La scoperta di un’altra America

Lo studioso Paolo Chiesa parte da un frammento scritto da un frate del Trecento per avventurarsi in un mistero storico appassionante. Tra indizi e riflessioni sul metodo

Umberto Gentiloni | Robinson – la Repubblica | 21 gennaio 2023

Il nuovo mondo appare una scoperta imprevista quando Cristoforo Colombo inizia il viaggio verso le Indie e si ritrova in terre sconosciute e inospitali. I confini mobili del globo si aprono verso orizzonti e prospettive ignote, tutto cambia: dai viaggi alle distanze, dalle prospettive alle compatibilità geografiche. Ma mentre il tempo ha messo in questione il rapporto gerarchico tra chi scopre e chi viene scoperto, tra Oriente e Occidente, tra la forza di chi vuole imporsi e le debolezze delle popolazioni indigene, un manoscritto di un frate milanese del Trecento, Galvano Fiamma, sembra spingere indietro le prime tracce dell’America.

Un nome compare due volte con grafie leggermente diverse, marginale e nascosto in un testo più ampio. Una breve notizia, dentro un ritrovamento prezioso: «I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia […] e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche». Ha ricostruito l’avventura del manoscritto Paolo Chiesa (Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, Laterza) in un volume che tratteggia un contesto avvincente spingendo curiosità e interrogativi ben oltre il perimetro di un medioevo misterioso e lontano.

Le tracce dell’America risalirebbero, secondo il manoscritto, a un secolo e mezzo prima del viaggio di Colombo. Ma procediamo con ordine seguendo la trama dell’autore nei suoi snodi essenziali. Prima di tutto il documento e il suo ritrovamento, una ricerca a tappe, quasi fosse una caccia al tesoro dove «non è perduta la mappa del tesoro, ma quella del mondo». Il testo va all’asta prima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna: nel 1996 da Christie’s (quasi 15 mila dollari) e due anni dopo da Sotherby’s (oltre 42 mila dollari). Le vendite contribuiscono ad attirare attenzioni e a spargere curiosità e notizie su voci riconducibili all’ambiente genovese, al passaparola tra marinai, esploratori, mercanti che si muovono dal Mediterraneo. Chiesa riesce in coda a una serie di circostanze propizie a vedere il manoscritto Cronica Universalis nel 2015, presso il prestigioso Grolier Club nell’Upper East Side a Manhattan. Lo fotografa, ne acquisisce rapidamente l’essenza, salvo poi dover chiedere supplementi d’immagini a preziosi compagni di strada che infittiscono la rete di relazioni attorno al testo e al suo racconto. Intermediari e luoghi di conservazione restano in parte nascosti, non rivelati dallo stesso autore. Il testo appare noioso e ripetitivo fino al passaggio in questione, alla possibile scoperta di un nuovo inizio: «Si tratta della più antica menzione storica di questo continente che sia stata finora trovata nell’area mediterranea».

Più che certezze consolidate l’autore riesce a condurre il lettore nei quesiti più profondi che investono le ragioni portanti della ricerca in campo umanistico. Cosa si nasconde dietro l’unicità dei manoscritti nel tempo della rivoluzione digitale e perché sono cosi preziosi? Chi era Galvano Fiamma e cosa si cela dietro un frate che riporta stralci di notizie che arrivano dal porto di Genova fino a noi in una storia lunga settecento anni? E ovviamente la questione sul rapporto tra vero e falso nei sentieri della ricerca storica e nelle domande sulla veridicità del manoscritto analizzato. Tali questioni mettono persino in secondo piano il richiamo alla Marckalada con buona pace di Cristoforo Colombo. Il manoscritto incrocia la storia del tempo presente: i rifiuti di riviste internazionali alle proposte di un saggio (ben due bocciature), il valore di un lavoro di squadra che dalla penna dell’autore diventa collettivo, il lascito di una scoperta utile a percorrere con intelligenza tracce di passato. «Nulla di nuovo su chi ha scoperto l’America, se non dimostrarci la permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest; un contatto che non passa da libri o governi, ma da esperienze di viaggio».

La trama di un tempo che riaffiora: «Una storia stretta, dove i documenti sono piccoli e pochi, ma ciascuno pesa molto; quello che dice Galvano è una tessera in più, e per questo importante. Non cambia, forse, per Colombo, ma permette di vedere le cose in un modo diverso. Dimostra un’ampiezza di scambi e una circolazione di notizie che finora si sospettavano soltanto, ma di cui non si aveva la prova; dimostra che viaggiatori e studiosi comunicavano fra loro, e l’esperienza degli uni valeva alla conoscenza degli altri».

La guerra delle tasse: i trent’anni che hanno cambiato il mondo

Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato | Domani | 3 febbraio 2023

La mia nipotina ha 11 anni, è figlia unica, ha due zii che non hanno figli e due prozie che non hanno discendenti diretti: nel corso della sua vita, dopo alcuni passaggi intermedi, erediterà i beni di sette famiglie, prevalentemente immobili, e quindi sarà una donna molto più benestante rispetto alle famiglie di origine. Se le leggi non cambieranno, non dovrà pagare tasse di successione di ammontare rilevante. Se deciderà di utilizzare uno degli immobili ereditati come prima casa, non pagherà nemmeno l’imposta immobiliare. Se sceglierà di affittare gli altri immobili ricevuti, pagherà un’imposta ridotta sui proventi degli affitti, e lo stesso accadrà se investirà parte delle eredità in titoli. Praticamente tutto ciò che potrebbe decidere di fare con i guadagni delle eredità sarà, dal punto di vista fiscale, più vantaggioso che lavorare.

Per le persone della mia generazione, che hanno vissuto il periodo in cui le diseguaglianze in Italia, e non solo, si sono ridotte, si tratta di un risultato paradossale. Un esito che in parte dipende da fattori demografici – la riduzione dei tassi di natalità conduce inevitabilmente a un aumento della concentrazione della ricchezza – ma anche dal fatto che i sistemi fiscali sono diventati sempre più sfavorevoli al lavoro.

Il lavoro è infatti quell’attività da cui il nostro Paese continua a estrarre più risorse da investire in sanità, scuola, sicurezza, per finanziare i servizi essenziali a disposizione di tutti. In un mondo in cui la quota di redditi da lavoro si sta riducendo, significa che per tenere in piedi il Paese chiediamo sempre più a una sola fonte di ricchezza, quella prodotta dal lavoro quotidiano, e a una platea che non corrisponde alla totalità dei cittadini.

Se niente cambierà, quello che consegneremo a mia nipote e anche ai vostri nipoti sarà un Paese reduce da una guerra combattuta più o meno in sordina, che dura da anni: la guerra delle tasse. Vinta dai privilegiati ma anche, battaglia dopo battaglia, eccezione dopo eccezione, da tutti quelli che sono riusciti ad ottenere da una classe politica in ostaggio di pressioni lobbistiche una miriade di eccezioni particolaristiche che hanno reso il fisco di questo Paese un castello di piccoli e grandi privilegi.

La posta in gioco della guerra delle tasse è molto alta: il sistema fiscale di un Paese è esattamente lo specchio del patto sociale, o comunque dell’assetto politico-sociale, di una comunità. Lo è dalle origini della civiltà: le tasse nascono con le prime comunità dell’homo sapiens per finanziare esigenze condivise, perfino di carattere solo rituale. Le imposte sono, quindi, un elemento costitutivo della vita sociale perché la verità è che senza tasse non può esistere una società organizzata. Le tasse rappresentano “un sacrificio individuale” per il raggiungimento di un fine collettivo.

La ricerca storica e archeologica conferma insomma che sulle tasse si costruiscono gli equilibri sociali, e i sistemi fiscali che si sono susseguiti nella storia ci rivelano, come fossero l’equazione che spiega un fenomeno del mondo fisico, la natura della nostra organizzazione sociale.

E la nostra formula del patto fiscale, che è appunto un patto sociale, è stata negli ultimi quarant’anni profondamente modificata a favore di alcuni e a sfavore di altri, sia sullo scenario internazionale sia in Italia, e con essa i rapporti di forza tra le parti sociali sono profondamente cambiati. Lo Stato, oggi, impone ad alcuni di contribuire per i servizi di tutti, a partire dalla sanità pubblica che ha fatto da argine alla pandemia, e ad altri invece no, o in misura ridotta.

L’inizio. Questa guerra delle tasse che ha modificato il nostro patto sociale parte da lontano e non è ancora finita. Una delle più importanti battaglie dovrebbe essere, ma non è detto che lo sarà, la riforma del fisco, su cui almeno per certi aspetti il nostro Paese si è impegnato con il Piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Unione europea. Ma per capirla nella sua complessità, per comprendere la situazione italiana con tutte le sue peculiarità e anche il contesto internazionale che l’ha influenzata, bisogna partire dall’inizio.

La storia della tassazione del Novecento va di pari passo con le grandi fratture del secolo. E non potrebbe essere diversamente. Negli anni Venti del secolo breve, per usare la categorizzazione dello storico britannico Eric Hobsbawm che risulta calzante anche per l’evoluzione dei sistemi fiscali, la maggioranza dei Paesi industriali aveva una imposta generale sul reddito personale. Con i conflitti mondiali e in particolare durante la Seconda guerra mondiale, l’imposta generale sul reddito personale è diventata una delle principali fonti di risorse per gli Stati. Ma l’altra caratteristica comune alle nazioni uscite dal secondo conflitto mondiale è che queste imposte erano progressive e che questa progressività si traduceva in moltissimi scaglioni di aliquota, contrariamente a quanto accade oggi nei Paesi sviluppati. Per dare un’idea del diverso patto sociale: negli Stati Uniti nel 1944 e 1945 gli scaglioni erano 24 e le aliquote, cioè la percentuale di tassazione sul reddito compreso nello scaglione, variavano dal 23 al 94%. Venti anni dopo, tra il 1965 e il 1974, gli scaglioni erano comunque 26, l’aliquota minima era scesa al 14% e quella massima al 70%. In Italia tra il 1974 e il 1982 l’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) aveva 32 scaglioni, un’aliquota minima del 10%, e una massima del 72%.

Questo schema, insieme ai contributi sociali sui redditi di lavoro, è stato la base per la creazione del sistema di welfare del nostro Paese e in generale della maggioranza delle democrazie liberali occidentali: cioè amministrazione pubblica, infrastrutture, scuola pubblica e, in Europa, anche servizi sanitari nazionali. Attorno agli anni Ottanta però la formula è cambiata: le tasse, soprattutto la loro progressività, hanno iniziato a ridursi in maniera vistosa, se non a scomparire.

Prima di tutto, per rendere i sistemi fiscali più semplici – obiettivo condivisibile – la maggioranza degli Stati ha iniziato a ridurre il numero degli scaglioni, anche a scapito della equità che per forza di cose si è ridotta assieme ad essi, costringendo nelle stesse classi di aliquota cittadini con redditi anche molto diversi tra loro. Ma assieme alla semplificazione c’è stata un’altra tendenza: la riduzione delle tasse per i cittadini più ricchi. La riduzione del numero degli scaglioni, e delle aliquote più elevate, implica, a parità di gettito (e talvolta, come in Italia, anche nel caso in cui il gettito complessivo venga ridotto), un aumento del prelievo sui ceti medi, fermo restando il livello del prelievo per i più poveri.

In quegli anni iniziano ad essere progressivamente esclusi dal sistema di estrazione delle risorse, e quindi dal patto sociale, i redditi da capitale. Le imposte sulle società iniziano a diminuire in maniera rilevante rispetto a quelle pagate dai lavoratori. Il motivo iniziale è la liberalizzazione dei mercati di capitali: quelli sono mobili, i lavoratori no. E quindi il fisco rinuncia progressivamente a tassarli. Per dirla in breve: la tassazione sul capitale e quella sul lavoro hanno imboccato allora due binari molto diversi, perché il patto sociale e i rapporti di forza tra i due è cambiato radicalmente.

I dati raccolti negli anni dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale (Fmi) non lasciano molti dubbi. L’aliquota dell’imposta sulle società è passata in media dal 40- 50% di allora al 20-30% attuale. In sostanza le democrazie liberali occidentali hanno deciso che le tasse devono pagarle soprattutto i lavoratori e lo hanno fatto mentre la quota di reddito da lavoro, tra globalizzazione e automazione, si è notevolmente ridotta: negli anni Ottanta pesava per il 65-70% dei redditi prodotti, oggi si attesta anche a meno del 50%. Un calo di 10-15 punti in tutto l’Occidente.

Oltre alle ragioni “tecniche” che hanno motivato queste scelte, ciò che è interessante e che va tenuto presente ancora oggi ogni volta che sentiamo un politico promettere che abbasserà le tasse – spesso anche senza specificare quale categoria di cittadini potrà usufruire del vantaggio rispetto agli altri –, è il clima culturale che ha portato al cambiamento dei nostri sistemi fiscali.

Il caso Biebow e la contabilità del male

Lo sterminio attuato dai burocrati di Hitler

Gianni Santamaria | Avvenire | 17 febbraio 2023

Nella ricerca sul nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei la lente degli storici si è nel tempo, a partire dagli anni ‘80-‘90 sempre più puntata sull’aspetto economico. Di recente Johann Chapotout in Liberi di obbedire (Einaudi 2020) ha messo al centro una figura emblematica di quel sistema che univa efficientismo e sistemi manageriali, mettendoli al servizio della causa di Hitler: Reinhard Höhn, che – fattala franca – nel dopoguerra fu un affermato formatore di dirigenti d’impresa. Ora la storica Anna Veronica Pobbe, utilizzando una vasta mole di documenti, pubblica uno studio che dà conto di come questa «galassia, composta da manager, banchieri, professionisti e dirigenti di grandi gruppi industriali, ebbe un peso non indifferente nelle politiche attuate dal Terzo Reich; come dimostra la grande importanza che venne accordata a questioni quali la contabilità, la ricerca delle più piccole economie e il recupero sistematico di tutti i sottoprodotti; oppure ancora l’efficacia tecnica dei centri di sterminio che si ispirò al modello delle fabbriche». Punto di partenza di Un manager del Terzo Reich è la figura di Hans Biebow, l’amministratore del ghetto di Lodz (Litzmannstadt). Quando nel 1947 le autorità giudiziarie polacche lo portarono alla sbarra, lo considerarono tra i dieci peggiori criminali nazisti in circolazione, alla stregua di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, di ArthurGreiser, Gauleiter della Wartheland (una delle suddivisioni del Paese occupato) e di Hans Prank, governatore generale della Polonia. E, infatti, lo impiccarono. Rispetto al già citato Höhn, che apparteneva alle Ss, Biebow era però un semplice civile, un Kaufmann, un commerciante, come lo definisce l’autrice. Un uomo comune, insomma, che nella foto di copertina appare in giacca e cravatta, ben rasato, mentre in primo piano un uomo dalla barba incolta porta un cappottone con sopra una stella gialla.

Quella di Biebow è una figura sinora trascurata dalla storiografia, con l’eccezione di Christopher Browning al quale, nota l’autrice, si deve l’elaborazione della nuova categoria criminale del “ghetto manager”; che, nota, ha dei limiti, ma che ha contributo a rompere la rigidità degli schemi interpretativi Le Ss, giustamente avvolte da un alone di tenore, erano state, infatti, almeno fino al caso Eichmann, una sorta di capro espiatorio di tutte le responsabilità. Che pian piano, sulla scorta di concetti come la “banalità del male” hanno preso, invece, sono state attribuite anche alla Wehrrnacht e ad attori civili, zelanti esecutori di ordini. Burocrati, sì, ma ben selezionati per le loro capacità organizzative e parte attiva nell’ideologia di regime. A muoverli era anche l’ambizione, come dimostra proprio la vicenda di Biebow. La sua direzione del ghetto fu, infatti, improntata a criteri manageriali e si mosse sotto le direttive ideologiche e funzionali dettate da Greiser. Non sempre fu così per le amministrazioni dei ghetti e in genere per i “quadri amministrativi” scelti dal regime, che spesso invece finirono con l’avere attriti con i gerarchi che li consideravano «burocrati strapagati». Biebow invece riuscì a far durare il ghetto fino al1944, ben oltre l’inizio dei massacri su larga scala, tanto da essere preso in considerazione da Himmler per guidare il ghetto “modello” di Terezin (Theresienstadt). In realtà la produttività del ghetto era molto esagerata e frutto di un’operazione di propaganda. Tale longevità, sottolinea Pobbe, fu dovuta non tanto alla volontà ebraica di sopravvivere, quanto al passaggio da una mentalità di espropri “selvaggi” a un «sistema basato sulla produzione industriale». Il disprezzo di Biebow fu esplicito non solo verso gli ebrei, che fece deportare nei lager della morte, ma anche nei confronti degli zingari, considerati inabili al lavoro e per questo confinati una zona apposita. Di lui si diceva che avesse reinvestito i profitti accumulati per rendere lussuosa la sua casa di Brema, città dove era nato nel 1902, e che fosse dedito all’alcol, facile agli scatti d’ira e umiliasse le prigioniere ebree facendole denudare per il piacere perverso di guardare corpi femminili smagriti dalle privazioni. Nel processo venne descritto come «l’esempio perfetto delle “bestie bionde” naziste – conclude Pobbe – nonostante poi sia stato principalmente condannato perché facente parte di un’associazione criminale». Un profilo, in conclusione, che non si adatta a una sola categoria di persecutore – assimilabile com’è anche ai medici nazisti e alle guardie dei campi di concentramento – e che mostra tutta la complessità del Terzo Reich e della sua pratica genocidiaria.

 

La guerra dei sessi: un podcast degli Editori Laterza

È ora disponibile su RaiPlay Sound La guerra dei sessi, un podcast degli Editori Laterza.

Nella storia dell’umanità il conflitto tra donne e uomini si è declinato in forme assai diverse, coinvolgendo tutte le dimensioni della vita: dalla famiglia alla politica, dall’economia alla cultura e naturalmente la stessa sessualità.

Attraverso storie straordinarie e affascinanti, la serie podcast in 9 episodi racconta questo conflitto mostrando tutte le differenze di ogni epoca ma anche le ricorrenze nei modi e nei temi del rapporto tra donne e uomini.

Vedremo come il sesso ha giocato da sempre una parte rilevante nell’assegnare il potere politico, economico e culturale. Passeremo attraverso la mitologia e gli atti dei processi, il teatro e la letteratura, raccontando vicende a volte molto note a volte sconosciute ma sempre capaci di catturare il nostro immaginario e farci riflettere sull’oggi.

TUTTI GLI EPISODI QUI

 

Concorso EconoMia – Eco-Quiz | Edizione 2023

Festival Internazionale dell’Economia di Torino

1 – 4 giugno 2023

RIPENSARE LA GLOBALIZZAZIONE

 

XI^ Edizione Concorso EconoMia | Per le scuole secondarie di secondo grado

II^ Edizione del Concorso Eco-Quiz | Per le scuole secondarie di primo grado

Le iscrizioni sono aperte e si chiudono il 18 Marzo 2023

La XI^ Edizione del Concorso EconoMia si terrà nell’ambito del Festival Internazionale dell’Economia in programma a Torino dall’1 al 4 giugno 2023. Tema del Festival e del Concorso: Ripensare la globalizzazione, argomento di rilievo e attualità per i giovani del nostro Paese. Il Concorso si rivolge agli studenti degli ultimi due anni di licei, istituti tecnici, professionali e dell’ultimo anno della Istruzione e formazione professionale, con la finalità di diffondere in tutte le scuole italiane la cultura economica, poco presente nei curricoli scolastici. I 20 vincitori avranno in premio viaggio, vitto e alloggio per tre giorni e due notti nei giorni del Festival e un premio in denaro di 200 Euro. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha inserito EconoMia tra le competizioni del Programma nazionale per la promozione delle eccellenze.

Il Concorso è organizzato dal Torino Local Committee (TOLC, Comitato promotore del Festival Internazionale dell’Economia di Torino), Editore Laterza (responsabile della progettazione e organizzazione del Festival Internazionale dell’Economia) e Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, in collaborazione con Ministero dell’Istruzione – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionale di istruzione, Fondazione Agnelli, Museo del Risparmio, Istituto Tecnico Economico “Bodoni” di Parma, AEEE-Italia.

I materiali di studio su cui si svolgono le prove consistono in pagine di testi, siti web, webinar e adottano la metodologia del debate. Le prove si svolgono in modalità online in un’unica data nazionale verso la fine di aprile e consistono in item a risposta univoca e a risposta aperta, ciascuno dei quali ha il peso del 50% sulla valutazione finale.

Il sito del Concorso www.concorsoeconomia.it contiene il Regolamento, le modalità di iscrizione, i materiali di studio, le date dei webinar.

Le precedenti edizioni del Concorso EconoMia hanno visto la partecipazione ogni anno di circa un migliaio di studenti, appartenenti a 100 – 150 tra licei e istituti, di tutte le regioni italiane. I premiati sono risultati ragazze e ragazzi di Liceo Scientifico, Liceo Classico, Liceo Economico Sociale e di Istituti tecnici e Professionali.

Si consolida anche il Concorso Eco-Quiz, organizzato da Museo del Risparmio, Istituto comprensivo Toscanini-Einaudi di Parma, Fondazione per la Scuola della Compagnia di Sanpaolo e AEEE-Italia, che sarà rivolto agli studenti delle scuole secondarie di primo grado per avviare per tempo le ragazze e i ragazzi alla conoscenza dei temi economici, arricchendo così il curricolo di educazione civica con i temi della realtà economica e finanziaria.

Sul sito Eco-Quiz | Concorso EconoMia è pubblicato il Regolamento di Eco-Quiz.

Laterza in libreria: un podcast

Parte Laterza in libreria: ogni mese un podcast originale di dieci minuti, ricco di curiosità sulle nostre novità, scritto e curato da Emilio Fabio Torsello.

Su Spotify la prima puntata, dedicata alle uscite nel mese di gennaio 2023, dal titolo: Il manoscritto segreto che cambia la storia sulla scoperta dell’America.

Buon ascolto!

La generazione capace di preveder la fine di un’epoca

L’alba del Novecento, alle radici della nostra cultura

Claudio Natoli | L’Indice dei Libri del mese | febbraio 2023

Ha scritto Eric Hobsbawm in Il Secolo breve che la prima guerra mondiale rappresentò il crollo della civiltà occidentale dell’Ottocento: una civiltà che “si gloriava dei processi della scienza, del sapere e dell’istruzione e che credeva nel progresso morale e materiale” ed era anche “profondamente persuasa della centralità dell’Europa, luogo di origine delle rivoluzioni nelle scienze, nella arti, nella politica e nell’industria”, mentre nel contempo “la sua economia si era diffusa in tutto il mondo così come i suoi soldati avevano conquistato la maggior parte dei continenti”. Per la verità l’affermazione del liberalismo era all’epoca tutt’altro che compiuta e la realtà europea era caratterizzata da profonde diversità sul piano dei sistemi politici e degli assetti di potere, da una persistente influenza e capacità di resistenza da parte delle forze dell’ancient régime e da una configurazione delle classi dominanti che vedeva, più che una contrapposizione tra borghesia e ceti nobiliari, una rafforzata compenetrazione e una convergenza volta a sbarrare la strada al progredire del socialismo e all’avvento della democrazia. Cosicché, se si esclude la Gran Bretagna, le classi dirigenti dell’Europa si muovevano alla vigilia del 1914 in una logica di restaurazione conservatrice all’interno e di accentuata conflittualità internazionale ancora di segno Ottocentesco: valga per tutti il fatto che anche la prospettiva di una conflagrazione tra le grandi potenze veniva affrontata perlopiù nel segno di una guerra breve e vittoriosa, cosicché, riguardo agli avvenimenti dell’estate 1914, Christopher Clark ha intitolato il suo libro più noto I sonnambuli. L’intuizione del ministro degli Esteri britannico Edward Grey, secondo cui lo scoppio della guerra segnava lo spegnersi delle “luci sull’Europa” costituì un caso molto raro. Non erano per converso mancati soggetti capaci di percepire per tempo i segni premonitori di una catastrofe incombente, ma essi si collocavano nel vivo della società, in una sfera lontana dai vertici del potere, ed essi vanno individuati da una parte nella precorritrice denuncia dell’imperialismo e del pericolo di una guerra generale da parte della II Internazionale (peraltro destinata anch’essa al crollo di fronte alla prova dell’”unione sacra”), e dall’altra dalle avanguardie nel campo della letteratura, delle arti e della scienze.

Proprio a quest’ultimo tema è dedicato il volume di cui qui si discute. Il filo conduttore della ricerca è che la generazione degli anni ottanta, nei suoi esponenti di primo piano della letteratura, della pittura, della musica, della scienza e della tecnica, del cinema e del teatro, con la sue idee, le sue realizzazioni e le sue scoperte, non meno che nel modo di rapportarsi alla realtà politica e sociale esistente e al suo sistema di valori consolidati, non solo dimostrò una straordinaria percezione dell’imminente fine di un’epoca, ma pose le radici stesse della futura cultura del Novecento, e cioè di quella che si sarebbe affermata dopo il 1914 e nei decenni successivi. Come scrive l’autore, è “sulle idee generate durante il ventennio che va dal 1895 al 1914 che poggiano, in ogni campo del sapere umano, le radici della rivoluzione culturale da cui si è generata tutta la civiltà del Novecento”. Nella scienza e nell’arte, nella letteratura e nella tecnologia, nella filosofia e nel pensiero sociale e politico, si imposero principi e trasformazioni da cui fu impossibile recedere. Ciò che ne risulta è un quadro ricchissimo, che non solo segue la nascita e l’evoluzione delle avanguardie artistiche, letterarie, musicali, filosofiche e nel campo delle scienze nei principali centri dell’Europa nel periodo considerato, ma ne ricostruisce le reciproche interrelazioni, rompendo le barriere dei singoli settori disciplinari.

Si possono così seguire le nuove correnti espressive del postimpressionismo (da Cézanne a Matisse), la rottura segnata dalle Secessione viennese (da Klimt a Schiele, a Kokoschka) e gli albori dell’architettura funzionalista (Adolf Loos e Otto Wagner), la nascita dell’espressionismo tedesco (da Kirchner a Nolde), del cubismo e dell’astrattismo (da Picasso a Kandinskij e a Klee) sino all’irrompere del futurismo, le nuove frontiere nel campo della poesia e della letteratura (da G.B. Shaw a Wilde, a Gide, Schnitzler, Musil, Hofmannsthal, Rilke, Joyce, Kafka) e naturalmente in quelle della musica impressionistica, atonale e dodecafonica (Debussy, Mahler, Schonberg, Stravinskij, sino ai primi vagiti del jazz), Il tutto intrecciato con la scoperta freudiana dell’inconscio e la nascita della psicanalisi in quello straordinario laboratorio artistico e intellettuale che fu la Vienna di inizio secolo e con tutte le sue ricadute nel campo della filosofia e della sociologia (da Bergson a Husserl, da Durkheim a Simmel), a cui si potrebbe aggiungere l’affermarsi della moderna antropologia (Mauss). E infine, la vera rivoluzione nel campo delle scienze, dalla teoria della relatività alla matematica e alla fisica quantistica, con la ridefinizione dei concetti di spazio e di tempo: il tutto accompagnato da una serie di sensazionali innovazioni tecnologiche, dalla radiotelegrafia al motore a scoppio e all’aeroplano, dalle molteplici applicazioni dell’elettricità alla chimica sintetica, sino all’inaugurazione della prima fabbrica fordista. Al di là delle diverse sensibilità, il tratto che accomunava gran parte di queste esperienze artistiche e intellettuali fu la volontà di rottura con le tradizioni accademiche rivolte al passato e i sistemi di convenzioni e di valori dominanti, nonché la dissacrazione dei tabù e la ricerca di nuove forme espressive attente ai conflitti dell’interiorità: il tutto unito a una visione della modernità che aveva al centro le trasformazioni legate alla tumultuosa crescita dell’industria e delle grandi città, libera dai limiti positivistici del progresso e volta piuttosto a rimarcare il passaggio a una nuova epoca storica carica di incertezze, di lacerazioni e di conflitti, nel quadro dell’incombere della fine, se non della catastrofe, di un’intera civiltà. In questo le avanguardie artistiche e intellettuali dimostrarono una sensibilità e una capacità di percezione ben maggiore delle classi dirigenti europee. Più in generale, come scrive l’autore riprendendo la cornice interpretativa tracciata da Hobsbawm in L’età degli Imperi, il nuovo clima culturale che emergeva già prima del 1914 precorreva per molti importanti aspetti il secolo breve.

In uno scenario già così ampio e basato in massima parte su un vasto spoglio della letteratura secondaria, la contestualizzazione storica più ampia è affidata ai vivaci resoconti di alcuni quotidiani in occasione di eventi che all’epoca colpirono in misura maggiore l’immaginario collettivo (le esposizioni universali di Parigi, la prima trasvolata della Manica, il naufragio del Titanic, la cometa di Halley), mentre la “grande storia” compare attraverso alcuni brevi excursus sul colonialismo, la rivoluzione russa e le guerre balcaniche. Ciò non diminuisce il merito dell’autore di aver proposto, in una riuscita prospettiva interdisciplinare, una riflessione di ampio respiro su un tema di grande rilevanza nella storia del Novecento.

Vita e opere di Joyce Lussu

Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023

Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.

La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.

Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.

Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.

È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.

Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?

Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».

Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.

Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».

Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».

Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.

La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.

Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.

Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».

Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?

Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».

È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.

Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.

Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.

L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.

Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.

Il merito si conquista ma va riconosciuto a tutti

Le riflessioni filosofiche nel saggio di Santambrogío

Alessandra Peluso | La Gazzetta del Mezzogiorno | 6 febbraio 2023

Apparentemente un déjà-vu, ma, di fatto non passa mai di moda parlare di «merito» e al contempo, di «complotto». Per questo riprendere Il complotto contro il merito di Marco Santambrogio e soffermarsi risulta necessario. Con un titolo provocatorio quando in politica si vuole che a ogni costo passi il «merito» secondo parametri a noi sconosciuti Santambrogio trasporta il lettore in un’atmosfera ironicamente complottista. «Il complotto è il dispositivo in cui il potere si articola, si esercita, si dissimula» osserva Donatella Di Cesare, e nasce in particolare dal sentimento di paura e dall’isolamento del cittadino nel vedersi escluso dallo «spazio pubblico» (Arendt). Per questo il timore di non raggiungere le stesse opportunità che tutti meriterebbero di avere. Sorgono allora gli interrogativi: se tutti lo meritano, se può esistere un principio di uguaglianza e cosa occorra fare per avere un riconoscimento e non essere esclusi dalla società.

Il filosofo Santambrogio mostra attraverso fonti accreditate e voci di filosofi cosa sia la meritocrazia dimostrando come quelle società americana, inglese, che si presentano come meritocratiche non rispettino il principio dell’uguaglianza e sostenendo come il merito non sia qualcosa che si trasferisce da posizioni e da posti di lavoro. Il merito insomma si conquista. Con un’accurata argomentazione Santambrogio pone un’attenta disamina, snocciola la questione muovendo dai princìpi della meritocrazia e da Michael Young che critica il governo di Tony Blair per attuare una netta differenza tra ricchi e poveri e quindi impedire a tutti di emergere. Secondo Young occorrerebbe intervenire sul sistema fiscale; e, ancora, trova il piglio argomentativo in Michael Sandel che enuclea le differenze di coloro che si laureano ad Harvard e in altre Università e attribuisce la responsabilità ai genitori che sollecitano alla competizione e alla produzione, proponendo – per risolvere il problema delle differenze – di fissare una soglia di qualificazione e lasciare che sia la sorte a scegliere per eliminare o ridurre arroganza e umiliazione.

Marco Santambrogio non discute di certo sul riconoscimento della categoria del merito, bensì sulle modalità di come essa venga stimata e su ulteriori questioni che non possono essere tralasciate come appunto quella di «sopravvalutare i meriti di coloro che si trovano a occupare le posizioni migliori della società». È chiaro che tutto questo si evidenzia dalla Modernità ai nostri giorni, ovvero dagli inizi del progresso, di presenza di divario, di un’istruzione e un lavoro per tutti perché in fondo sappiamo sono diritti della Costituzione che dovrebbero essere tutelati ed estesi all’intera popolazione. E allora il merito?

Dalla modernità alla contemporaneità la società sembra far leva su concorrenza, competizione, lavoro, uguaglianza, diversità e perdonate se cito il saggio sulla Sociologia della concorrenza di Simmel che ci aiuta – sostenendo in qualche modo le riflessioni di Santambrogio – a riflettere su cosa sia la concorrenza e cosa comporti, dove devono sussistere gli stessi criteri di riconoscimento, lo stesso punto di partenza, le stesse regole tra i partecipanti, i cittadini, i singoli individui. Pertanto, non possiamo parlare né di socialismo né di liberismo che Simmel critica, ma di «autoresponsabilità» e «giustizia». Etica, diritto, politica: che vi piaccia o no non possono essere scisse, altrimenti i risultati sono sotto gli occhi di chi abbia voglia di rivolgere lo sguardo, ovvero corruzione, malaffare, inadeguatezza, risentimento, prevaricazione, ecc.

La meritocrazia ha il volto dell’umano, così quanto il potere e il complottismo. Comprendere che società vogliamo e soprattutto quali risultati raggiungere e dove si voglia andare forse questo risulta essenziale. Superare tale gap è fondamentale se vogliamo costruire uno spazio pubblico occupato da soggetti pensanti e responsabili. In altre parole, il saggio di Marco Santambrogio ci offre validi strumenti e opportunità di comprensione della complessità della «meritocrazia» e delle relazioni tra individuo, tra maestri e allievi, società.

CLUB LATERZA | Appuntamento con Valentine Lomellini

Club Laterza | La diplomazia del terrore: appuntamento con Valentine Lomellini

Alla fine degli anni Sessanta, Italia, Francia, Germania occidentale e Gran Bretagna – Paesi già colpiti dal terrorismo interno – si trovarono a far fronte a una nuova minaccia: le organizzazioni armate, nate in Medio Oriente, che internazionalizzarono la propria lotta esportando il terrorismo in Europa. Raggiunsero il loro obiettivo? Generarono il caos internazionale? O invece i Paesi europei riuscirono, almeno temporaneamente, a disarmare i terroristi, includendoli nel sistema delle relazioni internazionali?

Appuntamento giovedì 2 marzo alle 18 con Valentine Lomellini, professoressa associata di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Padova, per discutere insieme su Zoom del suo ultimo libro, La diplomazia del terrore.

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