La guerra dei sessi: un podcast degli Editori Laterza

È ora disponibile su RaiPlay Sound La guerra dei sessi, un podcast degli Editori Laterza.

Nella storia dell’umanità il conflitto tra donne e uomini si è declinato in forme assai diverse, coinvolgendo tutte le dimensioni della vita: dalla famiglia alla politica, dall’economia alla cultura e naturalmente la stessa sessualità.

Attraverso storie straordinarie e affascinanti, la serie podcast in 9 episodi racconta questo conflitto mostrando tutte le differenze di ogni epoca ma anche le ricorrenze nei modi e nei temi del rapporto tra donne e uomini.

Vedremo come il sesso ha giocato da sempre una parte rilevante nell’assegnare il potere politico, economico e culturale. Passeremo attraverso la mitologia e gli atti dei processi, il teatro e la letteratura, raccontando vicende a volte molto note a volte sconosciute ma sempre capaci di catturare il nostro immaginario e farci riflettere sull’oggi.

TUTTI GLI EPISODI QUI

 

Concorso EconoMia – Eco-Quiz | Edizione 2023

Festival Internazionale dell’Economia di Torino

1 – 4 giugno 2023

RIPENSARE LA GLOBALIZZAZIONE

 

XI^ Edizione Concorso EconoMia | Per le scuole secondarie di secondo grado

II^ Edizione del Concorso Eco-Quiz | Per le scuole secondarie di primo grado

Le iscrizioni sono aperte e si chiudono il 18 Marzo 2023

La XI^ Edizione del Concorso EconoMia si terrà nell’ambito del Festival Internazionale dell’Economia in programma a Torino dall’1 al 4 giugno 2023. Tema del Festival e del Concorso: Ripensare la globalizzazione, argomento di rilievo e attualità per i giovani del nostro Paese. Il Concorso si rivolge agli studenti degli ultimi due anni di licei, istituti tecnici, professionali e dell’ultimo anno della Istruzione e formazione professionale, con la finalità di diffondere in tutte le scuole italiane la cultura economica, poco presente nei curricoli scolastici. I 20 vincitori avranno in premio viaggio, vitto e alloggio per tre giorni e due notti nei giorni del Festival e un premio in denaro di 200 Euro. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha inserito EconoMia tra le competizioni del Programma nazionale per la promozione delle eccellenze.

Il Concorso è organizzato dal Torino Local Committee (TOLC, Comitato promotore del Festival Internazionale dell’Economia di Torino), Editore Laterza (responsabile della progettazione e organizzazione del Festival Internazionale dell’Economia) e Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, in collaborazione con Ministero dell’Istruzione – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionale di istruzione, Fondazione Agnelli, Museo del Risparmio, Istituto Tecnico Economico “Bodoni” di Parma, AEEE-Italia.

I materiali di studio su cui si svolgono le prove consistono in pagine di testi, siti web, webinar e adottano la metodologia del debate. Le prove si svolgono in modalità online in un’unica data nazionale verso la fine di aprile e consistono in item a risposta univoca e a risposta aperta, ciascuno dei quali ha il peso del 50% sulla valutazione finale.

Il sito del Concorso www.concorsoeconomia.it contiene il Regolamento, le modalità di iscrizione, i materiali di studio, le date dei webinar.

Le precedenti edizioni del Concorso EconoMia hanno visto la partecipazione ogni anno di circa un migliaio di studenti, appartenenti a 100 – 150 tra licei e istituti, di tutte le regioni italiane. I premiati sono risultati ragazze e ragazzi di Liceo Scientifico, Liceo Classico, Liceo Economico Sociale e di Istituti tecnici e Professionali.

Si consolida anche il Concorso Eco-Quiz, organizzato da Museo del Risparmio, Istituto comprensivo Toscanini-Einaudi di Parma, Fondazione per la Scuola della Compagnia di Sanpaolo e AEEE-Italia, che sarà rivolto agli studenti delle scuole secondarie di primo grado per avviare per tempo le ragazze e i ragazzi alla conoscenza dei temi economici, arricchendo così il curricolo di educazione civica con i temi della realtà economica e finanziaria.

Sul sito Eco-Quiz | Concorso EconoMia è pubblicato il Regolamento di Eco-Quiz.

Laterza in libreria: un podcast

Parte Laterza in libreria: ogni mese un podcast originale di dieci minuti, ricco di curiosità sulle nostre novità, scritto e curato da Emilio Fabio Torsello.

Su Spotify la prima puntata, dedicata alle uscite nel mese di gennaio 2023, dal titolo: Il manoscritto segreto che cambia la storia sulla scoperta dell’America.

Buon ascolto!

La generazione capace di preveder la fine di un’epoca

L’alba del Novecento, alle radici della nostra cultura

Claudio Natoli | L’Indice dei Libri del mese | febbraio 2023

Ha scritto Eric Hobsbawm in Il Secolo breve che la prima guerra mondiale rappresentò il crollo della civiltà occidentale dell’Ottocento: una civiltà che “si gloriava dei processi della scienza, del sapere e dell’istruzione e che credeva nel progresso morale e materiale” ed era anche “profondamente persuasa della centralità dell’Europa, luogo di origine delle rivoluzioni nelle scienze, nella arti, nella politica e nell’industria”, mentre nel contempo “la sua economia si era diffusa in tutto il mondo così come i suoi soldati avevano conquistato la maggior parte dei continenti”. Per la verità l’affermazione del liberalismo era all’epoca tutt’altro che compiuta e la realtà europea era caratterizzata da profonde diversità sul piano dei sistemi politici e degli assetti di potere, da una persistente influenza e capacità di resistenza da parte delle forze dell’ancient régime e da una configurazione delle classi dominanti che vedeva, più che una contrapposizione tra borghesia e ceti nobiliari, una rafforzata compenetrazione e una convergenza volta a sbarrare la strada al progredire del socialismo e all’avvento della democrazia. Cosicché, se si esclude la Gran Bretagna, le classi dirigenti dell’Europa si muovevano alla vigilia del 1914 in una logica di restaurazione conservatrice all’interno e di accentuata conflittualità internazionale ancora di segno Ottocentesco: valga per tutti il fatto che anche la prospettiva di una conflagrazione tra le grandi potenze veniva affrontata perlopiù nel segno di una guerra breve e vittoriosa, cosicché, riguardo agli avvenimenti dell’estate 1914, Christopher Clark ha intitolato il suo libro più noto I sonnambuli. L’intuizione del ministro degli Esteri britannico Edward Grey, secondo cui lo scoppio della guerra segnava lo spegnersi delle “luci sull’Europa” costituì un caso molto raro. Non erano per converso mancati soggetti capaci di percepire per tempo i segni premonitori di una catastrofe incombente, ma essi si collocavano nel vivo della società, in una sfera lontana dai vertici del potere, ed essi vanno individuati da una parte nella precorritrice denuncia dell’imperialismo e del pericolo di una guerra generale da parte della II Internazionale (peraltro destinata anch’essa al crollo di fronte alla prova dell’”unione sacra”), e dall’altra dalle avanguardie nel campo della letteratura, delle arti e della scienze.

Proprio a quest’ultimo tema è dedicato il volume di cui qui si discute. Il filo conduttore della ricerca è che la generazione degli anni ottanta, nei suoi esponenti di primo piano della letteratura, della pittura, della musica, della scienza e della tecnica, del cinema e del teatro, con la sue idee, le sue realizzazioni e le sue scoperte, non meno che nel modo di rapportarsi alla realtà politica e sociale esistente e al suo sistema di valori consolidati, non solo dimostrò una straordinaria percezione dell’imminente fine di un’epoca, ma pose le radici stesse della futura cultura del Novecento, e cioè di quella che si sarebbe affermata dopo il 1914 e nei decenni successivi. Come scrive l’autore, è “sulle idee generate durante il ventennio che va dal 1895 al 1914 che poggiano, in ogni campo del sapere umano, le radici della rivoluzione culturale da cui si è generata tutta la civiltà del Novecento”. Nella scienza e nell’arte, nella letteratura e nella tecnologia, nella filosofia e nel pensiero sociale e politico, si imposero principi e trasformazioni da cui fu impossibile recedere. Ciò che ne risulta è un quadro ricchissimo, che non solo segue la nascita e l’evoluzione delle avanguardie artistiche, letterarie, musicali, filosofiche e nel campo delle scienze nei principali centri dell’Europa nel periodo considerato, ma ne ricostruisce le reciproche interrelazioni, rompendo le barriere dei singoli settori disciplinari.

Si possono così seguire le nuove correnti espressive del postimpressionismo (da Cézanne a Matisse), la rottura segnata dalle Secessione viennese (da Klimt a Schiele, a Kokoschka) e gli albori dell’architettura funzionalista (Adolf Loos e Otto Wagner), la nascita dell’espressionismo tedesco (da Kirchner a Nolde), del cubismo e dell’astrattismo (da Picasso a Kandinskij e a Klee) sino all’irrompere del futurismo, le nuove frontiere nel campo della poesia e della letteratura (da G.B. Shaw a Wilde, a Gide, Schnitzler, Musil, Hofmannsthal, Rilke, Joyce, Kafka) e naturalmente in quelle della musica impressionistica, atonale e dodecafonica (Debussy, Mahler, Schonberg, Stravinskij, sino ai primi vagiti del jazz), Il tutto intrecciato con la scoperta freudiana dell’inconscio e la nascita della psicanalisi in quello straordinario laboratorio artistico e intellettuale che fu la Vienna di inizio secolo e con tutte le sue ricadute nel campo della filosofia e della sociologia (da Bergson a Husserl, da Durkheim a Simmel), a cui si potrebbe aggiungere l’affermarsi della moderna antropologia (Mauss). E infine, la vera rivoluzione nel campo delle scienze, dalla teoria della relatività alla matematica e alla fisica quantistica, con la ridefinizione dei concetti di spazio e di tempo: il tutto accompagnato da una serie di sensazionali innovazioni tecnologiche, dalla radiotelegrafia al motore a scoppio e all’aeroplano, dalle molteplici applicazioni dell’elettricità alla chimica sintetica, sino all’inaugurazione della prima fabbrica fordista. Al di là delle diverse sensibilità, il tratto che accomunava gran parte di queste esperienze artistiche e intellettuali fu la volontà di rottura con le tradizioni accademiche rivolte al passato e i sistemi di convenzioni e di valori dominanti, nonché la dissacrazione dei tabù e la ricerca di nuove forme espressive attente ai conflitti dell’interiorità: il tutto unito a una visione della modernità che aveva al centro le trasformazioni legate alla tumultuosa crescita dell’industria e delle grandi città, libera dai limiti positivistici del progresso e volta piuttosto a rimarcare il passaggio a una nuova epoca storica carica di incertezze, di lacerazioni e di conflitti, nel quadro dell’incombere della fine, se non della catastrofe, di un’intera civiltà. In questo le avanguardie artistiche e intellettuali dimostrarono una sensibilità e una capacità di percezione ben maggiore delle classi dirigenti europee. Più in generale, come scrive l’autore riprendendo la cornice interpretativa tracciata da Hobsbawm in L’età degli Imperi, il nuovo clima culturale che emergeva già prima del 1914 precorreva per molti importanti aspetti il secolo breve.

In uno scenario già così ampio e basato in massima parte su un vasto spoglio della letteratura secondaria, la contestualizzazione storica più ampia è affidata ai vivaci resoconti di alcuni quotidiani in occasione di eventi che all’epoca colpirono in misura maggiore l’immaginario collettivo (le esposizioni universali di Parigi, la prima trasvolata della Manica, il naufragio del Titanic, la cometa di Halley), mentre la “grande storia” compare attraverso alcuni brevi excursus sul colonialismo, la rivoluzione russa e le guerre balcaniche. Ciò non diminuisce il merito dell’autore di aver proposto, in una riuscita prospettiva interdisciplinare, una riflessione di ampio respiro su un tema di grande rilevanza nella storia del Novecento.

Vita e opere di Joyce Lussu

Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023

Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.

La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.

Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.

Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.

È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.

Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?

Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».

Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.

Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».

Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».

Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.

La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.

Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.

Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».

Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?

Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».

È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.

Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.

Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.

L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.

Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.

Il merito si conquista ma va riconosciuto a tutti

Le riflessioni filosofiche nel saggio di Santambrogío

Alessandra Peluso | La Gazzetta del Mezzogiorno | 6 febbraio 2023

Apparentemente un déjà-vu, ma, di fatto non passa mai di moda parlare di «merito» e al contempo, di «complotto». Per questo riprendere Il complotto contro il merito di Marco Santambrogio e soffermarsi risulta necessario. Con un titolo provocatorio quando in politica si vuole che a ogni costo passi il «merito» secondo parametri a noi sconosciuti Santambrogio trasporta il lettore in un’atmosfera ironicamente complottista. «Il complotto è il dispositivo in cui il potere si articola, si esercita, si dissimula» osserva Donatella Di Cesare, e nasce in particolare dal sentimento di paura e dall’isolamento del cittadino nel vedersi escluso dallo «spazio pubblico» (Arendt). Per questo il timore di non raggiungere le stesse opportunità che tutti meriterebbero di avere. Sorgono allora gli interrogativi: se tutti lo meritano, se può esistere un principio di uguaglianza e cosa occorra fare per avere un riconoscimento e non essere esclusi dalla società.

Il filosofo Santambrogio mostra attraverso fonti accreditate e voci di filosofi cosa sia la meritocrazia dimostrando come quelle società americana, inglese, che si presentano come meritocratiche non rispettino il principio dell’uguaglianza e sostenendo come il merito non sia qualcosa che si trasferisce da posizioni e da posti di lavoro. Il merito insomma si conquista. Con un’accurata argomentazione Santambrogio pone un’attenta disamina, snocciola la questione muovendo dai princìpi della meritocrazia e da Michael Young che critica il governo di Tony Blair per attuare una netta differenza tra ricchi e poveri e quindi impedire a tutti di emergere. Secondo Young occorrerebbe intervenire sul sistema fiscale; e, ancora, trova il piglio argomentativo in Michael Sandel che enuclea le differenze di coloro che si laureano ad Harvard e in altre Università e attribuisce la responsabilità ai genitori che sollecitano alla competizione e alla produzione, proponendo – per risolvere il problema delle differenze – di fissare una soglia di qualificazione e lasciare che sia la sorte a scegliere per eliminare o ridurre arroganza e umiliazione.

Marco Santambrogio non discute di certo sul riconoscimento della categoria del merito, bensì sulle modalità di come essa venga stimata e su ulteriori questioni che non possono essere tralasciate come appunto quella di «sopravvalutare i meriti di coloro che si trovano a occupare le posizioni migliori della società». È chiaro che tutto questo si evidenzia dalla Modernità ai nostri giorni, ovvero dagli inizi del progresso, di presenza di divario, di un’istruzione e un lavoro per tutti perché in fondo sappiamo sono diritti della Costituzione che dovrebbero essere tutelati ed estesi all’intera popolazione. E allora il merito?

Dalla modernità alla contemporaneità la società sembra far leva su concorrenza, competizione, lavoro, uguaglianza, diversità e perdonate se cito il saggio sulla Sociologia della concorrenza di Simmel che ci aiuta – sostenendo in qualche modo le riflessioni di Santambrogio – a riflettere su cosa sia la concorrenza e cosa comporti, dove devono sussistere gli stessi criteri di riconoscimento, lo stesso punto di partenza, le stesse regole tra i partecipanti, i cittadini, i singoli individui. Pertanto, non possiamo parlare né di socialismo né di liberismo che Simmel critica, ma di «autoresponsabilità» e «giustizia». Etica, diritto, politica: che vi piaccia o no non possono essere scisse, altrimenti i risultati sono sotto gli occhi di chi abbia voglia di rivolgere lo sguardo, ovvero corruzione, malaffare, inadeguatezza, risentimento, prevaricazione, ecc.

La meritocrazia ha il volto dell’umano, così quanto il potere e il complottismo. Comprendere che società vogliamo e soprattutto quali risultati raggiungere e dove si voglia andare forse questo risulta essenziale. Superare tale gap è fondamentale se vogliamo costruire uno spazio pubblico occupato da soggetti pensanti e responsabili. In altre parole, il saggio di Marco Santambrogio ci offre validi strumenti e opportunità di comprensione della complessità della «meritocrazia» e delle relazioni tra individuo, tra maestri e allievi, società.

CLUB LATERZA | Appuntamento con Valentine Lomellini

Club Laterza | La diplomazia del terrore: appuntamento con Valentine Lomellini

Alla fine degli anni Sessanta, Italia, Francia, Germania occidentale e Gran Bretagna – Paesi già colpiti dal terrorismo interno – si trovarono a far fronte a una nuova minaccia: le organizzazioni armate, nate in Medio Oriente, che internazionalizzarono la propria lotta esportando il terrorismo in Europa. Raggiunsero il loro obiettivo? Generarono il caos internazionale? O invece i Paesi europei riuscirono, almeno temporaneamente, a disarmare i terroristi, includendoli nel sistema delle relazioni internazionali?

Appuntamento giovedì 2 marzo alle 18 con Valentine Lomellini, professoressa associata di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Padova, per discutere insieme su Zoom del suo ultimo libro, La diplomazia del terrore.

>> Se sei iscritto al Club, non c’è bisogno di registrazione:
riceverai giovedì stesso il link Zoom via mail!

>> Se non sei iscritto, puoi iscriverti qui

 

 

I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia

Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»

Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023

Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».

Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».

Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?

«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».

Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?

«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».

Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?

«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».

Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?

«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».

Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?

«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».

Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?

«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».

Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?

«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».

Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?

«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».

Indagine sulle radici del sessismo

In occasione della nuova edizione di Psicosociologia del maschilismo di Chiara Volpato, pubblichiamo questo stimolante dialogo fra l’autrice e la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg

Annelore Homberg | Left | 4 gennaio 2023

Chiara Volpato perché questa nuova edizione di Psicosociologia dei maschilismo (Laterza), dopo la prima pubblicazione nel 2013?

Avevo finito di scrivere il libro nel 2012, esattamente dieci anni fa; nel frattempo è uscita nuova letteratura scientifica sull’argomento. In più, mi sembrava importante che il libro avesse una nuova vita perché in questo momento c’è una riflessione vivace su questi temi, che sta cambiando le cose. Ho aggiunto un capitolo intero sulle forme estreme del dominio. Nell’edizione precedente si parlava di oggettivazione e di violenza, ma la letteratura è cresciuta, la riflessione ugualmente, quindi ho pensato di dedicare più spazio a questi temi.

Lei apre il libro con un capitolo sulla “questione maschile” ricordando che gli studi sugli uomini inizialmente erano pochi rispetto alle ricerche sulle donne. La cito: «Essendo considerato prototipo dell’umano il genere maschile, allora le ricerche sono state più sui gruppi discriminati ma non sui maschi».

C’è stato un cambiamento a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, che ha portato a riflessioni di cui si sono occupati studiosi uomini e donne.

Questo pensiero del maschile come “prototipo dell’umano” con cui tutte le altre categorie si devono confrontare, è una specificità della cultura occidentale?

Non sono un’antropologa, ma so che ci sono state delle culture nelle quali non c’era questa caratterizzazione. Però sono veramente minoritarie. Penso che, nella grandissima maggioranza delle culture umane, la definizione del maschile come prototipo dell’umano esista e sia potente.

Ci sono delle ipotesi sul perché?

Dagli studi emerge l’ipotesi che nella Preistoria, nelle culture di cacciatori e raccoglitori, non ci fosse subalternità femminile. Pare che i ruoli fossero distribuiti non tanto per genere quanto per età. Si ipotizza che i giovani partecipassero in maniera più o meno paritaria a procacciare il cibo, mentre le generazioni più anziane si dedicavano al lavoro di cura. La differenziazione che penalizza il femminile inizia probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura, quindi con il Neolitico. Lì viene introdotta la proprietà privata, vengono create le classi sociali, appaiono i ricchi e i poveri. E si crea anche la differenziazione tra maschile e femminile. La forza fisica maschile probabilmente ha fatto sì che gli uomini si occupassero della gestione militare e politica e le donne venissero relegate al lavoro di cura.

Lei descrive magnificamente l’iter del concetto di “vero uomo” nella cultura occidentale.

Ritengo che i ruoli sociali e quindi anche i ruoli di genere siano delle costruzioni storiche, cambino quindi a seconda delle epoche. Dall’Ottocento in poi, assistiamo a vari mutamenti, a momenti di ripensamento, di “crisi del maschile”, ma secondo un andamento non lineare. Nel corso del Novecento – soprattutto in concomitanza con le Guerre mondiali – si sono verificati anche dei momenti di recupero della visione maschile tradizionale. Poi, i movimenti degli anni Sessanta, soprattutto quello femminista, hanno cominciato a creare delle incrinature. Penso che ci troviamo tuttora all’interno di questa prospettiva, anche se, negli ultimi anni, assistiamo a preoccupanti recuperi del modello maschile tradizionale. Ci sono movimenti di contrattacco e ritorsione nei confronti della nuova autonomia femminile e figure politiche che li hanno incarnati, come Donald Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.

Prima di Donald Trump c’era Barar Obama, che per certi versi proponeva un’altra immagine di uomo, sempre legato al potere ma con un atteggiamento più empatico, almeno a livello personale. Personaggi come Trump sono la reazione a quest’altro tipo di mascolinità?

Penso che Trump incarni una reazione sia ai nuovi modelli del maschile, sia a tutta una serie di cambiamenti sociali in atto. Interpreta una parte della società che, a mio avviso, guarda indietro invece che avanti.

Apprendiamo dal suo libro che in psicologia sociale si adopera costantemente il concetto dei Big Two, due caratteristiche che notiamo subito negli altri, distinguendo cioè tra il fattore della communality, attribuito alle donne, e la agency che sarebbe un po’ il compito e il nucleo dell’identità maschile.

Questa però non rispecchia la realtà oggettiva delle cose. È l’interpretazione stereotipica: il nucleo di credenze stereotipiche fa sì che alla donna vengano attribuiti i trarti collegati con la capacità di entrare in empatia con gli altri, di relazione, di calore. E all’uomo, invece, i tratti legati all’agency, al muoversi nel mondo, alla forza, alla conquista, al potere. Le cose oggi stanno cambiando, perché l’immagine femminile non è più quella tradizionale. È un’immagine più variegata, più complessa, caratterizzata anche da una serie di ambivalenze. Questa nuova immagine femminile suscita i contrattacchi e le ritorsioni della “mascolinità risentita”.

Nel libro ci sono pagine molto efficaci sulla difficoltà degli uomini di corrispondere allo stereotipo del “vero uomo”. La loro socializzazione in questa direzione appare quasi più difficile della socializzazione femminile e passa, così lei scrive, attraverso i legami tra uomini, il male bonding.

Questi legami profondi tra uomini sono molto importanti nella socializzazione maschile. Credo che contribuiscano anche a un certo maschilismo, perché l’uomo deve diventare tale di fronte agli altri uomini. Non può perdere la faccia, non può comportarsi “da femminuccia”. Pensiamo, per esempio, a tutto il discorso militare, come è stato e come è tuttora, perché le guerre esistono ancora ed esiste tuttora una certa mentalità militare da macho. Il “vero uomo” non deve avere tratti femminili e deve reprimere tutto ciò che può far interpretare il suo comportamento come incline all’omosessualità. La costruzione dello stereotipo tiene sempre presente l’allontanamento da questi due aspetti: dal femminile e da tutto ciò che non è eterosessuale.

Allora, una donna è tale perché viene considerata “femminile”, desiderabile e valida dagli uomini. Mentre gli uomini non devono essere confermati nella loro identità dalle donne, ma dagli altri uomini?

Certo, nella visione tradizionale sono gli uomini a decidere cosa è valido sia per se stessi sia per le donne. Si tratta di una costruzione per opposizione, per divaricazione tra i tratti tipici femminili e i tratti tipici maschili.

Lei riporta una serie di studi secondo cui la supremazia maschile non è indolore nemmeno per i diretti interessati.

La supremazia maschile comporta un prezzo molto alto che per tanto tempo è stato sottovalutato. Se si costruisce il militare come paradigma del “vero uomo”, non si può lasciare spazio all’emotività, alla tenerezza, alla confidenza. Le amicizie maschili sono soprattutto amicizie del fare, mentre quelle femminili sono amicizie basate sulla confidenza, caratterizzate dal disvelamento. Gli uomini pagano il non potersi aprire all’altro in termini di salute psicologica e fisica. Vi sono molte malattie, o difficoltà a far fronte alla malattia, che colpiscono più gli uomini che le donne. Su questi piani gli uomini hanno meno risorse. La costruzione di un’identità forte, tutta d’un pezzo, corrazzata li rende più deboli di fronte ad alcune difficoltà esistenziali.

Descrivendo invece gli stereotipi di genere relativi alle donne, lei annota che non esiste soltanto il noto stereotipo del disprezzo, basato su una presunta inferiorità femminile, ma anche altri stereotipi.

Esiste una specie di tassonomia degli stereotipi che ne prevede quattro tipi tra cui quelli di ammirazione e di disprezzo. Il disprezzo nei confronti delle donne era molto presente nell’antichità, ma lo troviamo anche oggi. Lo stereotipo di ammirazione nei loro confronti è invece molto raro, perché di solito il pregiudizio di ammirazione si prova nei confronti dei gruppi sociali favoriti, e le donne, per definizione, non lo sono. Però, verso le donne si trova il cosiddetto women wonderful effect, che le definisce meravigliose. Si tratta di una maniera di lodare il loro essere stupende nelle relazioni e nella cura – con l’obiettivo però di mantenerle al posto loro assegnato. Quindi, anche questo non può essere interpretato come uno stereotipo di ammirazione.

Un filo rosso che attraversa tutti i suoi libri è l’indagine sui motivi che fanno sì che le categorie oppresse siano d’accordo con la loro discriminazione. Che si considerino, in qualche modo, giustamente non considerate alla pari.

C’è spesso un’accettazione del ruolo subalterno perché può essere comodo. È difficile essere sempre allerta, in uno stato di ribellione. Allora si accetta il sessismo benevolo, quell’atteggiamento che dice “sei una persona meravigliosa, che però ha bisogno della protezione maschile”. C’è l’accettazione della complementarietà dei ruoli, sia nelle relazioni private che nel lavoro in cui spesso le donne accettano di stare un passo indietro. Anche per motivi oggettivi, perché hanno bisogno di spazio per l’affettività, il lavoro di cura, la maternità. A volte c’è lucidità nell’attuare questa collusione; a volte invece le donne la attuano in modo inconsapevole, magari prendendone coscienza solo anni dopo. L’ho visto succedere ad alcune studentesse. Gli anni dell’università sono anni importanti per le scelte che richiedono, che sono spesso scelte di vita sul piano affettivo e su quello del lavoro. Spesso però non c’è molta consapevolezza o lucidità nel fare tali scelte.

Lei menziona anche limitazioni imposte dall’esterno, invisibili ma efficaci.

Ci sono degli indici oggettivi che ci dicono, sulla base dei numeri, che in effetti esiste il “soffitto di vetro” e il fenomeno della “conduttura che perde”. Le ragazze spesso sono le più brave all’università, ma poi incontrano difficoltà specifiche e rischiano di perdersi per strada. Qualche anno dopo la laurea, i posti migliori o più remunerati vanno ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Mi ha colpito quando lei parla della paura del successo da parte delle donne, di questa sensazione per cui si pensa “non devo emergere troppo, non sta bene”.

Ho trovato interessante uno studio secondo cui che le donne che hanno più successo del partner tendono a nasconderlo o a farsi perdonare cercando di essere iperfemminili nella gestione della casa e delle relazioni.

Tuttavia, ci sono stati cambiamenti enormi, come forse mai prima nella storia. Essi riguardano sia le donne che gli uomini?

Le ricerche hanno constatato che lo stereotipo femminile si è molto diversificato negli ultimi trent’anni. Non ha perso i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti maschili, diventando più complesso. Questo è successo molto meno con lo stereotipo maschile. Teniamo però presente che stiamo parlando di stereotipi! Nella realtà, anche il maschile sta cambiando. Un’esperienza personale: ad agosto ho fatto un viaggio nella parte orientale della Turchia. Anche lì ho visto uomini che portano in giro i bambini in carrozzina. Ho notato cioè una certa vicinanza al figlio o alla figlia, che non penso tradizionalmente fosse così esibita e accettata socialmente. E anche lì si vedono molte donne che lavorano, che hanno cambiato il loro ruolo nella società.

Lei sottolinea più volte nel libro che arrivare a un superamento degli stereotipi di genere non favorisce solo le donne, ma è anche nell’interesse maschile.

Sì, perché va a beneficio di entrambi. Se queste visioni e questi ruoli cambiassero, non ne beneficerebbero solo uomini e donne, ma la società tutta, come provato da molte ricerche anche di tipo economico: le società in cui le donne hanno una partecipazione attiva alla vita economica e politica del Paese sono società che stanno meglio delle altre, decisamente meglio delle società in cui la partecipazione femminile è ridotta.

Un anno fa è finita l’era Merkel, in Italia abbiamo la prima presidente del Consiglio: sto parlando delle donne al potere. Anche lei pensa, come molti, che una volta al potere una donna si comporta esattamente come gli uomini?

Penso che sia difficile generalizzare. Alcune donne – l’emblema è Margaret Thatcher – sono andate al potere con delle strategie tipicamente maschili e con una visione tradizionale della società. In altri Paesi invece le donne arrivate al potere hanno cercato di portare una visione un po’ diversa basata sulla loro esperienza storica, che implica una maggior attenzione alla cura, alle relazioni, all’ambiente. Se ci pensiamo, anche l’attenzione all’ambiente ha a che fare con le relazioni di cura. È una cura per ciò che ci sta intorno… Però le donne al potere con questa visione sono poche, le troviamo soprattutto in alcune situazioni particolarmente favorevoli come nei Paesi del Nord Europa, Paesi ricchi e con una popolazione poco numerosa. Penso che le donne, per poter portare un cambiamento in politica, non devono essere sole. Possono innescare un cambiamento quando sono almeno in un piccolo gruppo, che permette di darsi forza e sostegno reciproco.

Storicamente parlando, quindi, piuttosto che la singola Thatcher o Merkel, è più significativo che nei Parlamenti – in alcuni Paesi – sono presenti sempre più donne?

Quando le donne sono un certo numero possono indirizzare la politica del Paese verso certi temi rispetto ad altri. L’attuale però non è un buon momento da questo punto di vista, perché con l’aggressione russa all’Ucraina, si è tornati a una visione più militarista della società.

Se in Russia e in Ucraina ci fossero più donne nel governo, la guerra non sarebbe scoppiata o sarebbe già finita?

Probabilmente sì. La guerra mi dà l’impressione di un ritorno al Medioevo. Ha innescato una contrapposizione militare e maschilista, che speravo non avremmo rivisto.

L’Italia come si colloca rispetto al superamento degli stereotipi di genere?

L’Italia continua a coltivarne molti. Nelle ricerche sul sessismo non si colloca bene, siamo tra gli ultimi tra i Paesi europei sia dal punto di vista degli stereotipi, sia da quello dei posti di lavoro. L’Italia non fa una politica per le donne. Non aiuta né promuove la maternità, non aiuta né promuove il lavoro delle donne Pensiamo, ad esempio, alla carenza di asili nido.

A concludere il suo libro sono delle pagine veramente belle che non vorrei anticipare perché ognuno deve leggerle da sé. Ripeto solo la domanda che lei si pone lì: “Che cosa si può fare per migliorare la situazione”?

Oltre alla lotta politica, quello che le singole persone possono fare è avere maggiore attenzione. Resto sempre colpita dal fatto che spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Spesso non mettiamo in discussione i rapporti di collusione di cui parlavamo prima, un certo sessismo quotidiano, non particolarmente aggressivo, ma molto radicato, perché non lo vediamo. Secondo me, il primo lavoro da fare è imparare a vedere e a prendere in mano le cose, una volta che le abbiamo viste. Non vuol dire combattere 24 ore al giorno, ma tenere presente che un certo modo di vivere non è scontato e impossibile da affrontare. Lo diventa se lasciamo che sia così. Questo è il primo lavoro: vedere ed essere critici. E poi bisogna fare un lavoro di rivalutazione. A me pare che la cura – il Covid dovrebbe avercelo insegnato – che noi esseri umani possiamo prenderci l’uno dell’altro sia una delle cose più importanti e preziose della vita. Però è sempre stata sottovalutata, proprio perché attribuita al femminile. Non diamo abbastanza importanza né alla cura delle relazioni, né alla cura della persona sofferente, né alla cura dell’ambiente, aspetti molto vicini tra di loro. La cura delle relazioni e dell’ambiente nel quale viviamo è un valore fondamentale, il primo a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non lo sia costituisce un motivo di allarme: rischiamo di precipitare in una situazione molto pericolosa.