I Promessi Sposi, un romanzo di lotta e un atto d’amore di Manzoni per l’Italia

Roberto Bizzocchi, in un saggio a 150 anni dalla morte dello scrittore, analizza gli aspetti più profondi dell’opera: «Al centro ci sono i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti. Il lavoro sulla lingua unì la penisola»

Francesco Mannoni | L’Eco di Bergamo | 4 gennaio 2023

Oltre all’ispirazione cristiana, nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni, c’è ben altro, e precisamente: «Identità pubblica nazionale in chiave europea e non nazionalista; morale privata basata sulla libertà di scelta e sulla responsabilità individuale, e ciò sia per gli uomini che per le donne; illuminato senso della misura nella valutazione delle cose del mondo, ma con una percezione acuta della giustizia e dell’ingiustizia dei contesti sociali e delle azioni dei singoli che vi operano».

Questa particolarità critica, nel centocinquantenario della morte di Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – 22 maggio 1873) la sostiene Roberto Bizzocchi, docente di storia moderna dell’Università di Pisa, in un saggio che analizza con il microscopio d’una critica attenta e sottile gli aspetti più autentici e profondi del grande «Romanzo popolare» (Laterza, 200 pagine, 20 euro, ebook 12,99 euro), spiegando, con un procedimento diagnostico, «Come i Promessi Sposi hanno fatto l’Italia».

Una rilettura appassionante dei «Promessi Sposi» la sua, professore, che ci fa vedere un mondo che forse ci era sfuggito. Alla luce del suo studio approfondito, i «Promessi Sposi» è un romanzo o più un trattato socio-politico?

«È un romanzo, e bellissimo, ma con una caratteristica forte, che lo distingue dagli altri bellissimi romanzi dell’Ottocento europeo: non racconta gli eventi e i personaggi e le loro azioni in modo oggettivistico, limitandosi a riprodurre la realtà, ma vi aggiunge sempre il suo giudizio morale. Gli uomini possono comportarsi bene o male, le cose che succedono possono essere giuste o ingiuste; e noi dobbiamo avere ben viva la coscienza di ciò, perché la Provvidenza non esime gli uomini dalle loro responsabilità individuali. In questo atteggiamento il cattolico Manzoni resta un uomo dell’Illuminismo, la cultura in cui si era formato, la quale insegna a non arrendersi mai di fronte alle storture del mondo, bensì a combatterle, per rendere meno brutta la nostra vita. Quindi, senza parlare di trattato, si può dire che il romanzo ha un deliberato intento programmatico e pedagogico».

Da quali elementi di rilievo inizia la sua radiografia dell’opera manzoniana?

«Sono partito dall’impressione di “romanzo di lotta” che i Promessi Sposi mi hanno sempre fatto, fin dalla mia prima lettura ginnasiale, e poi sempre di più nelle letture in età matura. Bisogna liberarsi dal pregiudizio su Manzoni moderato e accomodante, mettendo subito in chiaro che il rifiuto della violenza e l’obbligo del perdono – quelli che padre Cristoforo ricorda a Renzo – sono, semplicemente, coerenti con la fede di un vero cristiano, quale Manzoni fu. Per il resto, il quadro della società del Seicento è severo fino all’indignazione: governanti cialtroni (quasi tutti), signorotti prepotenti (don Rodrigo), funzionari e avvocati (Azzecca-garbugli) asserviti al malaffare, intellettuali condizionati da sciocche superstizioni (don Ferrante), per non dire del parroco don Abbondio inadempiente per vigliaccheria. Manzoni moderato? A me pare un radicale, perfino troppo duro nella rappresentazione di un secolo che – gli storici di oggi ce l’insegnano – non aveva solo brutture».

Quali fatti e azioni rendono l’epoca dei «Promessi Sposi» vicina in qualche modo ai nostri giorni? Possiamo dire che tante deficienze sono ancora presenti nel nostro super mondo in cui pandemie e guerre ancora imperversano e si ripetono le solite ingiustizie di sempre?

«In effetti proprio l’intransigenza di Manzoni ha fissato nel romanzo delle descrizioni che sembrano eterne. Impossibile non pensare ad alcune drammatiche vicende che abbiamo vissuto negli ultimi anni, quando rileggiamo le pagine grandiose sulla tragedia della peste, e anche sullo smarrimento umano di fronte a calamità che sembrano inarrestabili. Oggi abbiamo strumenti di difesa ben maggiori; ma i Promessi Sposi contengono un ammonimento doloroso sulla nostra fragilità, che non dovremmo dimenticare».

Manzoni, secondo lei, era cosciente del ritratto epocale che tracciava nel romanzo o agiva solo da romanziere ispirato?

«Coscientissimo. Il romanzo è frutto di un’ispirazione meravigliosa, ma ciò non toglie che Manzoni avesse un intento programmatico e pedagogico. Teniamo presente che negli anni Venti dell’Ottocento, quando concepì e scrisse il suo capolavoro, i patrioti come lui speravano in un’Italia unita e libera dal dominio straniero. Gli altri letterati del tempo ambientavano di preferenza i loro romanzi nel Medioevo, cioè prima della perdita della libertà italiana; invece Manzoni volle trattare proprio il periodo più buio della decadenza e della soggezione, perché era giustamente convinto che per costruire la cultura letteraria e politica della nuova Italia del Risorgimento bisognasse fare i conti con le epoche peggiori della nostra storia».

Come anticipano la Storia d’Italia le pagine dei «Promessi Sposi»? In che cosa individuano la storia del Paese?

«Pensiamo al tema cruciale del cattolicesimo della Controriforma. Molti intellettuali europei contemporanei di Manzoni, e liberali illuminati come lui, rimproveravano all’Italia e agli Italiani come una colpa irrimediabile il fatto che dal Cinquecento il Paese e il suo popolo si fossero piegati all’obbedienza alla Chiesa. Attenzione: Manzoni era italiano non meno che cattolico; pensava che il potere temporale del Papato dovesse cedere al diritto dell’unità d’Italia; sapeva peraltro che il cattolicesimo era, oltre che la sua personale fede, un carattere saliente dell’identità italiana. Nei Promessi Sposi ha avuto il coraggio di rappresentare la Chiesa cattolica nelle sue luci – il cardinale Federigo, padre Cristoforo – ma anche nelle sue ombre, perché oltre a don Abbondio c’è il Provinciale dei cappuccini che trama col Conte Zio rendendosi complice di un crimine».

Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio e tutti i deboli protagonisti, specchio d’un potere sempre più organizzato che ha in Don Rodrigo e in altri esponenti i maggiori rappresentanti dell’iniquità sociale?

«Come ho detto, ritengo i Promessi Sposi un romanzo di lotta; e la lotta per i diritti dei deboli contro gli abusi dei potenti è la sigla forse più tipica del libro. Manzoni è stato un denunciatore fervente dell’ingiustizia sociale. E non dimentichiamo che – più in esteso nella Storia della colonna infame, collegata al romanzo – ha attaccato anche l’ingiustizia delle istituzioni nel processo aberrante contro i pretesi untori. Aggiungo un altro aspetto importantissimo: ha denunciato anche l’ingiustizia di genere. Quella di don Rodrigo che pretenderebbe far suo il corpo di Lucia; ma anche quella del padre di Gertrude, che violenta la volontà della figlia imponendole il monastero. Manzoni tocca non a caso i vertici della sua arte nel ribellarsi contro il sacrificio di una giovane donna soggetta al sopruso di un maschio padrone».

Lei parla di messaggio ideologico al cuore del romanzo: come potremmo riassumerlo? Come un messaggio d’amore?

«Amore per l’Italia, e proprio perché chi la ama davvero esamina impietosamente le fasi e gli aspetti peggiori della sua storia per prepararne il riscatto. Anche la famosa risciacquatura dei panni in Arno, cioè la riscrittura fiorentineggiante dei Promessi Sposi per l’edizione definitiva del 1840 – quella che di solito leggiamo – è un atto d’amore: oltre che un po’ fiorentinizzata, la lingua del 1840 è molto più popolarizzata rispetto alla precedente stesura, enormemente di più rispetto ad altre opere letterarie del tempo. Manzoni ha fatto una rivoluzione culturale che è anche politica: ha scelto per primo due popolani come protagonisti del suo capolavoro, e lo ha scritto in un modo che anche gli uomini e le donne del popolo potessero, una volta alfabetizzati, leggerlo».

Visto nell’ottica di questa rilettura, chi era veramente Manzoni? Solo uno scrittore o anche un grande analista del tempo in cui viveva?

«Un analista geniale, che ha messo il suo sommo talento letterario al servizio del progetto più generoso: permettere a tutti gli uomini e le donne della nuova Italia di riflettere insieme con lui sulla nostra storia, la nostra identità, la nostra religione dominante; e anche, più in generale, sui temi fondamentali della vita: giustizia, ingiustizia, responsabilità individuale, libertà di coscienza. I Promessi Sposi contengono un messaggio alto, impegnativo e sempre valido e attuale».

Indagine sulle radici del sessismo

In occasione della nuova edizione di Psicosociologia del maschilismo di Chiara Volpato, pubblichiamo questo stimolante dialogo fra l’autrice e la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg

Annelore Homberg | Left | 4 gennaio 2023

Chiara Volpato perché questa nuova edizione di Psicosociologia dei maschilismo (Laterza), dopo la prima pubblicazione nel 2013?

Avevo finito di scrivere il libro nel 2012, esattamente dieci anni fa; nel frattempo è uscita nuova letteratura scientifica sull’argomento. In più, mi sembrava importante che il libro avesse una nuova vita perché in questo momento c’è una riflessione vivace su questi temi, che sta cambiando le cose. Ho aggiunto un capitolo intero sulle forme estreme del dominio. Nell’edizione precedente si parlava di oggettivazione e di violenza, ma la letteratura è cresciuta, la riflessione ugualmente, quindi ho pensato di dedicare più spazio a questi temi.

Lei apre il libro con un capitolo sulla “questione maschile” ricordando che gli studi sugli uomini inizialmente erano pochi rispetto alle ricerche sulle donne. La cito: «Essendo considerato prototipo dell’umano il genere maschile, allora le ricerche sono state più sui gruppi discriminati ma non sui maschi».

C’è stato un cambiamento a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, che ha portato a riflessioni di cui si sono occupati studiosi uomini e donne.

Questo pensiero del maschile come “prototipo dell’umano” con cui tutte le altre categorie si devono confrontare, è una specificità della cultura occidentale?

Non sono un’antropologa, ma so che ci sono state delle culture nelle quali non c’era questa caratterizzazione. Però sono veramente minoritarie. Penso che, nella grandissima maggioranza delle culture umane, la definizione del maschile come prototipo dell’umano esista e sia potente.

Ci sono delle ipotesi sul perché?

Dagli studi emerge l’ipotesi che nella Preistoria, nelle culture di cacciatori e raccoglitori, non ci fosse subalternità femminile. Pare che i ruoli fossero distribuiti non tanto per genere quanto per età. Si ipotizza che i giovani partecipassero in maniera più o meno paritaria a procacciare il cibo, mentre le generazioni più anziane si dedicavano al lavoro di cura. La differenziazione che penalizza il femminile inizia probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura, quindi con il Neolitico. Lì viene introdotta la proprietà privata, vengono create le classi sociali, appaiono i ricchi e i poveri. E si crea anche la differenziazione tra maschile e femminile. La forza fisica maschile probabilmente ha fatto sì che gli uomini si occupassero della gestione militare e politica e le donne venissero relegate al lavoro di cura.

Lei descrive magnificamente l’iter del concetto di “vero uomo” nella cultura occidentale.

Ritengo che i ruoli sociali e quindi anche i ruoli di genere siano delle costruzioni storiche, cambino quindi a seconda delle epoche. Dall’Ottocento in poi, assistiamo a vari mutamenti, a momenti di ripensamento, di “crisi del maschile”, ma secondo un andamento non lineare. Nel corso del Novecento – soprattutto in concomitanza con le Guerre mondiali – si sono verificati anche dei momenti di recupero della visione maschile tradizionale. Poi, i movimenti degli anni Sessanta, soprattutto quello femminista, hanno cominciato a creare delle incrinature. Penso che ci troviamo tuttora all’interno di questa prospettiva, anche se, negli ultimi anni, assistiamo a preoccupanti recuperi del modello maschile tradizionale. Ci sono movimenti di contrattacco e ritorsione nei confronti della nuova autonomia femminile e figure politiche che li hanno incarnati, come Donald Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.

Prima di Donald Trump c’era Barar Obama, che per certi versi proponeva un’altra immagine di uomo, sempre legato al potere ma con un atteggiamento più empatico, almeno a livello personale. Personaggi come Trump sono la reazione a quest’altro tipo di mascolinità?

Penso che Trump incarni una reazione sia ai nuovi modelli del maschile, sia a tutta una serie di cambiamenti sociali in atto. Interpreta una parte della società che, a mio avviso, guarda indietro invece che avanti.

Apprendiamo dal suo libro che in psicologia sociale si adopera costantemente il concetto dei Big Two, due caratteristiche che notiamo subito negli altri, distinguendo cioè tra il fattore della communality, attribuito alle donne, e la agency che sarebbe un po’ il compito e il nucleo dell’identità maschile.

Questa però non rispecchia la realtà oggettiva delle cose. È l’interpretazione stereotipica: il nucleo di credenze stereotipiche fa sì che alla donna vengano attribuiti i trarti collegati con la capacità di entrare in empatia con gli altri, di relazione, di calore. E all’uomo, invece, i tratti legati all’agency, al muoversi nel mondo, alla forza, alla conquista, al potere. Le cose oggi stanno cambiando, perché l’immagine femminile non è più quella tradizionale. È un’immagine più variegata, più complessa, caratterizzata anche da una serie di ambivalenze. Questa nuova immagine femminile suscita i contrattacchi e le ritorsioni della “mascolinità risentita”.

Nel libro ci sono pagine molto efficaci sulla difficoltà degli uomini di corrispondere allo stereotipo del “vero uomo”. La loro socializzazione in questa direzione appare quasi più difficile della socializzazione femminile e passa, così lei scrive, attraverso i legami tra uomini, il male bonding.

Questi legami profondi tra uomini sono molto importanti nella socializzazione maschile. Credo che contribuiscano anche a un certo maschilismo, perché l’uomo deve diventare tale di fronte agli altri uomini. Non può perdere la faccia, non può comportarsi “da femminuccia”. Pensiamo, per esempio, a tutto il discorso militare, come è stato e come è tuttora, perché le guerre esistono ancora ed esiste tuttora una certa mentalità militare da macho. Il “vero uomo” non deve avere tratti femminili e deve reprimere tutto ciò che può far interpretare il suo comportamento come incline all’omosessualità. La costruzione dello stereotipo tiene sempre presente l’allontanamento da questi due aspetti: dal femminile e da tutto ciò che non è eterosessuale.

Allora, una donna è tale perché viene considerata “femminile”, desiderabile e valida dagli uomini. Mentre gli uomini non devono essere confermati nella loro identità dalle donne, ma dagli altri uomini?

Certo, nella visione tradizionale sono gli uomini a decidere cosa è valido sia per se stessi sia per le donne. Si tratta di una costruzione per opposizione, per divaricazione tra i tratti tipici femminili e i tratti tipici maschili.

Lei riporta una serie di studi secondo cui la supremazia maschile non è indolore nemmeno per i diretti interessati.

La supremazia maschile comporta un prezzo molto alto che per tanto tempo è stato sottovalutato. Se si costruisce il militare come paradigma del “vero uomo”, non si può lasciare spazio all’emotività, alla tenerezza, alla confidenza. Le amicizie maschili sono soprattutto amicizie del fare, mentre quelle femminili sono amicizie basate sulla confidenza, caratterizzate dal disvelamento. Gli uomini pagano il non potersi aprire all’altro in termini di salute psicologica e fisica. Vi sono molte malattie, o difficoltà a far fronte alla malattia, che colpiscono più gli uomini che le donne. Su questi piani gli uomini hanno meno risorse. La costruzione di un’identità forte, tutta d’un pezzo, corrazzata li rende più deboli di fronte ad alcune difficoltà esistenziali.

Descrivendo invece gli stereotipi di genere relativi alle donne, lei annota che non esiste soltanto il noto stereotipo del disprezzo, basato su una presunta inferiorità femminile, ma anche altri stereotipi.

Esiste una specie di tassonomia degli stereotipi che ne prevede quattro tipi tra cui quelli di ammirazione e di disprezzo. Il disprezzo nei confronti delle donne era molto presente nell’antichità, ma lo troviamo anche oggi. Lo stereotipo di ammirazione nei loro confronti è invece molto raro, perché di solito il pregiudizio di ammirazione si prova nei confronti dei gruppi sociali favoriti, e le donne, per definizione, non lo sono. Però, verso le donne si trova il cosiddetto women wonderful effect, che le definisce meravigliose. Si tratta di una maniera di lodare il loro essere stupende nelle relazioni e nella cura – con l’obiettivo però di mantenerle al posto loro assegnato. Quindi, anche questo non può essere interpretato come uno stereotipo di ammirazione.

Un filo rosso che attraversa tutti i suoi libri è l’indagine sui motivi che fanno sì che le categorie oppresse siano d’accordo con la loro discriminazione. Che si considerino, in qualche modo, giustamente non considerate alla pari.

C’è spesso un’accettazione del ruolo subalterno perché può essere comodo. È difficile essere sempre allerta, in uno stato di ribellione. Allora si accetta il sessismo benevolo, quell’atteggiamento che dice “sei una persona meravigliosa, che però ha bisogno della protezione maschile”. C’è l’accettazione della complementarietà dei ruoli, sia nelle relazioni private che nel lavoro in cui spesso le donne accettano di stare un passo indietro. Anche per motivi oggettivi, perché hanno bisogno di spazio per l’affettività, il lavoro di cura, la maternità. A volte c’è lucidità nell’attuare questa collusione; a volte invece le donne la attuano in modo inconsapevole, magari prendendone coscienza solo anni dopo. L’ho visto succedere ad alcune studentesse. Gli anni dell’università sono anni importanti per le scelte che richiedono, che sono spesso scelte di vita sul piano affettivo e su quello del lavoro. Spesso però non c’è molta consapevolezza o lucidità nel fare tali scelte.

Lei menziona anche limitazioni imposte dall’esterno, invisibili ma efficaci.

Ci sono degli indici oggettivi che ci dicono, sulla base dei numeri, che in effetti esiste il “soffitto di vetro” e il fenomeno della “conduttura che perde”. Le ragazze spesso sono le più brave all’università, ma poi incontrano difficoltà specifiche e rischiano di perdersi per strada. Qualche anno dopo la laurea, i posti migliori o più remunerati vanno ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Mi ha colpito quando lei parla della paura del successo da parte delle donne, di questa sensazione per cui si pensa “non devo emergere troppo, non sta bene”.

Ho trovato interessante uno studio secondo cui che le donne che hanno più successo del partner tendono a nasconderlo o a farsi perdonare cercando di essere iperfemminili nella gestione della casa e delle relazioni.

Tuttavia, ci sono stati cambiamenti enormi, come forse mai prima nella storia. Essi riguardano sia le donne che gli uomini?

Le ricerche hanno constatato che lo stereotipo femminile si è molto diversificato negli ultimi trent’anni. Non ha perso i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti maschili, diventando più complesso. Questo è successo molto meno con lo stereotipo maschile. Teniamo però presente che stiamo parlando di stereotipi! Nella realtà, anche il maschile sta cambiando. Un’esperienza personale: ad agosto ho fatto un viaggio nella parte orientale della Turchia. Anche lì ho visto uomini che portano in giro i bambini in carrozzina. Ho notato cioè una certa vicinanza al figlio o alla figlia, che non penso tradizionalmente fosse così esibita e accettata socialmente. E anche lì si vedono molte donne che lavorano, che hanno cambiato il loro ruolo nella società.

Lei sottolinea più volte nel libro che arrivare a un superamento degli stereotipi di genere non favorisce solo le donne, ma è anche nell’interesse maschile.

Sì, perché va a beneficio di entrambi. Se queste visioni e questi ruoli cambiassero, non ne beneficerebbero solo uomini e donne, ma la società tutta, come provato da molte ricerche anche di tipo economico: le società in cui le donne hanno una partecipazione attiva alla vita economica e politica del Paese sono società che stanno meglio delle altre, decisamente meglio delle società in cui la partecipazione femminile è ridotta.

Un anno fa è finita l’era Merkel, in Italia abbiamo la prima presidente del Consiglio: sto parlando delle donne al potere. Anche lei pensa, come molti, che una volta al potere una donna si comporta esattamente come gli uomini?

Penso che sia difficile generalizzare. Alcune donne – l’emblema è Margaret Thatcher – sono andate al potere con delle strategie tipicamente maschili e con una visione tradizionale della società. In altri Paesi invece le donne arrivate al potere hanno cercato di portare una visione un po’ diversa basata sulla loro esperienza storica, che implica una maggior attenzione alla cura, alle relazioni, all’ambiente. Se ci pensiamo, anche l’attenzione all’ambiente ha a che fare con le relazioni di cura. È una cura per ciò che ci sta intorno… Però le donne al potere con questa visione sono poche, le troviamo soprattutto in alcune situazioni particolarmente favorevoli come nei Paesi del Nord Europa, Paesi ricchi e con una popolazione poco numerosa. Penso che le donne, per poter portare un cambiamento in politica, non devono essere sole. Possono innescare un cambiamento quando sono almeno in un piccolo gruppo, che permette di darsi forza e sostegno reciproco.

Storicamente parlando, quindi, piuttosto che la singola Thatcher o Merkel, è più significativo che nei Parlamenti – in alcuni Paesi – sono presenti sempre più donne?

Quando le donne sono un certo numero possono indirizzare la politica del Paese verso certi temi rispetto ad altri. L’attuale però non è un buon momento da questo punto di vista, perché con l’aggressione russa all’Ucraina, si è tornati a una visione più militarista della società.

Se in Russia e in Ucraina ci fossero più donne nel governo, la guerra non sarebbe scoppiata o sarebbe già finita?

Probabilmente sì. La guerra mi dà l’impressione di un ritorno al Medioevo. Ha innescato una contrapposizione militare e maschilista, che speravo non avremmo rivisto.

L’Italia come si colloca rispetto al superamento degli stereotipi di genere?

L’Italia continua a coltivarne molti. Nelle ricerche sul sessismo non si colloca bene, siamo tra gli ultimi tra i Paesi europei sia dal punto di vista degli stereotipi, sia da quello dei posti di lavoro. L’Italia non fa una politica per le donne. Non aiuta né promuove la maternità, non aiuta né promuove il lavoro delle donne Pensiamo, ad esempio, alla carenza di asili nido.

A concludere il suo libro sono delle pagine veramente belle che non vorrei anticipare perché ognuno deve leggerle da sé. Ripeto solo la domanda che lei si pone lì: “Che cosa si può fare per migliorare la situazione”?

Oltre alla lotta politica, quello che le singole persone possono fare è avere maggiore attenzione. Resto sempre colpita dal fatto che spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Spesso non mettiamo in discussione i rapporti di collusione di cui parlavamo prima, un certo sessismo quotidiano, non particolarmente aggressivo, ma molto radicato, perché non lo vediamo. Secondo me, il primo lavoro da fare è imparare a vedere e a prendere in mano le cose, una volta che le abbiamo viste. Non vuol dire combattere 24 ore al giorno, ma tenere presente che un certo modo di vivere non è scontato e impossibile da affrontare. Lo diventa se lasciamo che sia così. Questo è il primo lavoro: vedere ed essere critici. E poi bisogna fare un lavoro di rivalutazione. A me pare che la cura – il Covid dovrebbe avercelo insegnato – che noi esseri umani possiamo prenderci l’uno dell’altro sia una delle cose più importanti e preziose della vita. Però è sempre stata sottovalutata, proprio perché attribuita al femminile. Non diamo abbastanza importanza né alla cura delle relazioni, né alla cura della persona sofferente, né alla cura dell’ambiente, aspetti molto vicini tra di loro. La cura delle relazioni e dell’ambiente nel quale viviamo è un valore fondamentale, il primo a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non lo sia costituisce un motivo di allarme: rischiamo di precipitare in una situazione molto pericolosa.

Enzo Traverso, la rivoluzione, il neoliberalismo autoritario e la nuova sinistra

Un’intervista del nostro Giuliano Battiston con lo storico delle idee Traverso, autore di Rivoluzione, Malinconia di sinistra, del recente La tirannide dell’io, e fresco vincitore del Premio Napoli 2022

Giuliano Battiston | Lettera22 | 4 gennaio 2023

«L’800 è un secolo che si apre con la rivoluzione francese; il 900 nasce con la grande guerra, ma il suo orizzonte d’attesa è fissato dalla rivoluzione russa; il XXI secolo nasce invece da una controrivoluzione, dalla sconfitta e dall’eclissi dell’orizzonte di attesa utopico e rivoluzionario, con la grande svolta del 1989». Secondo Enzo Traverso, è all’interno di questa svolta storica e della «paralisi utopica» che ne deriva che vanno lette la sconfitta della sinistra in Italia e l’affermazione del neoliberalismo autoritario del governo presieduto da Giorgia Meloni. Storico della Cornell University di Ithaca, New York, tra i più rigorosi intellettuali del nostro tempo, in questi giorni Traverso è in Italia per il Premio Napoli 2022, di cui è finalista con Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli 2021), una monumentale storia intellettuale del concetto di rivoluzione, da leggere insieme a Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (Feltrinelli 2016) e al suo ultimo libro, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona (Laterza 2022).

Con Rivoluzione, lei intende «riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave d’interpretazione della modernità», evitando le trappole simmetriche della stigmatizzazione conservatrice e dell’apologia cieca. Cosa ne deriva per la comprensione del presente?

La rimozione del concetto di rivoluzione dal paesaggio culturale, politico e ideologico del presente fa sì che oggi si pensi sì la politica, ma che nessuno pensi più alla rivoluzione come via possibile al cambiamento. Ricostruirne la storia è indispensabile per capire che il XXI non sarà un secolo senza rivoluzioni. Le rivoluzioni sono scomparse solo dal nostro universo mentale, non dalla realtà. E non è escluso che nel XXI secolo lo stesso concetto subisca una nuova metamorfosi, come quella avvenuta con la rivoluzione francese: non più il ritorno alle condizioni originarie dopo un movimento rotatorio ciclico, secondo la definizione dell’astronomia, ma una rottura sociale e politica, la proiezione della società nel futuro. Una proiezione resa possibile dalla dialettica storica di cui parlava Reinhart Koselleck: la storia come dialettica tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di attesa. Oggi quella dialettica si è inceppata.

Lei sostiene che, dopo questo passaggio, una nuova sinistra globale non possa rinascere se non elabora l’esperienza storica che ha trasformato il socialismo in un’utopia fredda. Anziché eluderla, dovrebbe inoltre farci carico della “malinconia di sinistra”. La malinconia è una premessa all’azione politica?

Non faccio della malinconia una prescrizione, una terapia. Ma neanche un sentimento di impotenza e rassegnazione: è un processo di elaborazione di una coscienza storica senza il quale le future rivoluzioni non potranno pensare il futuro. I movimenti degli ultimi venti anni hanno una vasta elaborazione critica, ma non si inscrivono in una continuità storica. Le rivoluzioni arabe non avevano modelli di riferimento, non erano socialiste, comuniste, panarabe, islamiste, terzomondiste o antimperialiste. I Gilets jaunes in Francia non scendevano in piazza con la bandiera rossa. Esistono movimenti radicali con forti potenzialità, ma sono privi di memoria e di coscienza storica.

Per lei la malinconia è produttiva, performativa. Ma nella storia della sinistra è apparsa spesso come un segno di debolezza e impotenza…

Nella cultura della sinistra la malinconia è stata a lungo rimossa come illegittima, anche a causa di un retaggio virilista, maschilista e guerriero. Per Raymond Williams, invece, la malinconia fa parte della struttura dei sentimenti della sinistra. D’altronde, ha svolto un ruolo attivo in molti casi. Le madri di Plaza de Mayo in Argentina sfilavano con i ritratti dei desaparecidos. Manifestazioni di lutto, ma scintille per la lotta contro la dittatura militare. Black Lives Matter è un altro esempio di come il lutto e la malinconia possano sfociare nella rivolta e nella lotta.

L’abbandono del sogno di un’umanità liberata ha prodotto un regime di storicità che nLa tirannide dell’io definisce “presentismo”. La stessa immaginazione è chiusa dentro i confini del presente o, se rivolta al futuro, è distopica, segnata da catastrofi ecologiche. Come interpreta il “catastrofismo”?

Il fascismo è una minaccia, ma è un’opzione che si può evitare, mentre la catastrofe ecologica è un destino ineluttabile se non modifichiamo il modello di civiltà ancor più che alcune politiche economiche. Per le nuove generazioni è la premessa per pensare un futuro capace di scongiurare la catastrofe. Il 900 era un secolo dominato da quello che Ernst Bloch definiva il principio speranza, il secolo dell’anticipazione, del non-ancora, dell’utopia. Ora l’unica anticipazione possibile è quella dell’escatologia negativa. Vale quel che Günther Anders ha definito principio disperazione, che pone il problema dell’etica della responsabilità.

Una certa storiografia ha favorito l’idea che l’utopia di una società liberata e il socialismo reale fossero la stessa cosa e che il totalitarismo sia l’esito inevitabiledi ogni utopia rivoluzionaria. Oggi si dà per scontato che non ci sia alternativa a democrazia liberale e società di mercato

Se osserviamo quel che è avvenuto in Italia negli ultimi mesi – le elezioni, il nuovo governo, la sua composizione – non solo con una lente contingente, ci accorgiamo che è l’esito di questo lungo processo storico. Oggi si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, rivolte contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi, dunque: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda.

L’ultimo capitolo di Rivoluzione si intitola “Storicizzare il comunismo”. Ritiene che l’attuale deficit della sinistra in Italia dipenda anche dal non aver fatto i conti con quella storia, storicizzandola?

In Italia abbiamo assistito non solo alla sconfitta del comunismo, del socialismo e delle rivoluzioni del 900, ma all’auto-dissoluzione del più grande partito comunista del mondo occidentale. La sconfitta è stata non solo accettata, ma quasi rivendicata. Il passato, dimenticato e rimosso. Da un lato c’è chi ha chiuso quell’esperienza senza elaborarne l’eredità, aderendo in modo acritico a un nuovo modello: la democrazia liberale e la società di mercato come ordine naturale del mondo. Dall’altro la reazione di una minoranza ancorata a un modello ormai obsoleto, sterile. In una prospettiva di lunga durata siamo ancora dentro questa impasse.

In un’intervista al manifesto ha parlato del governo Meloni come «l’espressione più vistosa di una tendenza verso il neo-liberalismo autoritario che permette la convergenza tra la democrazia liberale classica e il post-fascismo», che fa propri i valori del capitalismo. La sinistra può “sfruttare” la situazione?

Tensioni e contraddizioni dell’ascesa della nuova destra, in Italia e altrove, non vanno sottovalutate. Più che alle sue scelte ideologiche, il successo di Giorgia Meloni è dovuto alla sua “coerenza politica”, al fatto che sia apparsa l’unica forza di opposizione, alternativa. La stessa chiave spiega l’ascesa delle nuove destre radicali su scala globale, apparse come l’unica alternativa – di destra, conservatrice, reazionaria – al neoliberalismo. Eppure, se diventano l’incarnazione di un neoliberalismo autoritario, vanno inevitabilmente incontro a problemi: possono apparire forze di governo legittime agli occhi delle élite, ma perderanno consenso tra i ceti popolari che le hanno sostenute.

La “coerenza politica” di Giorgia Meloni è passata per la rivendicazione dell’autonomia del politico: l’idea che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a rappresentare gli interessi del popolo, non della finanza globale. Ma dentro l’economia politica neoliberista i governi hanno margini di autonomia ridotti. Come ne uscirà il governo?

In Italia, almeno a partire dal governo Monti, l’autonomia del politico è stata sostituita dall’autonomia dell’economico. Oggi l’autonomia del politico può spiegare la capacità di Giorgia Meloni di far rinascere un partito che sembrava un residuo dell’estrema destra, raccogliendo un forte consenso elettorale, passando come interlocutore credibile per l’Unione europea e per l’élite economico-finanziaria, senza rinunciare alla periferia di neonazisti e neofascisti. Ma arrivata al governo la stessa Meloni diventa l’incarnazione dell’autonomia dell’economico, la cifra dell’era neoliberista, ultima di una serie di governi votati dai parlamenti ma sovradeterminati da forze esterne. È una tendenza generalizzata. Se vuole essere una forza di alternativa, la sinistra non può che opporsi radicalmente a questo modello. E nella misura in cui è la destra a governare, deve saperne gestire tutte le contraddizioni che ne derivano.

Il Medioevo in 21 battaglie

letture.org | 27 dicembre 2023

Prof. Federico Canaccini, Lei è autore del libro Il Medioevo in 21 battaglie: che spazio ha occupato, la guerra, nella vita degli uomini dell’Età di Mezzo?

Quando si dice “Medioevo” si compie un’astrazione talmente grande che è difficile offrire una definizione soddisfacente, e lo si fa sia nello spazio che nel tempo. Medioevo dove? Medioevo quando? La geografia del Medioevo a cui siamo abituati si ferma quasi sempre poco oltre Costantinopoli e da un punto di vista cronologico raramente ci si spinge prima del 476 e oltre il 12 ottobre del 1492. Mille anni di storia racchiusi in una sola parola: come a dire di associare gli uomini del 2022 con quelli del 1022. Un po’ eccessivo! Nel libro si offre un’Età di Mezzo volutamente non eurocentrica e che rompe gli argini geografici e cronologici a cui siamo stati abituati sin dai tempi della scuola. Altro aspetto ineludibile del Medioevo è una scansione degli eventi legata alla guerra, alla perenne conflittualità, ad un apparente stato endemico di violenza, sempre e dappertutto. “La guerra pubblica o privata è uno dei meccanismi funzionali della società medievale. Nella mentalità delle élites medievali, la guerra è un’eredità ancestrale e una costante antropologica. Non solo l’economia, ma tutta la vita quotidiana del Medioevo è largamente influenzata da questa antica festa crudele” ha scritto Mario Sanfilippo citando anche il titolo di un famoso libro di Franco Cardini. La storia medievale ha inizio, come è noto, con un grande scontro di civiltà che ha determinato uno dei più grandi preconcetti nella storia del pensiero occidentale. Il confronto tra le popolazioni germaniche e la civiltà classica – e l’aggettivo la dice già lunga! Classica: il punto di riferimento a cui dovranno adeguarsi tutti gli altri! – ha creato nel corso dei secoli un’antinomia fra una certa idea di stato, di bellezza, di estetica a cui è stata contrapposta una di rozza barbarie. I secoli a cavallo della fine di Roma furono certamente caratterizzati da una fase di violenza, ma fu probabilmente più l’idea che Roma morisse sotto i colpi dei Barbari a determinare l’idea di un Medioevo barbarico e violento. I secoli centrali sarebbero stati caratterizzati da lotte tra signori, tra regni nascenti, tra comuni, ma anche tra civiltà profondamente diverse fra loro. Infine anche la conclusione del Medioevo è associata a uno stato di guerra endemico: un conflitto secolare tra Francia e Inghilterra, un altro pure eterno contro il Turco, e infinite guerre a livello regionale. Davvero l’idea che venne trasmessa fu quella di un’epoca fatta di guerre e di violenza: ad ereditare questo concetto furono gli Umanisti che, idealmente, si collegarono ancora una volta all’età romana. Ecco allora che i brutali uomini d’arme prezzolati, i mercenari, diventano i “condottieri”, non deprecati, ma quasi esaltati per le loro doti assimilabili a quelle dei grandi generali romani, rinforzati dal concetto del Miles christianus di epoca medievale. La statua del Gattamelata non è forse l’imitazione di un Marco Aurelio? Eppure si sta parlando di un soldataccio che fa la guerra per arricchirsi, non certo di un eroe positivo. O forse sì: si tratta di quale interpretazione si decide di dare.

Perché sono proprio ventuno le battaglie da Lei individuate e raccontate?

Il libro è in parte eccentrico: 21 e non 20, una copertina non ordinaria e in parte fastidiosa, con quel fiotto di sangue anti-convenzionale per l’editoria, e una scelta di episodi militari medievali che, col Medioevo occidentale, hanno apparentemente poco o nulla a che fare. La volontà di uscir fuori da quei limiti mentali che ci siamo autocostruiti come identità di Occidente medievale, doveva dunque in qualche modo apparire già nel titolo. Quella “ventunesima battaglia”, volutamente stridente anche al nostro sistema decimale, non deve essere necessariamente identificata con l’ultimo capitolo, anche se è quello che forse meglio si presta a rendere l’idea di travalicamento degli spazi e dei limiti cronologici del “nostro Medioevo”. Il capitolo finale è, infatti, dedicato alla conquista di una favolosa città edificata in mezzo ad un enorme lago salato, una laguna, con case intervallate da canali e solcate da decine di piccole imbarcazioni: non sto parlando della conquista di Venezia, ma di Tenochtitlàn, capitale dell’Impero azteco. Lo spartiacque del 1492 – forse la data che ha avuto più successo tra quelle proposte dagli storici quale cesura tra Età Medievale e Moderna – ci induce ad arrestarci ancor prima che Colombo salga a bordo della Santa Maria: ciò che sta per accadere non appartiene, infatti, più al Medioevo! Ma, invece, quegli uomini sono figli del Medioevo, sono nati nel Medioevo, le idee che portano con sé sono le stesse, le armi e le strategie non cambiano. Piuttosto, gli Spagnoli – che proprio quello stesso anno completano la secolare Reconquista della penisola iberica – arriveranno sulle coste del Messico, intrisi di profetismo e convinti della necessità di recuperare il Santo Sepolcro, usando l’oro che abbonda in quelle terre: sono le idee propugnate da Enrico V Lancaster e quelle scritte su una missiva ai reali di Spagna da Cristoforo Colombo. Quanto di vero e quanto di propagandistico ci fosse in tutto ciò, questo, naturalmente, fa parte dello sporco gioco della guerra e degli affari.

Negli ultimi decenni, gli storici si sono progressivamente svincolati da quella che è stata polemicamente definita Histoire-bataille, la storia fatta solo di battaglie: in che modo le battaglie possono essere considerate come la chiave per accedere ad un mondo in realtà molto più ampio?

Le battaglie sono un argomento che affascina molti lettori: ciò è dovuto in parte alla apparente facilità di accesso all’argomento, ai colori dei due schieramenti – colori politici, etnici, culturali, linguistici ma anche i colori legati alle divise, alle bandiere, ai pennacchi – al responso finale – un vincitore e un vinto – e alle conseguenze di tale scontro. Purtroppo c’è anche il fascino della violenza e della guerra che attira in modo piuttosto morboso l’uomo e il lettore: per questo sarà utile provare a lasciare tra le righe anche qualche spunto di riflessione tra le pagine di un libro che di guerra parla, ma che di certo non la esalta. Raccontare la storia di mille anni e di un mondo così vasto, come quello tratteggiato nel libro, tramite appena 21 fatti d’arme è naturalmente un escamotage. La cosiddetta Histoire bataille è stata a lungo celebrata e poi criticata dalla storiografia che la vedeva come riduttiva: non si può, in effetti, ridurre la storia a una sequela di scontri, come se fossero questi a decidere le sorti dell’umanità. Ma se l’approccio è magari in parte nuovo, allora forse le battaglie possono divenire una chiave di lettura per esplorare un’epoca, anche lunga, come quella del Medioevo, e mondi che di volta in volta si scontrano. Ecco: la battaglia rappresenta certamente lo scontro tra due o anche più civiltà. Ciò che ho voluto tentare di fare è stato anche osservare gli incontri e magari gli scambi che sono intercorsi. Di certo 21 battaglie, e altrettanti capitoli, non esauriranno la storia medievale, ma non è questa la pretesa del libro. Al di là delle pagine dedicate al mero scontro militare, ogni capitolo offre pagine e pagine dedicate alla popolazione, o alla civiltà presa in esame: si parla di evoluzioni tecnologiche legate alla guerra – certamente! – ma si delineano anche usi e costumi dei popoli analizzati. Si tratteggiano i protagonisti, dove si può, mettendo a frutto fonti contrastanti tra loro, spesso finalizzate a demonizzare l’avversario, delineato come un violento conquistatore assetato di sangue, ma si parla anche di credenze e pratiche religiose e perfino di abitudini alimentari: insomma, alla fine, le battaglie sono un ottimo pretesto narrativo per parlare di molto altro.

Nel volume troviamo tutte le battaglie più note, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma anche ‘fatti d’arme’ remoti come quelli di Badr, Tarain e Diu o la battaglia combattuta sulle rive del lago Texcoco, in Messico: in che modo il loro racconto ci permette di valicare i confini culturali del nostro Medioevo?

Nello scrivere l’indice del libro mi sono reso conto di come anche io fossi imbevuto della visione eurocentrica ricevuta nel mio percorso di studi. Sono stati certamente i viaggi compiuti – forse più che le letture – in luoghi remoti e decisamente più sfortunati della ricca Europa a farmi interessare sempre più all’Altro, anche da un punto di vista narrativo e storiografico. La scelta dei 21 capitoli è stata dettata dalla volontà di raccontare in modo diacronico più di dieci secoli, includendo gran parte della storia mondiale, non per vezzo o per originalità obbligatoria. Scorrendo le pagine ci si renderà conto, infatti, che questi mondi – largamente esclusi dalla manualistica occidentale – per più di un verso sono intimamente connessi con la “nostra storia”. E non parlo solo di quei capitoli palesemente lontani, come quello dedicato al mondo del Giappone o dell’India. A ben guardare, già il mondo slavo e quello balcanico, non hanno goduto della dignità di figurare nella storia d’Europa, né medievale né moderna. Quando è accaduto è stato sempre e solo in funzione degli eventi d’Europa: quando gli Ungari attaccano l’Europa, allora si può dedicare loro un paragrafo, specie dopo che decidono di convertirsi al cristianesimo, quando si parla di Gerusalemme è perché la città è méta dei pellegrini occidentali, quando ci si dilunga sull’Impero di Bisanzio è perché è contrapposto a quello d’Occidente. Talvolta ciò è dovuto alla penuria delle fonti, ma in larga parte anche ad una quasi naturale volontà di inconoscibilità degli altri. Ogni capitolo, invece, vuole provare a ampliare un poco la conoscenza su singoli mondi, creando talvolta delle connessioni, dei riferimenti, dei rimandi che spesso relativizzano il “nostro orizzonte del Medioevo europeo”. Facciamo un esempio. Lo stesso giorno del 1260 in cui sulla piana di Montaperti si consumava lo scontro tra Siena e Firenze, battaglia percepita come episodio chiave della storia comunale italiana, ad Ayn Jalut una gigantesca armata di fede islamica sconfiggeva un esercito mongolo, definendo il confine tra mondi diversi, con conseguenze ben più significative di quelle locali legate alla lotta comunale, amplificabile al conflitto tra Svevi e Angioni e financo tra Papato ed Impero. Se osservati da un punto di vista geopolitico, il paragone non regge: ma nella mentalità italiana, complice anche Dante Alighieri, Ayn Jalut semplicemente non esiste. E, in fondo, che in questo libro non ci sia neppure una battaglia tra i comuni, sembra quasi un affronto!

Come è avanzata l’arte della guerra nei mille anni del Medioevo?

La guerra è sempre stata portatrice di progresso tecnologico: per quanto triste e tragico sia doverlo ammettere, per affinare il modo di uccidere il nemico, l’uomo da sempre ha messo a frutto il proprio ingegno, piegandolo a fini mortali. Lo ha espresso bene Salvatore Quasimodo nella sua poesia “Uomo del mio tempo”, e il poeta si riferiva all’uomo del XX secolo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta”. Lo stupore di Quasimodo non era poi così diverso da quello di intellettuali medievali come Bernardino da Siena o Giacomo della Marca.

Nel corso del Medioevo si è assistito ad una serie impressionante di evoluzioni e certamente non solo nell’arte della guerra. Ma ciò che poteva essere utile in ambiti non bellici, ha trovato ben presto impieghi letali in ambito militare: l’evoluzione delle forme degli elmi, segue di pari passo l’evoluzione delle armi offensive, ed è impressionante vedere quante varianti appaiano nel giro di pochi decenni nelle armi in asta, letali trasformazioni per lo più di strumenti agricoli. I secoli iniziali del Medioevo sono caratterizzati da un confronto tra tattiche diverse, ma sbaglieremmo ad immaginare le legioni romane di V secolo uguali a quelle di Traiano, che combattono con orde di barbari come quelli che vide Cesare in Gallia. Si diffonde la staffa, la balestra, gli scudi appaiono e scompaiono, si allargano, si restringono. Alla fine del Medioevo compare in Occidente l’impiego della polvere pirica, l’esplosivo, che ha rivoluzionato il modo stesso di fare la guerra. Ad oggi, purtroppo, la guerra si fa ancora così: si sono solo evoluti gli strumenti per lanciare quelle medesime bombe che atterrivano i campi di battaglia già nel XIV secolo. Un tempo si parlava di falconetti e bombarde, poi si parlò di cannoni e spingarde, per arrivare a carri armati e katiusce. Oggi si parla di droni: ma il risultato non cambia.

Faccia a faccia con i primi Sapiens

Claudio Tuniz | La Lettura | 8 gennaio 2023

Secondo le Nazioni Unite, il 15 novembre 2022 la popolazione umana ha superato gli 8 miliardi di persone (pari al 7% di tutti gli esseri umani mai vissuti). All’inizio della rivoluzione agricola, circa 10 mila anni fa, eravamo meno di 4 milioni, numero che è lentamente salito a circa 800 milioni alle soglie della nostra prima rivoluzione industriale. Rispetto alla tempistica dell’evoluzione umana, che supera i due milioni di anni, il numero di umani in vita si è dunque impennato (e concentrato) soltanto negli ultimi due secoli. Oggi abbiamo talvolta la sensazione di vivere in un formicaio, con metropoli che superano i 20 milioni di abitanti. Secondo le stime dei paleo-demo grafi, intorno a 100 mila anni fa la nostra specie comprendeva in tutto qualche decina di migliaia di persone raggruppate in bande che non superavano il centinaio, e gli incontri con altri gruppi erano rari. Vivevano quasi tutti in Africa, la cosiddetta culla dell’umanità, ma incominciavano a disperdersi verso altri continenti. Noi Sapiens non eravamo i soli umani intelligenti del pianeta, ma le altre specie «diversamente umane» costituivano una presenza più discreta.

Oggi abbiamo le prove che noi scuri e slanciati Sapiens africani, dalla testa tonda e dal volto aggraziato ed espressivo, abbiamo avuto incontri molto intimi con altre specie intelligenti, come i pallidi Neanderthal eurasiatici, dal corpo più robusto, faccia prognata, arcate sopracciliari prominenti, e cranio allungato all’indietro. Lo stesso è accaduto con una seconda specie umana di origine asiatica, di cui purtroppo non conosciamo ancora la fisionomia. Alcuni resti di una donna appartenente a questa specie, soltanto il dito mignolo e pochi denti, sono stati rinvenuti pochi anni fa nella caverna di Denisova, alle pendici dei monti Altai, in Siberia. Nello stesso luogo è stato trovato anche il frammento del femore di una donna ibrida con padre denisoviano e madre neanderthaliana.

Sappiamo tutto questo grazie a Svante Paabo, il premio Nobel 2022 per la Fisiologia e la Medicina, che ha inventato la paleogenomica, una disciplina che ci rivela questa e sorprendenti storie del nostro passato profondo. Nel 2010, il gruppo da lui diretto al Max Planck lnstitute for Human Evolution di Lipsia ha sequenziato sia il genoma dei Neanderthal che della denisoviana senza volto. Ma per noi è molto importante conoscere la fisionomia dei nostri lontani antenati.

Guido Barbujani, genetista di fama internazionale e gran divulgatore, ci spiega il perché nel suo libro più recente Come eravamo. Storia dalla grande storia dell’uomo (Laterza, 2022). Immaginare i loro tratti e il loro stile di vita ci aiuta a stabilire con loro un contatto emozionale: un elemento chiave della nostra evoluzione. Con l’aiuto di splendide illustrazioni, veniamo guidati nella preistoria attraverso una divertente galleria di ritratti. Nell’incontrare lo sguardo di Lucy, l’australopiteco che fu forse un nostro parente diretto, cerchiamo di interpretare il suo sorriso enigmatico. Nell’osservare il Ragazzo del Turkana, vissuto 1,6 milioni di amni fa in Africa Orientale, e appartenente a Homo ergaster, ci emoziona sapere che fu probabilmente il primo umano a controllare il fuoco, e quindi a dare una svolta decisiva alla nostra linea evolutiva. Nella Caverna delle Ossa (Pestera cu Oase) in Romania, incontriamo un Sapiens di 37 mila anni fa che aveva un trisavolo neandertaliano.

In seguito, ci imbattiamo in Otzi, lo sciamano tatuato vissuto 5.200 anni fa, emerso dal ghiacciaio di Similaun nel 1991. In Inghilterra incontriamo Cheddar Man, un Sapiens che, 10 mila anni fa, aveva ancora la pelle scura (nonostante la latitudine), i capelli neri e riccioluti e gli occhi azzurri.

Quest’ultimo caso offre a Barbujani l’opportunità di promuovere la sua instancabile battaglia contro il razzismo. Ci rendiamo conto che tutti questi parenti lontani non erano «anelli mancanti» o umani incompleti, nella grande marcia verso il progresso (cioè verso noi Sapiens di oggi) ma esseri perfettamente adattati all’ambiente in cui vivevano.

Le immagini del libro derivano da ricostruzioni a grandezza naturale prodotte da bravissimi paleoartisti, come la francese Elizabeth Daynés. Visitando il suo atelier di Parigi, ho potuto constatare di persona quanto sia laborioso ottenere una fedele replica di un Neanderthal. Volto e corpo sono modellati con i metodi delle scienze forensi. La struttura ossea viene ricoperta con una fedele replica dei nostri tessuti. Peli e capelli vengono inseriti con precisione. Il tocco finale è costituito dagli occhi, anch’essi incredibilmente realistici. Questo può avvenire grazie alla paleogenomica, che ci permette di conoscere con esattezza il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di un reperto. In particolare, forse solo noi Sapiens siamo dotati di una sclera perfettamente bianca, un dettaglio che si rivelerà importante per la nostra socializzazione, poiché aumenta le capacità espressive dei nostri occhi.

Le tecniche isotopiche forniscono molti indizi sullo stile di vita dei nostri progenitori. Conoscendo l’ambiente e il clima, tra le diverse ere glaciali e interglaciali, possiamo valutare i loro spostamenti sul territorio, la loro dieta e i loro impatti sull’ambiente. Con le analisi dei loro denti — vere «scatole nere» della vita riusciamo a determinare quando raggiungevano l’età dello sviluppo e perfino rilevare eventuali sofferenze fetali. Possiamo quindi generare sia modelli sulla loro evoluzione biologica (grazie alla paleoantropologia) sia modelli sulla loro evoluzione culturale (grazie all’archeologia) con lo studio di strumenti litici, arte rupestre e altri prodotti materiali.

Ma è stata la paleogenomica a dare il maggiore contributo a questi studi, con l’uso di nuove tecniche di sequenziamento del Dna e dell’intelligenza artificiale per analizzare i Big Data genetici. Il confronto del nostro genuina con quello dei Neanderthal e dei Denisoviani svela non solo la promiscuità delle diverse specie umane, ma anche effetti che ci riguardano direttamente. I frammenti di Dna ereditati dai Neanderthal sono associati, fra l’altro, alla nostra predisposizione al diabete, alla cirrosi epatica, alle dipendenze e ai sintomi più gravi del Covid-19. In passato, ci sono stati anche effetti positivi, che hanno accelerato l’adattamento dei nostri antenati agli ambienti glaciali dell’Eurasia. Questi però sembrano diventati controproducenti nel mondo attuale, caratterizzato da minori rischi di sopravvivenza nell’ambiente naturale e da maggiori rischi legati alla nostra socialità e a uno stile di vita più sedentario.

La genetica permette di studiare anche le migrazioni dei Sapiens del passato profondo e l’emergere di società più complesse e gerarchiche, in presenza di surplus di risorse, già a partire da 10 mila anni fa. Le cause della straordinaria crescita demografica di questi ultimi secoli potrebbero risalire al tardo Pleistocene, quando emergono importanti differenze genetiche, anatomiche, neurali, fisiologiche e comportamentali tra noi e le altre specie umane estinte. La singolare rotondità del nostro cranio, dovuta al rigonfiamento della corteccia parietale, si associa, ad esempio, alle componenti cerebrali coinvolte nell’integrazione visuo-spaziale e nel coordinamento cervello-corpo-strumenti-ambiente. Questo comincia a favorire una maggiore socialità e una migliore integrazione con l’ambiente. A queste trasformazioni viene associata l’emersione di nuove capacità cognitive, quali saper contare, sviluppare una memoria prospettica, generare pensiero simbolico e persino produrre musica. I Sapiens svilupparono anche tratti anatomici più gracili, un aspetto meno minaccioso (più vicino a quello femminile) e il mantenimento di comportamenti giovanili in età adulta. Si tratta di caratteri tipici della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in alcuni animali, nella quale l’aggressività diminuisce all’interno di una certa domus, ma aumenta nei confronti dell’esterno.

Per concludere, il cantiere per la costruzione di Homo sapiens ha una lunga storia ed è ancora aperto. Come dice Edoardo Boncinelli, l’essenza dell’umano è in continuo divenire. Si tratta di un processo circolare tra biologia e cultura che coinvolge cervello, corpo, oggetti, strumenti, ambiente naturale e sociale. Dall’analisi dei singoli individui serve procedere verso l’analisi delle società che hanno saputo e voluto formare. Se questo è stato sicuramente il segreto del nostro successo, alla fine potrebbe costituire anche la ragione del nostro declino. Siamo ormai tutti vincolati alle condizioni di sopravvivenza determinate dal nostro organismo sociale, un corpo collettivo che recentemente è cresciuto a dismisura fino a formare un superorganismo, sempre più energivoro, bellicoso, conflittuale e invasivo, con effetti devastanti sul pianeta.

Anche se come individui possiamo fare poco, potremmo comunque guardarci negli occhi e usare i nostri neuroni specchio anche per generare empatia e cooperare, e non solo per dividerci in tribù eternamente contrapposte.

Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia

Il libro ripercorre il pomeriggio di follia del 2020 nella struttura penitenziaria. La prefazione è di Ilaria Cucchi

Lucio Luca | la Repubblica | 10 gennaio 2023

“La storia è pesante, ti aiuto a trovare testimoni e riscontri. Vieni a Napoli. Nun perd tiemp…”. Era estate, un paio di giorni e tutta l’Italia avrebbe festeggiato il Ferragosto. Faceva tanto caldo a Santa Severa dove Nello Trocchia, giornalista de “Il domani” stava trascorrendo le vacanze con la famiglia. “È lì, in spiaggia, mentre tenevo per mano mia figlia in una mattina d’estate, che è iniziata la mia inchiesta giornalistica sul pestaggio di Stato compiuto il 6 aprile 2020 da 283 poliziotti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere”.

Pestaggio di Stato è proprio il titolo del libro inchiesta di Trocchia pubblicato da Laterza, un resoconto dettagliato e agghiacciante di un pomeriggio di follia in un pezzo di territorio italiano da parte di un pezzo delle istituzioni italiane. Un’ignobile mattanza, come è stata definita dagli inquirenti. “Avevo solo una certezza – spiega il giornalista – che quella storia sarebbe diventata una storia italiana, grave, imponente e che avrebbe potuto segnare per anni il racconto delle carceri nel nostro paese”.

La fonte di Trocchia lo prega di raggiungerlo a Napoli, “avevo intuito che c’era molto di più da raccontare, che non c’erano solo rivolte e caos, ma anche altro, nodi che non riuscivo a sciogliere. Dovevo solo scoprire come, mettere insieme i pezzi”. Ma che cosa è successo realmente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020? Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, entrano nel reparto Nilo del carcere Francesco Uccella. Irrompono nelle celle e prendono a calci, pugni, schiaffi i detenuti. Alcuni vengono rasati a forza. Il pestaggio dura ore, prosegue nei corridoi, lungo le scale. È, appunto, una mattanza.

Nei giorni successivi i fatti vengono denunciati, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria respinge le accuse. Con ritmo serrato, Nello Trocchia ricostruisce l’inchiesta che ha reso pubblici i video delle violenze riprese dalle telecamere di sicurezza, la testimonianza e le storie delle vittime e dei carnefici, il depistaggio operato dalla catena di comando, la noncuranza della politica.

“Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro Paese – scrive nella prefazione Ilaria Cucchi – È l’abdicazione del sistema Giustizia. Questa inchiesta di Nello Trocchia avrebbe dovuto, in uno Stato civile e democratico, far cadere il governo ed azzerare l’intera legislatura. Suscitare uno tsunami di sdegno intelligente e riflessivo: autocritico. Niente di tutto questo”.

Ma perché tutto questo è potuto accadere? E perché si può ripetere ancora? “Colpa della nostra indifferenza – conclude Ilaria Cucchi – del cinismo e del pregiudizio che hanno addormentato le nostre coscienze. I fatti narrati da una cronaca asciutta e spietata si verificano nel ventennale dal G8 di Genova. Leggere questo libro è doveroso, ma anche doloroso”.

 

Le “Lezioni di Storia” sbarcano su TikTok 

Le “Lezioni di Storia” sbarcano su TikTok 

Il 17 febbraio alle ore 18 il primo evento in diretta:
“Medioevo incredibile”, con Alessandro Barbero

 

Sono passati più di 15 anni da quando le Lezioni di Storia, ideate e organizzate dalla casa editrice Laterza, hanno fatto la loro prima apparizione a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, registrando il tutto esaurito e lunghe code in una domenica mattina. Da allora le Lezioni sono giunte nei teatri e nelle piazze di decine di città italiane, da Napoli a Trento, da Padova a Firenze, da Udine a Bari, coinvolgendo migliaia di uditori attenti e affezionati e i più importanti storici italiani. In molte città le Lezioni sono ormai una tradizione e in molte altre arrivano per la prima volta. L’anno scorso è stato inaugurato nella capitale il “Roma Storia Festival” che, con tutta probabilità, vedrà nel 2023 una seconda edizione ancora più ricca di appuntamenti.

Nel 2021 le Lezioni di Storia hanno poi fatto il loro ingresso sui social media con una pagina Facebook che ha riscosso grande successo. È così che adesso la presenza online si espande con due nuovi canali: Instagram e TikTok. L’obiettivo è portare la passione per la storia, il rigore scientifico e le doti comunicative degli storici e delle storiche sulle piattaforme più vivaci, sperimentando linguaggi e format nuovi. Il vasto catalogo di storia della casa editrice avrà così nuova vita insieme alle numerose novità di ciascun mese.

Il lancio dei canali avverrà venerdì 17 febbraio con un evento in diretta su TikTok alle ore 18 sul tema “Medioevo incredibile”. Protagonista Alessandro Barbero, uno degli storici che in questi anni si è speso maggiormente per la divulgazione al di fuori dell’ambiente accademico, in dialogo con l’editore Giuseppe Laterza.

Nelle prossime settimane parteciperanno, tra gli altri: Silvia Ballestra, Luciano Canfora, Andrea Giardina, Carlo Greppi, Laura Pepe, David Salomoni e Giusto Traina.

Il pubblico potrà aspettarsi approfondimenti su singoli personaggi, eventi storici, opere d’arte e fotografie, fact checking, ma anche interviste, conversazioni e contenuti dal taglio esplicitamente ironico come i meme, che sulla pagina Facebook hanno registrato ampio successo.

Per una casa editrice con più di 120 anni di storia è un’avventura stimolante che si pone in linea con quanto deciso negli ultimi anni rispetto alla comunicazione: innovare, sperimentare, coinvolgere maggiormente autori e lettori e dialogare con chi si occupa tutti i giorni di divulgazione e comunicazione culturale trovando sempre forme alternative.

 

Giampiero Brunelli: συνέντευξη στην Έρικα Αθανασίου

Έρικα Αθανασίου | Diastixo | 06 Φεβρουαρίου 2023

[>> Giampiero Brunelli, War in the Modern Age]

Giampiero Brunelli: συνέντευξη στην Έρικα Αθανασίου

Ο Giampiero Brunelli γεννήθηκε στη Ρώμη το 1968 και είναι ιστορικός με εξειδίκευση στην Νεότερη Ιστορία. Διδάσκει Ιστορία των Πολιτικών Θεσμών και Πρώιμη Νεότερη Ιστορία στο Πανεπιστήμιο της Ρώμης La Sapienza από το 2006 ως σήμερα. Από το συγγραφικό έργο του ξεχωρίζουν τα βιβλία: Soldati del papaPolitica militare e nobiltà nello stato della Chiesa. 1550-1664 [Στρατιώτες του πάπα: Στρατιωτικές Πολιτικές & Αριστοκρατία στο παπικό κράτος (1560-1644)], Il Sacro Consiglio di Paolo IV  [Το Ιερό Συμβούλιο του Παύλου Δ’], Storia delle istituzioni politiche [Ιστορία των Πολιτικών Θεσμών], La Guerra dei Trent’ anni [Ο Τριακονταετής Πόλεμος]. Το βιβλίο του Ο πόλεμος στη νεώτερη εποχή (La Guerra in età moderna, 2021), που κυκλοφορεί στα ελληνικά από τον εκδοτικό οίκο Historical Quest, σε μετάφραση του Σωτήριου Φ. Δρόκαλου, μας έδωσε την αφορμή για την ακόλουθη συνέντευξη.

Τι σας ώθησε να γράψετε το βιβλίο Ο πόλεμος στη νεώτερη εποχή;

Είναι ένα θέμα που πάντα με γοήτευε, από τα πανεπιστημιακά μου χρόνια, όταν άρχισα να μελετώ τους στρατιωτικούς κανονισμούς του παπικού κράτους και διαπίστωσα ότι έλειπε μια σύνθεση για το θέμα Πόλεμος στη νεώτερη εποχή, που να καλύπτει το πανεπιστήμιο και το μορφωμένο κοινό. Τέλος, ήθελα να προσθέσω σε όσα ήδη γνωρίζαμε μια ευρεία παρέκβαση σχετική με τις πραγματείες για τη στρατιωτική τέχνη –ένα πλημμυρισμένο ποτάμι μεταξύ του 16ου και του 18ου αιώνα–, προσπαθώντας να δώσω φωνή σε αρχηγούς και στρατιώτες μέσα από τα απομνημονεύματα και τις αυτοβιογραφίες τους. Μόνο έτσι, κατά τη γνώμη μου, μπορεί να μετρηθεί πραγματικά η αντίληψη της αλλαγής. Οι τρόποι πολέμου μεταμορφώνονταν πολύ γρήγορα: η εποχή των ιπποτών με τις λαμπερές πανοπλίες τους, με το δόρυ στο χέρι, είχε τελειώσει. Όποιος έγραφε, θεωρία ή εμπειρίες επί του πεδίου, έπρεπε απαραίτητα να το έχει προσέξει. Και πράγματι, βιβλία και απομνημονεύματα το καταγράφουν.

Τελικά, η σημερινή εποχή φαίνεται ότι δεν είναι λιγότερο ταραχώδης κι έχει παρόμοια προβλήματα: πόλεμοι, επιδημίες, οικονομικές κρίσεις, εγκληματικότητα, ημιμάθεια, μισαλλοδοξία. Τι θεωρείτε ότι δεν έχουμε κάνει σωστά κι έχουμε ακόμη και σήμερα τα ίδια προβλήματα;

Η ιστοριογραφική επιστήμη προσπαθεί να μην πέσει στο τελεολογικό σφάλμα τού να υποθέσει ότι υπάρχει κάποιο «μονοπάτι προόδου», με περισσότερο ή λιγότερο θριαμβευτικά αποτελέσματα: ούτε για τους λαούς μιας συγκεκριμένης ηπείρου, ούτε –ακόμη περισσότερο– για τα πεπρωμένα όλης της ανθρωπότητας. Σίγουρα, ωστόσο, είναι δύσκολο να μην επισημάνω ότι από την περίοδο που με ενδιαφέρει (τέλη 15ου – αρχές 19ου αιώνα), μέχρι το δεύτερο μισό του 20ού αιώνα, οι μέσες συνθήκες διαβίωσης των Ευρωπαίων είχαν βελτιωθεί, παρά τους δύο πολέμους τρομακτικών διαστάσεων με ανείπωτο ανθρώπινο κόστος. Πράγματι, στις αρχές της δεκαετίας του 1970 φαινόταν ότι το τρομερό, αρχαίο σύμπλεγμα πολέμου-πείνας-επιδημίας είχε επιτέλους καταπολεμηθεί επιτυχώς: μετά τις επιδημίες, είχαν εξαφανιστεί από την Ευρώπη επίσης οι πόλεμοι. Τα συστήματα του κράτους πρόνοιας προστάτευαν τους Ευρωπαίους από οικονομικές κρίσεις. Η κατανάλωση πολιτισμικών προϊόντων ήταν σε άνοδο. Τα προβλήματα της θρησκευτικής μισαλλοδοξίας δεν εμφανίζονταν με ιδιαίτερη βαρύτητα. Στη συνέχεια, αυτός ο κύκλος έσπασε και πολλά προβλήματα, που έμοιαζαν αν όχι ξεπερασμένα, τουλάχιστον συγκρατημένα εντός ορισμένων ορίων, επανεμφανίστηκαν δραματικά, με νέες, συχνά πιο βίαιες μορφές. Πώς ήταν αυτό δυνατό; Δεν έχω μελετήσει τη διαδικασία με τις μεθόδους μας των ιστορικών και κοινωνικών επιστημών, αλλά έχω σχηματίσει παρ’ όλα αυτά μια γενική ιδέα: ήταν σοβαρό λάθος να διακόψουμε τις κεϊνσιανές πολιτικές και να αγκαλιάσουμε τις νεοφιλελεύθερες οικονομικές θεωρίες. Ήταν λάθος να εγκαταλείψουμε την ισοτιμία χρυσού-δολαρίου και να επιτρέψουμε να γεννηθεί ένας κόσμος στον οποίο τα χρηματοοικονομικά assets σε κυκλοφορία ή σε χαρτοφυλάκια ανέρχονται σε 1,5 εκατομμύριο δισεκατομμύρια δολάρια, δηλαδή σχεδόν 16 φορές το παγκόσμιο ΑΕΠ (που περιορίζεται στα 94.000 δισεκατομμύρια δολάρια σύμφωνα με την αναφορά του Οκτωβρίου 2021). Θα ήταν αντίθετα πολύ σημαντικό να ενεργοποιηθεί και να καλλιεργηθεί μια αληθινή πολυμερής πολιτική συνεχούς και εκτεταμένου διαλόγου, όσο γίνεται περισσότερο, μεταξύ των διαφόρων κρατών. Ίσως όμως υπάρχει ακόμα χρόνος. Ο ΟΗΕ και το G20 θα μπορούσαν να αποτελέσουν πραγματικό χώρο συνάντησης, εάν όλες οι προσπάθειες πήγαιναν προς αυτή την κατεύθυνση.

Θα είχατε την πρόθεση να γράψετε πάνω σε ένα ιδιαιτέρως «ελληνικό» ιστορικό θέμα; Κι αν ναι, θα προτιμούσατε να γράψετε για την αρχαιότητα, τον μεσαίωνα ή τη σύγχρονη εποχή;

Στην πραγματικότητα έχω στο πρόγραμμα να γράψω ένα βιβλίο για τον Πόλεμο της Κάντια (Κρήτης) στο δεύτερο μισό του 17ου αιώνα. Σίγουρα με ενδιαφέρει περισσότερο η ελληνική ιστορία στη νεότερη εποχή, που είναι λιγότερο γνωστή στην Ιταλία και, πιστεύω, γενικά στην Ευρώπη.

Ποιες όψεις της ευρωπαϊκής νεότερης ιστορίας (15ος – 18ος αι.) θεωρείτε πιο σημαντικές και διδακτικές για τον σημερινό άνθρωπο;

Η ιστορία της περιόδου που μελετώ είναι θεμελιώδης, δεν κουράζομαι να το επαναλαμβάνω στους μαθητές μου. Κάνω μια λίστα με πράγματα που γεννήθηκαν σε εκείνους τους αιώνες: ο κόσμος όπως τον ξέρουμε σήμερα, με την Αμερική και την Ωκεανία, η τυπογραφία με κινητούς χαρακτήρες, τα χαρτονομίσματα, η κοινοβουλευτική μορφή διακυβέρνησης, με την Βουλή που δίνει «εμπιστοσύνη» σε μια κυβέρνηση, η κατηγορία των ανθρωπίνων δικαιωμάτων, η ιδέα των ίσων ευκαιριών μεταξύ ανδρών και γυναικών, η επιστήμη με βάση την παρατήρηση και τον πειραματισμό, τα πρώτα εργοστάσια, οι ατμομηχανές. Θα μπορούσα να συνεχίσω για πολύ ακόμη. Είναι εκπληκτικό το πόσα επιτεύγματα της νεότερης ιστορίας έχουν στενή σχέση μαζί μας χωρίς σχεδόν να το συνειδητοποιούμε. Άφησα σκόπιμα έξω τα πυροβόλα όπλα, προσωπικά και βαριά, που έκτοτε καθόρισαν την ιστορία, βεβαίως, αλλά προκάλεσαν επίσης πολλά εκατομμύρια θανάτους.

Δεδομένου του πλούτου της ευρωπαϊκής ιστορίας, εκτιμάτε ότι η ήπειρος θα καταφέρει να αξιοποιήσει την πείρα της για να βρει απάντηση στις προκλήσεις του σύγχρονου κόσμου; Ή μήπως, αντίθετα, το μεγάλο ιστορικό βάθος καταλήγει να μειώνει τη ζωτικότητά της, περίπου όπως τα γηρατειά κάνουν στους ανθρώπους;

Όχι, επιτρέψτε μου να διαφωνήσω, η βαθιά ιστορική γνώση δεν συγκρίνεται με τα γηρατειά των ανθρώπων. Ένα ηλικιωμένο άτομο μπορεί να αισθάνεται ανίκανο να κάνει πράγματα. Η βαθιά γνώση του παρελθόντος, απεναντίας, παρακινεί σε δράση. Επιτρέψτε μου να παραθέσω μια φράση του πρόεδρου των ΗΠΑ Θεόδωρου Ρούζβελτ: Όσο περισσότερο γνωρίζεις το παρελθόν, τόσο καλύτερα είσαι προετοιμασμένος για το μέλλον. Το πρόβλημα της ευρωπαϊκής πολιτικής, οικονομικής και πολιτιστικής ελίτ είναι πως, απ’ ό,τι φαίνεται, δεν ξέρουν ιστορία, ή μάλλον δεν ξέρω αν τη γνωρίζουν, αλλά σίγουρα δεν τη χρησιμοποιούν ως πολιτιστικό ορίζοντα για την αντιμετώπιση των μεγάλων προβλημάτων που έχουν να αντιμετωπίσουν. Θα βρούμε απαντήσεις στις προκλήσεις, κατά τη γνώμη μου, εάν προωθήσουμε την αμοιβαία κατανόηση και τον διάλογο στη βάση του κοινού μας παρελθόντος.

Πώς καλλιεργείτε την επαφή με το αναγνωστικό κοινό σας; Τι σας φέρνει κοντά με τους αναγνώστες σας;

Έχω αναγνώστες μεταξύ των φοιτητών και των απλών ανθρώπων που είναι παθιασμένοι με την ιστορία. Για πρώτη φορά από τότε που δημοσίευσα μονογραφίες –το πρώτο μου βιβλίο εκδόθηκε το 2003– αυτός ο τόμος για τον πόλεμο στη νεότερη εποχή μού χάρισε την εμπειρία των αναγνωστών που περιμένουν, έπειτα από μια δημόσια παρουσίαση, για να τους υπογράψω το αντίτυπό τους. Ήταν πολύ συναρπαστικό. Φυσικά, ζητώ από όλους να κατανοήσουν τη γενική ιδέα που εξέφρασα σε αυτή την περίπτωση: ας μην ξεχνάμε την τεράστια επίδραση που είχε αυτή η μεγάλη αλλαγή στον τρόπο μάχης για τα κράτη και τους πολίτες της Ευρώπης. Ταυτόχρονα, όμως, καλώ τους αναγνώστες να νιώσουν «κύριοι» του βιβλίου, να ψάξουν τι τους αρέσει και τι τους ενδιαφέρει περισσότερο. Ίσως διαβάζοντας τον Πίτερ Χάγκεντορφ κάποιος παθιαστεί γενικά με το είδος «αυτοβιογραφίες στρατιωτών» και φτιάξει μια βιβλιοθήκη με αναγνώσματα, με απομνημονεύματα που θα φτάνουν μέχρι τον πόλεμο του Βιετνάμ, ή ίσως ακόμη και μέχρι τον πόλεμο της Ουκρανίας. Γιατί σίγουρα και αυτοί οι στρατιώτες θα γράφουν αυτή τη στιγμή απομνημονεύματα.

Το εν λόγω βιβλίο σας είναι το πρώτο έργο σας που εκδίδεται στην Ελλάδα. Θα θέλατε να στείλετε κάποιο μήνυμα στο ελληνικό αναγνωστικό κοινό;

«Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς μὴ διαπτάσθαι σκάφος/ Κόλχων ἐς αἶαν κυανέας Συμπληγάδας…» [σ.σ.: ο συγγραφέας απαγγέλλει αρχαία ελληνικά]. Είναι οι δύο πρώτοι στίχοι της Μήδειας του Ευριπίδη, τους ξέρω απέξω από το σχολείο. Εσείς οι Έλληνες αναγνώστες, όπως και εμείς οι Ιταλοί, είστε κληρονόμοι μιας τεράστιας πολιτιστικής κληρονομιάς. Όλοι εμείς δεν πρέπει μόνο να τη συντηρήσουμε και να τη μεταδώσουμε, αλλά και να τη ζήσουμε, δηλαδή να τη νιώσουμε μέσα μας ως αυτό που είναι: μια ανεξάντλητη πηγή πολιτισμού, ικανή να μας φέρει σε επικοινωνία με ολόκληρη την ανθρωπότητα. Τότε όπως και σήμερα.

La «signora con la lampada»

Quella di Florence Nightingale è la storia di una donna straordinaria: riconosciuta come una delle figure più influenti del XIX secolo in Inghilterra e non solo, visionaria e animata da uno spirito indomito, ha trasformato radicalmente il lavoro infermieristico contribuendo a salvare le vite di intere generazioni di donne e di uomini. La ricostruisce Bruno Cianci, in Una lanterna nel buio. Florence Nightingale, la prima infermiera. Qui un estratto.

_____________

Ogni giorno, intorno all’una, si procedeva alla sepoltura dei cadaveri. I cimiteri erano due e si trovavano entrambi nelle vicinanze della caserma-ospedale Selimiye; uno di questi, come si può evincere dalle litografie e dalle stampe dell’epoca, era ingentilito da alti cipressi le cui punte, come immancabilmente capita in quei lidi a questa famiglia di piante gimnosperme, si flettono sotto la forza gagliarda del poyraz, il vento dominante che spira da nord-nordest.

Visto il grave stato d’emergenza, Flo si vide costretta a richiedere delle nuove infermiere per fermare l’emorragia di vittime che la guerra sembrava mietere senza soluzione di continuità. I turni di lavoro e le responsabilità associate alla figura di sovrintendente prevedevano che Florence si occupasse di quasi tutto. Chiedeva pure di essere presente alle operazioni chirurgiche – amputazioni, ricomposizioni di fratture, suture di ferite ecc… –, il che qualche volta generava tensioni con lo staff medico se lei non era subito reperibile, perché a volte occorreva tempo per trovarla e l’attesa generava addizionali sofferenze nei pazienti. La pretesa di Flo di essere consultata, però, non era frutto di un mero capriccio e dava senz’altro dei frutti. Un aneddoto del 1887 lo dimostra. Quell’anno, infatti, un reduce della battaglia di Inkerman, tale Samuel Atkins, spedì una lettera a Florence con la quale ringraziava la donna per avergli salvato il braccio destro che un medico troppo superficiale gli avrebbe voluto amputare a Scutari.

Florence gestiva pure, tra molte difficoltà, le donazioni che giungevano copiose in Oriente. Spesso si trattava di cose utili, come indumenti, lenzuola, vettovaglie, stoviglie; a volte di oggetti privi di alcuna utilità pratica. In ogni caso si trattava di materiale che lei stessa doveva inventariare e custodire sottochiave in locali dedicati.

Tutto era una potenziale fonte di tensione con una parte del personale medico militare e con le stesse infermiere. Alcune, un po’ perché avevano bisogno di evadere dalla spaventosa realtà in cui erano costrette a operare (…) iniziarono (oppure ripresero) a bere scadenti bevande alcoliche facili a procurarsi nelle bettole gestite da greci e armeni nell’area di Scutari, con scontate ripercussioni sulla reputazione del contingente capitanato da Florence. In più occasioni la donna dovette ricorrere al pugno di ferro per mantenere la disciplina tra le sue sottoposte, come del resto alcune espulsioni testimoniano.

Un fatidico giorno di quell’incredibile inverno, il più duro e intenso della sua vita, Florence Nightingale prese un paio di forbici e iniziò a utilizzarle: stavolta, però, lo fece su se stessa. Non è dato sapere se lo abbia fatto di fronte a un frammento di specchio, alla luce di un pallido sole o al lume di una candela o di una lampada a olio; fatto sta che aveva preso una decisione che se da un lato aveva una valenza pratica, da un altro ne aveva una fortemente simbolica: il tempo dei capelli lunghi, “marchio di fabbrica” di una femminilità di cui non era mai andata orgogliosa e allegoria di una serie di convenzioni sociali che aveva sempre aborrito, finì per sempre.

A Scutari, Flo si cimentava anche in lunghissime ronde. «Le scene notturne ricordano un po’ Rembrandt» scrisse il buon Bracebridge a Parthe in una lettera. Per i toni cupi e l’uso sapiente della luce, difficilmente l’accostamento tra le atmosfere del maestro fiammingo del XVII secolo e quelle degli ospedali di Scutari di notte avrebbe potuto essere più azzeccato. Per gli occhi imploranti dei soldati agonizzanti, in preda a febbri, polmoniti o divorati da cancrene, vedere la fioca luce della lanterna di Flo nel cuore di una notte che per alcuni di loro sarebbe stata l’ultima divenne una sorta di visione mistica. Leggenda vuole che i feriti “baciassero”, in senso letterale, l’ombra di Florence Nightingale generata dallo stesso lume che reggeva, talvolta aiutata in questo dagli assistenti che l’accompagnavano nelle ronde.

Il valore simbolico di questa lanterna che si aggirava per le camerate e i corridoi bui come la pece, dispensando del cristiano conforto ai soldati, non sfuggì ai corrispondenti di guerra né, soprattutto, ai direttori dei giornali inglesi. Sabato 24 febbraio l’«Illustrated London News» pubblicò un articolo corredato da un’immagine – una delle molte che ingentilivano questo settimanale da mezzo scellino – che rappresentava Florence in visita ai feriti proprio durante una delle sue proverbiali ronde notturne. La riproduzione, realizzata con tecnica xilografica, si basava probabilmente su uno schizzo di Joseph A. Crowe, corrispondente dalla Crimea e critico d’arte, oltre che inviato da Vienna ai tempi della guerra d’indipendenza italiana.

Nell’illustrazione Flo reggeva una lampada a olio simile a quelle dell’età classica o, se si preferisce, a quella del genio delle Mille e una notte. Come sappiamo oggi, l’oggetto non rispecchiava in modo fedele la tipologia di lampada di Flo, che nella realtà usava una lanterna turca a soffietto di foggia cilindrica – dotata superiormente di una maniglia, di un gancio e di un foro che consentiva il passaggio dell’aria – all’interno della quale bruciava una candela. Quella raffigurata nell’«Illustrated London News» e sopra descritta era il frutto di un errore o forse di una licenza artistica finalizzata alla volontà di rendere efficace il messaggio che si desiderava trasmettere. Come ha scritto Mark Bostridge, «il ritratto di Florence Nightingale con la sua lampada, durante la sua veglia notturna nei reparti di Scutari, divenne rapidamente parte della sua mitologia personale e una potente metafora visiva dell’ideale di femminilità cristiana che era preposta a rappresentare». Da quel 24 febbraio 1855 Florence, assurta ora ad «angelo custode» dei feriti, divenne per tutti la «signora con la lampada». Sarebbe bello conoscere la reazione di Fanny e di Parthe quando incapparono in quest’illustrazione, ma non è dato sapere quale sia stata. Di sicuro, però, trassero in seguito un gran piacere dalla sopraggiunta popolarità di Flo.

Altrettanto certo è che la xilografia scatenò un’ondata di pubblica adulazione in Gran Bretagna come non si era mai visto. L’appetito per l’immagine di Florence Nightingale divenne insaziabile, tant’è che a rimorchio sorse una vera e propria industria di gadget che contemplava manifesti, statuette di ceramica di Staffordshire, lavori in pizzo e sacchetti di carta decorati che erano opera di artigiani che non avevano mai visto Florence dal vero e che, pertanto, la rappresentavano senza una particolare accuratezza. In un certo senso – ha detto Caroline Worthington, ex direttrice del Museo Florence Nightingale – Flo fu la prima «mega-celebrità» del tempo, la prima donna non appartenente alla famiglia reale a diventare oggetto di una straordinaria adorazione. Suo malgrado, verrebbe da aggiungere, perché Florence aborriva la notorietà in ogni forma.

 

 

 

 

 

Il brigante e il generale: supernemici uniti dalla storia

Carmine Pinto ricostruisce per Laterza le figure di Carmine Crocco ed Emilio Pallavicini di Priola

Dino Messina | Corriere della Sera | 22 dicembre 2022

Che cosa avevano in comune Carmine Crocco, il generale dei briganti, e il marchese Emilio Pallavicini di Priola, uno dei più brillanti militari del Risorgimento? Non si possono immaginare personaggi più distanti. Eppure i loro nomi rimarranno per sempre uniti nel racconto della storia patria, perché Pallavicini fu il generale dell’esercito sabaudo che riuscì a sconfiggere il leggendario fuorilegge di Rionero in Vulture (Potenza) dopo che per quattro anni, alimentate dal governo in esilio a Roma di Francesco II di Borbone, le insorgenze avevano fatto tremare le fondamenta del neonato Stato unitario. Ora le biografie dei due nemici sono ricostruite con penna brillante e documentazione inedita dal nostro maggiore storico del brigantaggio, Carmine Pinto, ordinario all’Università di Salerno. Dopo aver pubblicato nel 2019 il saggio che ha dato una svolta alle ricerche sul brigantaggio, La guerra per il Mezzogiorno, lo studioso torna a occuparsi del tema da una prospettiva del tutto originale: con Il brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di Priola ci offre due angoli di lettura del Risorgimento.

Nel 1848 troviamo Pallavicini, classe 1823, sottufficiale alla battaglia di Custoza, nel 1855 nella spedizione in Crimea voluta da Cavour, nel 1859 nella sanguinosa battaglia di San Martino. Nell’autunno dell’anno successivo è al seguito della spedizione regia al Sud. Fu lui nel marzo 1861 a piegare l’ultima resistenza borbonica di Civitella del Tronto. Pallavicini fu l’ufficiale scelto per fronteggiare Giuseppe Garibaldi all’Aspromonte. Le stampe dell’epoca lo raffigurano con il cappello in mano e nell’atto di inginocchiarsi davanti all’Eroe ferito. Grazie a questa impresa Pallavicini è entrato anche nella grande letteratura, nelle pagine del ballo del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Carmine Crocco, classe 1830, dopo aver lavorato come mandriano per la più influente famiglia di Rionero in Vulture, i Fortunato, si era arruolato nell’esercito borbonico fino a diventare caporale. Ma nel 1852, punito per una sanguinosa lite con un commilitone, era evaso e aveva raggiunto i boschi che circondano i laghi vulcanici di Monticchio. Catturato e rinchiuso nella fortezza di Brindisi, da cui evase nel 1859, Crocco capì che l’industria più redditizia era quella dei sequestri, infatti il 14 luglio 1860 rapì un borghese di Ripacandida, Michele Anastasia. Questi, pagato il riscatto, con grande sorpresa si ritrovò il bandito che l’aveva catturato come garante dell’ordine ai seggi elettorali. Crocco aveva fiutato il vento e si era messo al servizio dei liberali, tranne che il suo curriculum criminale non sfuggì a Giacomo Racioppi, viceprefetto di Potenza, che lo fece arrestare. Cominciò allora la nuova vita del «generale dei briganti» che evase di nuovo con l’aiuto delle potenti famiglie filoborboniche, i Fortunato, gli Aquilecchia, i Saraceno.

Pinto delinea ascesa e declino del brigantaggio, in cui fondamentale era l’apporto dei manutengoli, distingue tra la prima fase più politica, con il contrasto tra l’idealista José Borjes e lo spregiudicato Crocco, e la seconda in cui prevale la componente criminale. Dipinge con tratti precisi i profili dei collaboratori di Crocco, da Nicola Summa, detto Ninco Nanco, ad Angelantonio Masini a Michele Caruso. Tutti delinquenti efferati più che idealisti combattenti di una causa perduta.

Anche Pallavicini è raffigurato con realismo, ufficiale dalla turbolenta vita privata, carico di debiti contratti al tavolo di gioco, ma con l’intuito e la visione del grande comandante. Che sa capire come per sconfiggere il brigantaggio occorrano metodi nuovi: armamenti leggeri, piccole e agili unità e soprattutto una pressione sull’ambiente sociale nel quale il brigantaggio fioriva. Esecuzioni sul campo, uso della propaganda con l’esibizione dei corpi e delle foto dei temibili nemici e soprattutto un’arma nuova: i pentiti. Fu il braccio destro di Crocco, Giuseppe Caruso, omonimo del sanguinario brigante foggiano, a rivelare i covi segreti del suo capo e a determinarne la sconfitta.