Enzo Traverso, la rivoluzione, il neoliberalismo autoritario e la nuova sinistra

Un’intervista del nostro Giuliano Battiston con lo storico delle idee Traverso, autore di Rivoluzione, Malinconia di sinistra, del recente La tirannide dell’io, e fresco vincitore del Premio Napoli 2022

Giuliano Battiston | Lettera22 | 4 gennaio 2023

«L’800 è un secolo che si apre con la rivoluzione francese; il 900 nasce con la grande guerra, ma il suo orizzonte d’attesa è fissato dalla rivoluzione russa; il XXI secolo nasce invece da una controrivoluzione, dalla sconfitta e dall’eclissi dell’orizzonte di attesa utopico e rivoluzionario, con la grande svolta del 1989». Secondo Enzo Traverso, è all’interno di questa svolta storica e della «paralisi utopica» che ne deriva che vanno lette la sconfitta della sinistra in Italia e l’affermazione del neoliberalismo autoritario del governo presieduto da Giorgia Meloni. Storico della Cornell University di Ithaca, New York, tra i più rigorosi intellettuali del nostro tempo, in questi giorni Traverso è in Italia per il Premio Napoli 2022, di cui è finalista con Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli 2021), una monumentale storia intellettuale del concetto di rivoluzione, da leggere insieme a Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta (Feltrinelli 2016) e al suo ultimo libro, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona (Laterza 2022).

Con Rivoluzione, lei intende «riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave d’interpretazione della modernità», evitando le trappole simmetriche della stigmatizzazione conservatrice e dell’apologia cieca. Cosa ne deriva per la comprensione del presente?

La rimozione del concetto di rivoluzione dal paesaggio culturale, politico e ideologico del presente fa sì che oggi si pensi sì la politica, ma che nessuno pensi più alla rivoluzione come via possibile al cambiamento. Ricostruirne la storia è indispensabile per capire che il XXI non sarà un secolo senza rivoluzioni. Le rivoluzioni sono scomparse solo dal nostro universo mentale, non dalla realtà. E non è escluso che nel XXI secolo lo stesso concetto subisca una nuova metamorfosi, come quella avvenuta con la rivoluzione francese: non più il ritorno alle condizioni originarie dopo un movimento rotatorio ciclico, secondo la definizione dell’astronomia, ma una rottura sociale e politica, la proiezione della società nel futuro. Una proiezione resa possibile dalla dialettica storica di cui parlava Reinhart Koselleck: la storia come dialettica tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di attesa. Oggi quella dialettica si è inceppata.

Lei sostiene che, dopo questo passaggio, una nuova sinistra globale non possa rinascere se non elabora l’esperienza storica che ha trasformato il socialismo in un’utopia fredda. Anziché eluderla, dovrebbe inoltre farci carico della “malinconia di sinistra”. La malinconia è una premessa all’azione politica?

Non faccio della malinconia una prescrizione, una terapia. Ma neanche un sentimento di impotenza e rassegnazione: è un processo di elaborazione di una coscienza storica senza il quale le future rivoluzioni non potranno pensare il futuro. I movimenti degli ultimi venti anni hanno una vasta elaborazione critica, ma non si inscrivono in una continuità storica. Le rivoluzioni arabe non avevano modelli di riferimento, non erano socialiste, comuniste, panarabe, islamiste, terzomondiste o antimperialiste. I Gilets jaunes in Francia non scendevano in piazza con la bandiera rossa. Esistono movimenti radicali con forti potenzialità, ma sono privi di memoria e di coscienza storica.

Per lei la malinconia è produttiva, performativa. Ma nella storia della sinistra è apparsa spesso come un segno di debolezza e impotenza…

Nella cultura della sinistra la malinconia è stata a lungo rimossa come illegittima, anche a causa di un retaggio virilista, maschilista e guerriero. Per Raymond Williams, invece, la malinconia fa parte della struttura dei sentimenti della sinistra. D’altronde, ha svolto un ruolo attivo in molti casi. Le madri di Plaza de Mayo in Argentina sfilavano con i ritratti dei desaparecidos. Manifestazioni di lutto, ma scintille per la lotta contro la dittatura militare. Black Lives Matter è un altro esempio di come il lutto e la malinconia possano sfociare nella rivolta e nella lotta.

L’abbandono del sogno di un’umanità liberata ha prodotto un regime di storicità che nLa tirannide dell’io definisce “presentismo”. La stessa immaginazione è chiusa dentro i confini del presente o, se rivolta al futuro, è distopica, segnata da catastrofi ecologiche. Come interpreta il “catastrofismo”?

Il fascismo è una minaccia, ma è un’opzione che si può evitare, mentre la catastrofe ecologica è un destino ineluttabile se non modifichiamo il modello di civiltà ancor più che alcune politiche economiche. Per le nuove generazioni è la premessa per pensare un futuro capace di scongiurare la catastrofe. Il 900 era un secolo dominato da quello che Ernst Bloch definiva il principio speranza, il secolo dell’anticipazione, del non-ancora, dell’utopia. Ora l’unica anticipazione possibile è quella dell’escatologia negativa. Vale quel che Günther Anders ha definito principio disperazione, che pone il problema dell’etica della responsabilità.

Una certa storiografia ha favorito l’idea che l’utopia di una società liberata e il socialismo reale fossero la stessa cosa e che il totalitarismo sia l’esito inevitabiledi ogni utopia rivoluzionaria. Oggi si dà per scontato che non ci sia alternativa a democrazia liberale e società di mercato

Se osserviamo quel che è avvenuto in Italia negli ultimi mesi – le elezioni, il nuovo governo, la sua composizione – non solo con una lente contingente, ci accorgiamo che è l’esito di questo lungo processo storico. Oggi si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, rivolte contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi, dunque: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda.

L’ultimo capitolo di Rivoluzione si intitola “Storicizzare il comunismo”. Ritiene che l’attuale deficit della sinistra in Italia dipenda anche dal non aver fatto i conti con quella storia, storicizzandola?

In Italia abbiamo assistito non solo alla sconfitta del comunismo, del socialismo e delle rivoluzioni del 900, ma all’auto-dissoluzione del più grande partito comunista del mondo occidentale. La sconfitta è stata non solo accettata, ma quasi rivendicata. Il passato, dimenticato e rimosso. Da un lato c’è chi ha chiuso quell’esperienza senza elaborarne l’eredità, aderendo in modo acritico a un nuovo modello: la democrazia liberale e la società di mercato come ordine naturale del mondo. Dall’altro la reazione di una minoranza ancorata a un modello ormai obsoleto, sterile. In una prospettiva di lunga durata siamo ancora dentro questa impasse.

In un’intervista al manifesto ha parlato del governo Meloni come «l’espressione più vistosa di una tendenza verso il neo-liberalismo autoritario che permette la convergenza tra la democrazia liberale classica e il post-fascismo», che fa propri i valori del capitalismo. La sinistra può “sfruttare” la situazione?

Tensioni e contraddizioni dell’ascesa della nuova destra, in Italia e altrove, non vanno sottovalutate. Più che alle sue scelte ideologiche, il successo di Giorgia Meloni è dovuto alla sua “coerenza politica”, al fatto che sia apparsa l’unica forza di opposizione, alternativa. La stessa chiave spiega l’ascesa delle nuove destre radicali su scala globale, apparse come l’unica alternativa – di destra, conservatrice, reazionaria – al neoliberalismo. Eppure, se diventano l’incarnazione di un neoliberalismo autoritario, vanno inevitabilmente incontro a problemi: possono apparire forze di governo legittime agli occhi delle élite, ma perderanno consenso tra i ceti popolari che le hanno sostenute.

La “coerenza politica” di Giorgia Meloni è passata per la rivendicazione dell’autonomia del politico: l’idea che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a rappresentare gli interessi del popolo, non della finanza globale. Ma dentro l’economia politica neoliberista i governi hanno margini di autonomia ridotti. Come ne uscirà il governo?

In Italia, almeno a partire dal governo Monti, l’autonomia del politico è stata sostituita dall’autonomia dell’economico. Oggi l’autonomia del politico può spiegare la capacità di Giorgia Meloni di far rinascere un partito che sembrava un residuo dell’estrema destra, raccogliendo un forte consenso elettorale, passando come interlocutore credibile per l’Unione europea e per l’élite economico-finanziaria, senza rinunciare alla periferia di neonazisti e neofascisti. Ma arrivata al governo la stessa Meloni diventa l’incarnazione dell’autonomia dell’economico, la cifra dell’era neoliberista, ultima di una serie di governi votati dai parlamenti ma sovradeterminati da forze esterne. È una tendenza generalizzata. Se vuole essere una forza di alternativa, la sinistra non può che opporsi radicalmente a questo modello. E nella misura in cui è la destra a governare, deve saperne gestire tutte le contraddizioni che ne derivano.

Il Medioevo in 21 battaglie

letture.org | 27 dicembre 2023

Prof. Federico Canaccini, Lei è autore del libro Il Medioevo in 21 battaglie: che spazio ha occupato, la guerra, nella vita degli uomini dell’Età di Mezzo?

Quando si dice “Medioevo” si compie un’astrazione talmente grande che è difficile offrire una definizione soddisfacente, e lo si fa sia nello spazio che nel tempo. Medioevo dove? Medioevo quando? La geografia del Medioevo a cui siamo abituati si ferma quasi sempre poco oltre Costantinopoli e da un punto di vista cronologico raramente ci si spinge prima del 476 e oltre il 12 ottobre del 1492. Mille anni di storia racchiusi in una sola parola: come a dire di associare gli uomini del 2022 con quelli del 1022. Un po’ eccessivo! Nel libro si offre un’Età di Mezzo volutamente non eurocentrica e che rompe gli argini geografici e cronologici a cui siamo stati abituati sin dai tempi della scuola. Altro aspetto ineludibile del Medioevo è una scansione degli eventi legata alla guerra, alla perenne conflittualità, ad un apparente stato endemico di violenza, sempre e dappertutto. “La guerra pubblica o privata è uno dei meccanismi funzionali della società medievale. Nella mentalità delle élites medievali, la guerra è un’eredità ancestrale e una costante antropologica. Non solo l’economia, ma tutta la vita quotidiana del Medioevo è largamente influenzata da questa antica festa crudele” ha scritto Mario Sanfilippo citando anche il titolo di un famoso libro di Franco Cardini. La storia medievale ha inizio, come è noto, con un grande scontro di civiltà che ha determinato uno dei più grandi preconcetti nella storia del pensiero occidentale. Il confronto tra le popolazioni germaniche e la civiltà classica – e l’aggettivo la dice già lunga! Classica: il punto di riferimento a cui dovranno adeguarsi tutti gli altri! – ha creato nel corso dei secoli un’antinomia fra una certa idea di stato, di bellezza, di estetica a cui è stata contrapposta una di rozza barbarie. I secoli a cavallo della fine di Roma furono certamente caratterizzati da una fase di violenza, ma fu probabilmente più l’idea che Roma morisse sotto i colpi dei Barbari a determinare l’idea di un Medioevo barbarico e violento. I secoli centrali sarebbero stati caratterizzati da lotte tra signori, tra regni nascenti, tra comuni, ma anche tra civiltà profondamente diverse fra loro. Infine anche la conclusione del Medioevo è associata a uno stato di guerra endemico: un conflitto secolare tra Francia e Inghilterra, un altro pure eterno contro il Turco, e infinite guerre a livello regionale. Davvero l’idea che venne trasmessa fu quella di un’epoca fatta di guerre e di violenza: ad ereditare questo concetto furono gli Umanisti che, idealmente, si collegarono ancora una volta all’età romana. Ecco allora che i brutali uomini d’arme prezzolati, i mercenari, diventano i “condottieri”, non deprecati, ma quasi esaltati per le loro doti assimilabili a quelle dei grandi generali romani, rinforzati dal concetto del Miles christianus di epoca medievale. La statua del Gattamelata non è forse l’imitazione di un Marco Aurelio? Eppure si sta parlando di un soldataccio che fa la guerra per arricchirsi, non certo di un eroe positivo. O forse sì: si tratta di quale interpretazione si decide di dare.

Perché sono proprio ventuno le battaglie da Lei individuate e raccontate?

Il libro è in parte eccentrico: 21 e non 20, una copertina non ordinaria e in parte fastidiosa, con quel fiotto di sangue anti-convenzionale per l’editoria, e una scelta di episodi militari medievali che, col Medioevo occidentale, hanno apparentemente poco o nulla a che fare. La volontà di uscir fuori da quei limiti mentali che ci siamo autocostruiti come identità di Occidente medievale, doveva dunque in qualche modo apparire già nel titolo. Quella “ventunesima battaglia”, volutamente stridente anche al nostro sistema decimale, non deve essere necessariamente identificata con l’ultimo capitolo, anche se è quello che forse meglio si presta a rendere l’idea di travalicamento degli spazi e dei limiti cronologici del “nostro Medioevo”. Il capitolo finale è, infatti, dedicato alla conquista di una favolosa città edificata in mezzo ad un enorme lago salato, una laguna, con case intervallate da canali e solcate da decine di piccole imbarcazioni: non sto parlando della conquista di Venezia, ma di Tenochtitlàn, capitale dell’Impero azteco. Lo spartiacque del 1492 – forse la data che ha avuto più successo tra quelle proposte dagli storici quale cesura tra Età Medievale e Moderna – ci induce ad arrestarci ancor prima che Colombo salga a bordo della Santa Maria: ciò che sta per accadere non appartiene, infatti, più al Medioevo! Ma, invece, quegli uomini sono figli del Medioevo, sono nati nel Medioevo, le idee che portano con sé sono le stesse, le armi e le strategie non cambiano. Piuttosto, gli Spagnoli – che proprio quello stesso anno completano la secolare Reconquista della penisola iberica – arriveranno sulle coste del Messico, intrisi di profetismo e convinti della necessità di recuperare il Santo Sepolcro, usando l’oro che abbonda in quelle terre: sono le idee propugnate da Enrico V Lancaster e quelle scritte su una missiva ai reali di Spagna da Cristoforo Colombo. Quanto di vero e quanto di propagandistico ci fosse in tutto ciò, questo, naturalmente, fa parte dello sporco gioco della guerra e degli affari.

Negli ultimi decenni, gli storici si sono progressivamente svincolati da quella che è stata polemicamente definita Histoire-bataille, la storia fatta solo di battaglie: in che modo le battaglie possono essere considerate come la chiave per accedere ad un mondo in realtà molto più ampio?

Le battaglie sono un argomento che affascina molti lettori: ciò è dovuto in parte alla apparente facilità di accesso all’argomento, ai colori dei due schieramenti – colori politici, etnici, culturali, linguistici ma anche i colori legati alle divise, alle bandiere, ai pennacchi – al responso finale – un vincitore e un vinto – e alle conseguenze di tale scontro. Purtroppo c’è anche il fascino della violenza e della guerra che attira in modo piuttosto morboso l’uomo e il lettore: per questo sarà utile provare a lasciare tra le righe anche qualche spunto di riflessione tra le pagine di un libro che di guerra parla, ma che di certo non la esalta. Raccontare la storia di mille anni e di un mondo così vasto, come quello tratteggiato nel libro, tramite appena 21 fatti d’arme è naturalmente un escamotage. La cosiddetta Histoire bataille è stata a lungo celebrata e poi criticata dalla storiografia che la vedeva come riduttiva: non si può, in effetti, ridurre la storia a una sequela di scontri, come se fossero questi a decidere le sorti dell’umanità. Ma se l’approccio è magari in parte nuovo, allora forse le battaglie possono divenire una chiave di lettura per esplorare un’epoca, anche lunga, come quella del Medioevo, e mondi che di volta in volta si scontrano. Ecco: la battaglia rappresenta certamente lo scontro tra due o anche più civiltà. Ciò che ho voluto tentare di fare è stato anche osservare gli incontri e magari gli scambi che sono intercorsi. Di certo 21 battaglie, e altrettanti capitoli, non esauriranno la storia medievale, ma non è questa la pretesa del libro. Al di là delle pagine dedicate al mero scontro militare, ogni capitolo offre pagine e pagine dedicate alla popolazione, o alla civiltà presa in esame: si parla di evoluzioni tecnologiche legate alla guerra – certamente! – ma si delineano anche usi e costumi dei popoli analizzati. Si tratteggiano i protagonisti, dove si può, mettendo a frutto fonti contrastanti tra loro, spesso finalizzate a demonizzare l’avversario, delineato come un violento conquistatore assetato di sangue, ma si parla anche di credenze e pratiche religiose e perfino di abitudini alimentari: insomma, alla fine, le battaglie sono un ottimo pretesto narrativo per parlare di molto altro.

Nel volume troviamo tutte le battaglie più note, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma anche ‘fatti d’arme’ remoti come quelli di Badr, Tarain e Diu o la battaglia combattuta sulle rive del lago Texcoco, in Messico: in che modo il loro racconto ci permette di valicare i confini culturali del nostro Medioevo?

Nello scrivere l’indice del libro mi sono reso conto di come anche io fossi imbevuto della visione eurocentrica ricevuta nel mio percorso di studi. Sono stati certamente i viaggi compiuti – forse più che le letture – in luoghi remoti e decisamente più sfortunati della ricca Europa a farmi interessare sempre più all’Altro, anche da un punto di vista narrativo e storiografico. La scelta dei 21 capitoli è stata dettata dalla volontà di raccontare in modo diacronico più di dieci secoli, includendo gran parte della storia mondiale, non per vezzo o per originalità obbligatoria. Scorrendo le pagine ci si renderà conto, infatti, che questi mondi – largamente esclusi dalla manualistica occidentale – per più di un verso sono intimamente connessi con la “nostra storia”. E non parlo solo di quei capitoli palesemente lontani, come quello dedicato al mondo del Giappone o dell’India. A ben guardare, già il mondo slavo e quello balcanico, non hanno goduto della dignità di figurare nella storia d’Europa, né medievale né moderna. Quando è accaduto è stato sempre e solo in funzione degli eventi d’Europa: quando gli Ungari attaccano l’Europa, allora si può dedicare loro un paragrafo, specie dopo che decidono di convertirsi al cristianesimo, quando si parla di Gerusalemme è perché la città è méta dei pellegrini occidentali, quando ci si dilunga sull’Impero di Bisanzio è perché è contrapposto a quello d’Occidente. Talvolta ciò è dovuto alla penuria delle fonti, ma in larga parte anche ad una quasi naturale volontà di inconoscibilità degli altri. Ogni capitolo, invece, vuole provare a ampliare un poco la conoscenza su singoli mondi, creando talvolta delle connessioni, dei riferimenti, dei rimandi che spesso relativizzano il “nostro orizzonte del Medioevo europeo”. Facciamo un esempio. Lo stesso giorno del 1260 in cui sulla piana di Montaperti si consumava lo scontro tra Siena e Firenze, battaglia percepita come episodio chiave della storia comunale italiana, ad Ayn Jalut una gigantesca armata di fede islamica sconfiggeva un esercito mongolo, definendo il confine tra mondi diversi, con conseguenze ben più significative di quelle locali legate alla lotta comunale, amplificabile al conflitto tra Svevi e Angioni e financo tra Papato ed Impero. Se osservati da un punto di vista geopolitico, il paragone non regge: ma nella mentalità italiana, complice anche Dante Alighieri, Ayn Jalut semplicemente non esiste. E, in fondo, che in questo libro non ci sia neppure una battaglia tra i comuni, sembra quasi un affronto!

Come è avanzata l’arte della guerra nei mille anni del Medioevo?

La guerra è sempre stata portatrice di progresso tecnologico: per quanto triste e tragico sia doverlo ammettere, per affinare il modo di uccidere il nemico, l’uomo da sempre ha messo a frutto il proprio ingegno, piegandolo a fini mortali. Lo ha espresso bene Salvatore Quasimodo nella sua poesia “Uomo del mio tempo”, e il poeta si riferiva all’uomo del XX secolo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta”. Lo stupore di Quasimodo non era poi così diverso da quello di intellettuali medievali come Bernardino da Siena o Giacomo della Marca.

Nel corso del Medioevo si è assistito ad una serie impressionante di evoluzioni e certamente non solo nell’arte della guerra. Ma ciò che poteva essere utile in ambiti non bellici, ha trovato ben presto impieghi letali in ambito militare: l’evoluzione delle forme degli elmi, segue di pari passo l’evoluzione delle armi offensive, ed è impressionante vedere quante varianti appaiano nel giro di pochi decenni nelle armi in asta, letali trasformazioni per lo più di strumenti agricoli. I secoli iniziali del Medioevo sono caratterizzati da un confronto tra tattiche diverse, ma sbaglieremmo ad immaginare le legioni romane di V secolo uguali a quelle di Traiano, che combattono con orde di barbari come quelli che vide Cesare in Gallia. Si diffonde la staffa, la balestra, gli scudi appaiono e scompaiono, si allargano, si restringono. Alla fine del Medioevo compare in Occidente l’impiego della polvere pirica, l’esplosivo, che ha rivoluzionato il modo stesso di fare la guerra. Ad oggi, purtroppo, la guerra si fa ancora così: si sono solo evoluti gli strumenti per lanciare quelle medesime bombe che atterrivano i campi di battaglia già nel XIV secolo. Un tempo si parlava di falconetti e bombarde, poi si parlò di cannoni e spingarde, per arrivare a carri armati e katiusce. Oggi si parla di droni: ma il risultato non cambia.

Faccia a faccia con i primi Sapiens

Claudio Tuniz | La Lettura | 8 gennaio 2023

Secondo le Nazioni Unite, il 15 novembre 2022 la popolazione umana ha superato gli 8 miliardi di persone (pari al 7% di tutti gli esseri umani mai vissuti). All’inizio della rivoluzione agricola, circa 10 mila anni fa, eravamo meno di 4 milioni, numero che è lentamente salito a circa 800 milioni alle soglie della nostra prima rivoluzione industriale. Rispetto alla tempistica dell’evoluzione umana, che supera i due milioni di anni, il numero di umani in vita si è dunque impennato (e concentrato) soltanto negli ultimi due secoli. Oggi abbiamo talvolta la sensazione di vivere in un formicaio, con metropoli che superano i 20 milioni di abitanti. Secondo le stime dei paleo-demo grafi, intorno a 100 mila anni fa la nostra specie comprendeva in tutto qualche decina di migliaia di persone raggruppate in bande che non superavano il centinaio, e gli incontri con altri gruppi erano rari. Vivevano quasi tutti in Africa, la cosiddetta culla dell’umanità, ma incominciavano a disperdersi verso altri continenti. Noi Sapiens non eravamo i soli umani intelligenti del pianeta, ma le altre specie «diversamente umane» costituivano una presenza più discreta.

Oggi abbiamo le prove che noi scuri e slanciati Sapiens africani, dalla testa tonda e dal volto aggraziato ed espressivo, abbiamo avuto incontri molto intimi con altre specie intelligenti, come i pallidi Neanderthal eurasiatici, dal corpo più robusto, faccia prognata, arcate sopracciliari prominenti, e cranio allungato all’indietro. Lo stesso è accaduto con una seconda specie umana di origine asiatica, di cui purtroppo non conosciamo ancora la fisionomia. Alcuni resti di una donna appartenente a questa specie, soltanto il dito mignolo e pochi denti, sono stati rinvenuti pochi anni fa nella caverna di Denisova, alle pendici dei monti Altai, in Siberia. Nello stesso luogo è stato trovato anche il frammento del femore di una donna ibrida con padre denisoviano e madre neanderthaliana.

Sappiamo tutto questo grazie a Svante Paabo, il premio Nobel 2022 per la Fisiologia e la Medicina, che ha inventato la paleogenomica, una disciplina che ci rivela questa e sorprendenti storie del nostro passato profondo. Nel 2010, il gruppo da lui diretto al Max Planck lnstitute for Human Evolution di Lipsia ha sequenziato sia il genoma dei Neanderthal che della denisoviana senza volto. Ma per noi è molto importante conoscere la fisionomia dei nostri lontani antenati.

Guido Barbujani, genetista di fama internazionale e gran divulgatore, ci spiega il perché nel suo libro più recente Come eravamo. Storia dalla grande storia dell’uomo (Laterza, 2022). Immaginare i loro tratti e il loro stile di vita ci aiuta a stabilire con loro un contatto emozionale: un elemento chiave della nostra evoluzione. Con l’aiuto di splendide illustrazioni, veniamo guidati nella preistoria attraverso una divertente galleria di ritratti. Nell’incontrare lo sguardo di Lucy, l’australopiteco che fu forse un nostro parente diretto, cerchiamo di interpretare il suo sorriso enigmatico. Nell’osservare il Ragazzo del Turkana, vissuto 1,6 milioni di amni fa in Africa Orientale, e appartenente a Homo ergaster, ci emoziona sapere che fu probabilmente il primo umano a controllare il fuoco, e quindi a dare una svolta decisiva alla nostra linea evolutiva. Nella Caverna delle Ossa (Pestera cu Oase) in Romania, incontriamo un Sapiens di 37 mila anni fa che aveva un trisavolo neandertaliano.

In seguito, ci imbattiamo in Otzi, lo sciamano tatuato vissuto 5.200 anni fa, emerso dal ghiacciaio di Similaun nel 1991. In Inghilterra incontriamo Cheddar Man, un Sapiens che, 10 mila anni fa, aveva ancora la pelle scura (nonostante la latitudine), i capelli neri e riccioluti e gli occhi azzurri.

Quest’ultimo caso offre a Barbujani l’opportunità di promuovere la sua instancabile battaglia contro il razzismo. Ci rendiamo conto che tutti questi parenti lontani non erano «anelli mancanti» o umani incompleti, nella grande marcia verso il progresso (cioè verso noi Sapiens di oggi) ma esseri perfettamente adattati all’ambiente in cui vivevano.

Le immagini del libro derivano da ricostruzioni a grandezza naturale prodotte da bravissimi paleoartisti, come la francese Elizabeth Daynés. Visitando il suo atelier di Parigi, ho potuto constatare di persona quanto sia laborioso ottenere una fedele replica di un Neanderthal. Volto e corpo sono modellati con i metodi delle scienze forensi. La struttura ossea viene ricoperta con una fedele replica dei nostri tessuti. Peli e capelli vengono inseriti con precisione. Il tocco finale è costituito dagli occhi, anch’essi incredibilmente realistici. Questo può avvenire grazie alla paleogenomica, che ci permette di conoscere con esattezza il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di un reperto. In particolare, forse solo noi Sapiens siamo dotati di una sclera perfettamente bianca, un dettaglio che si rivelerà importante per la nostra socializzazione, poiché aumenta le capacità espressive dei nostri occhi.

Le tecniche isotopiche forniscono molti indizi sullo stile di vita dei nostri progenitori. Conoscendo l’ambiente e il clima, tra le diverse ere glaciali e interglaciali, possiamo valutare i loro spostamenti sul territorio, la loro dieta e i loro impatti sull’ambiente. Con le analisi dei loro denti — vere «scatole nere» della vita riusciamo a determinare quando raggiungevano l’età dello sviluppo e perfino rilevare eventuali sofferenze fetali. Possiamo quindi generare sia modelli sulla loro evoluzione biologica (grazie alla paleoantropologia) sia modelli sulla loro evoluzione culturale (grazie all’archeologia) con lo studio di strumenti litici, arte rupestre e altri prodotti materiali.

Ma è stata la paleogenomica a dare il maggiore contributo a questi studi, con l’uso di nuove tecniche di sequenziamento del Dna e dell’intelligenza artificiale per analizzare i Big Data genetici. Il confronto del nostro genuina con quello dei Neanderthal e dei Denisoviani svela non solo la promiscuità delle diverse specie umane, ma anche effetti che ci riguardano direttamente. I frammenti di Dna ereditati dai Neanderthal sono associati, fra l’altro, alla nostra predisposizione al diabete, alla cirrosi epatica, alle dipendenze e ai sintomi più gravi del Covid-19. In passato, ci sono stati anche effetti positivi, che hanno accelerato l’adattamento dei nostri antenati agli ambienti glaciali dell’Eurasia. Questi però sembrano diventati controproducenti nel mondo attuale, caratterizzato da minori rischi di sopravvivenza nell’ambiente naturale e da maggiori rischi legati alla nostra socialità e a uno stile di vita più sedentario.

La genetica permette di studiare anche le migrazioni dei Sapiens del passato profondo e l’emergere di società più complesse e gerarchiche, in presenza di surplus di risorse, già a partire da 10 mila anni fa. Le cause della straordinaria crescita demografica di questi ultimi secoli potrebbero risalire al tardo Pleistocene, quando emergono importanti differenze genetiche, anatomiche, neurali, fisiologiche e comportamentali tra noi e le altre specie umane estinte. La singolare rotondità del nostro cranio, dovuta al rigonfiamento della corteccia parietale, si associa, ad esempio, alle componenti cerebrali coinvolte nell’integrazione visuo-spaziale e nel coordinamento cervello-corpo-strumenti-ambiente. Questo comincia a favorire una maggiore socialità e una migliore integrazione con l’ambiente. A queste trasformazioni viene associata l’emersione di nuove capacità cognitive, quali saper contare, sviluppare una memoria prospettica, generare pensiero simbolico e persino produrre musica. I Sapiens svilupparono anche tratti anatomici più gracili, un aspetto meno minaccioso (più vicino a quello femminile) e il mantenimento di comportamenti giovanili in età adulta. Si tratta di caratteri tipici della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in alcuni animali, nella quale l’aggressività diminuisce all’interno di una certa domus, ma aumenta nei confronti dell’esterno.

Per concludere, il cantiere per la costruzione di Homo sapiens ha una lunga storia ed è ancora aperto. Come dice Edoardo Boncinelli, l’essenza dell’umano è in continuo divenire. Si tratta di un processo circolare tra biologia e cultura che coinvolge cervello, corpo, oggetti, strumenti, ambiente naturale e sociale. Dall’analisi dei singoli individui serve procedere verso l’analisi delle società che hanno saputo e voluto formare. Se questo è stato sicuramente il segreto del nostro successo, alla fine potrebbe costituire anche la ragione del nostro declino. Siamo ormai tutti vincolati alle condizioni di sopravvivenza determinate dal nostro organismo sociale, un corpo collettivo che recentemente è cresciuto a dismisura fino a formare un superorganismo, sempre più energivoro, bellicoso, conflittuale e invasivo, con effetti devastanti sul pianeta.

Anche se come individui possiamo fare poco, potremmo comunque guardarci negli occhi e usare i nostri neuroni specchio anche per generare empatia e cooperare, e non solo per dividerci in tribù eternamente contrapposte.

Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia

Il libro ripercorre il pomeriggio di follia del 2020 nella struttura penitenziaria. La prefazione è di Ilaria Cucchi

Lucio Luca | la Repubblica | 10 gennaio 2023

“La storia è pesante, ti aiuto a trovare testimoni e riscontri. Vieni a Napoli. Nun perd tiemp…”. Era estate, un paio di giorni e tutta l’Italia avrebbe festeggiato il Ferragosto. Faceva tanto caldo a Santa Severa dove Nello Trocchia, giornalista de “Il domani” stava trascorrendo le vacanze con la famiglia. “È lì, in spiaggia, mentre tenevo per mano mia figlia in una mattina d’estate, che è iniziata la mia inchiesta giornalistica sul pestaggio di Stato compiuto il 6 aprile 2020 da 283 poliziotti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere”.

Pestaggio di Stato è proprio il titolo del libro inchiesta di Trocchia pubblicato da Laterza, un resoconto dettagliato e agghiacciante di un pomeriggio di follia in un pezzo di territorio italiano da parte di un pezzo delle istituzioni italiane. Un’ignobile mattanza, come è stata definita dagli inquirenti. “Avevo solo una certezza – spiega il giornalista – che quella storia sarebbe diventata una storia italiana, grave, imponente e che avrebbe potuto segnare per anni il racconto delle carceri nel nostro paese”.

La fonte di Trocchia lo prega di raggiungerlo a Napoli, “avevo intuito che c’era molto di più da raccontare, che non c’erano solo rivolte e caos, ma anche altro, nodi che non riuscivo a sciogliere. Dovevo solo scoprire come, mettere insieme i pezzi”. Ma che cosa è successo realmente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020? Quel pomeriggio 283 agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, entrano nel reparto Nilo del carcere Francesco Uccella. Irrompono nelle celle e prendono a calci, pugni, schiaffi i detenuti. Alcuni vengono rasati a forza. Il pestaggio dura ore, prosegue nei corridoi, lungo le scale. È, appunto, una mattanza.

Nei giorni successivi i fatti vengono denunciati, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria respinge le accuse. Con ritmo serrato, Nello Trocchia ricostruisce l’inchiesta che ha reso pubblici i video delle violenze riprese dalle telecamere di sicurezza, la testimonianza e le storie delle vittime e dei carnefici, il depistaggio operato dalla catena di comando, la noncuranza della politica.

“Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro Paese – scrive nella prefazione Ilaria Cucchi – È l’abdicazione del sistema Giustizia. Questa inchiesta di Nello Trocchia avrebbe dovuto, in uno Stato civile e democratico, far cadere il governo ed azzerare l’intera legislatura. Suscitare uno tsunami di sdegno intelligente e riflessivo: autocritico. Niente di tutto questo”.

Ma perché tutto questo è potuto accadere? E perché si può ripetere ancora? “Colpa della nostra indifferenza – conclude Ilaria Cucchi – del cinismo e del pregiudizio che hanno addormentato le nostre coscienze. I fatti narrati da una cronaca asciutta e spietata si verificano nel ventennale dal G8 di Genova. Leggere questo libro è doveroso, ma anche doloroso”.

 

Foibe di Tito e delitti fascisti. Le cicatrici del Nord Est

A cura di Antonio Carioti, La Lettura, 31 gennaio 2021

Le foibe sono voragini naturali, tipiche del Carso e dell’Istria, dove i partigiani comunisti jugoslavi usavano gettare i cadaveri delle loro vittime per farli sparire. Il vocabolo è diventato di uso più comune da quando è stato istituito, nel 2004, il Giorno del Ricordo per le uccisioni delle foibe e l’esodo istriano-dalmata. Una ricorrenza che cade il 10 febbraio (data del trattato di pace con cui l’Italia nel 1947 perse vasti territori al confine orientale) e spesso suscita polemiche. Sulla questione delle violenze esercitate tra il 1943 e il 1945 dai miliziani di Tito in Venezia Giulia e della fuga degli italiani dalle terre annesse alla Jugoslavia abbiamo interpellato Eric Gobetti, autore del libro appena uscito E allora le foibe? (Laterza), e Raoul Pupo, il cui saggio II lungo esodo, uscito qualche anno fa da Rizzoli, andrà in edicola il 9 febbraio con il «Corriere della Sera» in edizione aggiornata.

Qual è il vostro parere sul Giorno del Ricordo e sulle discussioni che provoca quasi ogni anno?

ERIC GOBETTI — È importante che si parli di questa pagina di storia. Ma il racconto mediatico che se ne fa è spesso molto impreciso e non aiuta a capire. Si sta imponendo una verità precostituita, di matrice ideologica nazionalista, che non può essere messa in discussione. Gli studiosi che lo fanno vengono tacciati di «negazionismo» o «riduzionismo» nei riguardi delle violenze jugoslave, a volte addirittura, come è accaduto a me, minacciati pubblicamente dall’estrema destra. Del resto il mio libro è stato preso di mira ancora prima che uscisse. Viene così precluso il dibattito storiografico e si stabilisce un precedente pericoloso.

RAOUL PUPO — Anch’io ho subito attacchi politici del genere, ma sul Giorno del Ricordo esprimo un giudizio più arti-colato. Sono stato contentissimo della sua istituzione, perché si tratta di un doveroso e tardivo riconoscimento delle sofferenze subite da un numero considerevole di nostri concittadini. Inoltre ha consentito il salvataggio di una memoria che stava sparendo, quella degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. E ha permesso la reintegrazione nella storia nazionale di quella componente adriatica, che ha un retroterra importante. Anche il fatto che la legge istitutiva sia stata votata quasi all’unanimità è positivo, perché ha sottratto la tragedia istriano-dalmata a un uso di parte.

Tutto bene dunque?

RAOUL PUPO — No, ci sono due problemi. Il primo è che in Venezia Giulia esistono memorie divise, quindi celebrando una di esse si entra in tensione con le altre, specie quella della minoranza slovena oppressa dal fascismo. È inevitabile, ma è una difficoltà che si può bilanciare con la politica, come per esempio si è fatto tra Germania e Polonia. Da noi c’è stato un ritardo, da cui sono derivate anche crisi diplomatiche, che però ora è stato recuperato grazie all’azione dei presidenti della Repubblica: prima Giorgio Napolitano nel 2010 e ancora di più Sergio Mattarella nello scorso luglio, quando ha incontrato a Trieste il suo omologo sloveno Borut Pahor.

E il secondo problema?

RAOUL PUPO— Consiste nel fatto che la dimensione bipartisan, chiara nello spirito della legge, si è persa per strada. C’è stata un’appropriazione da destra, con le forme e i contenuti nazionalisti di cui parlava Gobetti, che però è bilanciata da iniziative di grande equilibrio, come quelle degli Istituti per la storia della Resistenza, e dal lavoro di formazione dei docenti promosso dal ministero dell’Istruzione. Ci sono tuttavia frange dell’estrema sinistra che tuttora ripetono la versione dei fatti sostenuta dal vecchio regime jugoslavo: le foibe come resa dei conti con i criminali fascisti, l’esodo come prodotto della propaganda nazionalista italiana. E contrastano il Giorno del Ricordo come una festa della destra, la quale a sua volta è ben lieta di questa reazione, che le permette d’intestarsi il dramma istriano: come spesso avviene, le estreme si sostengono a vicenda.

ERIC GOBETTI — Però le posizioni di sinistra radicale oggi sono decisamente marginali, anche se fanno rumore. Pochi difendono in modo acritico l’operato delle forze partigiane di Tito. Il problema è che le giuste critiche rivolte al comunismo stalinista (jugoslavo, ma anche italiano) vengono portate all’eccesso fino a capovolgere il significato storico degli eventi. Si arriva così a rivalutare chi si opponeva in armi a Tito, cioè fascisti e nazisti, in pieno contrasto con le fondamenta antifasciste della nostra Repubblica. Mi viene in mente il film Rosso Istria di Maximiliano Hernando Bruno, in cui gli eroi, aggrediti dai feroci partigiani jugoslavi, stanno dalla parte del Terzo Reich. Gli opposti estremismi evocati da lupo esistono fino a un certo punto: a sinistra ci sono frange esigue, come si accennava prima; mentre dall’altra parte ci sono amministrazioni pubbliche importanti che fanno proprio quel film e lo regalano alle scuole. Anche la graphic novel Foiba rossa dell’editrice di estrema destra Ferrogallico è stata distribuita nelle scuole del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia.

RAOUL PUPO — Indubbiamente c’è una campagna in atto da parte della destra, che rivendica a sé le vittime del confine orientale. Questo è inaccettabile, perché non tutti coloro che furono uccisi erano fascisti, anche se certo le persone legate al passato regime, che aveva oppresso gli slavi, furono le prime a essere colpite dai partigiani. Qui però stiamo parlando di uso politico della storia, il dibattito tra gli studiosi si svolge su un piano del tutto diverso.

A questo proposito, come mai voi storici respingete l’uso dell’espressione «pulizia etnica» per la vicenda istriano-dalmata?

RAOUL PUPO — Si tratta di un termine inapplicabile al gruppo nazionale italiano, che in quelle zone non era un’etnia, cioè non si definiva in base a un’ereditarietà di sangue, perché si era molto infoltito nel tempo con l’integrazione di persone di varia origine, come si evince facilmente dai loro cognomi. Considerare gli italiani dell’Istria e della Dalmazia sotto un profilo etnico vuol dire tagliarne fuori circa la metà, con un’operazione questa sì davvero «riduzionista». Il termine più appropriato resta quello di esodo, che definisce ima delle possibili modalità di spostamento forzato delle popolazioni.

Ma quanti tipi ne esistono?

RAOUL PUPO — In sostanza sono tre. Il primo è la deportazione: il potere prende il gruppo individuato come bersaglio e lo trasferisce altrove, in campo di concentramento o anche nell’aldilà, come avvenne agli ebrei sotto il nazismo. Il secondo è l’espulsione, applicata ai tedeschi in Polonia e in altri Paesi dell’Europa orientale dopo il 1945: il potere emana una norma che impone alla comunità indesiderata di allontanarsi da un territorio, pena gravi rappresaglie. Infine l’esodo, quando il potere crea condizioni ambientali sfavorevoli per cui un gruppo è indotto ad andarsene. Quest’ultimo è il caso dei giuliano-dalmati: la forma fu quella del diritto d’opzione per l’Italia, ma nella sostanza si trattò di un allontanamento coatto.

ERIC GOBETTI — Il termine pulizia etnica è scorretto, come nota Pupo, ma ne hanno fatto uso sia Napolitano sia Mattarella, a dimostrazione del fatto che un discorso propagandistico errato viene oggi utilizzato anche dai politici più moderati. Va ricordato inoltre che foibe ed esodo sono fenomeni diversi. Anche se c’è un contesto generale di violenza, non sono gli eccidi compiuti dai partigiani di Tito nel settembre 1943 e poi nella primavera- estate del 1945 che spingono gli italiani ad andarsene, perlopiù nel 1947. L’esodo è stato un dramma colossale, le cui ferite non sono ancora rimarginate, ma non può essere rappresentato come un conflitto tra italiani buoni e slavi cattivi. A parte il fatto che c’erano anche italiani schierati dalla parte di Tito, una tale visione propagandistica non fa un buon servizio agli esuli, che vengono ingiustamente assimilati ai fascisti. Purtroppo le associazioni degli istriano-dalmati si sono spesso prestate a questo racconto, ma molti tra i profughi non lo condividono e respingono l’uso politico della loro disgrazia.

Approfondiamo la questione del rapporto tra foibe ed esodo.

RAOUL PUPO— La paura è certamente uno dei fattori che spingono gli istriano-dalmati a lasciare le loro case, non l’unico. Le foibe sono terribili, ma non hanno lo scopo di espellere gli italiani. Vengono però vissute da loro come un monito: «Ecco che cosa potrebbe succedere se vi opponete al nuovo potere jugoslavo». Poi c’è la coercizione strisciante di un regime stalinista quale era all’epoca quello di Tito, che guarda agli italiani con forte sospetto. Così viene indebolita la capacità di resistere. Gli istriano-dalmati vorrebbero restare, ma la politica delle autorità comuniste crea condizioni che per loro sono invivibili dal punto di vista identitario. Così, quando capiscono che il dominio jugoslavo è definitivo, in particolare con il trattato di pace del 1947, le comunità decidono di partire. All’inizio gli italiani meno angariati, gli operai e parte dei contadini, preferiscono rimanere, ma poi la situazione peggiora anche per loro e scelgono di andarsene.

ERIC GOBETTI — L’esodo ha cause molto complesse, politiche, sociali, eco-nomiche e anche nazionali, nella misura in cui le autorità jugoslave diffidano degli italiani perché assimilati al fascismo, secondo una costruzione simbolica prodotta in vent’anni di regime mussoliniano. Lo spostamento del confine verso ovest e il cambiamento di governo dopo la guerra comportano anche una crisi psicologica per gli italiani, dovuta al «rovesciamento» dei rapporti di potere tra le comunità: all’improvviso gli slavi, prima subalterni, diventano dominanti.

Fanno eccezione i comunisti italiani, all’epoca schierati con Tito.

RAOUL PUPO — Il Pci si trova fra l’incudine e il martello. In Venezia Giulia è presente solo a Trieste e dintorni, in Istria pochissimo. È inevitabile che subisca l’egemonia dei compagni jugoslavi, ben più radicati sul territorio. È di fatto subalterno a Tito, grazie al quale riceve aiuti preziosi. Quindi nel 1943 dà subito per scontato che l’Istria finirà alla Jugoslavia e si trova in difficoltà anche a Trieste e Gorizia, due città rivendicate dagli sloveni che considerano nemico ogni oppositore dell’annessione. Per circa un anno il Pei triestino cerca di tenere una posizione autonoma, dando priorità alla lotta urbana, ma nell’estate del 1944 la sua dirigenza viene sgominata dai nazifascisti e i superstiti accettano la linea rivoluzionaria imposta dalle forze di Tito. Una linea che peraltro piace parecchio ai comunisti del Nord Italia, che vedono con favore l’instaurazione di un regime socialista a Trieste.

Palmiro Togliatti però la pensa diversamente.

RAOUL PUPO — Il segretario del Pci, in sintonia con Iosif Stalin, non persegue la rivoluzione in Italia, ma l’unità antifascista nei Comitati di liberazione nazionale (Cln). E nell’autunno 1944 stipula con Edvard Kardelj, capo dei comunisti sloveni, un’intesa ambigua: rivendica la sua linea unitaria per l’Italia, ma in Venezia Giuba, pur senza schierarsi per la cessione della zona agli jugoslavi, accetta che questi ultimi facciano a modo loro, il che significa liquidare la parte di Resistenza italiana che rifiuta di piegarsi a Tito. Di qui la strage di Porzus, che vede partigiani legati al Pci eliminare resistenti della formazione patriottica Osoppo. A loro volta gli jugoslavi, quando entrano a Trieste nel maggio 1945, eliminano il Cln locale. Poi il Pci ha sostenuto di aver difeso l’italianità della Venezia Giuba, ma lo aveva fatto solo nei limiti consentiti da Tito, che ne capiva le esigenze e ne tollerò l’ambiguità.

ERIC GOBETTI — Bisogna precisare che l’ordine ai partigiani triestini di collaborare con gli sloveni non giunge dal Pci, ma dal Cln dell’Alta Italia (Clnai), in cui erano presenti anche le altre forze politiche antifasciste.

RAOUL PUPO — La linea dei comunisti però va molto oltre le raccomandazioni del Clnai.

ERIC GOBETTI — Il Pci ha interesse a che s’instaurino regimi comunisti ovunque è possibile, Trieste compresa, anche perché Togliatti sa che invece l’Italia finirà nella sfera d’influenza anglo-americana. Ciò non toglie che il Pci abbia svolto un ruolo positivo nella Resistenza, alla Costituente e in seguito, difendendo gli ideali progressisti. Quando poi nel 1948 c’è la rottura tra Mosca e Belgrado, Togliatti si schiera con Stalin come quasi tutti i comunisti del mondo, mentre Tito resiste alle pressioni dell’Urss grazie all’appoggio anglo-americano, ma anche al forte consenso di cui gode nel suo Paese.

Veniamo alle relazioni tra l’Italia e le Repubbliche ex jugoslave, alla luce di quel passato tragico.

RAOUL PUPO — I rapporti tra Roma e Lubiana erano ottimi, anche a livello locale, già prima dell’incontro di luglio tra Mattarella e Pahor, nonostante le memorie divise. Ma il gesto di ricordare insieme le foibe e la repressione fascista a Basovizza, dove ci sono il monumento alle vittime dei partigiani jugoslavi e quello agli irredentisti sloveni fucilati sotto il regime di Mussolini, ha un valore simbolico clamoroso, che può aprire una stagione nuova. Però ci troviamo nel tempo sospeso del Covid. Con il ritorno alla normalità vedremo se la società saprà seguire la via indicata dai due presidenti.

ERIC GOBETTI — lo sono ottimista: credo che l’incontro di Trieste ci autorizzi a ben sperare, dopo i problemi sorti per la strumentalizzazione politica del Giorno del Ricordo. Resta però un elefante nella stanza: la questione enorme e taciuta dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia. Oggi i rapporti tra Berlino e Varsavia sono distesi perché la Germania ha riconosciuto le atrocità compiute in Polonia. Sarebbe impensabile che uno statista tedesco ricordasse le sofferenze del suo popolo (dodici milioni di persone espulse dall’Est, quasi due milioni di vittime), senza menzionare Auschwitz. Sarebbe ora che anche i governanti italiani riconoscessero a livello ufficiale orrori come quelli del campo sull’isola di Arbe, dove furono richiusi migliaia di civili slavi e circa 1.500 morirono di stenti.

RAOUL PUPO — Quest’anno in aprile ricorrono ottant’anni dall’invasione italo-tedesca della Jugoslavia. Speriamo che l’occasione venga colta per un gesto del genere.

 

Dal catalogo Laterza:

                

 

Le “Lezioni di Storia” sbarcano su TikTok 

Le “Lezioni di Storia” sbarcano su TikTok 

Il 17 febbraio alle ore 18 il primo evento in diretta:
“Medioevo incredibile”, con Alessandro Barbero

 

Sono passati più di 15 anni da quando le Lezioni di Storia, ideate e organizzate dalla casa editrice Laterza, hanno fatto la loro prima apparizione a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, registrando il tutto esaurito e lunghe code in una domenica mattina. Da allora le Lezioni sono giunte nei teatri e nelle piazze di decine di città italiane, da Napoli a Trento, da Padova a Firenze, da Udine a Bari, coinvolgendo migliaia di uditori attenti e affezionati e i più importanti storici italiani. In molte città le Lezioni sono ormai una tradizione e in molte altre arrivano per la prima volta. L’anno scorso è stato inaugurato nella capitale il “Roma Storia Festival” che, con tutta probabilità, vedrà nel 2023 una seconda edizione ancora più ricca di appuntamenti.

Nel 2021 le Lezioni di Storia hanno poi fatto il loro ingresso sui social media con una pagina Facebook che ha riscosso grande successo. È così che adesso la presenza online si espande con due nuovi canali: Instagram e TikTok. L’obiettivo è portare la passione per la storia, il rigore scientifico e le doti comunicative degli storici e delle storiche sulle piattaforme più vivaci, sperimentando linguaggi e format nuovi. Il vasto catalogo di storia della casa editrice avrà così nuova vita insieme alle numerose novità di ciascun mese.

Il lancio dei canali avverrà venerdì 17 febbraio con un evento in diretta su TikTok alle ore 18 sul tema “Medioevo incredibile”. Protagonista Alessandro Barbero, uno degli storici che in questi anni si è speso maggiormente per la divulgazione al di fuori dell’ambiente accademico, in dialogo con l’editore Giuseppe Laterza.

Nelle prossime settimane parteciperanno, tra gli altri: Silvia Ballestra, Luciano Canfora, Andrea Giardina, Carlo Greppi, Laura Pepe, David Salomoni e Giusto Traina.

Il pubblico potrà aspettarsi approfondimenti su singoli personaggi, eventi storici, opere d’arte e fotografie, fact checking, ma anche interviste, conversazioni e contenuti dal taglio esplicitamente ironico come i meme, che sulla pagina Facebook hanno registrato ampio successo.

Per una casa editrice con più di 120 anni di storia è un’avventura stimolante che si pone in linea con quanto deciso negli ultimi anni rispetto alla comunicazione: innovare, sperimentare, coinvolgere maggiormente autori e lettori e dialogare con chi si occupa tutti i giorni di divulgazione e comunicazione culturale trovando sempre forme alternative.

 

Giampiero Brunelli: συνέντευξη στην Έρικα Αθανασίου

Έρικα Αθανασίου | Diastixo | 06 Φεβρουαρίου 2023

[>> Giampiero Brunelli, War in the Modern Age]

Giampiero Brunelli: συνέντευξη στην Έρικα Αθανασίου

Ο Giampiero Brunelli γεννήθηκε στη Ρώμη το 1968 και είναι ιστορικός με εξειδίκευση στην Νεότερη Ιστορία. Διδάσκει Ιστορία των Πολιτικών Θεσμών και Πρώιμη Νεότερη Ιστορία στο Πανεπιστήμιο της Ρώμης La Sapienza από το 2006 ως σήμερα. Από το συγγραφικό έργο του ξεχωρίζουν τα βιβλία: Soldati del papaPolitica militare e nobiltà nello stato della Chiesa. 1550-1664 [Στρατιώτες του πάπα: Στρατιωτικές Πολιτικές & Αριστοκρατία στο παπικό κράτος (1560-1644)], Il Sacro Consiglio di Paolo IV  [Το Ιερό Συμβούλιο του Παύλου Δ’], Storia delle istituzioni politiche [Ιστορία των Πολιτικών Θεσμών], La Guerra dei Trent’ anni [Ο Τριακονταετής Πόλεμος]. Το βιβλίο του Ο πόλεμος στη νεώτερη εποχή (La Guerra in età moderna, 2021), που κυκλοφορεί στα ελληνικά από τον εκδοτικό οίκο Historical Quest, σε μετάφραση του Σωτήριου Φ. Δρόκαλου, μας έδωσε την αφορμή για την ακόλουθη συνέντευξη.

Τι σας ώθησε να γράψετε το βιβλίο Ο πόλεμος στη νεώτερη εποχή;

Είναι ένα θέμα που πάντα με γοήτευε, από τα πανεπιστημιακά μου χρόνια, όταν άρχισα να μελετώ τους στρατιωτικούς κανονισμούς του παπικού κράτους και διαπίστωσα ότι έλειπε μια σύνθεση για το θέμα Πόλεμος στη νεώτερη εποχή, που να καλύπτει το πανεπιστήμιο και το μορφωμένο κοινό. Τέλος, ήθελα να προσθέσω σε όσα ήδη γνωρίζαμε μια ευρεία παρέκβαση σχετική με τις πραγματείες για τη στρατιωτική τέχνη –ένα πλημμυρισμένο ποτάμι μεταξύ του 16ου και του 18ου αιώνα–, προσπαθώντας να δώσω φωνή σε αρχηγούς και στρατιώτες μέσα από τα απομνημονεύματα και τις αυτοβιογραφίες τους. Μόνο έτσι, κατά τη γνώμη μου, μπορεί να μετρηθεί πραγματικά η αντίληψη της αλλαγής. Οι τρόποι πολέμου μεταμορφώνονταν πολύ γρήγορα: η εποχή των ιπποτών με τις λαμπερές πανοπλίες τους, με το δόρυ στο χέρι, είχε τελειώσει. Όποιος έγραφε, θεωρία ή εμπειρίες επί του πεδίου, έπρεπε απαραίτητα να το έχει προσέξει. Και πράγματι, βιβλία και απομνημονεύματα το καταγράφουν.

Τελικά, η σημερινή εποχή φαίνεται ότι δεν είναι λιγότερο ταραχώδης κι έχει παρόμοια προβλήματα: πόλεμοι, επιδημίες, οικονομικές κρίσεις, εγκληματικότητα, ημιμάθεια, μισαλλοδοξία. Τι θεωρείτε ότι δεν έχουμε κάνει σωστά κι έχουμε ακόμη και σήμερα τα ίδια προβλήματα;

Η ιστοριογραφική επιστήμη προσπαθεί να μην πέσει στο τελεολογικό σφάλμα τού να υποθέσει ότι υπάρχει κάποιο «μονοπάτι προόδου», με περισσότερο ή λιγότερο θριαμβευτικά αποτελέσματα: ούτε για τους λαούς μιας συγκεκριμένης ηπείρου, ούτε –ακόμη περισσότερο– για τα πεπρωμένα όλης της ανθρωπότητας. Σίγουρα, ωστόσο, είναι δύσκολο να μην επισημάνω ότι από την περίοδο που με ενδιαφέρει (τέλη 15ου – αρχές 19ου αιώνα), μέχρι το δεύτερο μισό του 20ού αιώνα, οι μέσες συνθήκες διαβίωσης των Ευρωπαίων είχαν βελτιωθεί, παρά τους δύο πολέμους τρομακτικών διαστάσεων με ανείπωτο ανθρώπινο κόστος. Πράγματι, στις αρχές της δεκαετίας του 1970 φαινόταν ότι το τρομερό, αρχαίο σύμπλεγμα πολέμου-πείνας-επιδημίας είχε επιτέλους καταπολεμηθεί επιτυχώς: μετά τις επιδημίες, είχαν εξαφανιστεί από την Ευρώπη επίσης οι πόλεμοι. Τα συστήματα του κράτους πρόνοιας προστάτευαν τους Ευρωπαίους από οικονομικές κρίσεις. Η κατανάλωση πολιτισμικών προϊόντων ήταν σε άνοδο. Τα προβλήματα της θρησκευτικής μισαλλοδοξίας δεν εμφανίζονταν με ιδιαίτερη βαρύτητα. Στη συνέχεια, αυτός ο κύκλος έσπασε και πολλά προβλήματα, που έμοιαζαν αν όχι ξεπερασμένα, τουλάχιστον συγκρατημένα εντός ορισμένων ορίων, επανεμφανίστηκαν δραματικά, με νέες, συχνά πιο βίαιες μορφές. Πώς ήταν αυτό δυνατό; Δεν έχω μελετήσει τη διαδικασία με τις μεθόδους μας των ιστορικών και κοινωνικών επιστημών, αλλά έχω σχηματίσει παρ’ όλα αυτά μια γενική ιδέα: ήταν σοβαρό λάθος να διακόψουμε τις κεϊνσιανές πολιτικές και να αγκαλιάσουμε τις νεοφιλελεύθερες οικονομικές θεωρίες. Ήταν λάθος να εγκαταλείψουμε την ισοτιμία χρυσού-δολαρίου και να επιτρέψουμε να γεννηθεί ένας κόσμος στον οποίο τα χρηματοοικονομικά assets σε κυκλοφορία ή σε χαρτοφυλάκια ανέρχονται σε 1,5 εκατομμύριο δισεκατομμύρια δολάρια, δηλαδή σχεδόν 16 φορές το παγκόσμιο ΑΕΠ (που περιορίζεται στα 94.000 δισεκατομμύρια δολάρια σύμφωνα με την αναφορά του Οκτωβρίου 2021). Θα ήταν αντίθετα πολύ σημαντικό να ενεργοποιηθεί και να καλλιεργηθεί μια αληθινή πολυμερής πολιτική συνεχούς και εκτεταμένου διαλόγου, όσο γίνεται περισσότερο, μεταξύ των διαφόρων κρατών. Ίσως όμως υπάρχει ακόμα χρόνος. Ο ΟΗΕ και το G20 θα μπορούσαν να αποτελέσουν πραγματικό χώρο συνάντησης, εάν όλες οι προσπάθειες πήγαιναν προς αυτή την κατεύθυνση.

Θα είχατε την πρόθεση να γράψετε πάνω σε ένα ιδιαιτέρως «ελληνικό» ιστορικό θέμα; Κι αν ναι, θα προτιμούσατε να γράψετε για την αρχαιότητα, τον μεσαίωνα ή τη σύγχρονη εποχή;

Στην πραγματικότητα έχω στο πρόγραμμα να γράψω ένα βιβλίο για τον Πόλεμο της Κάντια (Κρήτης) στο δεύτερο μισό του 17ου αιώνα. Σίγουρα με ενδιαφέρει περισσότερο η ελληνική ιστορία στη νεότερη εποχή, που είναι λιγότερο γνωστή στην Ιταλία και, πιστεύω, γενικά στην Ευρώπη.

Ποιες όψεις της ευρωπαϊκής νεότερης ιστορίας (15ος – 18ος αι.) θεωρείτε πιο σημαντικές και διδακτικές για τον σημερινό άνθρωπο;

Η ιστορία της περιόδου που μελετώ είναι θεμελιώδης, δεν κουράζομαι να το επαναλαμβάνω στους μαθητές μου. Κάνω μια λίστα με πράγματα που γεννήθηκαν σε εκείνους τους αιώνες: ο κόσμος όπως τον ξέρουμε σήμερα, με την Αμερική και την Ωκεανία, η τυπογραφία με κινητούς χαρακτήρες, τα χαρτονομίσματα, η κοινοβουλευτική μορφή διακυβέρνησης, με την Βουλή που δίνει «εμπιστοσύνη» σε μια κυβέρνηση, η κατηγορία των ανθρωπίνων δικαιωμάτων, η ιδέα των ίσων ευκαιριών μεταξύ ανδρών και γυναικών, η επιστήμη με βάση την παρατήρηση και τον πειραματισμό, τα πρώτα εργοστάσια, οι ατμομηχανές. Θα μπορούσα να συνεχίσω για πολύ ακόμη. Είναι εκπληκτικό το πόσα επιτεύγματα της νεότερης ιστορίας έχουν στενή σχέση μαζί μας χωρίς σχεδόν να το συνειδητοποιούμε. Άφησα σκόπιμα έξω τα πυροβόλα όπλα, προσωπικά και βαριά, που έκτοτε καθόρισαν την ιστορία, βεβαίως, αλλά προκάλεσαν επίσης πολλά εκατομμύρια θανάτους.

Δεδομένου του πλούτου της ευρωπαϊκής ιστορίας, εκτιμάτε ότι η ήπειρος θα καταφέρει να αξιοποιήσει την πείρα της για να βρει απάντηση στις προκλήσεις του σύγχρονου κόσμου; Ή μήπως, αντίθετα, το μεγάλο ιστορικό βάθος καταλήγει να μειώνει τη ζωτικότητά της, περίπου όπως τα γηρατειά κάνουν στους ανθρώπους;

Όχι, επιτρέψτε μου να διαφωνήσω, η βαθιά ιστορική γνώση δεν συγκρίνεται με τα γηρατειά των ανθρώπων. Ένα ηλικιωμένο άτομο μπορεί να αισθάνεται ανίκανο να κάνει πράγματα. Η βαθιά γνώση του παρελθόντος, απεναντίας, παρακινεί σε δράση. Επιτρέψτε μου να παραθέσω μια φράση του πρόεδρου των ΗΠΑ Θεόδωρου Ρούζβελτ: Όσο περισσότερο γνωρίζεις το παρελθόν, τόσο καλύτερα είσαι προετοιμασμένος για το μέλλον. Το πρόβλημα της ευρωπαϊκής πολιτικής, οικονομικής και πολιτιστικής ελίτ είναι πως, απ’ ό,τι φαίνεται, δεν ξέρουν ιστορία, ή μάλλον δεν ξέρω αν τη γνωρίζουν, αλλά σίγουρα δεν τη χρησιμοποιούν ως πολιτιστικό ορίζοντα για την αντιμετώπιση των μεγάλων προβλημάτων που έχουν να αντιμετωπίσουν. Θα βρούμε απαντήσεις στις προκλήσεις, κατά τη γνώμη μου, εάν προωθήσουμε την αμοιβαία κατανόηση και τον διάλογο στη βάση του κοινού μας παρελθόντος.

Πώς καλλιεργείτε την επαφή με το αναγνωστικό κοινό σας; Τι σας φέρνει κοντά με τους αναγνώστες σας;

Έχω αναγνώστες μεταξύ των φοιτητών και των απλών ανθρώπων που είναι παθιασμένοι με την ιστορία. Για πρώτη φορά από τότε που δημοσίευσα μονογραφίες –το πρώτο μου βιβλίο εκδόθηκε το 2003– αυτός ο τόμος για τον πόλεμο στη νεότερη εποχή μού χάρισε την εμπειρία των αναγνωστών που περιμένουν, έπειτα από μια δημόσια παρουσίαση, για να τους υπογράψω το αντίτυπό τους. Ήταν πολύ συναρπαστικό. Φυσικά, ζητώ από όλους να κατανοήσουν τη γενική ιδέα που εξέφρασα σε αυτή την περίπτωση: ας μην ξεχνάμε την τεράστια επίδραση που είχε αυτή η μεγάλη αλλαγή στον τρόπο μάχης για τα κράτη και τους πολίτες της Ευρώπης. Ταυτόχρονα, όμως, καλώ τους αναγνώστες να νιώσουν «κύριοι» του βιβλίου, να ψάξουν τι τους αρέσει και τι τους ενδιαφέρει περισσότερο. Ίσως διαβάζοντας τον Πίτερ Χάγκεντορφ κάποιος παθιαστεί γενικά με το είδος «αυτοβιογραφίες στρατιωτών» και φτιάξει μια βιβλιοθήκη με αναγνώσματα, με απομνημονεύματα που θα φτάνουν μέχρι τον πόλεμο του Βιετνάμ, ή ίσως ακόμη και μέχρι τον πόλεμο της Ουκρανίας. Γιατί σίγουρα και αυτοί οι στρατιώτες θα γράφουν αυτή τη στιγμή απομνημονεύματα.

Το εν λόγω βιβλίο σας είναι το πρώτο έργο σας που εκδίδεται στην Ελλάδα. Θα θέλατε να στείλετε κάποιο μήνυμα στο ελληνικό αναγνωστικό κοινό;

«Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς μὴ διαπτάσθαι σκάφος/ Κόλχων ἐς αἶαν κυανέας Συμπληγάδας…» [σ.σ.: ο συγγραφέας απαγγέλλει αρχαία ελληνικά]. Είναι οι δύο πρώτοι στίχοι της Μήδειας του Ευριπίδη, τους ξέρω απέξω από το σχολείο. Εσείς οι Έλληνες αναγνώστες, όπως και εμείς οι Ιταλοί, είστε κληρονόμοι μιας τεράστιας πολιτιστικής κληρονομιάς. Όλοι εμείς δεν πρέπει μόνο να τη συντηρήσουμε και να τη μεταδώσουμε, αλλά και να τη ζήσουμε, δηλαδή να τη νιώσουμε μέσα μας ως αυτό που είναι: μια ανεξάντλητη πηγή πολιτισμού, ικανή να μας φέρει σε επικοινωνία με ολόκληρη την ανθρωπότητα. Τότε όπως και σήμερα.

La «signora con la lampada»

Quella di Florence Nightingale è la storia di una donna straordinaria: riconosciuta come una delle figure più influenti del XIX secolo in Inghilterra e non solo, visionaria e animata da uno spirito indomito, ha trasformato radicalmente il lavoro infermieristico contribuendo a salvare le vite di intere generazioni di donne e di uomini. La ricostruisce Bruno Cianci, in Una lanterna nel buio. Florence Nightingale, la prima infermiera. Qui un estratto.

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Ogni giorno, intorno all’una, si procedeva alla sepoltura dei cadaveri. I cimiteri erano due e si trovavano entrambi nelle vicinanze della caserma-ospedale Selimiye; uno di questi, come si può evincere dalle litografie e dalle stampe dell’epoca, era ingentilito da alti cipressi le cui punte, come immancabilmente capita in quei lidi a questa famiglia di piante gimnosperme, si flettono sotto la forza gagliarda del poyraz, il vento dominante che spira da nord-nordest.

Visto il grave stato d’emergenza, Flo si vide costretta a richiedere delle nuove infermiere per fermare l’emorragia di vittime che la guerra sembrava mietere senza soluzione di continuità. I turni di lavoro e le responsabilità associate alla figura di sovrintendente prevedevano che Florence si occupasse di quasi tutto. Chiedeva pure di essere presente alle operazioni chirurgiche – amputazioni, ricomposizioni di fratture, suture di ferite ecc… –, il che qualche volta generava tensioni con lo staff medico se lei non era subito reperibile, perché a volte occorreva tempo per trovarla e l’attesa generava addizionali sofferenze nei pazienti. La pretesa di Flo di essere consultata, però, non era frutto di un mero capriccio e dava senz’altro dei frutti. Un aneddoto del 1887 lo dimostra. Quell’anno, infatti, un reduce della battaglia di Inkerman, tale Samuel Atkins, spedì una lettera a Florence con la quale ringraziava la donna per avergli salvato il braccio destro che un medico troppo superficiale gli avrebbe voluto amputare a Scutari.

Florence gestiva pure, tra molte difficoltà, le donazioni che giungevano copiose in Oriente. Spesso si trattava di cose utili, come indumenti, lenzuola, vettovaglie, stoviglie; a volte di oggetti privi di alcuna utilità pratica. In ogni caso si trattava di materiale che lei stessa doveva inventariare e custodire sottochiave in locali dedicati.

Tutto era una potenziale fonte di tensione con una parte del personale medico militare e con le stesse infermiere. Alcune, un po’ perché avevano bisogno di evadere dalla spaventosa realtà in cui erano costrette a operare (…) iniziarono (oppure ripresero) a bere scadenti bevande alcoliche facili a procurarsi nelle bettole gestite da greci e armeni nell’area di Scutari, con scontate ripercussioni sulla reputazione del contingente capitanato da Florence. In più occasioni la donna dovette ricorrere al pugno di ferro per mantenere la disciplina tra le sue sottoposte, come del resto alcune espulsioni testimoniano.

Un fatidico giorno di quell’incredibile inverno, il più duro e intenso della sua vita, Florence Nightingale prese un paio di forbici e iniziò a utilizzarle: stavolta, però, lo fece su se stessa. Non è dato sapere se lo abbia fatto di fronte a un frammento di specchio, alla luce di un pallido sole o al lume di una candela o di una lampada a olio; fatto sta che aveva preso una decisione che se da un lato aveva una valenza pratica, da un altro ne aveva una fortemente simbolica: il tempo dei capelli lunghi, “marchio di fabbrica” di una femminilità di cui non era mai andata orgogliosa e allegoria di una serie di convenzioni sociali che aveva sempre aborrito, finì per sempre.

A Scutari, Flo si cimentava anche in lunghissime ronde. «Le scene notturne ricordano un po’ Rembrandt» scrisse il buon Bracebridge a Parthe in una lettera. Per i toni cupi e l’uso sapiente della luce, difficilmente l’accostamento tra le atmosfere del maestro fiammingo del XVII secolo e quelle degli ospedali di Scutari di notte avrebbe potuto essere più azzeccato. Per gli occhi imploranti dei soldati agonizzanti, in preda a febbri, polmoniti o divorati da cancrene, vedere la fioca luce della lanterna di Flo nel cuore di una notte che per alcuni di loro sarebbe stata l’ultima divenne una sorta di visione mistica. Leggenda vuole che i feriti “baciassero”, in senso letterale, l’ombra di Florence Nightingale generata dallo stesso lume che reggeva, talvolta aiutata in questo dagli assistenti che l’accompagnavano nelle ronde.

Il valore simbolico di questa lanterna che si aggirava per le camerate e i corridoi bui come la pece, dispensando del cristiano conforto ai soldati, non sfuggì ai corrispondenti di guerra né, soprattutto, ai direttori dei giornali inglesi. Sabato 24 febbraio l’«Illustrated London News» pubblicò un articolo corredato da un’immagine – una delle molte che ingentilivano questo settimanale da mezzo scellino – che rappresentava Florence in visita ai feriti proprio durante una delle sue proverbiali ronde notturne. La riproduzione, realizzata con tecnica xilografica, si basava probabilmente su uno schizzo di Joseph A. Crowe, corrispondente dalla Crimea e critico d’arte, oltre che inviato da Vienna ai tempi della guerra d’indipendenza italiana.

Nell’illustrazione Flo reggeva una lampada a olio simile a quelle dell’età classica o, se si preferisce, a quella del genio delle Mille e una notte. Come sappiamo oggi, l’oggetto non rispecchiava in modo fedele la tipologia di lampada di Flo, che nella realtà usava una lanterna turca a soffietto di foggia cilindrica – dotata superiormente di una maniglia, di un gancio e di un foro che consentiva il passaggio dell’aria – all’interno della quale bruciava una candela. Quella raffigurata nell’«Illustrated London News» e sopra descritta era il frutto di un errore o forse di una licenza artistica finalizzata alla volontà di rendere efficace il messaggio che si desiderava trasmettere. Come ha scritto Mark Bostridge, «il ritratto di Florence Nightingale con la sua lampada, durante la sua veglia notturna nei reparti di Scutari, divenne rapidamente parte della sua mitologia personale e una potente metafora visiva dell’ideale di femminilità cristiana che era preposta a rappresentare». Da quel 24 febbraio 1855 Florence, assurta ora ad «angelo custode» dei feriti, divenne per tutti la «signora con la lampada». Sarebbe bello conoscere la reazione di Fanny e di Parthe quando incapparono in quest’illustrazione, ma non è dato sapere quale sia stata. Di sicuro, però, trassero in seguito un gran piacere dalla sopraggiunta popolarità di Flo.

Altrettanto certo è che la xilografia scatenò un’ondata di pubblica adulazione in Gran Bretagna come non si era mai visto. L’appetito per l’immagine di Florence Nightingale divenne insaziabile, tant’è che a rimorchio sorse una vera e propria industria di gadget che contemplava manifesti, statuette di ceramica di Staffordshire, lavori in pizzo e sacchetti di carta decorati che erano opera di artigiani che non avevano mai visto Florence dal vero e che, pertanto, la rappresentavano senza una particolare accuratezza. In un certo senso – ha detto Caroline Worthington, ex direttrice del Museo Florence Nightingale – Flo fu la prima «mega-celebrità» del tempo, la prima donna non appartenente alla famiglia reale a diventare oggetto di una straordinaria adorazione. Suo malgrado, verrebbe da aggiungere, perché Florence aborriva la notorietà in ogni forma.

 

 

 

 

 

Il brigante e il generale: supernemici uniti dalla storia

Carmine Pinto ricostruisce per Laterza le figure di Carmine Crocco ed Emilio Pallavicini di Priola

Dino Messina | Corriere della Sera | 22 dicembre 2022

Che cosa avevano in comune Carmine Crocco, il generale dei briganti, e il marchese Emilio Pallavicini di Priola, uno dei più brillanti militari del Risorgimento? Non si possono immaginare personaggi più distanti. Eppure i loro nomi rimarranno per sempre uniti nel racconto della storia patria, perché Pallavicini fu il generale dell’esercito sabaudo che riuscì a sconfiggere il leggendario fuorilegge di Rionero in Vulture (Potenza) dopo che per quattro anni, alimentate dal governo in esilio a Roma di Francesco II di Borbone, le insorgenze avevano fatto tremare le fondamenta del neonato Stato unitario. Ora le biografie dei due nemici sono ricostruite con penna brillante e documentazione inedita dal nostro maggiore storico del brigantaggio, Carmine Pinto, ordinario all’Università di Salerno. Dopo aver pubblicato nel 2019 il saggio che ha dato una svolta alle ricerche sul brigantaggio, La guerra per il Mezzogiorno, lo studioso torna a occuparsi del tema da una prospettiva del tutto originale: con Il brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di Priola ci offre due angoli di lettura del Risorgimento.

Nel 1848 troviamo Pallavicini, classe 1823, sottufficiale alla battaglia di Custoza, nel 1855 nella spedizione in Crimea voluta da Cavour, nel 1859 nella sanguinosa battaglia di San Martino. Nell’autunno dell’anno successivo è al seguito della spedizione regia al Sud. Fu lui nel marzo 1861 a piegare l’ultima resistenza borbonica di Civitella del Tronto. Pallavicini fu l’ufficiale scelto per fronteggiare Giuseppe Garibaldi all’Aspromonte. Le stampe dell’epoca lo raffigurano con il cappello in mano e nell’atto di inginocchiarsi davanti all’Eroe ferito. Grazie a questa impresa Pallavicini è entrato anche nella grande letteratura, nelle pagine del ballo del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Carmine Crocco, classe 1830, dopo aver lavorato come mandriano per la più influente famiglia di Rionero in Vulture, i Fortunato, si era arruolato nell’esercito borbonico fino a diventare caporale. Ma nel 1852, punito per una sanguinosa lite con un commilitone, era evaso e aveva raggiunto i boschi che circondano i laghi vulcanici di Monticchio. Catturato e rinchiuso nella fortezza di Brindisi, da cui evase nel 1859, Crocco capì che l’industria più redditizia era quella dei sequestri, infatti il 14 luglio 1860 rapì un borghese di Ripacandida, Michele Anastasia. Questi, pagato il riscatto, con grande sorpresa si ritrovò il bandito che l’aveva catturato come garante dell’ordine ai seggi elettorali. Crocco aveva fiutato il vento e si era messo al servizio dei liberali, tranne che il suo curriculum criminale non sfuggì a Giacomo Racioppi, viceprefetto di Potenza, che lo fece arrestare. Cominciò allora la nuova vita del «generale dei briganti» che evase di nuovo con l’aiuto delle potenti famiglie filoborboniche, i Fortunato, gli Aquilecchia, i Saraceno.

Pinto delinea ascesa e declino del brigantaggio, in cui fondamentale era l’apporto dei manutengoli, distingue tra la prima fase più politica, con il contrasto tra l’idealista José Borjes e lo spregiudicato Crocco, e la seconda in cui prevale la componente criminale. Dipinge con tratti precisi i profili dei collaboratori di Crocco, da Nicola Summa, detto Ninco Nanco, ad Angelantonio Masini a Michele Caruso. Tutti delinquenti efferati più che idealisti combattenti di una causa perduta.

Anche Pallavicini è raffigurato con realismo, ufficiale dalla turbolenta vita privata, carico di debiti contratti al tavolo di gioco, ma con l’intuito e la visione del grande comandante. Che sa capire come per sconfiggere il brigantaggio occorrano metodi nuovi: armamenti leggeri, piccole e agili unità e soprattutto una pressione sull’ambiente sociale nel quale il brigantaggio fioriva. Esecuzioni sul campo, uso della propaganda con l’esibizione dei corpi e delle foto dei temibili nemici e soprattutto un’arma nuova: i pentiti. Fu il braccio destro di Crocco, Giuseppe Caruso, omonimo del sanguinario brigante foggiano, a rivelare i covi segreti del suo capo e a determinarne la sconfitta.

Natura e uomini creano i boschi (che in Italia sono raddoppiati)

Le foreste della penisola censite nell’«Atlante» di Mauro Agnoletti, pubblicato da Laterza

Danilo Zagaria | Corriere della Sera | 4 gennaio 2023

A sei chilometri dalla città di Mantova sorge una selva che prende il nome, bosco Fontana, da una fonte che risale al Medioevo. È di piccole dimensioni — non supera i 250 ettari — ma la sua storia è un bignami delle vicende lombarde e italiane. Dopo essere stata una riserva di caccia dei Gonzaga, passò agli austriaci, che fecero della foresteria una polveriera e poi un loro quartier generale. Durante le Grande Guerra le farnie, i carpini e gli ontani furono fondamentali per il contrattacco italiano sul Piave, che venne attraversato grazie ai ponti costruiti col legname mantovano. Oggi, dopo una devastante tempesta nel 1949 il bosco Fontana è una riserva naturale fra le cui fronde trovano riparo diverse specie di mammiferi e di uccelli.

La storia della riserva Fontana, insieme a quelle di altri cinquanta boschi nostrani, dalle selve alpine della Valle d’Aosta ai castagneti lucani, è raccolta nel nuovo libro di Mauro Agnoletti, Atlante del boschi italiani, in libreria per Laterza. Il volume è una carrellata di storie ma, soprattutto, è il racconto di come i boschi della penisola, soprattutto quelli caratterizzati da un alto valore paesaggistico, siano il risultato di un intreccio durato secoli. Agli eventi naturali si sono infatti sommate varie tipologie di gestione artificiale, dando luogo a scenari unici che mostrano l’influenza delle attività umane — dall’agricoltura alla pastorizia, dalla gastronomia alla politica — sulla componente arborea.

L’Atlante di Agnoletti, docente di Storia del paesaggio e Pianificazione forestale all’Università di Firenze, è un libro che regala le sorprese migliori quando viene aperto a caso e proietta il lettore nel bel mezzo di un bosco di cui fino a poco tempo prima ignorava l’esistenza. È così che si viene a conoscenza, ad esempio, dell’importanza che la «civiltà del castagno», fondamentale nella relazione fra gli italiani e i boschi, ha avuto nel plasmare le aree verdi della penisola. I castagneti che si arrampicano sui versanti dell’antico vulcano del Vulture, in provincia di Cosenza, sono fra i più rinomati, così come quelli calabresi che sorgono sul monte Reventino, già ammirati dal poeta inglese Henry Swinburne durante il suo Grand Tour alla fine dell’Ottocento. Non sono da meno le sugherete galluresi, situate nel nord della Sardegna, epicentro dell’economia nazionale del sughero, o il bosco della Partecipanza di Trino, posto fra le risaie del vercellese, nel cui nome si nasconde un’antica forma di gestione collettiva del bosco e dei suoi prodotti.

Ma l’ultima fatica di Agnoletti (del quale sarebbe opportuno recuperare anche Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, edito sempre da Laterza) non è soltanto un concentrato di storie regionali e curiosità boschive. Col passare delle pagine e delle cartine emergono infatti un paio di tendenze che l’autore ha voluto rimarcare sia nell’introduzione che nelle varie schede dedicate ai boschi. La prima è piuttosto sorprendente, soprattutto se si pensa alle notizie sullo stato in cui versano le foreste terrestri. I boschi italiani, in controtendenza rispetto ai dati raccolti in molti Paesi, sono raddoppiati nel corso dell’ultimo secolo. Se nel 1936 coprivano un’area di territorio di poco superiore ai 5 milioni di ettari, oggi la loro estensione arriva a ben 11 milioni. La spiegazione risiede nella svolta epocale verificatasi nella seconda metà del secolo scorso, quando gli italiani abbandonarono in massa monti e campagne per andare a vivere nelle città. La ripresa del bosco, come spiega l’autore, è avvenuta «soprattutto in montagna e in collina, sviluppandosi naturalmente su aree agricole e pascoli un tempo coltivati e poi abbandonati».

A questo dato ne va però aggiunto un altro, attorno al quale si sviluppa l’intero progetto dell’Atlante di Agnoletti. Le forme di tutela che oggi vengono attuate per salvaguardare i boschi italiani vanno tutte in una direzione ben precisa: «Conservare e ricercare il massimo grado di naturalità». Se però teniamo presente che nessun bosco italiano può essere considerato scientificamente naturale, perché la sua storia è stata influenzata dall’uomo, allora è palese che restano escluse dalla tutela tutte quelle attività e quelle caratteristiche che hanno reso il bosco un tutt’uno con le popolazioni che l’hanno abitato, gestito, sfruttato e conservato. In questo senso l’Atlante è un vero e proprio strumento di testimonianza, dato che racconta una complessità nazionale destinata a sfibrarsi e a sparire nel corso del tempo.