“Non fu Mussolini a guidare la marcia”

A colloquio con il maggiore storico del fascismo sugli eventi di cento anni fa. L’estremismo e le divisioni interne misero fuori gioco la sinistra. Il Duce in cuor suo disprezzava gli italiani: voleva obbedienza, non consenso

Walter Veltroni | Corriere della Sera | 25 ottobre 2022

Il professor Emilio Gentile ha dedicato tutta la vita allo studio del fascismo. A lui chiedo di dirci, cento anni dopo, quanto la marcia su Roma fu prodotta dalla volontà del fascismo e quanto dalla crisi dello Stato liberale.

«La marcia su Roma più che a Mussolini fu dovuta alla decisione di Michele Bianchi. Va ridimensionato il ruolo di Mussolini nella decisione finale di esigere, con il ricatto dell’insurrezione, non una partecipazione dei fascisti al governo con un vecchio presidente del Consiglio liberale, ma la guida del governo affidata a lui stesso. Mussolini stava negoziando separatamente e segretamente con Giolitti. L’obiettivo era ottenere un governo con cinque o sei ministri fascisti nei dicasteri chiave. Non prevedeva affatto l’assunzione personale del potere. E il Partito fascista, tramite la personalità del suo segretario generale Bianchi, che dalla fine del 1921 quando si costituisce, fino al 26 ottobre del 1922, spinge la macchina squadrista ad una insurrezione che doveva ricattare il governo. È chiaro che tutto questo è reso alla fine possibile dall’incapacità del governo liberale di far fronte, ormai da due anni, alla costituzione di un partito milizia che spadroneggiava con metodi dittatoriali e arbitrari in gran parte del Paese. Si succedono freneticamente governi debolissimi. Certamente questa fu una causa del tracollo della democrazia».

Quanto contò l’esito della guerra nel generare il clima del 28 ottobre?

«Senza la Grande guerra non ci sarebbe stato probabilmente il fascismo. Non si può dire che la guerra abbia inevitabilmente generato il fascismo, ma il fascismo ha le sue radici nella guerra, nell’esperienza della guerra, nel mito della guerra. Pensiamo ai politici che si sfidano, proprio nelle giornate di ottobre. Il più giovane dei vecchi presidenti del Consiglio era Nitti che aveva 58 anni, i più anziani dei fascisti che contrattano con questi presidenti del Consiglio sono Mussolini e Bianchi che hanno 39 anni. La guerra è uno spartiacque. Incide in due modi: nel creare il mito del fascismo come creatura che rivendica la vittoria dopo l’interventismo e il mito della giovinezza che rivendica il diritto a comandare in un Paese che aveva avuto presidenti del Consiglio molto anziani e assolutamente incapaci di capire sia l’interventismo, sia la guerra, sia il conflitto del dopoguerra».

Mussolini usava lo squadrismo per favorire una soluzione di tipo politico?

«Esatto. Lui se ne serviva ma non era disposto a concedere allo squadrismo iniziativa politica. Ma lo squadrismo non era solo un fenomeno di violenza manovale, era un fenomeno politico, che poi diventò l’essenza del fascismo, anche dopo. Il conflitto di Mussolini con gli squadristi inizia con il patto di pacificazione, quando gli squadristi addirittura lo chiamano traditore: ha tradito il socialismo nel 1914 e oggi, con il patto di pacificazione, tradisce il fascismo. Gli squadristi si rivolsero così a D’Annunzio per averlo come guida. Mussolini nel luglio de11921 coltiva il progetto di un partito laburista per i ceti medi che avrebbe dovuto comporre una sorta di coalizione parlamentare fra i partiti di massa con i socialisti riformisti e con i popolari. E a questo mirava il patto di pacificazione. Sono gli squadristi che fanno saltare tutto. Il Partito fascista nasce fin dall’inizio come un partito milizia e tale rimarrà, condizionando Mussolini fino al 1926».

Si può dire che la marcia su Roma l’abbia guidata Bianchi più di Mussolini?

«Secondo me sì. Nel mio libro E fu subito regime cito due lettere, una del 10 giugno 1924, il giorno stesso del delitto Matteotti, quando Bianchi teme di essere liquidato da Mussolini, come era successo a Rossi, a De Bono, o a Balbo, e gli scrive dicendogli “ricorda che la marcia su Roma non sarebbe stata possibile se nell’agosto del 1922 il fascismo non avesse stroncato lo sciopero legalitario imponendo per mia iniziativa, soltanto per mia iniziativa contro il difforme parere del vecchio gruppo parlamentare e le tue strapazzate all’Hotel Savoia contro il mio ‘colpo di testa’, l’ultimatum delle 48 ore; ricorda che prendendomi del matto dai saggi che pontificavano di politica a Montecitorio alla vigilia della marcia su Roma lanciavo per primo — 26 ottobre 1922 — l’idea di un governo Mussolini”. Penso che sia ora di smetterla con il considerare Bianchi una sorta di figura minore. Perché tutto ciò che è stato il fascismo, anche dopo il 1922, è largamente dovuto a Michele Bianchi, segretario del partito, e agli squadristi che appoggiavano la sua iniziativa insurrezionale».

Quale fu l’errore della sinistra?

«Gli errori cominciarono dalla pretesa di mobilitare le masse per una rivoluzione bolscevica che non erano in grado di compiere perché le masse non erano affatto bolsceviche. Le masse maggiormente organizzate, oltre un milione e mezzo, erano della Confederazione generale del lavoro, guidata dai riformisti. Ci fu una vera e propria dispersione della enorme forza accumulata in trent’anni. Lo statuto del Psi dell’ottobre 1919, che introdusse la conquista violenta del potere per instaurare la dittatura del proletariato, cacciò questa enorme forza politica in un vicolo cieco. Nell’ottobre del 1920 la fine dell’occupazione delle fabbriche diede il colpo mortale. II secondo motivo fu l’odio profondo che si generò tra il Partito socialista e il neonato Partito comunista, tanto che nelle elezioni del maggio del 1921 il manifesto elettorale del Partito comunista incitava il proletariato a passare sul cadavere del Partito socialista. Terzo elemento fu l’espulsione dei riformisti dal Partito socialista massimalista.

Tutto questo produce il tragico paradosso di uno schieramento che rappresenta il primo partito in Parlamento e controlla i comuni in tutte le regioni più modernizzate d’Italia che, per effetto di divisioni e scissioni, si frantuma progressivamente. Fino poi a sottovalutare completamente il fascismo. Dopo la grande adunata di quarantamila fascisti a Napoli, il 24 ottobre 1922, il titolo de “L’Ordine nuovo” giornale comunista è: La fine della farsa. II giorno prima della marcia su Ro ma, lo stesso giornale pubblica un artico lo: Massimalismo fascista, in cui preannuncia la ormai prossima disgregazione del fascismo. La vittoria del fascismo è in larghissima parte conseguenza della tota le incapacità della principale forza politica italiana di saper cogliere il momento per realizzare sicuramente una rivoluzione democratica, cosa che le avrebbe consentito il successo dei socialisti e dei popolari alle elezioni del 1919».

II re è nel passaggio della dichiarazione dello stato d’assedio una figura molto controversa: cambia posizione sullo stato d’assedio e poi conferisce l’incarico a Mussolini, del quale condividerà le scelte più tragiche.

«Considero il re la peggiore sciagura che ha avuto l’Italia, a partire dall’incarico a Mussolini. Ma devo giustificare il comportamento di Vittorio Emanuele III, storicamente. Lui, la sera del 27 ottobre, pareva deciso ad usare qualsiasi mezzo per porre fine a un’insurrezione di bande armate, tra l’altro con a capo un ex socialista internazionalista che fino ad un anno prima aveva auspicato la Repubblica. Però, dopo aver accettato lo stato d’assedio, si rende conto che a proclamarlo è un governo dimissionario, quindi privo ormai di potere, guidato da un uomo, come Facta, assolutamente incapace di assumere iniziative decise e rischiose. Nella decisione finale del re di non firmare lo stato d’assedio pesa il fatto che tutti i suoi ex presidenti del Consiglio: Giolitti, Nitti, Salandra, Orlando, in realtà trattavano con Mussolini. E sin dal 1921 — quando, alle elezioni di maggio, Giolitti favorisce l’ingresso di trentacinque deputati fascisti in Parlamento facendoli presentare nei suoi Blocchi nazionali — si sosteneva pubblicamente che il fascismo non fosse un problema di polizia, ma un problema politico e che non bisognava usare la forza. C’era l’illusione che, portando Mussolini al governo, la banda di giovani scapestrati si sarebbe dissolta e Mussolini stesso si sarebbe addomesticato a seguire le linee del governo costituzionale. Io credo che il re abbia fatto questo ragionamento: se tutti sono contrari all’uso della forza, perché devo assumere io il compito di dichiarare uno stato d’assedio per il quale perfino i generali non garantiscono la totale obbedienza dell’esercito? Secondo me tutti i disastri degli anni del fascismo sono principalmente dovuti al re, perché era il capo dello Stato e poteva e doveva opporsi alla sistematica demolizione dello Stato liberale. Un capo dello Stato che firma tutte le decisioni del governo fascista, comprese le leggi razziali e la guerra, è responsabile di tutto il fascismo. Ma al momento della marcia su Roma, penso che lui abbia fatto quello che tutti, senza volerlo dire, volevano che facesse».

Il suo libro del 2012 si intitola «E fu subito regime». Dal 28 ottobre cambia la natura della nazione…

«Un partito armato è geneticamente incompatibile con un regime liberale. Fu un’illusione ritenere che l’aspetto militare e l’imposizione dittatoriale dello squadrismo in gran parte dell’Italia del Nord e del Centro non fossero l’essenza del fascismo stesso. Mussolini è chiaro: lo Stato fascista non penserà di lasciare la libertà ai propri nemici come ha fatto lo Stato liberale. No, lo Stato fascista dividerà gli italiani in tre categorie: gli italiani indifferenti andranno lasciati a casa loro, gli italiani simpatizzanti potranno circolare e gli antifascisti, i nemici, quelli non potranno essere tollerati. Ed è quello che il fascismo comincia a fare. Il 31 ottobre, con Mussolini a capo del governo, ci fu una vera e propria caccia all’antifascista a Roma. Nel dicembre, gli squadristi torinesi uccisero decine di comunisti o presunti tali, e i responsabili vennero tutti amnistiati, perché avevano commesso “atti di violenza per fini nazionali”. Luigi Salvatorelli, Amendola e Sturzo avvertono per primi l’impossibilità di assorbire un partito milizia all’interno di un sistema costituzionale, specialmente dopo che lo squadrismo stesso diventa una milizia legalizzata agli ordini del capo del governo».

Quale fu la natura del consenso che accompagnò il fascismo?

«Mussolini nel marzo del 1923 pubblica un articolo, Forza e consenso, in cui dice molto chiaramente “a noi fa piacere avere il consenso ma, se non c’è, noi abbiamo la forza”. Per tutto il ventennio successivo il fascismo sicuramente fu accettato dagli italiani e in larghissima parte gli italiani parteciparono con entusiasmo a tutto ciò che rappresentava esteriormente la forza del fascismo, come la potenza dell’Italia nel mondo. Lo dimostra soprattutto il periodo della guerra d’Etiopia quando persino Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, non in nome del fascismo, ma del patriottismo, furono solidali con l’Italia in guerra. È innegabile che questo fu lo spirito di quel tempo. Basta leggere i rapporti che mandavano i comunisti clandestini, in cui si diceva che ormai il fascismo aveva esteso l’influenza della sua ideologia anche sulle masse operaie, specialmente sui giovani. Ma il fascismo era soprattutto una fabbrica dell’obbedienza. I dopolavoro, le manifestazioni e le organizzazioni del regime sono un modo di costruire l’obbedienza, non il consenso. Mussolini non lo ricercava, tanto è vero che dal 1936 in poi, quanto più si accorge che sta perdendo consenso con le sue avventure militari, tanto più insiste. Mussolini odia il popolo italiano che si è rivelato incapace di diventare quel grande popolo e quella razza suprema che lui voleva. Il disprezzo di Mussolini, pubblicamente dichiarato nei confronti del popolo italiano durante tutta la guerra e poi nelle lettere alla sua amante durante la Repubblica sociale, è qualcosa di mostruoso, che neanche Hitler ha espresso nei confronti dei tedeschi con la stessa ferocia e cattiveria. Il regime non cercava il consenso, voleva solo obbedienza entusiastica. C’è una bellissima frase di Joseph Roth che venne in Italia alla fine degli anni Venti: “In Italia l’entusiasmo è obbligatorio”. E questa la formula più precisa di ciò che si intende per consenso in un regime totalitario».

Lei come spiegherebbe ad un ragazzo che nel nostro grande Paese è capitato che il capo del governo nel 1925 abbia potuto impunemente rivendicare in Parlamento l’assassinio di un leader dell’opposizione?

«Gli direi di guardare un esempio ancora di più madornale e più scioccante, quello della Germania. Come mai la Germania, che era un Paese colto, progredito, leader nel campo della scienza e del pensiero razionale, manda al potere con il proprio voto un fanatico che la condurrà alla tragedia? Purtroppo è la dimostrazione che persino i Paesi che hanno molta cultura ma sono dominati da passioni mitiche, possono in qualsiasi momento prendere una strada che non era quella alla quale sembravano destinati. Ciò che è successo con l’occupazione del Campidoglio di Washington ha dimostrato che neanche gli Stati Uniti sono esenti da questo pericolo. Non penso che essi diventino fascisti, lei sa che sono contrario all’uso estensivo del termine fascismo al di fuori dell’epoca storica e del neofascismo. Il problema è che non esiste in nessun Paese, per quanto antiche siano le sue tradizioni democratiche, la possibilità di prevenire, in momenti di crisi, l’esplosione di una passionalità di massa che viene utilizzata strumentalmente per cambi di sistema e riduzione delle libertà. E siccome l’amore non si può produrre artificialmente, ma l’odio sì, è più facile creare l’odio che l’amore per la democrazia».

 

L’Italia s’è desta? Risorgimento e Unità nazionale tra retorica e realtà

CORSO DI FORMAZIONE DOCENTI

L’Italia s’è desta?
Risorgimento e Unità nazionale tra retorica e realtà

Su Piattaforma ZOOM – Marzo 2023

Corso accreditato MIUR promosso dal Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica (Dirium) Università degli Studi di Bari Aldo Moro e dalla Casa Editrice Laterza.

Direttrice responsabile: Annastella Carrino.

 

DESCRIZIONE

Il corso, che inaugura il nuovo ciclo di corsi di formazione ‘La storia alla prova dei fatti. Analizzare e decostruire a scuola gli stereotipi della storia‘, rivolto ai docenti della scuola secondaria di secondo grado, ha come oggetto la lettura del Risorgimento come grande momento di conflitto politico, del quale la guerra del brigantaggio è il capitolo che vede innanzi tutto la lacerazione tra due visioni del mondo interne al Regno delle Due Sicilie. L’obiettivo è mostrare la complessità del processo di unificazione nazionale italiana, depurandola dalla diffusa lettura eroicizzante dei briganti e dalla rappresentazione di un Mezzogiorno prospero e felice, ma inerte, vittima della ‘occupazione’ sabauda.

La proposta formativa coniuga l’approfondimento dell’aspetto storico e l’aggiornamento storiografico con la progettazione, secondo metodologie innovative, di attività didattiche centrate su precisi indicatori di competenza e nuclei fondanti disciplinari. Inoltre, le/i docenti potranno proporre alle studentesse e agli studenti un percorso in cui la competenza disciplinare storica è integrata con l’Educazione civica.

 

PROGRAMMA

Giovedì 2 marzo, ore 16.00 – 19.00

Valentina Colombi (Istituto piemontese per la storia della Resistenza), Risorgimento divisivo e retorica dell’Unità nazionale

Enrica Bricchetto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza), Laboratorio didattico

Giovedì 9 marzo, ore 16.00 – 19.00

Carmine Pinto (Università di Salerno), Guerra di brigantaggio e conflitto politico nel Mezzogiorno

Enrica Bricchetto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza), Laboratorio didattico

Lunedì 13 marzo, ore 16.00 – 19.00

Annastella Carrino (Università di Bari), Il grande brigantaggio nei manuali scolastici tra testo e immagini

Antonella Fiorio (Discovery Education Entertainment and Play Laboratory Srl), Smascherare le ‘fake news’. Il brigantaggio nel web con laboratorio didattico

Martedì 28 marzo ore 16.00 – 18.00

Attività di debriefing sulle attività svolte, a cura di Enrica Bricchetto e Antonella Fiorio

 

DESTINATARI

Docenti di scuola secondaria di secondo grado.

 

MODALITÀ DI EROGAZIONE E DURATA

Il corso, interamente online, è in modalità sincrona ­ su piattaforma di videoconferenza Zoom – e asincrona. Contenuti e attività digitali saranno condivisi con Gdrive e Padlet.

Il corso è di 25 ore complessive così suddivise:

  • Attività di esplorazione dei materiali + questionario iniziale (2 ore)
  • 3 incontri di 3 ore in modalità sincrona (9 ore)
  • 3 etivity di 3 ore in modalità asincrona (9 ore)
  • 1 incontro in modalità sincrona di debriefing (2 ore)
  • Preparazione attività e materiali per le classi/relazione finale (3 ore)

 

PARTECIPAZIONE E ATTESTATO FINALE

La presenza è obbligatoria almeno per il 75 % del monte ore complessivo. L’attestato di frequenza riporterà il monte ore raggiunto da ciascun docente. Otterrà il riconoscimento di 25 ore chi, oltre a completare il corso e a frequentarlo in modo attivo, completando le etivity richieste, compilerà il questionario finale somministrato nell’ultimo incontro.

Per la frequenza al corso è previsto l’esonero dal servizio (art. 64 CCNL 29/11/2007).

 

COSTO

Il corso di formazione è gratuito. È necessaria la registrazione al sito www.laterzalibropiuinternet.it.

 

ISCRIZIONI

Iscrizioni entro il 24/02/2023 sulla piattaforma Sofia (https://sofia.istruzione.it/).

Identificativo del corso su Sofia: 79929

 

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> Scarica la locandina del corso

 

Silvia Ballestra e la vita di Joyce Lussu: “La mia Sibilla”

Massimiliano Rais | L’Unione Sarda | 12 novembre 2022

L’ultimo sogno di Joyce è l’incontro con Emilio per sposarsi. Lei indossa una veste bianca ricamata, un abito da sposa. Un nuovo incontro tra loro. In un orizzonte diverso rispetto a quello dei “fronti e delle frontiere” che hanno attraversato nella lotta contro il nazifascismo.

Silvia Ballestra racconta questo sogno nel libro La Sibilla, vita di Joyce Lussu. […] È la seconda volta che la scrittrice marchigiana si confronta con una donna che ha affrontato le tempeste del Novecento con la forza delle sue idee e della sua coerenza. Nel 1996 ha pubblicato “Joyce L. Una vita contro”, frutto di lunghe conversazioni con la sua sibilla. “L’ho conosciuta in un momento molto particolare della mia vita, quello della formazione. A distanza di tanti anni dal primo libro – spiega Silvia Ballestra – ho voluto riprendere alcune idee che riguardano il mio rapporto con lei per ripercorrere una vita straordinaria. Avevo anche voglia di approfondire la sua poesia e la sua funzione di traduttrice. Questo volume è una biografia in senso classico. Si parte dall’infanzia e si arriva alla fine della vita. Mettendo insieme tanti momenti che lei ha rievocato nelle sue opere. Una vita lunga, intensa”.

Quali valori le ha trasmesso?

Ogni volta che ci penso dico di aver avuto una fortuna pazzesca a incontrare Joyce. Ma chiunque si è avvicinato alla sua figura è rimasto profondamente colpito. Joyce, come Emilio Lussu, era capace di risvegliare le coscienze. Ha dimostrato che l’utopia non è qualcosa di irrealizzabile. Lei, che ha lottato contro i totalitarismi e più tardi per la liberazione dei paesi africani dal giogo coloniale, incarna l’utopia del possibile.

Perché considera Joyce Lussu una sibilla?

Ha anticipato molti temi perché li conosceva bene. Aveva la capacità di capire quali fossero i più importanti. In cima ai suoi pensieri c’era il tema della guerra, evento terribile che aveva vissuto direttamente. È una questione drammaticamente attuale che va sviscerata e smontata come ha fatto Joyce che ha riflettuto sugli armamenti e sulle tecnologie della distruzione. Ci teneva molto ragionare su che cosa sia la civiltà e su che cosa sia la barbarie.

Anche sulla questione ambientale è stata profetica.

Ha anticipato il tema dell’ambiente.  Lo ha fatto negli anni Settanta quando in Italia non se ne occupava nessuno. Nel saggio “L’acqua del 2000” riflette sullo sfruttamento delle risorse del pianeta e propone modelli più equilibrati.

La critica ma anche la capacità di indicare vie alternative.

Accanto alla denuncia e all’individuazione dei problemi c’era sempre una proposta di soluzione. Era coerente, molto salda sulle sue posizioni e determinata nel far valere le sue idee.

Joyce ed Emilio. L’olivastro e l’innesto. Come si sviluppa il suo rapporto con la Sardegna?

Joyce giunge nell’Isola dopo la guerra. Emilio era ministro. Lei dice: non voglio fare la moglie del ministro.  Ha deciso di intraprendere un percorso autonomo. Arriva in Sardegna con grande curiosità e si innamora di questa terra. Lei parla di innesto. La nascita di qualcosa di nuovo e di fecondo. Joyce ha girato tutta la Sardegna in un momento in cui l’Isola affrontava una fase tormentata con tante ferite, traumi, tormenti. Ha scritto racconti bellissimi su ciò che ha visto nei suoi viaggi spesso a cavallo per strade impervie. Ha organizzato a Cagliari, nel 1952, un grande convegno insieme ad altre donne sarde di vari partiti. Donne che hanno discusso di questioni molto concrete come il lavoro, il salario, la casa, l’istruzione, l’ambiente. Un evento che ancora viene ricordato. Joyce continua ad essere un riferimento per tante persone. Non c’è più lei ma ci sono i suoi libri e le sue idee.

Nel libro Silvia Ballestra scrive che “Joyce era stata contenta di aver fatto quel sogno: di questo appuntamento che aveva con Emilio da qualche parte, e che lei aspettava come già era accaduto con successo tante volte nella loro vita grazie alla loro speciale telepatia familiare, ne aveva parlato come di una cosa che le aveva messo allegria e lasciato un grande sentimento di pace per quell’ulteriore possibile incontro, atteso da tanto tempo”.

Perché l’Italia non è un Paese per madri

La ricercatrice in demografia Alessandra Minello dedica il suo ultimo saggio alla crisi delle culle. Ed elenca i problemi strutturali che affrontano le donne del nostro tempo

Marina Valensise | Il Messaggero | 7 agosto 2022

Le statistiche sono come un bikini: danno tante idee, ma nascondono l’essenziale. E però le statistiche sull’attuale curva demografica italiana sembrano esiziali. Lasciano pochi dubbi sull’annunciato suicidio verso il quale ci stiamo avviando, a meno che non si riesca a invertire la tendenza adottando subito le contromisure necessarie. In buona sostanza, in Italia nascono sempre meno bambini, le donne che non hanno figli aumentano e anche se le childfree, cioè quelle che scelgono di non averne, perché i figli non rientrano nel loro progetto di vita, sono una minoranza, aumentano in percentuale le donne che hanno il primo figlio dopo i quarant’anni, e chi diventa madre lo fa sempre più tardi e in modo sempre più complicato e angoscioso. Cosi la dimensione della vita più naturale e spontanea che esista, mettere al mondo un figlio, rischia di trasformarsi per molte donne in un percorso a ostacoli, costellato di sensi di colpa, rinunce, tentativi impossibili, lutti insuperabili.

I NUMERI. Attualmente, il numero di figli per donna è inferiore a 1.3, il che pone l’Italia fra i paesi a più bassa fecondità, anche se secondo una recente indagine dell’Istat, Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita, più della metà degli italiani vorrebbe avere due figli, un quarto ne vorrebbe avere tre o più di tre, appena il 5.6 per cento desidera il figlio unico, mentre il 41 per cento di chi ha già un figlio ne vorrebbe un altro, ma non può.

Dunque, il bikini, tante idee, ma la sostanza non si vede. Per scoprirla è bene leggere questa radioscopia ragionata fornita da Alessandra Minello, una demografa del dipartimento di Statistica dell’ateneo di Padova, che combina insieme le scienze sociali e la militanza, spaziando a largo raggio su vari campi: oltre la demografia, l’economia, l’economia del lavoro, la sociologia della famiglia, le rappresentazioni del potere, la tradizione dei ruoli sessuali, la cultura delle differenze, la mitografia della famiglia classica. Non vi spaventate, però: molta dottrina e altrettanta chiarezza illustrano il fardello che grava sulle spalle delle e degli italiani, che vorrebbero avere figli ma non possono. […]

VOCAZIONE. Niente di più nobile e di più insidioso per chi aspira a conciliare la vocazione materna e l’autorealizzazione professionale, ma non sa uscire dalla trappola delle differenze di genere. «Mio marito in casa si occupa di tutto» dirà la mamma pronta a sobbarcarsi un carico da 90 col lavoro domestico dopo otto ore in ufficio. «Anche di pulire il bagno?» domanda la ricercatrice. E qui casca l’asino, mettendo a nudo il pregiudizio. La tradizionale divisione dei ruoli e la loro incongruenza rispetto alle esigenze della società contemporanea, dove le donne aspirano a entrare nel mondo del lavoro, dove la formazione professionale le spinge a procrastinare la scelta maternità, dove scienza e tecnica facilitano forme di riproduzione che scardinano ruoli, modelli e persino generi.

SOPRAVVIVENZA. Il gender gap non è più tollerato, non tanto in nome dell’eguaglianza, quanto in ragione della nostra stessa sopravvivenza. Urge perciò limarne i contorni, favorire sin dalla più tenera età i modelli genderfree, incoraggiare il congedo parentale, i servizi per l’infanzia, e suffragare l’idea che anche un uomo, anche il padre, pur privo di ovaie e mammelle, si possa dedicare con successo alla cura dei figli. L’evoluzione del costume sembra andare in questa direzione, basta vedere la messa in scena della vita quotidiana in casa Ferragnez, con lui che dà la pappa alla piccoletta, mentre lei posa in un albergo di New York. Molto però resta ancora da fare e la scelta è drastica: per diventare davvero un Paese per madri, l’unica via possibile è decostruire il mito della maternità.

 

>> IL LIBRO

I nazisti alla sbarra

Un saggio di Tommaso Speccher rievoca i processi celebrati nella Repubblica federale tedesca. Spicca in tutta la vicenda il ruolo assunto dal magistrato Fritz Bauer, determinato a punire i carnefici agli ordini di Hitler

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 6 settembre 2022

La Germania occidentale fece grande fatica nel secondo dopoguerra a fare i conti con il passato hitleriano. «In meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale mentre i suoi conquistatori hanno ridotto in cenere le testimonianze visibili di più di mille anni di storia tedesca», scriveva Hannah Arendt in Ritorno in Germania (Donzelli) parlando del proprio Paese come di una «terra devastata e amputata». Winfried G. Sebald in Storia naturale della distruzione (Adelphi) ha messo in evidenza come l’annientamento della Germania «entrò negli annali della nuova nazione, che andava allora costituendosi, soltanto sotto forma di vaghe generalizzazioni e sembrò non aver quasi lasciato postumi dolorosi nella coscienza collettiva».

Il tema fu affrontato da Karl Jaspers che nel 1946 tornò ad Heidelberg (dopo otto anni d’esilio a Basilea) e tenne una serie di lezioni universitarie raccolte poi in La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania (Raffaello Cortina editore). Jaspers affrontò il tema della corresponsabilità di coloro – quasi tutti – che non avevano fatto l’impossibile per impedire i crimini nazisti. Ma il suo divenne in qualche modo un paradigma interpretativo assolutorio. Almeno in parte. Parlare delle colpe di tutti poteva far sì che non fosse adeguatamente affrontato il tema di quei molti che ebbero responsabilità specifiche nella produzione del male. Di questo problema si occupa Tommaso Speccher nell’interessantissimo La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, in uscita il 9 settembre per le edizioni Laterza.

I conti con il nazismo furono fatti dalla Germania con grande difficoltà. A cominciare dai processi successivi a quelli di Norimberga. Quelli di Norimberga venivano celebrati dai vincitori negli anni che seguirono alla fine della guerra. Adesso toccava ai tedeschi.

Protagonista indiscutibile della «stagione dei conti giudiziari con il nazismo» è, secondo Speccher, Fritz Bauer, un giurista ebreo nato a Stoccarda nel 1903 che era stato, già sul finire degli anni Venti, il più giovane magistrato della Repubblica di Weimar. Dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, Bauer nel 1933 era stato licenziato e successivamente, per otto mesi, rinchiuso, in quanto socialista, nei campi nazisti di Oberer Kuhberg e Heuberg (assieme a Kurt Schumacher che nel 1946 sarà il rifondatore del Partito socialdemocratico tedesco). Nel 1936 Bauer era riuscito a fuggire in Danimarca e nel 1940 in Svezia, dove assieme al futuro cancelliere Willy Brandt diede vita alla «Sozialistische Tribune». Rientrò nel suo Paese soltanto nel 1949 per essere nominato direttore generale di uno dei tre tribunali del Land Niedersachsen. Da notare, scrive Speccher, che «per ben quattro anni l’opzione di un posto nella magistratura tedesca gli era stata più volte sorprendentemente negata dagli americani stessi». Probabilmente «anche a causa di certe ritrosie dei vecchi colleghi».

Appena tornato al posto che gli spettava, Bauer si imbatté nel «caso Hannibal». L’ex poliziotto delle SA Wilhelm Hannibal era stato giudicato da una corte alleata britannica colpevole di «crimini contro l’umanità e sequestro di persona» per reati commessi a partire dal 1933. Ma una corte d’appello tedesca l’aveva poi assolto e rimesso in libertà. A giudizio dei magistrati tedeschi, Hannibal «non poteva avere consapevolezza di commettere un atto illegale, visto che stava eseguendo degli ordini nella sua funzione di ufficiale di polizia». Bauer si oppose a questa decisione. Fece riaprire il processo e ottenne una condanna di Hannibal a tre anni di carcere per «privazione della libertà, a partire da un esercizio di un atto arbitrario e consapevole di natura terroristica e criminale». Bauer stabilì che Hannibal aveva «preso parte alla perpetrazione di tali delitti come membro dell’organizzane criminale nazista». Una sentenza clamorosa (anche se la condanna fu relativamente poco severa) dal momento che il verdetto, del 1950, riprendeva il filo giuridico del processo di Norimberga.

Con questo atto giudiziario, Bauer metteva in evidenza il conflitto già portato alla luce da Ernst Fraenkel – in Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura (Einaudi) – «tra la legalità di uno Stato produttore di leggi e l`illegittimità strutturale di uno Stato arbitrario e sovvertitore di qualsiasi legge». Nel 1952 Corte Suprema tedesca tornò su quella decisione e cancellò in maniera «definitiva» la condanna di Hannibal. Ma nel frattempo lo sconfitto Bauer si era già imbattuto in un nuovo caso, quello di Otto Ernst Remer.

Remer era il principale rappresentante di un partito, Sozialistische Reichspartei, che nel secondo dopoguerra si proponeva la riabilitazione dell’esercito tedesco per il ruolo «indipendente» che aveva avuto nella Seconda guerra mondiale. La Srp si richiamava a Karl Donitz, ultimo capo supremo della Wehrmacht dopo la morte di Hitler. Nel corso di un comizio, Remer arrivò a sbeffeggiare Claus von Stauffenberg che il 20 luglio 1944 aveva attentato al Fuhrer, pagando poi con la vita il proprio di resistenza. Stauffenberg e i suoi complici, che tra l’altro era stato il braccio destro del vice aveva detto Remer nel comizio, «furono essenzialmente dei traditori della Patria». Formulò poi la previsione (auspicio) che, «ben presto», sarebbe venuto il giorno «in cui ci si vergognerà di aver fatto parte» di quel gruppo di cospiratori.

II processo contro Remer fu assai complesso. La posta in gioco, come è evidente, era la «restituzione dell’onore» alla Wehrmacht i cui reduci intendevano presentarsi come «non compromessi con Hitler». Ma si metteva in discussione la legittimità della Resistenza tedesca. Tra il 1950 e il 1951, ricorda Speccher, molti tribunali avevano respinto i processi di revisione delle condanne naziste nei confronti di quelle poche formazioni che si erano battute contro il nazismo (Herbert Baum Gruppe, Rote Kapelle). L’imputato Remer chiamò a testimone perfino il criminale di guerra Erich von Manstein (tale deposizione venne però respinta dalla Corte). Il processo si concluse con la condanna di Remer a tre mesi di carcere per diffamazione. Poco tempo dopo, su input del cancelliere Konrad Adenauer, la Srp fu messa al bando. Ma ex ufficiali collegati al partito di Remer e a Manstein ebbero un ruolo decisivo al momento della ricostituzione, nel 1955, dell`esercito tedesco.

Bauer tornò poi all’attacco con il cosiddetto «processo agli Einsatzgruppen» di Ulm che altri otto imputati, ebbe con oggetto le atrocità commesse dai nazisti in Europa orientale a partire dal1941. Un processo breve: durò appena sessanta giorni, dal 28 aprile al 29 agosto de11958. Fu l`occasione di portare, per la prima volta, sul banco de gli imputati alcune figure di spicco delle SS e diversi loro collaboratori. Gli atti, tremila e cinquecento pagine, costituiscono una preziosa documentazione sui crimini hitleriani.

Fondamentale fu in questa occasione il ruolo del procuratore Erwin Schule il quale, scrive Speccher, «intuì che non era possibile studia re i singoli crimini caso per caso, come era consuetudine del diritto penale quando si trattava di omicidi». Era invece «indispensabile considerare l`intera attività dell’Einsatzkommando di Tilsit». Sul banco degli imputati sedevano personalità di rilievo medio alto come Hans-Joachim Bdhme, Werner Hersmann, il poliziotto lituano Pranas Lukys. Il processo mise in luce la loro complicità nella fucilazione di un centinaio di ebrei (gli imputati, sottolinea Speccher, si erano poi «fotografati a vicenda vicino alle fosse comuni, prima di ubriacarsi in una locanda, pagando il conto con i soldi rubati alle vittime e regalandosi tra loro bottiglie di whisky e sigarette»). Nell’arringa finale il procuratore Schule chiese un castigo severo ma gli imputati vennero condannati solo per «complicità in omicidio» con pene dai quindici ai tre anni e, scrive Speccher, «il verdetto di Ulm fu tristemente esemplare per i processi successivi».

Bauer a questo punto si persuase che in Germania fosse impossibile processare davvero e fino in fondo i criminali nazisti. E decise di passare al governo israeliano informazioni fondamentali per la cattura in Argentina nel 1960 di Adolf Eichmann. Il processo Eichmann tenutosi nel 1961 a Gerusalemme contro colui che tra l’altro era stato il braccio destro del vice protettore della Boemia e Moravia, Reinhard Heydrich (soprannominato «il macellaio», ucciso a Praga dalla Resistenza nel 1942), fu un processo che ebbe carattere di unicità. Assai diverso ad ogni evidenza da quelli tedeschi degli anni Cinquanta. Ha messo in luce Annette Wieviorka – in L`era del testimone (Raffaello Cortina editore) – che questo dibattimento segnò la comparsa sulla scena della ricostruzione giuridica, nei tribunali e nei processi di persone che avevano assistito ai crimini, dei loro parenti, dei sopravvissuti «le cui dichiarazioni non vennero più soltanto lette separatamente, ma pronunciate nel corso del processo da uomini e donne in carne e ossa». La condanna a morte nei confronti di Eichmann fu eseguita nel maggio del 1962. Da quel momento fu impossibile anche in Germania procedere contro gli ex nazisti nella maniera assai indulgente con cui si era fatto fino a quel momento.

E per Fritz Bauer venne l’ora della rivincita. L’occasione gliela diede quello passato alla storia come il «secondo processo di Auschwitz». Il «primo processo di Auschwitz» si era tenuto a Cracovia in Polonia nel 1947. Era stato un processo sommario di breve durata, conclusosi con l’impiccagione di ventuno del campo di concentramento, l’ergastolo per altri otto imputati, pene detentiva per dieci e un’assoluzione. Il secondo, quello di Bauer, fu affidato a tre giovani magistrati (Joachim Kugler, Georg Friedrich Vogel, e Gerhard Wiese) dell’età media di trentatré anni. Iniziò nel dicembre del 1963 per concludersi nell’agosto del 1965.

La storia di questo processo aveva avuto inizio, nel gennaio del 1945, pochi giorni prima della liberazione di Breslavia da parte dell’Armata Rossa. Gli edifici delle SS e della Gestapo erano stati dati alle fiamme dalla polizia hitleriana. Durante il rogo alcuni documenti erano volati dalle finestre ed erano finiti nelle mani di un ex prigioniero di Auschwitz: Emil Wulkan. Per tredici anni Wulkan tenne nascoste quelle carte. Nel 1958 le consegnò al capo redattore del giornale «Frankfurter Rundschau», Thomas Gnielka, che prese contatto con Bauer. Il quale Bauer comprese immediatamente l`importanza di quei documenti. Si trattava, scrive Speccher, «delle liste di controllo di Auschwitz dove erano state documentate varie fucilazioni, compiute dal turno di guardia delle SS, con date di esecuzione e descrizioni dettagliate». Stavolta Bauer non fu affatto precipitoso e sulle carte di Wulkan riuscì a costruire «non solo il più significativo suo personale successo professionale, ma anche il più grande processo della storia della Bundesrepublik».

Gli imputati erano ventidue, sei dei quali alla fine furono condannati all’ergastolo (gli altri a pene minori). Anche stavolta in secondo e terzo grado molte delle condanne vennero poi ridotte se non revocate. Ma il processo Eichmann aveva insegnato che la cosa più importante sarebbero state le modalità del dibattimento. 183 sedute processuali, lettura pubblica delle settecento pagine dell’accusa, audizione di 360 testimoni (di cui 170 sopravvissuti del campo di concentramento). Il processo ebbe un enorme risalto mediatico e, scrive Speccher, «rappresentò un punto di non ritorno nella percezione collettiva».

La Germania comunista si sentì in dovere di allestire in fretta nel 1966 un proprio, analogo, «processo di Auschwitz». La procedura si basò sulla messa in stato di accusa dell’industria IG Farben – nella persona di Horst Paul Fischer – accusata di essere diretta responsabile della morte ad Auschwitz di settantacinquemila persone. Il processo «definitosi nelle logiche di propaganda tipiche della Ddr», nota Speccher, «fu caratterizzato da un’assoluta mancanza di esercizio del diritto processuale», tanto che all’imputato non venne concesso alcun tipo di difesa. Fischer fu condannato a morte e giustiziato nel luglio 1966.

Quanto a Bauer, finito il «processo di Auschwitz», gli furono posti impedimenti e, utilizzando la sua omosessualità, gli vennero fatte pressioni a che non proseguisse lungo la strada intrapresa. Fu poi trovato morto nella vasca da bagno il 1° luglio del 1968. Nel corpo fu riscontrata la presenza di sonniferi. Il medico legale indicò il suicidio come causa probabile del decesso. Aveva 65 anni. Cinquant’anni dopo furono fatte inchieste giornalistiche che giunsero, tutte, alla conclusione che le indagini sulle cause del suo decesso erano state affrettate.

Lungo la rotta dell’Ammiraglio

Un estratto da 1492. Diario del primo viaggio, di Antonio Musarra, sulle pagine de Il Secolo XIX del 12 novembre 2022.

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Cominciamo col dire che non erano tre. Le caravelle, intendo. Si tratta d’un mito durevole, entrato prepotentemente nell’immaginario. Tre come i Magi, come i Moschettieri, come le «tre anella» della parabola. Volendo essere precisi, due caravelle e una nao: una grossa nave commerciale. Ma poco importa: il mito si costruisce a suon di semplificazioni. Da un paio di secoli, la caravella è assurta a simbolo del viaggio di scoperta. O, meglio, d’una “scoperta” particolare: quella dell’America. La quale, da qualche tempo a questa parte, ha decisamente mutato segno. Periodicamente, ogni 12 ottobre, le statue di colui che di quelle caravelle può ritenersi il più abile manovratore, Cristoforo Colombo, sono vandalizzate, divelte, gettate a terra. Niente da dire. Ciascuno è libero di pensarla come vuole, benché – intimamente – ritenga la concentrazione di violenza su di un simulacro (un fatto ricorrente, certo) null’altro che un modo per non affrontare i problemi. Senz’altro, l’attenzione sviluppatasi attorno alle colpe (presunte) del navigatore ha distratto l’attenzione dal viaggio compiuto da quelle caravelle. Un viaggio epocale. Non tanto per il risultato raggiunto – sappiamo bene come il continente americano fosse stato toccato in precedenza dalle marinerie nordiche – ma per la sua capacità di colpire le coscienze, oltre che d’avviare quel processo di “europeizzazione” – o, se si vuole, di occidentalizzazione e di cristianizzazione, per quanto si tratti di concetti complessi – del globo perseguito nei secoli a venire. Spesso tragicamente. Si tratta di pagine note, su cui esiste una letteratura vastissima, il cui effetto principale è stato quello di obnubilare il desiderio, legittimo, di ripercorrere la rotta dell’Ammiraglio. È quanto mi propongo di fare nelle pagine seguenti: fuor d’ogni logica celebrativa, fuor d’ogni sentimento di condanna. Adottando il punto di vista colombiano: di chi, cioè, quel viaggio compì per la prima volta. Quella che mi accingo a narrare è la storia d’un viaggio importante, oltre che famoso, paragonabile, forse – per capacità d’aprire gli orizzonti –, soltanto a quello compiuto sulla luna qualche secolo più tardi.

La nostra, tuttavia, sarà una storia prevalentemente marinara: del viaggio, cioè, coglieremo in particolar modo l’aspetto prettamente nautico, tralasciandone altri, senz’altro importanti – è il caso, ad esempio, dell’incontro con l’“altro” o dell’avvio della colonizzazione europea – ma molto trattati dagli studiosi. È questo il motivo per cui sono partito dalle tre caravelle. Un numero che possiede una storia, essendo citato – certo, per errore – nel Giornale di bordo redatto da Colombo nel corso della navigazione. O, meglio – come si dirà –, nel sunto fornito dal domenicano Bartolomé de Las Casas, vescovo di Chiapas, in Messico, vissuto tra il 1484 e il 1566, che poté giovarsi d’una versione (non sappiamo quanto rimaneggiata) conservata, forse, da Fernando Colombo, figlio dell’Ammiraglio, nella Fernandina: una delle più grandi e importanti biblioteche iberiche del Cinquecento. Perché del manoscritto originale nulla è noto se non la sua scomparsa precoce. Quella del frate – va detto – è una rilettura peculiare, tesa a sostenere la propria visione del mondo (e, in particolare, del Nuevo Mundo). Il suo obiettivo non è che la denuncia delle atrocità perpetrate contro le popolazioni amerindie da parte degli spagnoli. Il testo – ch’egli ricopia, riassume e commenta – ha sì il valore della testimonianza, ma non quello della prova. Il nostro ne fa uso per condannare la violenza dei conquistadores, per sanzionarne la cupidigia e la brama di possesso. Ma non è contrario alla diffusione del cristianesimo. Del Giornale, dunque, gl’interessano quei passi utili per elaborare l’idea d’un viaggio provvidenziale, volto ad allargare il nome cristiano. Fu Carlo V, nel 1542, a chiedergli una sintesi delle memorie ch’egli aveva inviato alla corte, che elencavano le stragi compiute ai danni dei nativi. Nello stesso anno, egli pubblicava la Brevísima relación de la destrucción de las Indias, ch’ebbe immediatamente una grande risonanza, oltre che un’indubbia influenza sulla redazione delle Leyes Nuevas – che seguivano, tuttavia, la provisión emanata nel 1530, in cui già era vietata ogni forma di schiavitù –, che ne recepiranno, in parte, le denunce. Nonostante le resistenze dei conquistadores, tale legislazione avrebbe trovato una concreta applicazione, segnando una differenza con i territori portoghesi, nei quali la schiavitù sarebbe rimasta a lungo in vigore.

Ebbene: il Giornale di bordo è tra le sue fonti. Ai suoi occhi, il navigatore aveva rivestito un ruolo importante nella storia della salvezza, aprendo le porte all’evangelizzazione del Nuovo Mondo. Se si esclude qualche frammento conservato altrove, quanto oggi è noto di tale materiale è dovuto, dunque, al suo operato: un codicetto di 76 carte manoscritte conservato presso la Biblioteca nazionale di Madrid, rinvenuto negli anni Novanta del XVIII secolo da Martín Fernández de Navarrete y Ximénez de Tejada, ufficiale di marina e storico iberico – un uomo influente; in contatto epistolare con personalità del calibro di Alexander von Humboldt, Washington Irving e Gaspar Melchor de Jovellanos –, nella biblioteca del Duca dell’Infantado, edito soltanto nel 1825, limitatamente al resoconto del viaggio, nel primo tomo della sua Colección de los viajes y descubrimientos que hicieron por mar los Españoles desde fines del siglo XV. Non bisogna dimenticare, del resto, che la notizia della scoperta fu inizialmente divulgata dalle lettere spedite da Colombo ai sovrani di Spagna e ai due funzionari della corona, Gabriel Sánchez e Luis de Santángel, immediatamente tradotte e pubblicate in mezza Europa, accompagnate da un coacervo di relazioni, sunti, dispacci redatti da osservatori più o meno attenti, colpiti dalla notizia. Il Giornale rimase a lungo ignoto. Nelle Historie dedicate al padre, Fernando Colombo ne riporta qualche stralcio, fornendo, per molto tempo, il principale canone narrativo; e ciò, sino alla riscoperta del testo lascasiano. In entrambi i casi, a ogni modo, siamo di fronte a parafrasi, sunti e sommari, inframmezzati da passi riportati in maniera diretta – spesse volte sovrapponibili –, in cui è relativamente facile cogliere la mano dei rispettivi estensori. Senz’altro, Las Casas fornisce il testo migliore. Sembra ch’egli avesse a disposizione una relazione intitolata Libro de la primera navigación, il cui ordinale dice già trattarsi d’una rielaborazione. Probabilmente, si trattava d’una copia di quanto vergato dal navigatore nel corso del viaggio ovvero d’una versione – per così dire – riveduta e corretta, confezionata per i reali di Spagna in vista della pubblicazione, mai avvenuta.

Il compendio lascasiano costituisce, dunque, il primo riferimento per ricostruire nel dettaglio la vicenda. Va da sé ch’esso debba essere letto con “piglio da storico”. Al suo interno s’amalgamano, infatti, voci diverse. Nella maggior parte dei casi, il domenicano si limita a parafrasare il testo. È il caso, ad esempio, delle indicazioni nautiche, non sempre accurate; ciò che complica enormemente la possibilità di ricostruire le rotte. Talvolta fornisce citazioni dirette – in particolare, quando Colombo tratta dei nativi: passi, questi, funzionali al proprio discorso –, aggiungendo qualche commento, volto a lodare la fede dell’Ammiraglio o a lagnarsi del suo comportamento. Si può dire, anzi, che il Giornale di bordo ci dica quasi più del curatore che del curato. Ed è in questa maniera ch’esso va letto. La ricerca del testo originario ha portato qualche studioso a compiere operazioni dubbie. V’è stato, ad esempio, chi ha tentato di collazionarlo con la versione ridotta inserita nella monumentale Historia de las Indias, cui Las Casas lavorò assiduamente sino al 1561, oltre che con i brani contenuti nelle Historie di Fernando Colombo, illudendosi di raggiungere una forma vicina a quella consegnata ai reali di Spagna. In realtà, anche quando ciò s’è rivelato possibile, non v’è stato modo di stabilire quale grado d’invenzione fosse contenuto nelle versioni superstiti. Ciò non significa – come qualcuno ha sostenuto – che non si possa trarre dal testo superstite materiale utile per ricostruire – con una buona dose di fiction – l’avventura di Colombo e nemmeno che sia vietato godere della sua lettura diretta. Tutt’altro. Ma bisogna essere consci di quanto qualsiasi notazione tratta dalle sue pagine corrisponda, piuttosto, a un’interpretazione. A fronte della sua complessità, il Giornale di bordo, a ogni modo, resta una testimonianza viva e importante; ed è a partire da questi presupposti che ho ritenuto utile rileggerlo: operando scelte radicali fra un’interpretazione e l’altra, fornendo qualche nuova soluzione. Con un obiettivo: ripercorrere le tappe d’un viaggio che la storiografia sembra aver dimenticato, schiacciata dalla personalità del suo principale protagonista.

 

Brigantaggio, la guerra tra Crocco e Pallavicini

Antonio Ferrara | la Repubblica Napoli | 28 novembre 2022

Carmine Pinto è ordinario di storia contemporanea nell’università degli studi di Salerno e direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento di Roma. Dunque, uno degli studiosi più attenti del processo di unificazione nazionale e di quanto accadde nel Mezzogiorno d’Italia prima e dopo la caduta dei Borbone. Nel suo ultimo libro sceglie, per affrontare il tema, di raccontare con la perizia dello storico raffinato le vicende che videro contrapposti negli anni del brigantaggio Carmine Rocco ed Emilio Pallavicini di Priolo. Un brigante, il primo, uno dei capi di quelle bande criminali che avevano radici profonde nel Sud già molto prima dell’arrivo di Garibaldi e dei Savoia, e imperversavano nelle campagne napoletane e meridionali: Carmine Rocco, quello che noi oggi chiameremo un pregiudicato incallito, divenne il capo del brigantaggio filo-borbonico dopo il 1860. Un nobile genovese, il secondo, generale dell’esercito sabaudo, una lunga esperienza internazionale come la guerra di Crimea: Emilio Pallavicini di Priolo, l’aristocratico del Nord al quale venne affidato il compito di debellare il brigantaggio meridionale.

Quella che Pinto propone è dunque una lettura della società meridionale colta nel definitivo crollo della dinastia borbonica e dell’affermarsi di quel pensiero libertario che a partire dal 1799 e poi ancora nei moti del 1820 e del 1848 aveva scosso la leadership borbonica. Con sperimentazioni di momenti repubblicani e forti restaurazioni, ponendo fine in ogni caso al feudalesimo. Ma anche l’indipendentismo siciliano svolgerà un ruolo decisivo perla caduta di Francesco II. Le bande di briganti diventano il braccio armato che i filoborbonici utilizzano per contrastare il processo unitario. Ne nasce una guerra, la prima guerra italiana come propone Pinto, ma anche l’ultimo conflitto interno tra i ceti meridionali, cioè tra quanti da Sud sognavano l’Unità d’Italia e il liberalismo e quanti difendevano il regno borbonico e le posizione consolidate.

Il conflitto è raccontato in modo accattivante attraverso le due figure del brigante e del generale e le loro opposte visioni del rapporto tra Sud e Italia. Per mezzo secolo liberalismo e assolutismo si confrontarono e con l’Unità d’Italia questo conflitto si risolse.

Indagando e studiando i tantissimi documenti d’archivio, Pinto ha ricostruito le vite parallele dei due protagonisti della guerra al brigantaggio. Pallavicini percorse la carriera di spada e frequentò l’accademia militare a Torino tra rigori e bigottismo. Crocco era nato a Rionero, in Basilicata, veniva da un ambiente contadino povero, ma non volle legarsi alla terra e si allontanò dalla sua regione. Il generale guidò i bersaglieri a reprimere i moti antisabaudi nella sua Genova e si distinse perla capacità di guidare operazioni speciali e irregolari. Crocco si arruolò nell’esercito borbonico, ma uccise un suo commilitone e fu arrestato. Scappò e si rifugiò nelle montagne lucane e divenne un brigante, dotato di una certa astuzia politica. Nell’agosto 1860 ci fu la rivolta liberale contro i Borbone a Potenza e Carmine Crocco si arruolò in formazioni irregolari filogaribaldine, ma questa esperienza finì presto perché alcuni del fronte liberale che lui aveva taglieggiato da bandito lo riconobbero. E fu di nuovo arrestato, fu fatto scappare dal carcere di Cerignola e assunse il comando di una formazione di briganti filoborbonici. Pallavicini nel frattempo diventò comandante generale dei bersaglieri. I due erano destinati a scontrarsi. A Pallavicini venne affidato il compito nel 1862 di fermare Garibaldi diretto alla conquista di Roma: l’eroe dei due mondi fu ferito in Aspromonte e Pallavicini personalmente lo convinse ad arrendersi. Nella primavera 1863 Crocco e le sue bande prepararono una forte, ultima offensiva allo Stato unitario. La reazione fu di nuovo affidata al generale Pallavicini che applicò la controguerriglia. Si arrivò allo scontro finale tra il brigante e il generale, la guerra di bande contro la guerra dell’esercito unitario. II generale fu inviato nel 1864 a Rionero e la banda di Crocco fu dispersa. Il brigante scappò nello Stato pontificio, fu arrestato, e qui Io trovarono gli italiani dopo la breccia di Porta Pia. Da lì nacque il “mito del brigante-eroe”, mentre Pallavicini divenne senatore ma fu in qualche modo dimenticato. Il libro di Carmine Pinto è un riuscitissimo modo per rileggere la loro storia e quella del nostro Paese.

 

> IL LIBRO

Tommaso Speccher racconta “La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo”

Un’onda di oltre 2.700 steli di cemento: è il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa.

Qual è la storia di questo luogo iconico? Tommaso Speccher la racconta da Berlino, a partire dal suo La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo.

 

Giuseppe Nifosì racconta “L’arte contemporanea in 10 artisti”

Pollock, Rothko, Fontana, Burri, Hopper, Bacon, Abramović, González-Torres, Mueck e Hirst.

Dieci artisti il cui lavoro oscilla tra due estremi: il buio e la luce, la drammatica consapevolezza del vuoto di senso causato dalle ferite della storia e dai terremoti del presente, ma anche la strada per affrontare nell’arte le inquietudini e le domande della contemporaneità.

Giuseppe Nifosì racconta L’arte contemporanea in 10 artisti.