Federico Canaccini racconta i Vespri siciliani

Nella primavera del 1282, Carlo d’Angiò invia degli emissari in Sicilia per requisire bestiame, grano e vettovaglie in vista di una spedizione che vuole compiere in Epiro e Acaia per espandere i propri domini. I siciliani vengono vessati da tassazioni eccessive e abusi. Ma la sera del 30 marzo 1282 accadrà qualcosa che sconvolgerà completamente i progetti di Carlo d’Angiò.

Federico Canaccini ci racconta i Vespri siciliani. Questo video, parte di una serie sulle battaglie nell’Italia medievale, è realizzato con la collaborazione della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana – https://fsc.unisal.it

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La censura cattolica nei suoi effetti

Proibire e riscrivere per dotti, massaie e ciabattini… Punti emergenti: la forbice tra élite e ceti subalterni; la pressione esercitata su editori e generi letterari

Vincenzo Lavenia | Alias – il manifesto | 12 giugno 2022

Gli odierni visitatori di una fiera del libro si aggirano per le istallazioni delle case editrici al solo scopo di curiosare tra le opere fresche di stampa e, in qualche caso, incontrare gli autori. Ma tra coloro che si recavano alla Buchmesse di Francoforte, già attiva nel Cinquecento, ci si poteva imbattere in alcuni emissari che, annusando tra i banchi, cercavano di intercettare le novità librarie più pericolose d’Oltralpe e segnalarle subito alla polizia istituita dai papi per erigere una barriera contro il dissenso religioso nella Penisola italiana: quel Sant’Uffizio romano, a cui dal 1572 si affiancò la Congregazione dell’Indice. Compito del secondo dicastero, soppresso nel XX secolo, fu quello di compilare e aggiornare la lista di libri proibiti che sulla carta valeva per tutto il mondo cattolico, ma di fatto ebbe efficacia solo in Italia, dove a partire dal 1558 i fedeli dovettero stare bene attenti a non possedere, copiare o mettere in circolo i testi «infetti et perniziosi», pena la scomunica e il sospetto di eresia.

Quando poi i libri proibiti venivano sequestrati, allora si accendevano i roghi per cancellare il contagio ereticale e ammonire chi osasse ignorare i divieti della Chiesa. Non si trattava sempre di cataste di volumi «maestose» a mo’ di «torre di Babele», come nella descrizione distopica de L’anno 2440 di Louis-Sébastien Mercier (1771), perché talvolta a bruciare erano pochi esemplari. Ma tanto bastava a istillare una pedagogia della paura: leggere era diventata un’abitudine insidiosa. Del resto, non era stata forse la stampa ad accelerare il successo della proposta luterana? Non era stata l’ossessione dei riformatori per le Scritture, che i fedeli dovevano gustare in lingua volgare, a spalancare la porta alla ribellione contro la tradizione apostolica, che dalla Germania era dilagata in ogni angolo d’Europa?

Decade la libertà intellettuale In un volume solido e ben scritto, pieno di vicende esemplari e di riflessioni sui caratteri originali della storia d’Italia: Libri pericolosi Censura e cultura italiana in età moderna, Giorgio Caravale racconta gli esiti della censura evitando due rischi: quello di tracciare una mera ricostruzione di come vennero compilati e modificatigli Indici dei libri; e quello di riproporre giudizi consolidati sugli effetti della sorveglianza ecclesiastica nella traiettoria culturale della Penisola. Certo, l’autore tiene conto del progressivo decadimento della libertà intellettuale propria della stagione rinascimentale (la leggenda nera anti-cattolica, fabbricata tra il Cinque e il Settecento, amplificò una realtà di fatto); e allude all’Italia di oggi, in cui pochi lettori forti tengono in piedi un mercato editoriale comunque rilevante, mentre la metà dei cittadini non si accosta mai a un libro. Sulla base di questi dati, verrebbe da ripetere che il Nord Europa ha beneficiato dell’impulso protestante a conoscere la Bibbia (il «grande codice») senza le mediazioni clericali; mentre nell’Europa cattolica la circolazione del libro ha scontato la plurisecolare ipoteca del controllo romano. Ma, precisa Caravale, sarebbe una risposta troppo semplice, tale da riproporre il coriaceo paradigma di un’Italia «mancata», esclusa dal «vero» progresso dispiegatosi altrove. L’autore, al contrario, sceglie di raccontare i percorsi della censura ecclesiastica — la sola attiva nella Penisola sino a metà Settecento, con la complicità più o meno convinta delle autorità politiche —, combinando il racconto del travaglio religioso dei secoli XVI-XVIII con quello delle strategie impiegate da tipografi, venditori ed esuli per eludere gli ostacoli e diffondere la cultura italiana in Europa; la storia del libro a stampa come manufatto con quella del manoscritto, la cui diffusione rimase considerevole nonostante l’avvento di un medium potente.

Nei primi capitoli si dipana il racconto della circolazione, spesso clandestina e corsara, dei testi religiosi importati dal Nord Europa o prodotti dai circoli del pulviscolare ma consistente dissenso religioso della Penisola. Si misura così il crescente allarme per l’incontrollata diffusione di prediche e dottrine pericolose da parte delle autorità ecclesiastiche (e di esponenti dell’umanesimo e della Riforma), e si ripercorre la storia dell’imprimatur dei primi Indici emanati dalle facoltà teologiche e dai tribunali dell’Inquisizione, fino alla travagliata lista promulgata nel 1596. Inoltre si comprende perché un sistema poliziesco nato per interdire i trattati di teologia, i catechismi e le Bibbie in volgare, si sia trasformato presto in un apparato per vigilare sull’intera produzione scritta e orale: testi di medicina, di diritto e di storia (specie se il soggetto erano i pontefici); immagini e madrigali; pasquinate e avvisi (i giornali dell’epoca); oroscopi e sermoni; senza contare la filosofia (il platonismo, Spinoza), le scienze della natura (Galilei, l’atomismo) e la letteratura cavalleresca, erotica e burlesca, che induceva il lettore al fatalismo, alla lascivia e al disprezzo del clero.

Agli occhi dei censori, il «luteranesimo» (una categoria che per secoli avrebbe inglobato ogni forma di dissenso politico-dottrinale nei confronti della Chiesa), l’empietà nutrita dall’averroismo e dal culto dei classici (Machiavelli lettore di Lucrezio) e l’immoralità alimentata da una tradizione che elevava a canone del volgare le liriche di Petrarca, le novelle di Boccaccio, l’arme e gli amori di Ariosto, erano manifestazioni di una stessa epidemia da contenere con il divieto assoluto di leggere gli «eresiarchi» e con l’emendazione chirurgica di centinaia di testi, scritti da protestanti e cattolici, sospesi fino alla correzione (donec expurgantur): un risvolto non secondario della censura, tanto più che emendare significò arruolare un esercito di intellettuali-correttori a servizio della Chiesa; deturpare, edulcorare o svuotare di senso opere filosofiche e letterarie (nella Secchia di Tassoni i «culi» e «culetti» divennero «colli» e colletti»); indurre gli autori a negoziare con gli inquisitori il contenuto dei loro testi editi e inediti; elaborare una scrittura dissimulata adatta a tempi di persecuzione; oppure praticare l’auto-censura preventiva (che con Tasso sfociò in paranoia nella tessitura della Gerusalemme).

Difesa del monopolio del latino Due punti emergono con chiarezza dalle pagine di Caravale. Il primo è la forbice tra le élite e i ceti subalterni, che si allargò anche per gli effetti della censura ecclesiastica. Difendere il monopolio del latino da parte del clero e di pochi dotti; impedire che di dottrina discutessero «il fachin, la fantesca e lo schiavone»; offrire ai lettori meno colti catechismi, rosari, agiografie e orazioni invece che la Scrittura; limitare le licenze per accedere ai libri proibiti a chi godesse dell’appoggio di un patrono presso la Curia papale, o a chi se ne servisse come strumenti di lavoro (per la controversia o l’insegnamento universitario), furono scelte che condannarono a uno stato di inferiorità gran parte dei fedeli comuni, a cui si prescrisse di credere ciò che credeva la Chiesa senza farsi troppe domande. Tramontò così quella breve stagione segnata dall’imitazione di Cristo e dal protagonismo del laicato che aveva contraddistinto il paesaggio religioso dell’Europa e della Penisola tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, complice la proposta di pietà erasmiana.

Il secondo punto concerne gli effetti della censura, che non si limitò a vietare e a eliminare, ma fu un’arma per orientare le scelte degli editori; per innescare una risposta cattolica sul piano pedagogico e controversistico; per riscrivere i generi letterari (un chierico vergò un Oriando Santo che sostituisse il Furioso); per prescrivere modelli iconografici non troppo inventivi o inclini al paganesimo; per addomesticare la tradizione classica nei piani di studio della Compagnia di Gesù; per elaborare una storiografia e un canone dei libri «utili» per il buon cattolico.

Eppure si leggeva, nonostante tutto; e dalla seconda metà del Seicento gli eruditi e i ceti abbienti si fecero sempre meno scrupoli ad acquistare o a tenere in casa libri proibiti, magari chiusi a chiave in un piccolo armadio-ergastolo come nel palazzo dei conti Leopardi a Recanati (Monaldo fu un occasionale consultore dell’Indice). Per farlo, disse qualcuno, bastava «non passare per un nemico di preti e monaci». Poi venne la stagione dei Lumi e della secolarizzazione della censura, che per le autorità civili aveva lo scopo eminente di impedire l’insubordinazione politica. Ma per i fedeli comuni, o per gran parte di loro, praticare la religione continuò a significare aderire alla proposta devozionale della Chiesa senza sapere «se le cose che credono siano credibili o no». In ogni modo, la polizia ecclesiastica del libro avrebbe lasciato il segno nella coscienza e nella tradizione culturale della Penisola. E non fu un esponente italiano della Curia come il cardinale Bellarmino, icona della Controriforma, ma un eminente teologo francese a spiegare meglio di altri perché censurare: la «voglia di leggere», scrisse Jacques Bénigne Bossuet, non è altro «che divertimento e ostentazione, cattiva curiosità che fa seccare le fonti della carità».

Giuseppe Laterza intervista Sabino Cassese su “Il governo dei giudici”

«L’indipendenza è divenuta autogoverno. Familismo ed ereditarietà hanno aumentato separatezza e autoreferenzialità. Ci si attendeva razionalità e si è avuto populismo giudiziario. Ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri».

Sabino Cassese riflette sullo stato politico della magistratura in Italia e ne discute con Giuseppe Laterza, a partire dal suo nuovo libro, Il governo dei giudici.

Federico Canaccini racconta la battaglia di Tagliacozzo

Dopo la sconfitta di Benevento, i Ghibellini d’Italia chiedono aiuto a Corradino di Svevia, un ragazzo di 15 anni, perché recuperasse il proprio regno. Corradino fu davvero “un agnello destinato al macello”, come sosteneva il papa? Federico Canaccini ci racconta la battaglia di Tagliacozzo.

Questo video, parte di una serie sulle battaglie nell’Italia medievale, è realizzato con la collaborazione della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana – https://fsc.unisal.it

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La grammatica presa sul serio

La grammatica presa sul serio

Libero | 21 giugno 2022

«Giù le mani dalla vostra lingua!» era il titolo di un vecchio libro americano che, con linguaggio accessibile e fitte raccolte di esempi, cercava di fare piazza pulita di miti e idee sbagliate a proposito dell’inglese. Analogamente, La grammatica presa sul serio di Raffaele Simone sugli scaffali con Laterza potrebbe intitolarsi Giù le mani dalla grammatica! perché punta a sgomberare il campo dalle idee sbagliate e a mostrare che la grammatica è il vivacissimo terreno di indagine su cui discipline come la linguistica si incontrano con le scienze cognitive, l’informatica e la teoria dell’evoluzione.

Questo libro si propone di chiarire che cosa è la grammatica quando la si “prende sul serio”, facendo piazza pulita delle tante idee sbagliate al proposito. In particolare, dimostra che la grammatica non è una massa di minute prescrizioni, ma il punto d’arrivo di Homo sapiens che cerca come esprimere quel che ha in mente. Stazione provvisoria di questa lunga marcia, la grammatica è il motore che fa silenziosamente funzionare una lingua. La grammatica presa sul serio presenta questioni aperte che gettano luce sulla natura delle lingue e anche dell’umano: perché Homo sapiens ha inventato una grammatica? Che nesso c’è tra la grammatica e la mente? Esistono lingue che ne sono prive? Come è fatta la grammatica delle “protolingue”? Gli errori la fanno progredire? Questi temi sono illustrati con un linguaggio rigoroso ma amichevole, un minimo ricorso a tecnicismi e un ricco corredo di esempi dall’italiano e da lingue europee ed extraeuropee.

Federico Canaccini racconta la battaglia di Benevento, 1266

Nella battaglia di Benevento si scontrarono le truppe guelfe di Carlo d’Angiò e quelle ghibelline di Manfredi di Sicilia. Quali ragioni portarono alla carneficina e quali furono le sue conseguenze? Ce le racconta lo storico Federico Canaccini.

Questo video, parte di una serie sulle battaglie nell’Italia medievale, è realizzato con la collaborazione della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana – https://fsc.unisal.it


Da Michelangelo a Klee: gli ultimi libri di Botta e Forcellino

Quest’autunno Laterza porta in libreria un viaggio nelle opere e nel genio di Michelangelo Buonarroti e Paul Klee.

 

In Paul Klee. Genio e regolatezza, Gregorio Botta ricostruisce invece uno degli artisti più importanti del Novecento. Lo chiamavano il Mago del Bauhaus, Buddha o addirittura il Buon Dio: ma chi era davvero Paul Klee, e perché diceva di essere inafferrabile? Questo libro indaga il mistero di un genio dotato di molti doni: poteva essere un poeta o un musicista, ma è con la pittura che ha cambiato la storia dell’arte, dominato da una potente ispirazione e da un’inesauribile furia creatrice che ha saputo regolare ed educare con la più metodica delle vite. Attraverso i suoi Diari e i densi scritti teorici che ha lasciato, Gregorio Botta ricostruisce e intreccia la formazione di un uomo e la nascita di un’estetica che ha segnato il secolo.

 

 

 

 

L’ultimo Michelangelo, di Antonio Forcellino, è la storia avvincente dell’ultima stagione creativa dell’artista rinascimentale, tra profonde inquietudini religiose e nuove forme espressive.

Negli anni in cui realizza il Giudizio Universale sviluppa infatti una sensibilità religiosa radicale che lo porterà ad avvicinarsi al gruppo degli ‘spirituali’, uomini e donne che per la loro militanza segreta saranno sospettati, accusati e perseguitati per eresia.

La produzione tarda di Michelangelo, che annovera capolavori quali la tomba di Giulio II, la Cappella Paolina e la nuova basilica di San Pietro in Vaticano, non è quindi comprensibile se non all’interno di una vicenda che mette in gioco la vita stessa dell’artista.

 

 

#CasaLaterza: Chiara Bottici dialoga con Claudia Durastanti

«O tutte, o nessuno di noi sarà libero».

Questo il motto dell’anarca-femminismo. Questa nuova e rivoluzionaria visione vuol dire la liberazione di ogni creatura vivente dallo sfruttamento capitalista e dalla politica androcentrica di dominazione.

Ne hanno discusso, a partire da Manifesto anarca-femminista, l’autrice Chiara Bottici e Claudia Durastanti, per un nuova conversazione ospitata da Casa Laterza.

 

 

Anche la Storia ha un ego

Da Primo Levi a Cercas, lo studioso Enzo Traverso racconta come la prima persona influenzi la riflessione sul passato

Marco Belpoliti | Robinson – la Repubblica | 21 maggio 2022

L’io ha invaso anche i libri di storia. La soggettività, il grande totem della contemporaneità in cui siamo immersi, ha cominciato a smantellare i quadri sociali della memoria, su cui poggiava la nostra comprensione del passato. Questa in buona sostanza la tesi di Enzo Traverso ne La tirannide dell’io (Laterza 181), il cui sottotitolo è: Scrivere il passato in prima persona.

Cos’è accaduto? Dopo l’avvento del «Narciso romanziere», figura che la modernità ha prodotto in modo copioso, è ora la volta del «Narciso storico», o meglio: della fusione di queste due figure. I nomi che Traverso fa nel suo saggio sono quelli di Sebald, Cercas, Jablonka, Luzzatto, Scurati. Per diventare più interessanti e per trovare lettori sarebbero nate le finzioni innestate nella storia, così da creare quello che l’autore chiama il “presentismo”. Con la fine del naturalismo e del realismo in arte e in letteratura al principio del Novecento, la soggettività degli autori ha potuto esprimersi a fianco dei propri personaggi (Proust, Kafka, Conrad, Svevo, Pirandello). Le cose sono poi andate avanti sconvolgendo lo stesso rapporto tra storia e memoria con la cosiddetta «ego-storia» (Pierre Nora). Il soggetto, o meglio l’individuo, è tornato prepotentemente alla ribalta reclamando i propri diritti.

Non hanno forse un ego anche gli storici? Si sono succedute nei decenni passati ondate di auto biografie di storici, poi i loro successori hanno introdotto sé stessi nelle storie che raccontavano. Si sono fatti scrittori senza abdicare alla volontà di fare storia. Traverso dedica un’attenzione quasi lenticolare a questo fenomeno e da storico ne valuta pagina dopo pagina gli apporti positivi e insieme i problemi che solleva. Esiste una “verità letteraria” accanto alla “verità storica”? Che rapporto intrattengono le due?

Nel dibattito che si è aperto in Spagna dopo la pubblicazione de Il sovrano delle ombre (Guanda), dedicato allo zio falangista dell’autore, morto nella guerra civile, Cercas ha sostenuto, citando Aristotele, che la «verità letteraria» si assimila alla «verità morale». Traverso risponde che il suo non è un romanzo storico, bensì un «romanzo del presente», dove le scelte politiche dell’autore orientano e pervadono la propria opera. Dove è finita la distanza, lo sguardo esterno e la narrazione impersonale degli storici, che garantiva la possibilità di ricostruire il passato in modo oggettivo seguendo documenti e prove? Da tempo gli storici hanno inserito nella narrazione storica la dimensione emotiva, la stessa che domina nella comunicazione individuale e sociale, palesandosi come dei protagonisti di quello che raccontano, fino al punto di non far rivivere la storia, «bensì di trasmettere il vissuto dello scrittore e dello storico che, nel presente, raccontano la storia».

Ad esempio Claude Lanzmann, scrive Traverso, con Shoah (1985) ha introdotto nella storia dello sterminio ebraico la rappresentazione «lacrimale» modificando in modo sostanziale il rapporto tra storia e memoria nella sfera pubblica come nelle scienze sociali. Il conflitto tra storici e testimoni, che ha segnato nel passato alcuni punti notevoli d’attrito si vedano le frasi di Primo Levi ne I sommersi e i salvati dove, parlando della testimonianza dei singoli, scrive: «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace» sembra ora superato da quanto accade nella letteratura come nella storiografia.

Il problema è ovviamente complesso e Traverso non ha la pretesa di risolvere i problemi che si pongono a chi fa storia oggi, tuttavia nella parte finale definisce il quadro entro cui si svolge questo cambio di paradigma: il neoliberismo. La scrittura soggettivistica non può essere scissa dall’avvento dell’individualismo, uno dei tratti fondamentali del nuovo ordine del mondo. Individualismo non va confuso con egoismo, come spiegava Friedrich von Hayek, che vedeva la società e la storia come il prodotto di «atti individuali». Il neoliberismo non ha solo un valore ideologico, ma performativo. L’individualismo è un vero e proprio modello antropologico: «Oggi il mondo si guarda nello schermo di uno smartphone che lo trasforma in selfie», scrive icasticamente Traverso. Presentismo significa che viviamo senza futuro, immersi nel presente, e la memoria tende a depositarsi solo nella sfera individuale. Il passato non genera più immaginazioni utopiche, come il pensiero ebraico aveva insegnato all’Occidente negli ultimi dieci secoli. L’immaginario, a partire da quello sociale, è privatizzato; il futuro risulta perciò un progetto di riuscita individuale.

Abbiamo dimenticato che l’individuo non precede e determina la società, ma è invece il prodotto dei rapporti sociali stessi. Per questo se si accetta l’idea che la storia è «una letteratura contemporanea», essa diventa prima di tutto lo specchio della propria epoca, in questo simile alla creazione letteraria. Il dibattito, prevedibilmente, proseguirà.

Gregorio Botta racconta “Paul Klee”

Lo chiamavano il Mago del Bauhaus, Buddha o addirittura il Buon Dio. Chi era davvero Paul Klee e perché diceva di essere inafferrabile?

Dominato da una potente ispirazione e da un’inesauribile furia creatrice, che ha saputo regolare ed educare con la più metodica delle vite: un caso molto raro tra i suoi colleghi artisti.

Attraverso i suoi Diari e i densi scritti teorici che ha lasciato, Gregorio Botta ricostruisce e intreccia la formazione di un uomo e la nascita di un’estetica che ha segnato il secolo.