Paolo Morando racconta “L’ergastolano”

Cinquant’anni fa, vicino a Gorizia esplodeva un’auto uccidendo tre carabinieri. Il colpevole di quella che fu chiamata la ‘strage di Peteano’ è Vincenzo Vinciguerra, unico reo confesso di tutta la strategia della tensione, condannato all’ergastolo.

Ma è veramente tutto chiarito o esistono ancora delle verità nascoste che meritano di essere raccontate? Con un racconto incalzante e un’intervista inedita a Vinciguerra, in L’ergastolano. la strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra, il giornalista Paolo Morando ha ripercorso la storia di uno dei più incredibili depistaggi della strategia della tensione.

 

Stefano Ardito racconta “Monte Bianco”

È uno dei monumenti naturali più belli d’Italia e del mondo. È il simbolo dell’alpinismo, che inizia ufficialmente nel 1786 con la prima ascensione ai 4810 metri della sua vetta. È un crocevia della nostra storia, perché ai suoi piedi sono passati soldati, mercanti e pellegrini, e i suoi ghiacciai e le sue rocce hanno affascinato viaggiatori, artisti e scienziati.

Con il suo ultimo libro Stefano Ardito racconta il Monte Bianco, il massiccio più alto d’Europa.

 

Quando la “gente” invase lo schermo

Trent’anni fa, a i tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni haters. Ma quello, a differenza di guanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo

Giandomenico Crapis | l’Espresso | 15 maggio 2022

La storica Simona Colarizi nel saggio Passatopresente, uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo. Certo, la tv fu la protagonista principale di Tangentopoli, non solo documentandone gli sviluppi quotidiani ma costruendo sulle inchieste, proprio in virtù di questo fatto, una saga avvincente. Se a partecipare a questo racconto fu l’intero sistema dei media, la parte del leone però se la ritagliò il piccolo schermo. E con esso alcuni programmi come quelli condotti da Michele Santoro, Gianfranco Funari, Gad Lerner, che da qualche anno avevano inventato la gente, un soggetto sociale inedito. Proprio Santoro ne aveva certificato l’esistenza pochi giorni prima del fatidico 17 febbraio del ‘92, quando il «mariuolo» Mario Chiesa veniva preso con le mani nel sacco. L’aveva fatto allestendo una puntata di “Samarcanda” sul «partito che non c’è» dando spazio all’indignazione del «partito invisibile», quello, spiegava, della gente arrabbiata «nei confronti dei partiti che ci sono». La stessa indignazione e la medesima gente che un mese e mezzo dopo da Palermo gridava ai microfoni del conduttore che la morte di Salvo Lima non era come quella di Piersanti Mattarella.

Da un versante meno politicamente segnato un altro conduttore, Gianfranco Funari, riservava ai politici ospitati un trattamento ruvido e diretto: del resto per lui il talk show era «chiamare gente comune, dargli un tema e farglielo svolgere indipendentemente dal linguaggio che usa». Man mano che il verminaio di Tangentopoli veniva scoperchiato “Conto alla rovescia” cresceva negli ascolti, mentre lui incitava apertamente i magistrati e Antonio Di Pietro ad andare avanti. Più forbito ma non meno spigoloso appariva Gad Lerner, che nel ‘92 aveva cominciato a rovistare nel malessere filoleghista, e un poco razzista, del “profondo Nord”, diventando presto anch’egli con “Milano Italia”, un approfondimento quotidiano dedicato alle vicende di Mani Pulite di cui ci offriva sera per sera un’immagine aggiornata, uno degli alfieri di coloro che mettevano alla sbarra tutta una classe politica.

La verità era che la tv da qualche anno aveva assunto una nuova collocazione dentro la società e rispetto alla politica. Vanno di svolta era stato il 1987 con “Linea Rovente”, trasmissione condotta da Giuliano Ferrara che nei panni di un pubblico ministero imbastiva un processo su fatti che coinvolgevano politici o altri personaggi, sollecitando alla fine (tramite il telefono) il verdetto degli spettatori, primo nucleo costituivo di quella che poi sarebbe diventata la “gente”. Gli si sarebbe affiancato l’anno dopo Michele Santoro con “Samarcanda”, sguardo puntato su mafia e Sud trattati con reportage “forti”, e lo studio aperto alle piazze. Anche lo spettacolo del sabato sera nel 1987 sperimentava un’edizione di “Fantastico” «impegnata» condotta da Adriano Celentano, che proprio alla “gente” si rivolgeva con i suoi provocatori sermoni. Sia Ferrara sia Santoro andavano in onda nella neonata Raitre di Angelo Guglielmi dove il cambiamento si realizzava anche grazie ad altre trasmissioni, alcune delle quali in auge ancora oggi (“Telefono Giallo”, “Chi l’ha visto”, “Un giorno in pretura”). Poiché la filosofia del neodirettore era quella di «raccontare la realtà con la realtà», il racconto del reale divenne la mission della rete: fu così che il genere “informazione” si ritagliò una fetta centrale nel palinsesto della Rai, conquistandosi la prima serata con una visibilità prima appannaggio solo di qualche fuoriclasse come Enzo Biagi o Sergio Zavoli. Di questa tv della realtà l’uomo di punta, il conduttore più celebrato e contestato, divenne ben presto il salernitano Santoro: «Il numero uno, ma quanto antipatico», avrebbe scritto alla fine del 1991 Beniamino Placido. Santoro, come Ferrara, aveva puntato su un modello eterodosso di giornalismo, ma a differenza di quest’ultimo non solo riempiva il piccolo schermo di contenuti poco frequentati come il Sud e la mafia, ma apriva lo studio alla piazza, garantendo a casalinghe, operai, disoccupati, studenti l’interlocuzione con i politici e gli ospiti che sedevano dietro la telecamera.

La “tv militante”, chiamiamola così, di cui la “gente” fu l’indubbio prodotto, impresse una formidabile torsione alla “neotelevisione”. Con Santoro essa s’imponeva definitivamente (dopo “Samarcanda”, “Il Rosso e il Nero”, “Tempo Reale”) e se con Funari il modello era quello del bar sport (“Aboccaperta”, “Mezzogiorno italiano”), con Lerner assumeva quello neoassembleare e sessantottino, con i programmi allestiti in teatro dando la parola al pubblico in sala (“Profondo Nord” e “Milano, Italia”). Da questa tv veniva fuori un racconto dell’Italia dall’impianto drammaturgico e conflittuale, con messe in scena collettive in cui l’esuberanza della parola la faceva da padrona, dando un taglio netto alle nobili tradizioni giornalistiche dell’inchiesta o del documentario. Insomma una tv che scompaginava l’arena del discorso pubblico e un modello che se da una parte dava voce a saperi quotidiani prima esclusi dalla scena, dall’altra, esposto alla forte prevalenza del contenuto sulla forma, dominato dal conflitto e dalla drammatizzazione, correva il rischio di degenerare, specie in assenza di professionisti all’altezza. Ma soprattutto è con il talk impegnato e la comparsa dei nuovi conduttori (ma sono da ricordare anche Maurizio Costanzo e Piero Chiambretti) che il video diventava insieme bussola e termometro del Paese. Inoltre ribaltava i rapporti con la società e soprattutto con la politica animando passioni e conflitti, tematizzando questioni, creando eventi, come accadde con la staffetta antimafia tra “Samarcanda” e il “Costanzo show” del 26 settembre ‘91. Fu questo forse, con i suoi otto milioni e più di spettatori e la sua altissima carica emotiva, il punto più alto (oggi del tutto dimenticato, anche nelle ricostruzioni storiche) di un inedito sommovimento civile, il momento clou di una stagione che sembrò prima di impantanarsi in un teatrino inconcludente, ricaricare di forze vitali il dipolo società-politica.

Il mito della “società civile” contrapposta a quella “politica” (il vecchio “Paese reale” vs “Paese legale”), nasceva anche da queste trasmissioni che davano voce, e speranza, a tante persone fino ad allora rimaste in silenzio, schiacciate da ‘ndranghete e mafie, dal pizzo e dalle estorsioni. Era la società civile dei commercianti di Capo d’Orlando, degli otto milioni di spettatori della staffetta antimafia in memoria di Libero Grassi, dei tanti, militanti o senza tessera, ani- mati dalla voglia di cambiare una politica ingessata o peggio corrotta. Prima di diventare un mito autoassolutorio, come giustamente scrive Colarizi, la società civile celebrata dalla tv di quegli anni emergeva da un inferno di malaffare e sopraffazione, dal senso di soffocamento, prodotto da partiti immobili e dal giogo della mafia, su un’ampia fetta di italiani. La tv con e le sue battaglie e le sue denunce era diventata un riferimento, più che i partiti, i sindacati, la Chiesa. È bene non dimenticarlo.

L’impatto di questa “tv militante” che prendeva di mira mafia, politica, corruzione con ascolti stellari fu potente, tanto che proprio in televisione, più che altrove, finì col celebrarsi la morte della prima Repubblica. Il decesso lo certificava sempre RaiTre con “Un giorno in pretura”, mandando in onda nel corso del ‘93 i processi che vedevano imputata la classe di governo, infliggendole davanti a milioni di persone un “rituale di degradazione” impensabile solo qualche anno prima.

Il mutamento inauguratosi nel ‘87 però si esauriva presto. Nel gennaio del 1996 la nascita del “Porta a Porta” di Bruno Vespa tra lustrini e paillettes ne sanciva il tramonto, ma la carica dirompente c’era stata, eccome, e aveva cambiato tutto: sfera pubblica, partiti, politica, la stessa televisione. Perché era indubbio che la tv con le sue piazze e i suoi teatri aveva allargato i contorni ristretti ed elitari della sfera pubblica, che i partiti e la politica ne uscivano stravolti, cercando salvezza nella scorciatoia di leadership personali invece che nel reinsediamento sociale. La medesima tv ne usciva deformata, fuori margine, con una funzione ipertrofica e con qualche rischio in agguato. Ma davvero gli haters dei social sono i nipotini di quella tv? Non scherziamo: nella tv fiammeggiante dei Santoro, dei Ferrara, dei Lerner l’indignazione aveva una matrice collettiva, non priva di passioni altruiste, era il prodotto di un sistema che si mostrava immutabile, corrotto, a volte colluso con le mafie. La rabbia degli odiatori di oggi, invece, è frutto dell’individualismo esasperato dei social, non ha altre passioni che il narcisismo patologico, in un contesto storico privo di riferimenti che non siano l’attenzione per il sé. Se in quella c’era ancora un briciolo di comunità in questa c’è solipsismo malato.

Il punto piuttosto è che di quella televisione non è rimasto nulla. Non i conduttori di un tempo né gli ascolti, non un programma che detti come allora l’agenda, faccia le prime pagine dei giornali. La tv politica di oggi ha finito sovente per accentuare le componenti emotive, teatrali e buffonesche della rappresentazione mediatica. Se quella tv fu capace di portare in video un dramma autentico e di esercitare un reale contropotere, oggi siamo di fronte, tranne qualche eccezione, a una commedia delle parti dai tratti a volte farseschi o fake, le piazze finte, le parole vuote. Insomma se quella tv allargava la sfera pubblica del Paese arricchendola, questa la immiserisce, la banalizza infine la restringe.

La tirannide dell’io

Fin dall’antichità gli storici hanno scritto in terza persona. Oggi invece è nato un nuovo genere storiografico che lascia spazio alla soggettività dell’autore.
Gli storici raccontano la loro indagine e mettono in scena le emozioni che essa suscita in loro. Incontrano così i romanzieri che, sempre più attratti dal reale, costruiscono le loro narrazioni come inchieste basate su ricerche d’archivio (basti pensare ad autori come W.G. Sebald, Emmanuel Carrère, Javier Cercas o Daniel Mendelsohn).

Si può considerare questa nuova storiografia un’espressione dell’età neoliberale?

Ne abbiamo parlato sulla pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza a partire da La tirannide dell’io. Scrivere il passato in terza persona, il nuovo libro di Enzo Traverso. A discuterne con l’autore Carlotta Sorba e Alberto Mario Banti, introdotti e moderati dal nostro editor Giovanni Carletti.

 

Certificato sacrificale per tutti i cittadini

Un ambito plurale e assai variegato: tempi, luoghi, situazioni. Dai riti domestici ai (sospetti) culti orientali, al Cristianesimo…

Carlo Franco | Alias | 15 maggio 2022

Pare che tempo fa qualche diocesi cattolica abbia deciso di invalidare un certo numero di battesimi, perché impartiti senza seguire una certa formula canonica. Stupisce che la notizia abbia stupito. Qualunque individuo del mondo antico avrebbe trovato il fatto del tutto naturale e spiegabile: nei riti sacri, solo un’esecuzione scrupolosa dei gesti e la pronuncia esatta delle parole previste garantisce l’efficacia (vale anche per i giuramenti!). Benché vari riti delle moderne chiese riguardino il valore «performativo» delle parole, molto della antiquorum sapientia pare davvero perduto. Di qui l’utilità di ripensare il mondo religioso del passato: nella consapevolezza che un ambito così «plurale», marcato da varietà grande di tempi, luoghi e situazioni, va affrontato con cauta attenzione. Serve anche liberarsi dai pre-giudizi che, stante il moderno «orizzonte monoteistico», interferiscono con la comprensione dei modi in cui l’interazione fra uomini e entità soprannaturali» fu pensata e realizzata dagli antichi.

Tale appunto è la prospettiva scelta da Federico Santangelo in La religione dei Romani. Il taglio è felicemente selettivo e la scrittura apprezzabilmente chiara. Il libro non contiene una trattazione sistematica (sarebbe poi possibile?), ma precise messe a fuoco, con una scelta di problemi studiati a partire da documenti significativi: e si parla così di religione e potere, pluralità di culti, importanza dei luoghi, e altri aspetti. Alla base, mette conto sottolinearlo, è l’idea che la religione dei Romani, dai primordi repubblicani all’impero, non vada trattata con sufficienza, per esempio come cinico instrumentum regni, ma presa sul serio. Certo, nel mondo romano «fare è credere», secondo l’idea di John Scheid, ma non tutto si esauriva in ritualismo, invariabilmente descritto dai moderni come «vuoto». Per capirne le forme, un’iscrizione, un’immagine o un oggetto, possono valere più di una pagina pensosa dal de natura deorum di Cicerone, teorica e sempre a rischio di sovrainterpretazione.

I testi letterari si interessavano per lo più agli «eventi esteriori della comunità politica», più che alle prassi degli individui (e degli schiavi), delle quali resta infatti traccia inadeguata. Celebri pagine di autori antichi trattano con saputo scetticismo pratiche assai diffuse, come l’aruspicina: leggendo questo libro s’impara a distinguere con nettezza la religiosità dei più dalle visioni degli intellettuali. Il che tanto più giova, alle prese con un’esperienza del sacro aperta a pluralità di culti, fondata su «una conoscenza costruita collettivamente e largamente distribuita», e non uniformata dall’autorità di una rivelazione. Sicché, pur nella centrale opposizione tra religio e superstitio (che viene qui definita come una devozione «mal indirizzata»), nella realtà i due ambiti non erano sempre distinti. Se fossero sopravvissute le Antichità divine di Varrone, forse si capirebbe meglio. La perdita di quest’opera eruditissima ha certo complicato le cose, e lasciato troppi aspetti nell’incertezza, sicché per molti punti si dipende ora da reperti poco più che casuali.

Per il culto dionisiaco (sottoposto a controllo in età repubblicana) si deve molto a una celebre iscrizione, che conserva la decisione del senato de Bacchanalibus nel 186 a.C., e integra il racconto di Tito Livio. E dunque, per riti, ex-voto, pratiche divinatorie, si vede che la descrizione puramente antiquaria non basta: si deve penetrare dentro forme differenti, e per noi remote, di un «impegno reciproco» stretto tra uomini e dèi. Era però un patto diseguale. Gli dèi erano del tutto svincolati «da considerazioni etiche», da favore o ostilità verso i devoti, perciò non imponevano «il rispetto di codici di condotta personale o collettiva». Inviavano segni, che gli umani avevano il dovere di cogliere e interpretare con attenzione: di qui il valore delle forme di divinazione, volte ora a prevedere il futuro, ora a superare una criticità da espiare, ora appunto a conoscere l’atteggiamento degli dèi. E anche qui, il peso di tali pratiche nei contesti pubblici e controllati era molto diverso rispetto all’ambito privato: ecco perché i moti repressivi (neppure gli imperatori gradivano la circolazione di profezie sudi sé), e lo statuto ambiguo di pratiche magiche, sospette perché ritenute capaci di scardinare l’«ordine» sociale costituito.

Altro tema è costituito dall’orizzonte «largo» del politeismo: il numero delle divinità ritenute efficaci poteva estendersi senza scosse. Ciò permise tra l’altro la diffusione dei cosiddetti culti orientali, così interessanti per i moderni: Iside, per esempio, o Mitra, o alla costola del giudaismo evoluta poi nel cristianesimo. Il successo di tali riti poté in parte dipendere dal loro essere «elettivi», cioè «praticati nell’ambito di gruppi a cui si aderisce su base (…) volontaria», quindi diversi dai culti tradizionali praticati in pubblico dagli appartenenti alla comunità civica. Gli sviluppi successivi presentano un’ulteriore difficoltà: quella di evitare la teleologia del passaggio lineare e «inevitabile» verso le forme note. Né solo perché nel cosiddetto monoteismo v’erano evidenti sopravvivenze dei culti non cristiani, ma anche perché la storia religiosa dell’età imperiale appare più come un «dialogo tra due alternative». Dialogo certo aspro, con note durezze, in tempi diversi, da entrambe le parti. La strada del cristianesimo fu al principio incerta, e marcata dalle dolorose fratture interne delle cosiddette eresie. Vi fu un furore di dibattito teologico durato per secoli, che oggi appare lontanissimo e poco comprensibile: basterebbe fare il test del filioque a molte persone pie per accorgersene.

Più interessanti appaiono di fatto le complicate mediazioni politiche che l’imporsi del cristianesimo comportò. L’impero doveva avere un perno religioso, e ne cambiò la forma. Quindi, dall’interventismo di Costantino si arrivò, dopo la fine del mondo antico, verso il potere temporale, e dagli sviluppi bizantini si arrivò al cesaropapismo, così presente oggi nel cristianesimo ortodosso. Insospettate e frequenti, in effetti, sono le sollecitazioni che questo utile libro pone per riscontri con il tempo presente: anche la questione dei libelli che un editto dell’imperatore Decio impose nel 239, in età ormai di diffusione del cristianesimo: un certificato che provasse «la corretta celebrazione di un sacrificio», ossia che ogni cittadino romano attestasse di aver «sempre celebrato sacrifici conformemente alla tradizione». Il tutto potrebbe richiamare recenti esperienze: si ignora però quale colore fosse associato a questi passaporti sacrificali.

Fabio Ciconte racconta “Chi possiede i frutti della terra”

Mangiamo poche specie vegetali e pochissime varietà, tutte uguali le une alle altre. Esteticamente perfette.

È un fatto naturale? Assolutamente no. È un fatto neutro e senza conseguenze? Assolutamente no. Il kiwi giallo o l’uva senza semi che hanno invaso i mercati sono gestiti da potenti club che oggi decidono chi e come può coltivare frutta sotto brevetto.

Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra, ha indagato sulle nuove forme di controllo del cibo e sui rischi per la biodiversità e gli ecosistemi in Chi possiede i frutti della terra.

 

 

 

 

Pianeta Terra Festival

www.pianetaterrafestival.it

 

 

Da giovedì 6 a domenica 9 ottobre si svolgerà la prima edizione di Pianeta Terra Festival, diretto da Stefano Mancuso, progettato e organizzato dagli Editori Laterza e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Lo scenario sarà la splendida città di Lucca che ospiterà gli incontri in alcuni dei suoi edifici più suggestivi, come la Chiesa di San Francesco, Palazzo Ducale, l’Orto Botanico, solo per citarne alcuni. Nei 4 giorni del festival si indagherà sullo stato di salute del nostro Pianeta, la nostra casa comune, si indicheranno soluzioni, si immagineranno futuri durevoli e soprattutto si proverà a costruire una sensibilità e una coscienza nuove rispetto alle gravi questioni ambientali, le cui conseguenze riguardano il mondo intero. Ma sarà anche “una festa della vita, di ogni singola vita e dell’unico posto dell’universo che conosciamo in grado di ospitarla”: Stefano Mancuso riassume così lo spirito con cui è nato Pianeta Terra.

 

OLTRE 70 APPUNTAMENTI

Pianeta Terra sarà il luogo giusto per confrontarsi con studiosi d’eccezione, nazionali e internazionali, autorevoli per rigore scientifico e brillanti per efficacia comunicativa. Negli oltre 70 appuntamenti previsti durante i quattro giorni del festival si parlerà di ecosistemi, di biodiversità, di energia, di agricoltura e alimentazione, di sviluppo urbano, di risorse, di finanza green, ma anche di storia, antropologia, filosofia, arte, letteratura, musica, fotografia, cinema. Lucca sarà la cornice ideale per ascoltare storie straordinarie di donne e uomini impegnati nella difesa dell’ambiente, di chi ha dato un importante contributo scientifico, di chi è ancora alla ricerca di risposte e strategie, di chi sa che la conoscenza deve continuamente tradursi in sapere condiviso. La scienza è ormai da anni unanime nell’affermare che il riscaldamento globale è il problema più grande che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare. Dobbiamo introiettare questa conoscenza e superare la visione antropocentrica che finora ha contraddistinto le nostre scelte impedendoci di dare un peso reale ai dati mondiali di allerta. Pianeta Terra vuole dare il suo contributo alla formazione di un’opinione pubblica responsabile e informata attraverso il patrimonio di competenze trasversali che verranno offerte nei tanti incontri del festival. “È questo il tempo in cui è più che mai necessario leggere il mondo tutto con occhi nuovi – dice l’editore Giuseppe Laterza – operando una vera e propria rivoluzione per la sostenibilità: un banco di prova difficile, ma decisivo per il nostro futuro.”

 

IL PROGRAMMA

Durante le quattro giornate del festival interverranno personalità di altissimo profilo: scienziati, antropologi, filosofi, economisti, architetti, urbanisti, storici, scrittori, artisti, innovatori, attivisti, policy makers.

Voci dal mondo. Tra i protagonisti di respiro internazionale: Raj Patel, economista, attivista e studioso di politiche alimentari, affronterà una delle grandi domande del nostro secolo: in vista di una crescita della popolazione mondiale che raggiungerà i 10 miliardi, come potremo nutrire tutti in modo sostenibile?; il Premio Nobel per l’Economia Esther Duflo dialogherà con il Ministro Enrico Giovannini sul legame tra crisi climatica e povertà; l’antropologo Eduardo Kohn discuterà di come ricominciare da una nuova ecologia del sé; due biologi di fama internazionale, Merlin Sheldrake e Menno Schilthuizen, a partire dalle loro ricerche, racconteranno rispettivamente il più misterioso dei 5 regni del vivente – l’ordine nascosto dei funghi – , e il modo in cui gli  animali e le piante si adattano a un’urbanizzazione sempre più estesa.

Voci dal pianeta Terra. Ci saranno anche alcuni dei massimi esperti di questioni climatiche e ambientali, tra i quali: Riccardo Valentini, studioso di Ecologia forestale e membro dell’IPCC, nel 2007 insignito del Premio Nobel per la Pace insieme ad altri scienziati del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici; Carlo Carraro, economista ambientale, già Presidente della European Association of Environmental and Resource Economists; Valeria Termini, profonda conoscitrice di politica energetica europea e internazionale; Barbara Mazzolai, responsabile del Centro di Micro-Biorobotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia; Roberto Danovaro, biologo marino e Presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn; Emanuela Evangelista, biologa e attivista ambientale che vive in un piccolo villaggio nel cuore dell’Amazzonia; Francesca Bria, tra i massimi esperti di innovazione tecnologica. Si discuterà poi di cibo e sovranità alimentare con Stefano Liberti e Carlo Petrini; di emergenza alimentare con Maurizio Martina e Fabio Ciconte; dello scioglimento dei ghiacciai con Elisa Palazzi e Federico Taddia; di moda rigenerativa con Brunello Cucinelli e Federico Marchetti.

 

Dialoghi sulla natura. A Pianeta Terra Festival i dialoghi sono costruiti come veri e propri innesti tra interlocutori di discipline diverse. Tra i tanti confronti: Vito Mancuso e Gustavo Zagrebelsky sulla necessità di affrontare concretamente il tema dei «diritti delle generazioni future»; Paolo Cognetti e Stefano Mancuso, in un incontro intitolato Alberi Maestri su cosa possiamo imparare dalle piante; Hervé Barmasse e Giovanni Soldini, per guardare da vicino lo stato delle montagne e dei mari; Edoardo Camurri e Pietro Del Soldà porteranno a Lucca il format di Rai Radio 3 “Tutta l’umanità ne parla”; Massimo Cirri e Andrea Segrè si chiederanno se è ancora possibile vivere a spreco zero; Melania Mazzucco, insieme a Gregorio Botta, rifletterà su come la natura ha nutrito e ispirato le più straordinarie opere d’arte nel corso dei secoli.

 

Gli assoli. Il programma sarà arricchito da lezioni, monologhi, racconti, performance. Tra i tanti interventi: Vittorio Lingiardi rifletterà sui paesaggi della psiche; Luciano Canfora sulla fine delle utopie; Emanuele Coccia sul legame che tutti i viventi hanno tra di loro e con la terra; Piergiorgio Odifreddi sul De rerum natura di Lucrezio; Mario Cucinella su come costruire edifici e città sostenibili; Barbara Mazzolai sulle nuove tecnologie che le piante possono ispirare; Roberto Battiston sul perché questo è il secolo delle catastrofi annunciate; Michele Serra sull’innalzamento dei mari, la gestione delle acque, lo stravolgimento climatico e l’inquinamento; Tommaso Parrinello su come le osservazioni dallo spazio ci aiutano a studiare i meccanismi che regolano la biosfera; Adrian Fartade terrà un monologo pieno di umorismo sull’Armageddon che incombe; Alba Donati si soffermerà sul perché spesso è proprio la geografia a ispirarci l’inizio di una nuova vita. Alessandro Vanoli racconterà la storia del mare dal Paleolitico al Plasticene, Amedeo Feniello spiegherà come l’uomo ha saputo affrontare catastrofi e cataclismi nella storia; Moreno Di Marco chiarirà come la perdita di biodiversità mette in pericolo non solo le altre specie ma anche la nostra.

 

Si parlerà anche di economia circolare, insieme, tra gli altri, a Fabio Iraldo e Fabia Romagnoli, Marco Frey e Luca Ruini, Samir de Chadarevian e Rossano Ercolini; di finanza green con Francesco Profumo e Ferruccio de Bortoli; di transizione energetica in numerosi incontri, come quello con Marco Raugi e Nives Della Valle; di geopolitica dell’energia con Simone Tagliapietra e Valeria Termini,  di transizione giusta con Giorgio Airaudo e Simone D’Alessandro;  di relazione tra capitalismo e ambiente con Elena Granaglia e Alessio Terzi; di risorse strategiche come l’acqua con Giulio Boccaletti e Raul Caruso.

 

La Scuola IMT Alti Studi Lucca, la Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna, l’Università di Pisa cureranno alcune importanti lecture.

 

Suoni dal pianeta Terra. Non mancheranno concerti e spettacoli: Stefano Mancuso, direttore del Festival, e il violoncellista Mario Brunello, fra i migliori interpreti di Bach, si troveranno insieme sul palco per raccontare da diverse prospettive la Ciaccona di Bach; il Maestro Gian Paolo Mazzoli eseguirà la Sinfonia n. 2 di Ezio Bosso, ispirata alla “foresta dei violini” della Val di Fiemme, dove crescono i cosiddetti abeti di risonanza e dove liutai di tutto il mondo, a partire dallo stesso Stradivari, sono sempre andati a selezionare i legni per i propri strumenti; e ancora due esperienze immersive con Earthphonia Sapiens Live di Max Casacci con Mario Tozzi, uno show di suoni, ritmi, parole e immagini della natura e dei suoi ecosistemi e con Vox Balaenae di George Crumb, una composizione iconica − eseguita nel blu più profondo − nella quale ci si ispira alla voce delle balene.

All’interno dell’Orto Botanico, è previsto un fitto calendario di laboratori per bambini e ragazzi, organizzato dall’associazione Talea APS e dall’Orto Botanico di Lucca in collaborazione con A.Di.P.A, Immagina ODV, Terra Di Tutti, Plastic Free.

Green Tree Award. Pianeta Terra Festival, in collaborazione con Lucca Film Festival e Green Cross Italia, lancia la prima edizione del Green Tree Award, premio rivolto al film europeo più attento e sensibile alle tematiche ambientali. Verranno selezionati cinque film e una giuria premierà, in occasione del Festival, il film vincitore.

 

IL TERRITORIO

“Siamo all’inizio di una nuova avventura – commenta Marcello Bertocchini, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca – alla quale ci affacciamo con entusiasmo. Non si tratta soltanto di sostenere la nascita di un festival di respiro internazionale, ma di dar vita a occasioni di confronto su tematiche già al centro degli interventi della Fondazione e che coinvolgono direttamente anche il nostro territorio, soprattutto considerando le peculiarità del suo tessuto industriale e produttivo. Lucca potrà così diventare un centro di riferimento per l’innovazione a favore della “rivoluzione per la sostenibilità”.

Una manifestazione che arriva a Lucca grazie alla Fondazione ed è costruita con la straordinaria partecipazione corale delle molte realtà culturali, istituzionali e imprenditoriali del territorio: l’Associazione Musicale Lucchese, l’Associazione Talea, la Biblioteca Civica Agorà, il Centro di Ricerca Rifiuti Zero, la Fondazione Giuseppe Pera, Green Cross Italia, Lucca Biennale Cartasia, Lucca Comics & Games, Lucca Film Festival, Lucense, l’Orto Botanico di Lucca, Photolux Festival e Virtuoso & Belcanto.

Il progetto ha inoltre ottenuto il patrocinio di importanti enti locali e non solo. Quello della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, della Regione Toscana, della Provincia di Lucca, della Camera di Commercio Toscana Nord-Ovest, della Scuola IMT Alti Studi Lucca, della Scuola Superiore Sant’Anna, dell’Università di Pisa, dell’ACRI – Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio, dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Lucca e Massa Carrara, della Coldiretti Lucca e di Rai per la Sostenibilità ESG.

 

Pianeta Terra Festival è un progetto ideato e organizzato dagli Editori Laterza, con la direzione scientifica di Stefano Mancuso. È promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, con la partnership istituzionale della Città di Lucca e grazie al sostegno di Banco BPM, partner della manifestazione; Sofidel, main sponsor; Confindustria Toscana Nord, Ecopol, EOS IM, Green Utility, Lucca Promos, The Lands of Giacomo Puccini, tutti sponsor del Festival; e Gruppo RetiAmbiente e Toscotec, supporter del progetto. Media partner dell’iniziativa sono Rai Radio 1 e Rai Radio 3.

Gli incontri di Pianeta Terra Festival sono a ingresso libero e gratuito fino a esaurimento posti. Il programma completo e tutte le informazioni pratiche sono disponibili e costantemente aggiornati sul sito pianetaterrafestival.it e sui canali social Facebook, Instagram e Twitter.

 

 

 

Il divo Lombroso

Il saggio di Livio Sansone svela la popolarità che ebbero le sue teorie in tutto il continente americano. E non solo nella parte latina 

Maurizio Crosetti | Robinson | 14 maggio 2022

Lombroso la star. Lombroso, inquietante richiamo. L’inaccettabile Lombroso tra fascino e orrore. L’aggettivo “lombrosiano”. Lombroso l’ombroso, ma anche il magnetico. Impossibile immaginare una figura più contraddittoria e divisiva, eppure Cesare Lombroso continua a essere citatissimo (più che letto, ma è così da sempre), nonostante le sue teorie non abbiano alcuna credibilità né riscontro scientifico, dalle idee sull’atavismo e sul marchio fisiognomico dell’uomo (e della donna) criminale, per tacere della fossetta occipitale. E se il Museo Lombroso di Torino resta un luogo magnifico e sinistro per il visitatore, uno spaccato di storia umana e non solo di criminologia e antropologia, ecco che un interessante saggio scritto da Livio Sansone per Laterza, La Galassia Lombroso, ci svela la portata di Cesare Lombroso nella cultura sudamericana e la sua elaborazione nel tempo.

Anche se Lombroso non mise mai piede in Brasile o in Argentina, nei primi anni del Novecento i suoi più stretti collaboratori ci andarono eccome, cominciando dalla figlia Gina e dal genero Guglielmo Ferrero. Vennero accolti come stelle della cultura, e quasi dello spettacolo. Firmavano autografi tenevano conferenze a pagamento, erano portati in giro per l’America Latina per mesi, a spese degli Stati ospitanti, avevano a disposizione treni interi e «orchestre da trenta professori». Quando la figlia di Lombroso scendeva dal piroscafo, l’attendevano giornalisti e fotografi. Gli impresari teatrali riempivano le platee. E dopo le esibizioni, perché di questo si trattava (l’oratore Enrico Ferri curava la voce come un tenore, capricci compresi), erano cene “alla francese” con i migliori cibi e grandi vini.

Ma come? Tutto questo per la figlia e il genero di colui che sosteneva che briganti si nasce? Per colui che scrisse che con i piedi piatti, o da mancini, è più facile darsi al crimine? Le cose sono assai più complesse, e Livio Sansone lo spiega con storica puntualità. La clamorosa, trionfale ricezione di Lombroso in Sudamerica va infatti collocata nel dibattito ottocentesco su razza e diversità umana, sull’opportunità delle colonie e della fine della schiavitù. Argomenti come atavismo, degenerazione, ipnosi, fisiognomica ma anche alcolismo, cretinismo, genio e follia, per non parlare dello spiritismo che permeò gli ultimi anni e gli studi conclusivi del professore veronese (di nascita, ma per tutto il resto torinese), ebbero una presa incredibile su pensatori e popolazioni d’oltre oceano. Tra la fine del “lungo Ottocento” e il primo decennio del secolo nuovo, Cesare Lombroso era l’intellettuale italiano più famoso al mondo, influenzando giganti come Tolstoj, Zola e Conrad. Il suo ritratto a olio accanto a quello di Garibaldi non poteva mancare sul palco dove la figlia, il genero e gli altri collaboratori discettavano di argomenti tra loro diversissimi, con notevole foga oratoria e, non raramente, con altrettanta approssimazione. Ma quegli spettacoli piacevano da impazzire e crearono una moda, anche se non fu soltanto suggestione teatrale: Argentina e Brasile si ispirarono alle teorie lombrosiane per realizzare carceri e manicomi, nonché per riscrivere il codice penale. La questione di fondo restava quella delle classi pericolose, e dell’arginarle dopo averle classificate. Come se le persone, anche le più turpi, fossero farfalle o piante.

Tra nazionalismi e modernità, la Galassia Lombroso si allargò presto in Francia, Germania e Olanda, ricevendo però notevole freddezza, prima di ottenere interessato ascolto in Spagna e Portogallo, e quel grandioso successo in America Latina. Anche il presidente Roosevelt volle conoscere Gina Lombroso e il marito Guglielmo, invitandoli alla Casa Bianca. I lombrosiani riempivano pagine di giornali e riviste con articoli assai ben pagati, e il “maestro” finì con l’influenzare le politiche sociali di numerosi Stati. Il fascino effimero ma potente del positivismo fece il resto, e comunque non sarebbe giusto liquidare Cesare Lombroso limitandosi agli aspetti più folcloristici e intollerabili del suo pensiero: si tratta pur sempre dell’inventore dell’antropologia criminale. Sul suo esempio sono sorti, in mezzo mondo, musei del crimine e della polizia, imitando il “collezionatore nato” (così lo definiva la figlia Gina) di oggetti carcerari, crani, ossa, calchi del viso di delinquenti giustiziati e brandelli di pelle tatuata. Possiamo voltare lo sguardo ma Cesare Lombroso resta, e ancora ci parla. Al netto del fascino macabro, meglio non confondere l’errore e l’orrore.

Nuovo cinema classico (da Hawks a Godard)

Dodici pellicole di un biennio fondamentale (1959-1960). Parte da qui Alberto Crespi per raccontare mille storie di dodici grandi. Buñuel, Hitchcock, Mordicela Disney, Fellini, Wilder… Lo spettacolo sta per cominciare, spegnete i cellulari…

Paolo Mereghetti | la Lettura | 22 maggio 2022

Alla fine vorresti che non finisse mai, che questo viaggio tra film e registi, storie e aneddoti, dive e comprimari proseguisse ancora, aggiungendo piacere al piacere, quello per un cinema che, nonostante gli anni grami che sembra vivere adesso, contagiato anche lui da qualche forma di Covid-19, continua a rinascere dalle sue ceneri ogni volta che una storia prende forma sullo schermo. Perché quando chiudi le 400 pagine di Short Cuts (Laterza) ti porti dietro l’impressione, davvero rinfrancante, che le storie di cinema che ti hanno accompagnato fin lì ne nascondano molte altre, quasi innescassero una reazione a catena. Merito della ricchezza inesauribile della storia del cinema, certo, ma merito soprattutto di Alberto Crespi, che ha abbandonato il suo abituale ruolo di critico cinematografico (lo è stato per «l’Unità», prendendo il posto che fu di Ugo Casiraghi, e lo è tutt’ora, dai microfoni di HoIlywood Party su RadioTre) per prendere quello, qui davvero azzeccato, di cantastorie. Come lui stesso si autodefinisce.

L’idea è semplice e curiosa insieme: prendere un biennio fondamentale della storia del cinema — il 1959-1960 — e attraverso dodici film ripercorrere uno dei momenti nodali della cinematografia, il passaggio dal cinema «classico» al cinema «moderno». Ma non come farebbe un diligente studioso della materia, magari aspirante accademico, che finirebbe per perdersi tra teorie e interpretazioni, tra sfoggio di cultura e dimostrazioni (magari presunte) di genialità. No, Crespi vuole solo raccontare. Raccontare le tante cose che ha scoperto e imparato in tanti anni di amore per il cinema, fatto di amicizie e di interviste, di ricerche e di letture, e naturalmente di visioni. Come ha imparato a fare dai registi “classici” che inchiodavano lo spettatore con le loro storie, ma anche con la libertà dei registi «moderni», capaci di mandare a quel paese le regole e inventare un nuovo modo di raccontare. Tra Hawks e Godard, si potrebbe dire, prendendo spunto dal primo e dall’ultimo dei dodici film che compongono l’ossatura del libro.

Il cinema in 12 storie, dice il sottotitolo del libro, tutte contenute in quei due anni, il 1959 e il 1960 del secolo scorso. Ma che storie signora mia, verrebbe da aggiungere. Si comincia con Un dollaro d’onore di Howard Hawks e si prosegue con La dolce vita di Fellini, L’appartamento di Billy Wilder, La grande guerra di Monicelli, Nazarìn di Buñuel, Il mondo di Apu di Satyajit Ray, I magnifici sette di John Sturges, Psyco di Alfred Hitchcock, La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, Historias de la revolución di Tomás Gutiérrez Alea, Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz e si finisce con Fino all’ultimo respiro di Jean-Lue Godard.

Dodici capolavori, dodici film che hanno segnato la storia del cinema, ma Crespi non si ferma ad esaltarne le qualità, lo dà (giustamente) per scontato. Quello che gli interessa è metterne in evidenza una caratteristica, una specificità o anche solo un dettaglio laterale, per esempio la reazione di Buñuel che alla notizia del premio e del successo avuto da Nazarìn a Cannes si lamentava perché «se i miei film cominciano a fare soldi, sarà la fine del mio prestigio come regista. È terribile». E da lì trovare lo spunto per parlare d’altro, per raccontare di un altro film o di un altro regista, per incastrare un’altra storia, lontanissima magari a rigor di logica, ma che in quel momento s’incastra perfettamente. E così da Buñuel si passa alla «nuova Greta Garbo» sovietica Lauis Septiko e poi al maliano Souleymane Cissé, all’hong-konghese Tsui Hark (intervistato alle otto di mattina di un giorno di Pasqua) per arrivare agli «800 eroi» di Shanghai. E di ognuno il «cantastorie» Crespi racconta un aneddoto, illustra una scelta di stile, sottolinea un’assonanza o una differenza con chi viene prima o dopo. Finendo per fare dei dodici film selezionati altrettanti ami con cui pescare mille altre storie.

E che storie! La lezione di Billy Wilder sul Lubitsch touch vale l’imbarazzo di Stravinskij quando scopre la sua sagra della primavera «riadattata» da Disney (e Stokowski) in Fantasia; come De Sica evitò di diventare un regista della Repubblica di Salò sta sullo stesso piano dell’invenzione del gatto in Il lungo addio; il ritratto di Ruan Lingyu (la più grande diva del cinema cinese degli anni Trenta) fa il paio con quello di Dino Risi e la sua erre arrotata; l’elogio dei film muti di Lois Weber (la prima regista di Hollywood) appassiona come il racconto del film mai fatto da Luigi Magni in Etiopia. E si potrebbe non fermarsi più, tanti sono i nomi e i fatti che stanno dentro Short Cuts. Abbiamo detto prima che per questo libro l’autore mette da parte la sua preparazione da critico, ma della sua assidua frequentazione cinematografica una cosa ha conservato, e lo dimostra quando parla di Howard Hawks e del suo Dollaro d’onore: per spiegare la semplicità ma anche la fluidità di quel modo di raccontare (dopo avere illustrato scena per scena i primi 3 minuti e 8 secondi di quel capolavoro western, dove non si pronuncia una parola ma si capisce benissimo che film sarà e che personaggi incontreremo) Crespi spiega come Hawks legava le scene una dietro l’altra: «Taglia sempre sul movimento e il pubblico non se ne accorgerà». Ecco, anche per questo libro Crespi ha tagliato sempre le sue storie «sul movimento». Non lascia mai che diventino troppo lunghe: taglia anche lui in movimento e passa alla prossima storia. E così non ne hai mai abbastanza, anche dopo averlo letto tutto.