Antonio Ferrara | la Repubblica Napoli | 28 novembre 2022
Carmine Pinto è ordinario di storia contemporanea nell’università degli studi di Salerno e direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento di Roma. Dunque, uno degli studiosi più attenti del processo di unificazione nazionale e di quanto accadde nel Mezzogiorno d’Italia prima e dopo la caduta dei Borbone. Nel suo ultimo libro sceglie, per affrontare il tema, di raccontare con la perizia dello storico raffinato le vicende che videro contrapposti negli anni del brigantaggio Carmine Rocco ed Emilio Pallavicini di Priolo. Un brigante, il primo, uno dei capi di quelle bande criminali che avevano radici profonde nel Sud già molto prima dell’arrivo di Garibaldi e dei Savoia, e imperversavano nelle campagne napoletane e meridionali: Carmine Rocco, quello che noi oggi chiameremo un pregiudicato incallito, divenne il capo del brigantaggio filo-borbonico dopo il 1860. Un nobile genovese, il secondo, generale dell’esercito sabaudo, una lunga esperienza internazionale come la guerra di Crimea: Emilio Pallavicini di Priolo, l’aristocratico del Nord al quale venne affidato il compito di debellare il brigantaggio meridionale.
Quella che Pinto propone è dunque una lettura della società meridionale colta nel definitivo crollo della dinastia borbonica e dell’affermarsi di quel pensiero libertario che a partire dal 1799 e poi ancora nei moti del 1820 e del 1848 aveva scosso la leadership borbonica. Con sperimentazioni di momenti repubblicani e forti restaurazioni, ponendo fine in ogni caso al feudalesimo. Ma anche l’indipendentismo siciliano svolgerà un ruolo decisivo perla caduta di Francesco II. Le bande di briganti diventano il braccio armato che i filoborbonici utilizzano per contrastare il processo unitario. Ne nasce una guerra, la prima guerra italiana come propone Pinto, ma anche l’ultimo conflitto interno tra i ceti meridionali, cioè tra quanti da Sud sognavano l’Unità d’Italia e il liberalismo e quanti difendevano il regno borbonico e le posizione consolidate.
Il conflitto è raccontato in modo accattivante attraverso le due figure del brigante e del generale e le loro opposte visioni del rapporto tra Sud e Italia. Per mezzo secolo liberalismo e assolutismo si confrontarono e con l’Unità d’Italia questo conflitto si risolse.
Indagando e studiando i tantissimi documenti d’archivio, Pinto ha ricostruito le vite parallele dei due protagonisti della guerra al brigantaggio. Pallavicini percorse la carriera di spada e frequentò l’accademia militare a Torino tra rigori e bigottismo. Crocco era nato a Rionero, in Basilicata, veniva da un ambiente contadino povero, ma non volle legarsi alla terra e si allontanò dalla sua regione. Il generale guidò i bersaglieri a reprimere i moti antisabaudi nella sua Genova e si distinse perla capacità di guidare operazioni speciali e irregolari. Crocco si arruolò nell’esercito borbonico, ma uccise un suo commilitone e fu arrestato. Scappò e si rifugiò nelle montagne lucane e divenne un brigante, dotato di una certa astuzia politica. Nell’agosto 1860 ci fu la rivolta liberale contro i Borbone a Potenza e Carmine Crocco si arruolò in formazioni irregolari filogaribaldine, ma questa esperienza finì presto perché alcuni del fronte liberale che lui aveva taglieggiato da bandito lo riconobbero. E fu di nuovo arrestato, fu fatto scappare dal carcere di Cerignola e assunse il comando di una formazione di briganti filoborbonici. Pallavicini nel frattempo diventò comandante generale dei bersaglieri. I due erano destinati a scontrarsi. A Pallavicini venne affidato il compito nel 1862 di fermare Garibaldi diretto alla conquista di Roma: l’eroe dei due mondi fu ferito in Aspromonte e Pallavicini personalmente lo convinse ad arrendersi. Nella primavera 1863 Crocco e le sue bande prepararono una forte, ultima offensiva allo Stato unitario. La reazione fu di nuovo affidata al generale Pallavicini che applicò la controguerriglia. Si arrivò allo scontro finale tra il brigante e il generale, la guerra di bande contro la guerra dell’esercito unitario. II generale fu inviato nel 1864 a Rionero e la banda di Crocco fu dispersa. Il brigante scappò nello Stato pontificio, fu arrestato, e qui Io trovarono gli italiani dopo la breccia di Porta Pia. Da lì nacque il “mito del brigante-eroe”, mentre Pallavicini divenne senatore ma fu in qualche modo dimenticato. Il libro di Carmine Pinto è un riuscitissimo modo per rileggere la loro storia e quella del nostro Paese.