Roma Storia Festival – Anteprima: un grande successo di pubblico

ROMA STORIA FESTIVAL ANTEPRIMA

Un grande successo di pubblico: 1.500 persone hanno assistito alle Lezioni di Storia in presenza e oltre 4mila in streaming

 

Roma, 4 ottobre 2022 – Oltre 1.500 persone in presenza nelle tre serate del Festival e altre 4mila collegate in streaming. Sono i numeri del grande successo di partecipazione del “Roma Storia Festival – Anteprima” che si è svolto dal 30 settembre al 2 ottobre 2022 nella splendida cornice di Piazza di Pietra.

L’evento è stato promosso e organizzato dalla Camera di Commercio di Roma, ideato e progettato dagli Editori Laterza con il patrocinio di Roma Capitale Assessorato alla Cultura.

Nove appuntamenti gratuiti, e una maratona di tre ore per ciascuna serata, con alcuni dei più autorevoli storici italiani: sono intervenuti Andrea Giardina, Andrea Carandini, Alessandro Barbero, Francesca Cenerini, Amedeo Feniello, Eva Cantarella, Andrea Riccardi, Alessandra Tarquini e Luciano Canfora.

Il tema della manifestazione è stato “il mondo a Roma” e per tre giorni il pubblico è stato accompagnato in un coinvolgente viaggio nel tempo che ha mostrato come la nostra Capitale sia, da sempre, palcoscenico della Storia del mondo.

“Abbiamo voluto chiamare questa edizione ‘Anteprima’ – spiega il Presidente della Camera di Commercio di Roma, Lorenzo Tagliavanti – come piccolo segno di prudenza, ma questi tre giorni ci hanno detto che le cose sono andate davvero molto bene, oltre ogni nostra più ottimistica previsione. Le migliaia di persone che ci hanno seguito dal vivo e in streaming sono la conferma del grande interesse per la Storia in generale e per quella della nostra città in particolare. Una tale partecipazione e attenzione ci ha davvero gratificato e riempito il cuore aprendo riflessioni positive su eventuali prossime edizioni. Ringrazio, davvero in maniera non formale, gli storici che sono intervenuti con lezioni di altissimo profilo e Marta Bulgherini che ha condotto le tre serate con grande passione e professionalità”.

L’editore Giuseppe Laterza aggiunge “il successo della manifestazione conferma che la qualità del racconto e della riflessione storica trova un numero crescente di persone interessate nel nostro paese. Insieme alla Camera di Commercio nelle prossime settimane inizieremo a pensare al futuro”.

 

 

Mystery train

 

Cos’ha significato il treno per un paese come l’America? La modernità è penetrata in un mondo rurale attraverso i binari, cambiando per sempre il paesaggio naturale come quello antropologico. Da oggettivazione del moderno e dell’accelerazione che lo contraddistingueva, la ferrovia è oggi diventata rottame, residuo, reperto di un mondo scomparso. Mystery Train. Un viaggio nell’immaginario americano ripercorre il rapporto dell’America con il treno, tra racconti, poesie e canzoni.

Un’attrice, Margherita Laterza, due musicisti, Matteo Portelli e Gabriele Amalfitano, e un americanista, Alessandro Portelli, mettono in scena questa originale e particolarissima Lezione di Storia, convocando, tra gli altri, Hawthorne e Dickinson, Woody Guthrie e Bruce Springsteen, Elvis Presley e Johnny Cash.

 

Qui un trailer:

Fischia il Venti!

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 *escluse le novità degli ultimi sei mesi e le collane universitarie

Carlo Alberto dalla Chiesa: quarant’anni dal 3 settembre 1982

Il 3 settembre 1982 a Palermo veniva ucciso dalla mafia il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Leggiamo oggi le parole di Vittorio Coco che, nel suo libro Il generale dalla Chiesa, il terrorismo, la mafia, ricostruisce e racconta la vita di uno degli uomini simbolo della nostra Repubblica.

 

“È proprio sulla lotta alla mafia che si può misurare davvero l’impatto dell’assassinio di dalla Chiesa. Poco dopo il delitto, su un muro di via Carini fu appeso un cartello con una scritta che ebbe una grandissima eco: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Era questo il sentire di chi aveva riposto nella venuta di quel prefetto tante aspettative, che adesso erano state vanificate nella maniera più clamorosa. Il punto è che in quel momento la responsabilità di quanto era accaduto non veniva soltanto attribuita agli assassini, ma anche alle istituzioni, cioè ad uno Stato che in definitiva non aveva fatto abbastanza per proteggere colui che veniva ritenuto ormai uno dei suoi servitori più fedeli. Il funerale, che si svolse già il giorno dopo nella chiesa di San Domenico, il pantheon di Palermo, fu il momento in cui questo dissenso si percepì con maggiore chiarezza. Ad esprimerlo, nel corso della celebrazione, fu il cardinale Salvatore Pappalardo, in un celeberrimo passaggio della sua omelia: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur… mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera Palermo nostra!». Ma grande protagonista fu anche la folla all’esterno della chiesa, che si scatenò in una pesantissima contestazione, con insulti e lancio di monetine, nei confronti delle autorità che erano venute a presenziare, da cui si salvò soltanto Pertini. A questo proposito uno degli storici giornalisti dell’«Ora», Mario Farinella, scrisse una pagina che ben descriveva la situazione:

«Mai come in quell’accecante pomeriggio di sabato 4 settembre la compagine politica che regge il governo del Paese è apparsa qui, in tutta la sua estraneità: persino nei gesti impacciati, nei volti rigati di sudore, senza espressione, atoni, smarriti. E si può dire che la loro, concluso il rito funebre, è stata una fuga precipitosa: come cacciati dal tempio dalla severa apostrofe del cardinale, al suono delle monete che qualcuno lasciava cadere al loro passaggio. Come un trafugamento si è svolto anche l’imbarco delle salme sull’aereo militare, impaziente di volare in «cieli più puliti». Fuggire da Palermo, dimenticare Palermo».

Siamo di fronte ad un passaggio cruciale, perché l’esplosione di quel dissenso fu un ingrediente fondamentale della nascita del movimento antimafia per come noi lo intendiamo oggi.”

 

Luca Serianni, un ricordo

«Il buon maestro non si costruisce a tavolino. Più importanti delle indicazioni ministeriali, dei corsi di aggiornamento, dei libri di testo sono la solida formazione ricevuta negli studi universitari e – soprattutto – un requisito strettamente soggettivo, anzi psicologico: la fiducia nella possibilità d’incidere sulla massa di adolescenti inerti o distratti, valorizzando i talenti dei singoli individui e assicurando loro la necessaria preparazione disciplinare. Ciò vuol dire che l’insegnante deve, più di quel che valga per altre professioni, credere al lavoro che fa e scommettere su sé stesso, proponendosi agli allievi come un esempio positivo, non usurato dalla routine e non rassegnato alle tante cose che non vanno. Come tutte le scommesse, si può vincere o perdere; ma se si vince, ogni docente – dalle elementari in avanti – resterà un riferimento nitido e costante per l’allievo, anche quando il ragazzo sarà diventato adulto, e la sua lezione non andrà dispersa».

Luca Serianni, L’ora d’italiano

 

La lezione di Luca Serianni, riferimento nitido e costante per la casa editrice, non andrà mai dispersa.

FIE 2023 | Ripensare la globalizzazione

Festival Internazionale dell’Economia

Ripensare la globalizzazione

Torino, 1-4 giugno 2023

 

Nonostante l’affermarsi in molti paesi del nazionalismo economico, la globalizzazione – intesa come volumi del commercio mondiale e specificamente come interscambio nell’ambito delle cosiddette catene globali del valore – non si è interrotta; è solo rallentata negli ultimi anni. Anche la pandemia ha solo temporaneamente interrotto la crescita del commercio mondiale. Non c’è stata, in altre parole, de-globalizzazione, ma semplicemente una globalizzazione più lenta, quasi che fossimo di fronte a un fenomeno inarrestabile. Al tempo stesso la globalizzazione impetuosa della fine del secolo scorso e degli inizi del nuovo Millennio ha lasciato in eredità in molti paesi tensioni distributive che spesso sono sfociate nell’affermazione su vasta scala di movimenti populisti. E le stesse attuali tensioni geopolitiche possono essere lette anche come una delle conseguenze di una globalizzazione troppo veloce che ha rafforzato in alcuni paesi autocrazie antidemocratiche. Occorre graduare i tempi della globalizzazione, ridurne la velocità indotta dal progresso tecnologico, rafforzare le istituzioni multilaterali, riformare i nostri sistemi di protezione sociale, sviluppare nuovi modelli di business che, invece di puntare sulla disintegrazione dei processi produttivi, rafforzino l’integrazione verticale. C’è molta ricerca non solo economica su questi temi. Idee, progetti, risultati di ricerche che verranno raccolti a Torino per 4 giorni e la renderanno capitale mondiale nel ripensare la globalizzazione.

Tito Boeri

Falcone e Borsellino, trent’anni dopo

Il 23 maggio 1992 un’esplosione devastava un tratto dell’autostrada A29 all’altezza di Capaci, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Nemmeno due mesi dopo – il 19 luglio – in via D’Amelio a Palermo venivano uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi e Eddie Walter Cosina.

Trent’anni dopo, rileggiamo quei giorni spaventosi nelle parole di Salvo Palazzolo e Giovanni Tizian.

 

«Bisogna ricordare cosa è successo a Palermo in quel 1992 – dice Tina Montinaro, la vedova di Antonio, il caposcorta del giudice Falcone, morto con lui nella strage di Capaci –, tante cose sono cambiate, ma non abbiamo ancora tutta la verità. Memoria deve essere anche giustizia, continueremo a chiederla». Tina porta in giro per l’Italia i resti della Quarto Savona 15, l’auto blindata su cui viaggiavano il marito e i colleghi Rocco Dicillo e Vito Schifani. «Voglio dimostrare che quei ragazzi non li hanno fermati».

Porticello (Santa Flavia), 11 aprile 1992

Le lampare illuminano il mare, che è una tavola dopo l’ultima burrasca. Cinque uomini sono appena saliti su uno dei pescherecci ormeggiati alla banchina di questo borgo incastonato fra gli scogli a poca distanza da Bagheria, dove i palermitani vengono a mangiare il pesce fresco. Stanno tirando delle funi. «Fate piano», dice uno di loro. Dall’acqua emerge un fusto di metallo, poi un altro.

È Fifetto Cannella a guidare il gruppo, l’uomo che ha accompagnato Graviano a Roma. La trasferta è durata poco, appena dieci giorni. Neanche il tempo di fare un po’ di shopping e frequentare i locali più alla moda, fra un appostamento e l’altro. All’improvviso, chissà perché, Totò Riina ha fatto sapere che per adesso non serve colpire nella Capitale. «A Palermo ci sono cose più grosse per le mani», ha detto. «E dunque bisogna scendere», ha spiegato Giuseppe Graviano. Anche se l’attentato a Maurizio Costanzo si sarebbe potuto già imbastire, con la carica di tritolo arrivata col camion partito da Mazara. «Ma a Palermo ci sono cose più grosse per le mani». Palermo sta iniziando a precipitare dentro un baratro, che presto risucchierà tutto il Paese. Il 12 marzo, Riina ha mandato altri killer a uccidere l’eurodeputato democristiano Salvo Lima, il luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, è accusato di non aver fatto abbastanza per aggiustare l’esito del maxiprocesso in Cassazione. Poi, Riina ha chiesto a Graviano di procurare dell’esplosivo perché il piano di morte riguardante Falcone è cambiato. Il giudice dovrà essere ucciso a Palermo, e non a Roma. Non più da un commando armato, ma da un’onda che travolgerà l’autostrada. E Graviano ha ordinato ai suoi di provvedere.

[…] «Sicuramente c’è qualcuno che ancora oggi cerca di tirare i fili. I depistaggi, purtroppo, continuano», mi ha detto Antonio Vullo mentre camminavamo in via D’Amelio. Il pomeriggio del 19
luglio 1992, fu l’unico sopravvissuto della strage che spazzò via Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Chi non vuole la verità? – ripete – Chi non vuole sapere cosa accadde realmente?».
In via D’Amelio, Giuseppe Graviano azionò il telecomando dell’autobomba. «Ma chi è entrato poi in quell’inferno, mentre tutto era in fumo, per rubare l’agenda rossa di Borsellino?».

Salvo Palazzolo, I fratelli Graviano

 

 

Quella sera davanti alla televisione, mentre scorrevano le immagini della strage di Capaci, mi ricordai di quando mia nonna Amelia mi portò a vedere la piazzola del museo di Locri, il luogo dell’assassinio di Peppe Tizian, mio padre.

Il 23 maggio 1992 avevo dieci anni, ero un bambino, e vivevamo ancora in Calabria. Per la precisione nella provincia di Reggio Calabria, a Bovalino, un paese di 8mila abitanti, sospeso tra l’Aspromonte e il mar Jonio. A soli dieci anni portavo un carico di dolore sulle spalle e nel cuore che quelle macerie di asfalto e lamiere di Capaci rendevano se possibile ancora più insopportabile, opprimente. «Nonna, nonna, hanno ucciso un giudice a Palermo, siamo in guerra!», urlai correndo attraverso il corridoio arioso verso la grande cucina della casa della mia infanzia.

Guerra, dissi così. La guerra che avevamo imparato a riconoscere con l’attacco americano in Iraq nel 1991, il primo conflitto trasmesso in diretta tv, con i traccianti verdi dei missili che illuminavano il cielo di Baghdad. I bambini davanti alle edizioni straordinarie dei tg insieme agli adulti, sorpresi e impauriti. Palermo come Baghdad. L’Italia come l’Iraq.

Amelia mi guardò con gli occhi lucidi, aveva visto, aveva sentito il tg. La prima edizione straordinaria andò in onda intorno alle sei e mezza di pomeriggio, o forse erano le sette. Quella bomba fu l’inizio della fine, capimmo che se neanche il celebre pool antimafia di Palermo poteva niente contro la mafia, come avremmo potuto noi soli e abbandonati dalle istituzioni, in una Calabria ridotta in schiavitù, combattere contro le feroci cosche della ’ndrangheta che avevano ucciso mio padre e incendiato il mobilificio di famiglia? L’idea di andare via si trasformava giorno dopo giorno sempre più in certezza che divenne definitiva il 19 luglio 1992, intorno alle cinque del pomeriggio: l’edizione straordinaria del Tg3 annunciava un’altra strage, quella di via Mariano D’Amelio. Voci confuse, all’inizio senza conferma, indicavano un giudice ammazzato. Ma chi? Chi era?, ci chiedevamo. Paolo Borsellino, sentenziò la giornalista quando arrivò la conferma dal territorio trasformato in Beirut da cosa nostra e da chissà quale altro potere. Lasciammo la Calabria un anno dopo, il tempo di organizzarci e trovare un luogo dove ricominciare a vivere, lontano dal dolore.

Lasciammo lì ogni desiderio di giustizia e di verità. Perché non sempre si trova la forza di lottare.

Sono trascorsi trent’anni dalle stragi. Dal 1992 che doveva cambiare l’Italia e che ha lasciato ogni cosa immutata: le bombe di cosa nostra, certo, ma anche il Paese sull’orlo del fallimento, la crisi politica, l’alba di Tangentopoli. Un Paese dilaniato, che già portava le lacerazioni degli anni della strategia della tensione, con altre bombe, altre stragi. La strategia della tensione, forse, che non è mai finita seppure si manifesti in forme diverse. Perché in fondo, per quanto la pelle del Paese muti, lo scheletro marcio e ipocrita resta intatto. Gli sconvolgimenti politici, giudiziari, sociali ed economici di quell’anno rappresentavano l’occasione unica offerta dalla storia per rivoluzionare la società italiana. Opportunità sprecata. Il gorgo di vizi e illegalità ha risucchiato ogni tentativo di cambiamento.

A distanza di trent’anni dunque che cosa è cambiato? La lotta alla mafia è diventata la lotta alle mafie, c’è maggiore consapevolezza, dicono esperti e studiosi del fenomeno. L’ho detto anche io per un periodo, l’ho scritto, l’ho ripetuto spesso nelle scuole agli studenti, più per non deluderli che perché ci credessi veramente.

Ma è arrivato il momento di dire la verità anche se questa fa l’effetto dell’ortica strofinata su una ferita.

Giovanni Tizian, Il silenzio

Lorenzo Colantoni racconta “Ritorno alle foreste sacre”

«Il Giappone è quel luogo dove i fantasmi sono reali. È un paese che nasconde la propria spiritualità dietro alle luci brillanti dei malls, al cemento degli uffici e delle autostrade, al fumo dei bar e degli izakaya. È nelle campagne silenziose, nell’intimità delle case, che appaiono i fantasmi della tradizione, gli dèi dello shintoismo e gli eroi delle leggende, i tengu e gli spiriti dispettosi che interagiscono con gli umani. Conoscere questo Giappone è molto complesso per un gaikokujin, uno straniero, perché è difficile esserne accettato, è difficile da comprendere, difficile da trovare. Ho dovuto lasciarmi alle spalle la città, le guide, i reportage scritti in inglese per gettarmi nel vuoto. È così che li ho incontrati, questi spettri reali, per la prima volta in una foresta tanto imponente quanto dimenticata, dove i primi passi mi hanno lasciato letteralmente senza fiato. E da lì questi fantasmi mi hanno seguito per tutto il mio viaggio, tra le decine di villaggi abbandonati, gli ultimi monaci animisti al mondo, gli alberi millenari grandi come torri e venerati come dèi. Erano con me tra le case piccole, dai tetti blu, immerse nella nebbia, circondate dal tè profumato di rugiada, negli altari nascosti dal muschio, nella foresta che divora la vallata e i suoi abitanti».

Molti conoscono il Giappone delle città scintillanti, del sushi e dei manga. Pochi si avventurano nelle campagne silenziose, tra gli alberi millenari, dove la tradizione è forte e le foreste sono sacre. Ritorno alle foreste sacre, di Lorenzo Colantoni, è un viaggio straordinario nel Giappone meno conosciuto, dalle montagne sotto la vecchia capitale imperiale di Nara fino alla città sacra di Hongu, alla riscoperta di un antico modello di convivenza tra uomo e natura.

 

 

La battaglia di Montaperti

In Toscana, tra il XII e il XIII secolo, la lotta per l’egemonia tra Firenze e Siena era feroce. La battaglia di Montaperti svetta tra gli episodi simbolici di questo conflitto. Lo storico Federico Canaccini ne racconta il contesto, le ragioni e le svolgimento.

Questo video, parte di una serie sulle battaglie nell’Italia medievale, è realizzato con la collaborazione della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana – https://fsc.unisal.it


«Ne plus enseigner le latin et le grec, c’est nous couper de nos racines culturelles»

«La disparition des langues anciennes nous coupe de tout rapport à la culture»

Eugénie Boilait | Le Figaro | 2 juillet 2022

[>> Andrea Marcolongo, De arte gymnastica]

[>> Andrea Marcolongo, The Brilliant Language. 9 reasons to love ancient Greek]

[>> Andrea Marcolongo, The lesson of Aeneas]

Seuls 535 candidats (sur plus de 380 000) ont présenté la spécialité « littérature, langues et cultures de l’Antiquité – Latin » au bac 2022, et 237 en « littérature, langues et cultures de l’Antiquité – Grec ancien ». Et seuls 3% des lycéens ont suivi l’option latin en 2021-2022. Qu’est-ce que cela vous inspire ?

Andrea MARCOLONGO. – Je suis bouleversée par ces chiffres et réellement préoccupée. On parle désormais d’une toute petite minorité qui étudie le grec et le latin en France. Je le dis d’abord en tant qu’helléniste, mais aussi en tant qu’Italienne, pays où les chiffres sont tout de même différents. Pour moi, c’est très grave. Si on laisse les choses se dérouler ainsi, dans quelques années, il n’y aura plus d’élèves ou d’étudiants français qui suivront des cours de langues anciennes.

Quelles en sont les raisons ?

Cette situation nous la devons d’abord à un conformisme de la classe politique et intellectuelle. On ne peut pas reprocher aux élèves et étudiants français de ne pas faire du latin et du grec car ces langues, et les références à ces langues, ont entière ment disparu du débat public. Lors de la dernière campagne électorale, je ne me rappelle pas en avoir entendu parler. Par ailleurs, depuis une dizaine d’années, on a commencé à juger la culture avec un paramètre d’utilité. On a pensé que ces langues n’étaient plus utiles et que le but de l’école était de former des travailleurs. Dans cette perspective, l’enseignement du grec et du latin était inefficient. II n’y a même pas de débat intellectuel à ce sujet. Le conformisme à l’état pur, c’est de dire que l’on passe à autre chose et que ce n’est pas important.

La paresse intellectuelle est-elle l’une des raisons de ce déclin ?

Oui, c’est une paresse intellectuelle généralisée. Cela ne concerne pas que les élèves. II est très rare de voir quelqu’un, issu de la classe politique ou intellectuelle, parler de L’Odyssée, de L’Iliade, d’Homère, des classiques ou des humanités. Les jeunes élèves de 14ans ne se mettront pas au latin ou au grec seuls. II faut assumer une responsabilité et pour moi elle est très claire : c’est d’abord celle de la classe politique et intellectuelle.

Cette baisse de l’enseignement des langues anciennes en France fait écho à la décision de l’université de Princeton en avril 2021 de supprimer de son cursus de lettres classiques l’obligation d’un enseignement du latin et du grec. Les langues anciennes sont-elles rejetées par l’Occident ?

II faut même parler ici de renoncement intellectuel. Ce n’est plus une remise en cause ou un rejet, c’est un effacement. Pourtant, les classiques servent à réfléchir. Italo Calvino disait que l’enseignement classique est fait pour se définir en rapport, être pour ou contre. II faut toujours remettre en cause, la discussion avec l’enseignement classique est essentielle, mais pour cela il faut qu’il existe… Sinon, le risque est celui d’un véritable monologue intellectuel. « Je ne suis pas d’accord avec cela, donc la seule solution est d’effacer et supprimer » : c’est très grave de fonctionner comme cela. On forme une génération habituée au monologue et non pas au dialogue. Pour apprendre le dialogue avec l’autre, il faut connaître, et les classiques servent à cela.

Pourquoi les langues latine et grecque sont-elles essentielles ? Que perd-on à ne plus les enseigner ?

On perd la possibilité de former des citoyens et des êtres humains complets. Les langues grecque et latine sont des langues philosophiques. On n’apprend pas le latin et le grec pour la grammaire, ce n’est pas le but de l’enseignement. Si on revient à l’Antiquité, à la Grèce antique, à Athènes, c’est pour ce qu’on appelle le miracle grec, c’est-à-dire cette société qui a su inventer la philosophie, l’astronomie, les mathématiques, la tragédie, l’art. Toutes ces inventions ont été permises par la langue. La démocratie d’Athènes s’est appuyée sur la langue grecque. C’est une langue née pour la discussion et pour l’échange. La première langue qui a eu une capacité d’abstraction, qui a pu exprimer des concepts abstraits et qui les a rendus compatibles avec le dialogue. Le logos est devenu «dialogue». C’est tout cela qu’on perd aujourd’hui.

S’affranchir de cet apprentissage des humanités, qui a prévalu pendant des siècles, équivaut il à se couper d’une grande partie de nos racines ?

Absolument. Je ne parle pas des racines uniquement antiques, avec cette fausse idée que nous serions tous des petits-enfants de la Grèce ou de Rome. La question n’est pas de savoir si Platon, César ou Cicéron sont nos ancêtres. Ce sont les racines culturelles et les racines humaines qui nous intéressent. Ne plus lire Homère signifie que nous nous contentons de vivre à la surface de nous-mêmes, comme les plantes aquatiques qui n’ont pas de racines dans la terre mais qui flottent à la surface de l’eau. Je suis inquiète sur ce fait, celui d’être entourée par des gens intellectuellement déracinés. Ne pas connaître Platon ne constitue pas un tort envers Platon, mais si l’on ne connaît pas Platon, c’est très difficile de lire Dante, et si l’on ne comprend pas Dante, on a du mal à lire Rabelais, et ainsi de suite jusqu’au XIX et XX siècles. Je ne sais pas dès lors quel type de relation on peut avoir avec la culture dans son ensemble. Si on pense l’équivalent avec les mathématiques, c’est essayer de comprendre la théorie de la relativité sans avoir fréquenté les classes de primaire.

Cette coupure peut être conçue comme la conséquence d’une modernité qui ne se préoccupe que de sa propre avancée. Le modernisme peut-il s’affranchir de l’humanisme ?

J’aime beaucoup les mots «humanités» et «humanisme», ou, pour les dire en grec, «anthropocentrisme». À l’heure actuelle, on renonce à une conception humaniste de la vie et de la société et on la remplace par l’individualisme. L’humanisme, c’est être capable de vivre avec soi-même dans une société. L’individualisme, c’est le contraire : en tant qu’individu, je pense que mes idées sont plus importantes que les tiennes.

Aujourd’hui, nous distinguons, voire séparons, les sciences « pures » des humanités, dont les langues anciennes et les cultures grecque et latine font partie. Cette séparation n’a pas été toujours vraie. Humanités et sciences dures ne devraient-elles pas au contraire se nourrir réciproquement ?

J’en suis tout à fait convaincue. II faut que les gens se souviennent de ce lien. Évidemment, pendant l’Antiquité, cette séparation n’existait pas : sciences et humanisme étaient situés dans un grand ensemble, celui du savoir. La métaphysique, que l’on peut aussi appeler philosophie, portait ce nom car dans la bibliothèque d’Alexandrie, les livres de philosophie étaient rangés juste après les livres de physique («méta» veut dire «après»). Je ne peux pas imaginer la science pure sans la capacité de s’interroger sur ce que l’on découvre. C’est d’autant plus vrai dans une société comme la nôtre où les découvertes scientifiques sont de plus en plus importantes. On a à notre disposition une quantité inouïe de ressources technologiques. Mais chaque découverte scientifique doit être accompagnée d’un questionnement éthique : la question des limites, de l’utilité et surtout du «pourquoi». Sinon, nous risquons une perte de sens et le déracinement. Je ne connais pas une autre façon de progresser en tant que société que cette conception humaniste : s’interroger sur ce que signifie être « humain » et vivre, sinon on se limite à être à la surface.