto sociale, i redditi da capitale. Le imposte sulle società iniziano a diminuire in maniera rilevante rispetto a quelle pagate dai lavoratori. Il motivo iniziale è la liberalizzazione dei mercati di capitali: quelli sono mobili, i lavoratori no. E quindi il fisco rinuncia progressivamente a tassarli. Per dirla in breve: la tassazione sul capitale e quella sul lavoro hanno imboccato allora due binari molto diversi, perché il patto sociale e i rapporti di forza tra i due è cambiato radicalmente.

I dati raccolti negli anni dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale (Fmi) non lasciano molti dubbi. L’aliquota dell’imposta sulle società è passata in media dal 40- 50% di allora al 20-30% attuale. In sostanza le democrazie liberali occidentali hanno deciso che le tasse devono pagarle soprattutto i lavoratori e lo hanno fatto mentre la quota di reddito da lavoro, tra globalizzazione e automazione, si è notevolmente ridotta: negli anni Ottanta pesava per il 65-70% dei redditi prodotti, oggi si attesta anche a meno del 50%. Un calo di 10-15 punti in tutto l’Occidente.

Oltre alle ragioni “tecniche” che hanno motivato queste scelte, ciò che è interessante e che va tenuto presente ancora oggi ogni volta che sentiamo un politico promettere che abbasserà le tasse – spesso anche senza specificare quale categoria di cittadini potrà usufruire del vantaggio rispetto agli altri –, è il clima culturale che ha portato al cambiamento dei nostri sistemi fiscali.

Il caso Biebow e la contabilità del male

Lo sterminio attuato dai burocrati di Hitler

Gianni Santamaria | Avvenire | 17 febbraio 2023

Nella ricerca sul nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei la lente degli storici si è nel tempo, a partire dagli anni ‘80-‘90 sempre più puntata sull’aspetto economico. Di recente Johann Chapotout in Liberi di obbedire (Einaudi 2020) ha messo al centro una figura emblematica di quel sistema che univa efficientismo e sistemi manageriali, mettendoli al servizio della causa di Hitler: Reinhard Höhn, che – fattala franca – nel dopoguerra fu un affermato formatore di dirigenti d’impresa. Ora la storica Anna Veronica Pobbe, utilizzando una vasta mole di documenti, pubblica uno studio che dà conto di come questa «galassia, composta da manager, banchieri, professionisti e dirigenti di grandi gruppi industriali, ebbe un peso non indifferente nelle politiche attuate dal Terzo Reich; come dimostra la grande importanza che venne accordata a questioni quali la contabilità, la ricerca delle più piccole economie e il recupero sistematico di tutti i sottoprodotti; oppure ancora l’efficacia tecnica dei centri di sterminio che si ispirò al modello delle fabbriche». Punto di partenza di Un manager del Terzo Reich è la figura di Hans Biebow, l’amministratore del ghetto di Lodz (Litzmannstadt). Quando nel 1947 le autorità giudiziarie polacche lo portarono alla sbarra, lo considerarono tra i dieci peggiori criminali nazisti in circolazione, alla stregua di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, di ArthurGreiser, Gauleiter della Wartheland (una delle suddivisioni del Paese occupato) e di Hans Prank, governatore generale della Polonia. E, infatti, lo impiccarono. Rispetto al già citato Höhn, che apparteneva alle Ss, Biebow era però un semplice civile, un Kaufmann, un commerciante, come lo definisce l’autrice. Un uomo comune, insomma, che nella foto di copertina appare in giacca e cravatta, ben rasato, mentre in primo piano un uomo dalla barba incolta porta un cappottone con sopra una stella gialla.

Quella di Biebow è una figura sinora trascurata dalla storiografia, con l’eccezione di Christopher Browning al quale, nota l’autrice, si deve l’elaborazione della nuova categoria criminale del “ghetto manager”; che, nota, ha dei limiti, ma che ha contributo a rompere la rigidità degli schemi interpretativi Le Ss, giustamente avvolte da un alone di tenore, erano state, infatti, almeno fino al caso Eichmann, una sorta di capro espiatorio di tutte le responsabilità. Che pian piano, sulla scorta di concetti come la “banalità del male” hanno preso, invece, sono state attribuite anche alla Wehrrnacht e ad attori civili, zelanti esecutori di ordini. Burocrati, sì, ma ben selezionati per le loro capacità organizzative e parte attiva nell’ideologia di regime. A muoverli era anche l’ambizione, come dimostra proprio la vicenda di Biebow. La sua direzione del ghetto fu, infatti, improntata a criteri manageriali e si mosse sotto le direttive ideologiche e funzionali dettate da Greiser. Non sempre fu così per le amministrazioni dei ghetti e in genere per i “quadri amministrativi” scelti dal regime, che spesso invece finirono con l’avere attriti con i gerarchi che li consideravano «burocrati strapagati». Biebow invece riuscì a far durare il ghetto fino al1944, ben oltre l’inizio dei massacri su larga scala, tanto da essere preso in considerazione da Himmler per guidare il ghetto “modello” di Terezin (Theresienstadt). In realtà la produttività del ghetto era molto esagerata e frutto di un’operazione di propaganda. Tale longevità, sottolinea Pobbe, fu dovuta non tanto alla volontà ebraica di sopravvivere, quanto al passaggio da una mentalità di espropri “selvaggi” a un «sistema basato sulla produzione industriale». Il disprezzo di Biebow fu esplicito non solo verso gli ebrei, che fece deportare nei lager della morte, ma anche nei confronti degli zingari, considerati inabili al lavoro e per questo confinati una zona apposita. Di lui si diceva che avesse reinvestito i profitti accumulati per rendere lussuosa la sua casa di Brema, città dove era nato nel 1902, e che fosse dedito all’alcol, facile agli scatti d’ira e umiliasse le prigioniere ebree facendole denudare per il piacere perverso di guardare corpi femminili smagriti dalle privazioni. Nel processo venne descritto come «l’esempio perfetto delle “bestie bionde” naziste – conclude Pobbe – nonostante poi sia stato principalmente condannato perché facente parte di un’associazione criminale». Un profilo, in conclusione, che non si adatta a una sola categoria di persecutore – assimilabile com’è anche ai medici nazisti e alle guardie dei campi di concentramento – e che mostra tutta la complessità del Terzo Reich e della sua pratica genocidiaria.