Falcone e Borsellino, trent’anni dopo

Il 23 maggio 1992 un’esplosione devastava un tratto dell’autostrada A29 all’altezza di Capaci, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Nemmeno due mesi dopo – il 19 luglio – in via D’Amelio a Palermo venivano uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi e Eddie Walter Cosina.

Trent’anni dopo, rileggiamo quei giorni spaventosi nelle parole di Salvo Palazzolo e Giovanni Tizian.

 

«Bisogna ricordare cosa è successo a Palermo in quel 1992 – dice Tina Montinaro, la vedova di Antonio, il caposcorta del giudice Falcone, morto con lui nella strage di Capaci –, tante cose sono cambiate, ma non abbiamo ancora tutta la verità. Memoria deve essere anche giustizia, continueremo a chiederla». Tina porta in giro per l’Italia i resti della Quarto Savona 15, l’auto blindata su cui viaggiavano il marito e i colleghi Rocco Dicillo e Vito Schifani. «Voglio dimostrare che quei ragazzi non li hanno fermati».

Porticello (Santa Flavia), 11 aprile 1992

Le lampare illuminano il mare, che è una tavola dopo l’ultima burrasca. Cinque uomini sono appena saliti su uno dei pescherecci ormeggiati alla banchina di questo borgo incastonato fra gli scogli a poca distanza da Bagheria, dove i palermitani vengono a mangiare il pesce fresco. Stanno tirando delle funi. «Fate piano», dice uno di loro. Dall’acqua emerge un fusto di metallo, poi un altro.

È Fifetto Cannella a guidare il gruppo, l’uomo che ha accompagnato Graviano a Roma. La trasferta è durata poco, appena dieci giorni. Neanche il tempo di fare un po’ di shopping e frequentare i locali più alla moda, fra un appostamento e l’altro. All’improvviso, chissà perché, Totò Riina ha fatto sapere che per adesso non serve colpire nella Capitale. «A Palermo ci sono cose più grosse per le mani», ha detto. «E dunque bisogna scendere», ha spiegato Giuseppe Graviano. Anche se l’attentato a Maurizio Costanzo si sarebbe potuto già imbastire, con la carica di tritolo arrivata col camion partito da Mazara. «Ma a Palermo ci sono cose più grosse per le mani». Palermo sta iniziando a precipitare dentro un baratro, che presto risucchierà tutto il Paese. Il 12 marzo, Riina ha mandato altri killer a uccidere l’eurodeputato democristiano Salvo Lima, il luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, è accusato di non aver fatto abbastanza per aggiustare l’esito del maxiprocesso in Cassazione. Poi, Riina ha chiesto a Graviano di procurare dell’esplosivo perché il piano di morte riguardante Falcone è cambiato. Il giudice dovrà essere ucciso a Palermo, e non a Roma. Non più da un commando armato, ma da un’onda che travolgerà l’autostrada. E Graviano ha ordinato ai suoi di provvedere.

[…] «Sicuramente c’è qualcuno che ancora oggi cerca di tirare i fili. I depistaggi, purtroppo, continuano», mi ha detto Antonio Vullo mentre camminavamo in via D’Amelio. Il pomeriggio del 19
luglio 1992, fu l’unico sopravvissuto della strage che spazzò via Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Chi non vuole la verità? – ripete – Chi non vuole sapere cosa accadde realmente?».
In via D’Amelio, Giuseppe Graviano azionò il telecomando dell’autobomba. «Ma chi è entrato poi in quell’inferno, mentre tutto era in fumo, per rubare l’agenda rossa di Borsellino?».

Salvo Palazzolo, I fratelli Graviano

 

 

Quella sera davanti alla televisione, mentre scorrevano le immagini della strage di Capaci, mi ricordai di quando mia nonna Amelia mi portò a vedere la piazzola del museo di Locri, il luogo dell’assassinio di Peppe Tizian, mio padre.

Il 23 maggio 1992 avevo dieci anni, ero un bambino, e vivevamo ancora in Calabria. Per la precisione nella provincia di Reggio Calabria, a Bovalino, un paese di 8mila abitanti, sospeso tra l’Aspromonte e il mar Jonio. A soli dieci anni portavo un carico di dolore sulle spalle e nel cuore che quelle macerie di asfalto e lamiere di Capaci rendevano se possibile ancora più insopportabile, opprimente. «Nonna, nonna, hanno ucciso un giudice a Palermo, siamo in guerra!», urlai correndo attraverso il corridoio arioso verso la grande cucina della casa della mia infanzia.

Guerra, dissi così. La guerra che avevamo imparato a riconoscere con l’attacco americano in Iraq nel 1991, il primo conflitto trasmesso in diretta tv, con i traccianti verdi dei missili che illuminavano il cielo di Baghdad. I bambini davanti alle edizioni straordinarie dei tg insieme agli adulti, sorpresi e impauriti. Palermo come Baghdad. L’Italia come l’Iraq.

Amelia mi guardò con gli occhi lucidi, aveva visto, aveva sentito il tg. La prima edizione straordinaria andò in onda intorno alle sei e mezza di pomeriggio, o forse erano le sette. Quella bomba fu l’inizio della fine, capimmo che se neanche il celebre pool antimafia di Palermo poteva niente contro la mafia, come avremmo potuto noi soli e abbandonati dalle istituzioni, in una Calabria ridotta in schiavitù, combattere contro le feroci cosche della ’ndrangheta che avevano ucciso mio padre e incendiato il mobilificio di famiglia? L’idea di andare via si trasformava giorno dopo giorno sempre più in certezza che divenne definitiva il 19 luglio 1992, intorno alle cinque del pomeriggio: l’edizione straordinaria del Tg3 annunciava un’altra strage, quella di via Mariano D’Amelio. Voci confuse, all’inizio senza conferma, indicavano un giudice ammazzato. Ma chi? Chi era?, ci chiedevamo. Paolo Borsellino, sentenziò la giornalista quando arrivò la conferma dal territorio trasformato in Beirut da cosa nostra e da chissà quale altro potere. Lasciammo la Calabria un anno dopo, il tempo di organizzarci e trovare un luogo dove ricominciare a vivere, lontano dal dolore.

Lasciammo lì ogni desiderio di giustizia e di verità. Perché non sempre si trova la forza di lottare.

Sono trascorsi trent’anni dalle stragi. Dal 1992 che doveva cambiare l’Italia e che ha lasciato ogni cosa immutata: le bombe di cosa nostra, certo, ma anche il Paese sull’orlo del fallimento, la crisi politica, l’alba di Tangentopoli. Un Paese dilaniato, che già portava le lacerazioni degli anni della strategia della tensione, con altre bombe, altre stragi. La strategia della tensione, forse, che non è mai finita seppure si manifesti in forme diverse. Perché in fondo, per quanto la pelle del Paese muti, lo scheletro marcio e ipocrita resta intatto. Gli sconvolgimenti politici, giudiziari, sociali ed economici di quell’anno rappresentavano l’occasione unica offerta dalla storia per rivoluzionare la società italiana. Opportunità sprecata. Il gorgo di vizi e illegalità ha risucchiato ogni tentativo di cambiamento.

A distanza di trent’anni dunque che cosa è cambiato? La lotta alla mafia è diventata la lotta alle mafie, c’è maggiore consapevolezza, dicono esperti e studiosi del fenomeno. L’ho detto anche io per un periodo, l’ho scritto, l’ho ripetuto spesso nelle scuole agli studenti, più per non deluderli che perché ci credessi veramente.

Ma è arrivato il momento di dire la verità anche se questa fa l’effetto dell’ortica strofinata su una ferita.

Giovanni Tizian, Il silenzio

Lorenzo Colantoni racconta “Ritorno alle foreste sacre”

«Il Giappone è quel luogo dove i fantasmi sono reali. È un paese che nasconde la propria spiritualità dietro alle luci brillanti dei malls, al cemento degli uffici e delle autostrade, al fumo dei bar e degli izakaya. È nelle campagne silenziose, nell’intimità delle case, che appaiono i fantasmi della tradizione, gli dèi dello shintoismo e gli eroi delle leggende, i tengu e gli spiriti dispettosi che interagiscono con gli umani. Conoscere questo Giappone è molto complesso per un gaikokujin, uno straniero, perché è difficile esserne accettato, è difficile da comprendere, difficile da trovare. Ho dovuto lasciarmi alle spalle la città, le guide, i reportage scritti in inglese per gettarmi nel vuoto. È così che li ho incontrati, questi spettri reali, per la prima volta in una foresta tanto imponente quanto dimenticata, dove i primi passi mi hanno lasciato letteralmente senza fiato. E da lì questi fantasmi mi hanno seguito per tutto il mio viaggio, tra le decine di villaggi abbandonati, gli ultimi monaci animisti al mondo, gli alberi millenari grandi come torri e venerati come dèi. Erano con me tra le case piccole, dai tetti blu, immerse nella nebbia, circondate dal tè profumato di rugiada, negli altari nascosti dal muschio, nella foresta che divora la vallata e i suoi abitanti».

Molti conoscono il Giappone delle città scintillanti, del sushi e dei manga. Pochi si avventurano nelle campagne silenziose, tra gli alberi millenari, dove la tradizione è forte e le foreste sono sacre. Ritorno alle foreste sacre, di Lorenzo Colantoni, è un viaggio straordinario nel Giappone meno conosciuto, dalle montagne sotto la vecchia capitale imperiale di Nara fino alla città sacra di Hongu, alla riscoperta di un antico modello di convivenza tra uomo e natura.

 

 

La battaglia di Montaperti

In Toscana, tra il XII e il XIII secolo, la lotta per l’egemonia tra Firenze e Siena era feroce. La battaglia di Montaperti svetta tra gli episodi simbolici di questo conflitto. Lo storico Federico Canaccini ne racconta il contesto, le ragioni e le svolgimento.

Questo video, parte di una serie sulle battaglie nell’Italia medievale, è realizzato con la collaborazione della Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’Università Pontificia Salesiana – https://fsc.unisal.it


«Ne plus enseigner le latin et le grec, c’est nous couper de nos racines culturelles»

«La disparition des langues anciennes nous coupe de tout rapport à la culture»

Eugénie Boilait | Le Figaro | 2 juillet 2022

[>> Andrea Marcolongo, De arte gymnastica]

[>> Andrea Marcolongo, The Brilliant Language. 9 reasons to love ancient Greek]

[>> Andrea Marcolongo, The lesson of Aeneas]

Seuls 535 candidats (sur plus de 380 000) ont présenté la spécialité « littérature, langues et cultures de l’Antiquité – Latin » au bac 2022, et 237 en « littérature, langues et cultures de l’Antiquité – Grec ancien ». Et seuls 3% des lycéens ont suivi l’option latin en 2021-2022. Qu’est-ce que cela vous inspire ?

Andrea MARCOLONGO. – Je suis bouleversée par ces chiffres et réellement préoccupée. On parle désormais d’une toute petite minorité qui étudie le grec et le latin en France. Je le dis d’abord en tant qu’helléniste, mais aussi en tant qu’Italienne, pays où les chiffres sont tout de même différents. Pour moi, c’est très grave. Si on laisse les choses se dérouler ainsi, dans quelques années, il n’y aura plus d’élèves ou d’étudiants français qui suivront des cours de langues anciennes.

Quelles en sont les raisons ?

Cette situation nous la devons d’abord à un conformisme de la classe politique et intellectuelle. On ne peut pas reprocher aux élèves et étudiants français de ne pas faire du latin et du grec car ces langues, et les références à ces langues, ont entière ment disparu du débat public. Lors de la dernière campagne électorale, je ne me rappelle pas en avoir entendu parler. Par ailleurs, depuis une dizaine d’années, on a commencé à juger la culture avec un paramètre d’utilité. On a pensé que ces langues n’étaient plus utiles et que le but de l’école était de former des travailleurs. Dans cette perspective, l’enseignement du grec et du latin était inefficient. II n’y a même pas de débat intellectuel à ce sujet. Le conformisme à l’état pur, c’est de dire que l’on passe à autre chose et que ce n’est pas important.

La paresse intellectuelle est-elle l’une des raisons de ce déclin ?

Oui, c’est une paresse intellectuelle généralisée. Cela ne concerne pas que les élèves. II est très rare de voir quelqu’un, issu de la classe politique ou intellectuelle, parler de L’Odyssée, de L’Iliade, d’Homère, des classiques ou des humanités. Les jeunes élèves de 14ans ne se mettront pas au latin ou au grec seuls. II faut assumer une responsabilité et pour moi elle est très claire : c’est d’abord celle de la classe politique et intellectuelle.

Cette baisse de l’enseignement des langues anciennes en France fait écho à la décision de l’université de Princeton en avril 2021 de supprimer de son cursus de lettres classiques l’obligation d’un enseignement du latin et du grec. Les langues anciennes sont-elles rejetées par l’Occident ?

II faut même parler ici de renoncement intellectuel. Ce n’est plus une remise en cause ou un rejet, c’est un effacement. Pourtant, les classiques servent à réfléchir. Italo Calvino disait que l’enseignement classique est fait pour se définir en rapport, être pour ou contre. II faut toujours remettre en cause, la discussion avec l’enseignement classique est essentielle, mais pour cela il faut qu’il existe… Sinon, le risque est celui d’un véritable monologue intellectuel. « Je ne suis pas d’accord avec cela, donc la seule solution est d’effacer et supprimer » : c’est très grave de fonctionner comme cela. On forme une génération habituée au monologue et non pas au dialogue. Pour apprendre le dialogue avec l’autre, il faut connaître, et les classiques servent à cela.

Pourquoi les langues latine et grecque sont-elles essentielles ? Que perd-on à ne plus les enseigner ?

On perd la possibilité de former des citoyens et des êtres humains complets. Les langues grecque et latine sont des langues philosophiques. On n’apprend pas le latin et le grec pour la grammaire, ce n’est pas le but de l’enseignement. Si on revient à l’Antiquité, à la Grèce antique, à Athènes, c’est pour ce qu’on appelle le miracle grec, c’est-à-dire cette société qui a su inventer la philosophie, l’astronomie, les mathématiques, la tragédie, l’art. Toutes ces inventions ont été permises par la langue. La démocratie d’Athènes s’est appuyée sur la langue grecque. C’est une langue née pour la discussion et pour l’échange. La première langue qui a eu une capacité d’abstraction, qui a pu exprimer des concepts abstraits et qui les a rendus compatibles avec le dialogue. Le logos est devenu «dialogue». C’est tout cela qu’on perd aujourd’hui.

S’affranchir de cet apprentissage des humanités, qui a prévalu pendant des siècles, équivaut il à se couper d’une grande partie de nos racines ?

Absolument. Je ne parle pas des racines uniquement antiques, avec cette fausse idée que nous serions tous des petits-enfants de la Grèce ou de Rome. La question n’est pas de savoir si Platon, César ou Cicéron sont nos ancêtres. Ce sont les racines culturelles et les racines humaines qui nous intéressent. Ne plus lire Homère signifie que nous nous contentons de vivre à la surface de nous-mêmes, comme les plantes aquatiques qui n’ont pas de racines dans la terre mais qui flottent à la surface de l’eau. Je suis inquiète sur ce fait, celui d’être entourée par des gens intellectuellement déracinés. Ne pas connaître Platon ne constitue pas un tort envers Platon, mais si l’on ne connaît pas Platon, c’est très difficile de lire Dante, et si l’on ne comprend pas Dante, on a du mal à lire Rabelais, et ainsi de suite jusqu’au XIX et XX siècles. Je ne sais pas dès lors quel type de relation on peut avoir avec la culture dans son ensemble. Si on pense l’équivalent avec les mathématiques, c’est essayer de comprendre la théorie de la relativité sans avoir fréquenté les classes de primaire.

Cette coupure peut être conçue comme la conséquence d’une modernité qui ne se préoccupe que de sa propre avancée. Le modernisme peut-il s’affranchir de l’humanisme ?

J’aime beaucoup les mots «humanités» et «humanisme», ou, pour les dire en grec, «anthropocentrisme». À l’heure actuelle, on renonce à une conception humaniste de la vie et de la société et on la remplace par l’individualisme. L’humanisme, c’est être capable de vivre avec soi-même dans une société. L’individualisme, c’est le contraire : en tant qu’individu, je pense que mes idées sont plus importantes que les tiennes.

Aujourd’hui, nous distinguons, voire séparons, les sciences « pures » des humanités, dont les langues anciennes et les cultures grecque et latine font partie. Cette séparation n’a pas été toujours vraie. Humanités et sciences dures ne devraient-elles pas au contraire se nourrir réciproquement ?

J’en suis tout à fait convaincue. II faut que les gens se souviennent de ce lien. Évidemment, pendant l’Antiquité, cette séparation n’existait pas : sciences et humanisme étaient situés dans un grand ensemble, celui du savoir. La métaphysique, que l’on peut aussi appeler philosophie, portait ce nom car dans la bibliothèque d’Alexandrie, les livres de philosophie étaient rangés juste après les livres de physique («méta» veut dire «après»). Je ne peux pas imaginer la science pure sans la capacité de s’interroger sur ce que l’on découvre. C’est d’autant plus vrai dans une société comme la nôtre où les découvertes scientifiques sont de plus en plus importantes. On a à notre disposition une quantité inouïe de ressources technologiques. Mais chaque découverte scientifique doit être accompagnée d’un questionnement éthique : la question des limites, de l’utilité et surtout du «pourquoi». Sinon, nous risquons une perte de sens et le déracinement. Je ne connais pas une autre façon de progresser en tant que société que cette conception humaniste : s’interroger sur ce que signifie être « humain » et vivre, sinon on se limite à être à la surface.

Se gli italiani oggi non sono lettori forti è colpa (anche) della censura di secoli fa

La Controriforma non distrusse materialmente i libri ma favorì il lento depositarsi di una diffidenza collettiva. Non solo la Chiesa reagì alla “rivoluzione silenziosa” della stampa, ci fu il contributo dell’élite intellettuale

Adriano Prosperi | tuttolibri | 11 giugno 2022

Divisi su tutto noi italiani siamo uniti almeno in un sentimento: siamo e ci sentiamo europei. L’entrata del nostro paese nell’Europa unita fu vissuta come una vittoria collettiva, mentre il prefisso «euro» squillava su tutte le insegne. Sentimento antico: l’idea mazziniana di un’Europa dei popoli tradusse in una formula qualcosa di prepolitico, un bisogno collettivo di riconoscimento e di riscatto. Ma quel bisogno resta ancora frustrato. Differenze profonde ci dividono dagli altri popoli europei. Fra tutte, fondamentale quella dei livelli di cultura. Gli italiani restano i più ignoranti. Leggono e studiano poco, per loro la laurea è un traguardo lontano. I dati statistici sono inesorabili: più di metà della popolazione non legge nessun libro e quelli che comprano o prendono in prestito più di 12 libri l’anno non superano il 15%. Come mai accade questo? Si tratta di un fenomeno recente, un difetto superficiale che può essere cancellato? No: qui siamo davanti all’esito di una frattura antica e profonda, al punto d’arrivo di un percorso imboccato dall’Italia e solo dall’Italia tra gli stati dell’Europa occidentale.

Questa è la tesi che lo storico Giorgio Caravale si impegna a dimostrare in un libro solido e ben documentato. Il fatto è – come dice il titolo – che per gli italiani i libri sono pericolosi. Lo sono diventati per effetto di un’opera di persuasione collettiva esercitata sul popolo negli ultimi cinque secoli da chi ne aveva la responsabilità di governo. La Chiesa cattolica, le sue gerarchie ne portano la colpa principale. Ce l’hanno ricordato le autocritiche delle gerarchie ecclesiastiche. La «domanda di perdono» formulata da papa Giovanni Paolo II in occasione del giubileo dell’anno 2000 fece seguito all’apertura dell’archivio del S. Uffizio romano. Insieme al deposito saccheggiato e frammentario di quello che era stato il tribunale supremo dell’eresia fu reso accessibile anche quello assai meglio conservato della Congregazione dell’Indice.

Così fu proprio intorno alla censura ecclesiastica che si sviluppò da allora in poi una vivace discussione: quali e quanti i danni subiti dal grande patrimonio letterario del Rinascimento italiano? La risposta di Giorgio Caravale è di quelle che rivelano i veri termini del problema. Non si trattò di una distruzione materiale di libri ma del lento depositarsi di una diffidenza collettiva verso il libro destinata a diventare col tempo un costume di massa. E non fu solo la Chiesa a reagire in modo ostile alla «rivoluzione silenziosa» della stampa. Ci fu una reazione di tutta l’élite intellettuale che aveva goduto fino ad allora dell’accesso esclusivo al mondo dei libri.

È pur vero che la stampa fu definita un «dono divino». Ma sorse immediatamente una preoccupazione: dando al popolo ciò che non era adatto a lui si gettavano le perle ai porci. Chi aveva responsabilità di governo aveva il dovere di proteggere i lettori da loro stessi. Così pensavano gli umanisti, in accordo con chi aveva responsabilità di governo religioso. Gli stampatori apparvero come gente pericolosa che per fare soldi non badava alla natura della merce. Storie lascive, dottrine pagane, perfino traduzioni in volgare delle Scritture erano altrettante minacce per la morale e per la fede. La censura apparve come l’unico doveroso rimedio per limitare i danni della tempesta che si avanzava. Nacquero via via argini sempre più robusti, come quello preventivo della licenza di stampa (l’imprimatur) o quello degli elenchi di libri proibiti. Si chiamarono «Indici», vennero pubblicati e diffusi, obbligando i librai a tenerne conto. Ne fecero uso tutte le autorità intellettuali e religiose, ma l’esempio primo e più autorevole venne dalla Chiesa. E il consenso fu generale. Nacque, si può dire con parole dell’autore, dalla generale «diffidenza delle élites politiche, religiose e culturali europee» nei confronti del volgarizzamento del sapere. Simili reazioni possono sconcertare noi, lontani nipoti del mondo nuovo che nacque allora – il mondo delle armi da fuoco e delle scoperte di popoli ignoti al di là dell’Oceano. Ma non appariranno né insolite né ingiustificate a chi dalla prospettiva nostra della incombente minaccia nucleare guardi alla maledizione scagliata dall’Ariosto contro l’«abominoso ordigno» dell’archibugio, che relegò per sempre nel passato le regole cavalleresche dell’arma bianca. Con sicuro dominio delle fonti dell’epoca Giorgio Caravale mette davanti al lettore un ricco dossier di testimonianze che mostrano quante voci insospettate si levarono allora a favore delle misure di controllo censorio della stampa. Bastino i nomi di Thomas More, di fra Paolo Sarpi e dell’eretico Pietro Carnesecchi. E i provvedimenti censori fioccarono: non ci fu paese europeo che ne restasse esente.

Ma allora – chiederà qualcuno – perché solo gli italiani hanno il dubbio privilegio di avere introiettato la diffidenza verso il libro fino a farne un costume nazionale? La risposta è semplice: le chiese nate dalla Riforma e perfino le chiese cattoliche di stati come la Francia e la Spagna dovettero fare i conti con la censura di stato, impegnata nel compito primario di garantire l’obbedienza al potere politico. Invece nella realtà dei piccoli stati italiani si trovò più comodo accettare l’ombrello romano. Prova ne sia il fallimento del tentativo di Sarpi di arginare il «totato» romano e di rendere allo stato veneziano il compito di tutelare la religione. Da qui il trionfo della scrittura dissimulata, come quando Galileo elogiò la condanna del copernicanesimo nella prefazione al Dialogo dei massimi sistemi. Autocensura e dissimulazione fecero parte del costume. E intanto le regole della censura si allargavano a tanti altri àmbiti, dall’arte figurativa alle prose romanzesche (come quelle licenziose e anticlericali di Ferrante Pallavicino), alle pasquinate, all’oralità di chi recitava a memoria cose lette.

E qui si apre la grande ricchezza del volume che pone continuamente domande insolite. Insolita e da meditare la sua finale conclusione: anche in Italia il libro vinse la sua lunga guerra. Una vittoria pagata al prezzo di tante scelte oblique, come l’autocensura o il costume delle licenze speciali. Ma quello che si depositò in profondità nel costume sociale fu un oscuro sentimento di diffidenza.

 

 

Paolo Grossi, un ricordo

4 luglio 2022

La casa editrice Laterza ricorda Paolo Grossi, straordinario “maestro del diritto” e insigne storico del diritto italiano ed europeo, che ha aperto con i suoi studi innumerevoli fronti di ricerca, contribuendo in maniera decisiva a edificare una grande Scuola, di riconosciuto profilo internazionale. Da Presidente della Corte Costituzionale, ha mostrato con il suo operato come l’indagine sulle radici storiche e culturali profonde dell’esperienza giuridica sia di fondamentale ispirazione per un esercizio autorevole delle più delicate funzioni giurisdizionali e istituzionali.

Tra le sue pubblicazioni per Laterza, L’ordine giuridico medievale, Prima lezione di diritto, L’invenzione del diritto e Oltre la legalità.

 

«Umanità del diritto: è sicuramente questo il primo punto fermo su cui insistere. Se il chimico, il fisico, il naturalista leggono nel libro aperto del cosmo le trame delle proprie scienze, non altrettanto può fare il giurista: in una natura fenomenica priva di uomini non c’è spazio per il diritto, il quale – come ci avverte con stringente efficacia già un antico giurista romano – hominum causa si è originato, sviluppato, consolidato; il che vuol dire che è nato con l’uomo e per l’uomo, inscindibilmente collegato alla vicenda umana nello spazio e nel tempo.

Insomma, il diritto non è scritto in un paesaggio fisico che attende ancora un inserimento umano, è scritto nella storia, grande o minuta, che, dai primordi ad oggi, gli uomini hanno costantemente tessuto con la loro intelligenza e i loro sentimenti, con le loro idealità e i loro interessi, con i loro amori e i loro odi. È all’interno di questa storia costruita dagli uomini che si colloca il diritto, lì e soltanto lì. Realtà di uomini, però realtà plurale. Se potessimo ipotizzare un astronauta che sbarca da solo su un pianeta remoto e deserto e da solo ci vive, quel personaggio solitario finché resta tale non ha bisogno del diritto, né alcuna delle sue azioni potrebbe essere qualificata come giuridica. Il diritto è infatti dimensione intersoggettiva, è relazione fra più soggetti (pochi o molti), si contrassegna per una sua essenziale socialità.

Se fra le dimensioni umane ve ne sono che si nutrono e prosperano all’interno del soggetto avendo all’esterno soltanto possibili manifestazioni – gli esempi più forti sono quella morale e quella religiosa –, il diritto ha bisogno dell’incontro fra soggetti umani e ha per suo contenuto, nei termini che preciseremo in seguito, proprio quell’incontro, proponendosi a noi quale dimensione necessariamente relativa, cioè di relazione. Può trattarsi di una società universale come la comunità internazionale o di due soggetti che vendono e comprano un bene, può trattarsi di una minima tribù primitiva nel profondo d’una selva amazzonica o di uno Stato con tutto il suo formidabile apparato organizzativo e di potere, però sempre è necessario quell’incontro che trasforma in sociale l’esperienza del singolo soggetto.»

Paolo Grossi, ‘Prima lezione di diritto’

Alessandro Vanoli racconta “Storia del mare”

Una storia del mare. Che racconti la geologia, gli uomini delle coste, le scoperte, le navi, le guerre, i miti e i sogni. Ma anche e soprattutto i pesci e gli altri esseri marini.

Una storia insomma che tenga assieme tutto, uomini e animali.

E naturalmente un viaggio del genere non può e non vuole essere una cronaca minuziosa di fatti e cose. Piuttosto, intende essere un racconto, fatto di volti, immagini, suoni e colori, con la speranza di restituire un po’ di quello stupore che gli abissi ci hanno sempre dato.

Un racconto che inizia 4 miliardi di anni fa: in Storia del mare, lo storico e scrittore Alessandro Vanoli ripercorre la lunghissima e stupefacente storia del luogo da cui proviene tutta la vita sulla Terra.

 

Fact checking

Oggi la storia è tornata ad essere un campo di battaglia. Vere e proprie fake news storiche impazzano sui social network e la politica ha cominciato ad utilizzare il nostro passato per fomentare politiche d’odio. È tempo di opporre a queste falsificazioni strumentali le verità che la storia, con la sua ricerca e i suoi strumenti, ha individuato. Sono punti fermi da cui far ripartire ogni discussione e ogni interpretazione. Ed è importante che a farlo siano storici delle nuove generazioni, che più sentono la responsabilità della conoscenza del nostro passato, anche quello scomodo e che più volentieri dimenticheremmo, per la costruzione del mondo che verrà.

 

Carlo Greppi
L’antifascismo non serve più a niente

iRobinson/Letture | serie “Fact Checking”

2020, pp. 160, euro 14,00

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Eric Gobetti
E allora le foibe?

iRobinson/Letture | serie “Fact Checking”

20227, pp. 136, con ill., euro 13,00

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Francesco Filippi
Prima gli italiani!
(si, ma quali?)

iRobinson/Letture | serie “Fact Checking”

20212, pp. 176, euro 14,00

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Pino Ippolito Armino
Il fantastico regno delle Due Sicilie
Breve catalogo delle imposture neoborboniche

iRobinson/Letture | serie “Fact Checking”

2021, pp. 144, euro 14,00

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Chiara Colombini
Anche i partigiani però…

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20215, pp. 192, euro 14,00

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Gianluca Falanga
Non si parla mai dei crimini del comunismo

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2022, pp. 240, euro 15,00

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Mimmo Franzinelli
Il fascismo è finito il 25 aprile 1945

iRobinson/Letture | serie “Fact Checking”

2022, pp. 176, euro 14,00

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Tommaso Speccher
La Germania si che ha fatto i conti con il nazismo

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2022, pp. 192, euro 14,00

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Alice Borgna
Tutte storie di maschi bianchi morti…

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Giusto Traina
I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie

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2022, pp. 136 con ill., euro 16,00

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