A cura di Antonio Carioti, La Lettura, 31 gennaio 2021
Le foibe sono voragini naturali, tipiche del Carso e dell’Istria, dove i partigiani comunisti jugoslavi usavano gettare i cadaveri delle loro vittime per farli sparire. Il vocabolo è diventato di uso più comune da quando è stato istituito, nel 2004, il Giorno del Ricordo per le uccisioni delle foibe e l’esodo istriano-dalmata. Una ricorrenza che cade il 10 febbraio (data del trattato di pace con cui l’Italia nel 1947 perse vasti territori al confine orientale) e spesso suscita polemiche. Sulla questione delle violenze esercitate tra il 1943 e il 1945 dai miliziani di Tito in Venezia Giulia e della fuga degli italiani dalle terre annesse alla Jugoslavia abbiamo interpellato Eric Gobetti, autore del libro appena uscito E allora le foibe? (Laterza), e Raoul Pupo, il cui saggio II lungo esodo, uscito qualche anno fa da Rizzoli, andrà in edicola il 9 febbraio con il «Corriere della Sera» in edizione aggiornata.
Qual è il vostro parere sul Giorno del Ricordo e sulle discussioni che provoca quasi ogni anno?
ERIC GOBETTI — È importante che si parli di questa pagina di storia. Ma il racconto mediatico che se ne fa è spesso molto impreciso e non aiuta a capire. Si sta imponendo una verità precostituita, di matrice ideologica nazionalista, che non può essere messa in discussione. Gli studiosi che lo fanno vengono tacciati di «negazionismo» o «riduzionismo» nei riguardi delle violenze jugoslave, a volte addirittura, come è accaduto a me, minacciati pubblicamente dall’estrema destra. Del resto il mio libro è stato preso di mira ancora prima che uscisse. Viene così precluso il dibattito storiografico e si stabilisce un precedente pericoloso.
RAOUL PUPO — Anch’io ho subito attacchi politici del genere, ma sul Giorno del Ricordo esprimo un giudizio più arti-colato. Sono stato contentissimo della sua istituzione, perché si tratta di un doveroso e tardivo riconoscimento delle sofferenze subite da un numero considerevole di nostri concittadini. Inoltre ha consentito il salvataggio di una memoria che stava sparendo, quella degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. E ha permesso la reintegrazione nella storia nazionale di quella componente adriatica, che ha un retroterra importante. Anche il fatto che la legge istitutiva sia stata votata quasi all’unanimità è positivo, perché ha sottratto la tragedia istriano-dalmata a un uso di parte.
Tutto bene dunque?
RAOUL PUPO — No, ci sono due problemi. Il primo è che in Venezia Giulia esistono memorie divise, quindi celebrando una di esse si entra in tensione con le altre, specie quella della minoranza slovena oppressa dal fascismo. È inevitabile, ma è una difficoltà che si può bilanciare con la politica, come per esempio si è fatto tra Germania e Polonia. Da noi c’è stato un ritardo, da cui sono derivate anche crisi diplomatiche, che però ora è stato recuperato grazie all’azione dei presidenti della Repubblica: prima Giorgio Napolitano nel 2010 e ancora di più Sergio Mattarella nello scorso luglio, quando ha incontrato a Trieste il suo omologo sloveno Borut Pahor.
E il secondo problema?
RAOUL PUPO— Consiste nel fatto che la dimensione bipartisan, chiara nello spirito della legge, si è persa per strada. C’è stata un’appropriazione da destra, con le forme e i contenuti nazionalisti di cui parlava Gobetti, che però è bilanciata da iniziative di grande equilibrio, come quelle degli Istituti per la storia della Resistenza, e dal lavoro di formazione dei docenti promosso dal ministero dell’Istruzione. Ci sono tuttavia frange dell’estrema sinistra che tuttora ripetono la versione dei fatti sostenuta dal vecchio regime jugoslavo: le foibe come resa dei conti con i criminali fascisti, l’esodo come prodotto della propaganda nazionalista italiana. E contrastano il Giorno del Ricordo come una festa della destra, la quale a sua volta è ben lieta di questa reazione, che le permette d’intestarsi il dramma istriano: come spesso avviene, le estreme si sostengono a vicenda.
ERIC GOBETTI — Però le posizioni di sinistra radicale oggi sono decisamente marginali, anche se fanno rumore. Pochi difendono in modo acritico l’operato delle forze partigiane di Tito. Il problema è che le giuste critiche rivolte al comunismo stalinista (jugoslavo, ma anche italiano) vengono portate all’eccesso fino a capovolgere il significato storico degli eventi. Si arriva così a rivalutare chi si opponeva in armi a Tito, cioè fascisti e nazisti, in pieno contrasto con le fondamenta antifasciste della nostra Repubblica. Mi viene in mente il film Rosso Istria di Maximiliano Hernando Bruno, in cui gli eroi, aggrediti dai feroci partigiani jugoslavi, stanno dalla parte del Terzo Reich. Gli opposti estremismi evocati da lupo esistono fino a un certo punto: a sinistra ci sono frange esigue, come si accennava prima; mentre dall’altra parte ci sono amministrazioni pubbliche importanti che fanno proprio quel film e lo regalano alle scuole. Anche la graphic novel Foiba rossa dell’editrice di estrema destra Ferrogallico è stata distribuita nelle scuole del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia.
RAOUL PUPO — Indubbiamente c’è una campagna in atto da parte della destra, che rivendica a sé le vittime del confine orientale. Questo è inaccettabile, perché non tutti coloro che furono uccisi erano fascisti, anche se certo le persone legate al passato regime, che aveva oppresso gli slavi, furono le prime a essere colpite dai partigiani. Qui però stiamo parlando di uso politico della storia, il dibattito tra gli studiosi si svolge su un piano del tutto diverso.
A questo proposito, come mai voi storici respingete l’uso dell’espressione «pulizia etnica» per la vicenda istriano-dalmata?
RAOUL PUPO — Si tratta di un termine inapplicabile al gruppo nazionale italiano, che in quelle zone non era un’etnia, cioè non si definiva in base a un’ereditarietà di sangue, perché si era molto infoltito nel tempo con l’integrazione di persone di varia origine, come si evince facilmente dai loro cognomi. Considerare gli italiani dell’Istria e della Dalmazia sotto un profilo etnico vuol dire tagliarne fuori circa la metà, con un’operazione questa sì davvero «riduzionista». Il termine più appropriato resta quello di esodo, che definisce ima delle possibili modalità di spostamento forzato delle popolazioni.
Ma quanti tipi ne esistono?
RAOUL PUPO — In sostanza sono tre. Il primo è la deportazione: il potere prende il gruppo individuato come bersaglio e lo trasferisce altrove, in campo di concentramento o anche nell’aldilà, come avvenne agli ebrei sotto il nazismo. Il secondo è l’espulsione, applicata ai tedeschi in Polonia e in altri Paesi dell’Europa orientale dopo il 1945: il potere emana una norma che impone alla comunità indesiderata di allontanarsi da un territorio, pena gravi rappresaglie. Infine l’esodo, quando il potere crea condizioni ambientali sfavorevoli per cui un gruppo è indotto ad andarsene. Quest’ultimo è il caso dei giuliano-dalmati: la forma fu quella del diritto d’opzione per l’Italia, ma nella sostanza si trattò di un allontanamento coatto.
ERIC GOBETTI — Il termine pulizia etnica è scorretto, come nota Pupo, ma ne hanno fatto uso sia Napolitano sia Mattarella, a dimostrazione del fatto che un discorso propagandistico errato viene oggi utilizzato anche dai politici più moderati. Va ricordato inoltre che foibe ed esodo sono fenomeni diversi. Anche se c’è un contesto generale di violenza, non sono gli eccidi compiuti dai partigiani di Tito nel settembre 1943 e poi nella primavera- estate del 1945 che spingono gli italiani ad andarsene, perlopiù nel 1947. L’esodo è stato un dramma colossale, le cui ferite non sono ancora rimarginate, ma non può essere rappresentato come un conflitto tra italiani buoni e slavi cattivi. A parte il fatto che c’erano anche italiani schierati dalla parte di Tito, una tale visione propagandistica non fa un buon servizio agli esuli, che vengono ingiustamente assimilati ai fascisti. Purtroppo le associazioni degli istriano-dalmati si sono spesso prestate a questo racconto, ma molti tra i profughi non lo condividono e respingono l’uso politico della loro disgrazia.
Approfondiamo la questione del rapporto tra foibe ed esodo.
RAOUL PUPO— La paura è certamente uno dei fattori che spingono gli istriano-dalmati a lasciare le loro case, non l’unico. Le foibe sono terribili, ma non hanno lo scopo di espellere gli italiani. Vengono però vissute da loro come un monito: «Ecco che cosa potrebbe succedere se vi opponete al nuovo potere jugoslavo». Poi c’è la coercizione strisciante di un regime stalinista quale era all’epoca quello di Tito, che guarda agli italiani con forte sospetto. Così viene indebolita la capacità di resistere. Gli istriano-dalmati vorrebbero restare, ma la politica delle autorità comuniste crea condizioni che per loro sono invivibili dal punto di vista identitario. Così, quando capiscono che il dominio jugoslavo è definitivo, in particolare con il trattato di pace del 1947, le comunità decidono di partire. All’inizio gli italiani meno angariati, gli operai e parte dei contadini, preferiscono rimanere, ma poi la situazione peggiora anche per loro e scelgono di andarsene.
ERIC GOBETTI — L’esodo ha cause molto complesse, politiche, sociali, eco-nomiche e anche nazionali, nella misura in cui le autorità jugoslave diffidano degli italiani perché assimilati al fascismo, secondo una costruzione simbolica prodotta in vent’anni di regime mussoliniano. Lo spostamento del confine verso ovest e il cambiamento di governo dopo la guerra comportano anche una crisi psicologica per gli italiani, dovuta al «rovesciamento» dei rapporti di potere tra le comunità: all’improvviso gli slavi, prima subalterni, diventano dominanti.
Fanno eccezione i comunisti italiani, all’epoca schierati con Tito.
RAOUL PUPO — Il Pci si trova fra l’incudine e il martello. In Venezia Giulia è presente solo a Trieste e dintorni, in Istria pochissimo. È inevitabile che subisca l’egemonia dei compagni jugoslavi, ben più radicati sul territorio. È di fatto subalterno a Tito, grazie al quale riceve aiuti preziosi. Quindi nel 1943 dà subito per scontato che l’Istria finirà alla Jugoslavia e si trova in difficoltà anche a Trieste e Gorizia, due città rivendicate dagli sloveni che considerano nemico ogni oppositore dell’annessione. Per circa un anno il Pei triestino cerca di tenere una posizione autonoma, dando priorità alla lotta urbana, ma nell’estate del 1944 la sua dirigenza viene sgominata dai nazifascisti e i superstiti accettano la linea rivoluzionaria imposta dalle forze di Tito. Una linea che peraltro piace parecchio ai comunisti del Nord Italia, che vedono con favore l’instaurazione di un regime socialista a Trieste.
Palmiro Togliatti però la pensa diversamente.
RAOUL PUPO — Il segretario del Pci, in sintonia con Iosif Stalin, non persegue la rivoluzione in Italia, ma l’unità antifascista nei Comitati di liberazione nazionale (Cln). E nell’autunno 1944 stipula con Edvard Kardelj, capo dei comunisti sloveni, un’intesa ambigua: rivendica la sua linea unitaria per l’Italia, ma in Venezia Giuba, pur senza schierarsi per la cessione della zona agli jugoslavi, accetta che questi ultimi facciano a modo loro, il che significa liquidare la parte di Resistenza italiana che rifiuta di piegarsi a Tito. Di qui la strage di Porzus, che vede partigiani legati al Pci eliminare resistenti della formazione patriottica Osoppo. A loro volta gli jugoslavi, quando entrano a Trieste nel maggio 1945, eliminano il Cln locale. Poi il Pci ha sostenuto di aver difeso l’italianità della Venezia Giuba, ma lo aveva fatto solo nei limiti consentiti da Tito, che ne capiva le esigenze e ne tollerò l’ambiguità.
ERIC GOBETTI — Bisogna precisare che l’ordine ai partigiani triestini di collaborare con gli sloveni non giunge dal Pci, ma dal Cln dell’Alta Italia (Clnai), in cui erano presenti anche le altre forze politiche antifasciste.
RAOUL PUPO — La linea dei comunisti però va molto oltre le raccomandazioni del Clnai.
ERIC GOBETTI — Il Pci ha interesse a che s’instaurino regimi comunisti ovunque è possibile, Trieste compresa, anche perché Togliatti sa che invece l’Italia finirà nella sfera d’influenza anglo-americana. Ciò non toglie che il Pci abbia svolto un ruolo positivo nella Resistenza, alla Costituente e in seguito, difendendo gli ideali progressisti. Quando poi nel 1948 c’è la rottura tra Mosca e Belgrado, Togliatti si schiera con Stalin come quasi tutti i comunisti del mondo, mentre Tito resiste alle pressioni dell’Urss grazie all’appoggio anglo-americano, ma anche al forte consenso di cui gode nel suo Paese.
Veniamo alle relazioni tra l’Italia e le Repubbliche ex jugoslave, alla luce di quel passato tragico.
RAOUL PUPO — I rapporti tra Roma e Lubiana erano ottimi, anche a livello locale, già prima dell’incontro di luglio tra Mattarella e Pahor, nonostante le memorie divise. Ma il gesto di ricordare insieme le foibe e la repressione fascista a Basovizza, dove ci sono il monumento alle vittime dei partigiani jugoslavi e quello agli irredentisti sloveni fucilati sotto il regime di Mussolini, ha un valore simbolico clamoroso, che può aprire una stagione nuova. Però ci troviamo nel tempo sospeso del Covid. Con il ritorno alla normalità vedremo se la società saprà seguire la via indicata dai due presidenti.
ERIC GOBETTI — lo sono ottimista: credo che l’incontro di Trieste ci autorizzi a ben sperare, dopo i problemi sorti per la strumentalizzazione politica del Giorno del Ricordo. Resta però un elefante nella stanza: la questione enorme e taciuta dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia. Oggi i rapporti tra Berlino e Varsavia sono distesi perché la Germania ha riconosciuto le atrocità compiute in Polonia. Sarebbe impensabile che uno statista tedesco ricordasse le sofferenze del suo popolo (dodici milioni di persone espulse dall’Est, quasi due milioni di vittime), senza menzionare Auschwitz. Sarebbe ora che anche i governanti italiani riconoscessero a livello ufficiale orrori come quelli del campo sull’isola di Arbe, dove furono richiusi migliaia di civili slavi e circa 1.500 morirono di stenti.
RAOUL PUPO — Quest’anno in aprile ricorrono ottant’anni dall’invasione italo-tedesca della Jugoslavia. Speriamo che l’occasione venga colta per un gesto del genere.
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