Nuovo cinema classico (da Hawks a Godard)

Dodici pellicole di un biennio fondamentale (1959-1960). Parte da qui Alberto Crespi per raccontare mille storie di dodici grandi. Buñuel, Hitchcock, Mordicela Disney, Fellini, Wilder… Lo spettacolo sta per cominciare, spegnete i cellulari…

Paolo Mereghetti | la Lettura | 22 maggio 2022

Alla fine vorresti che non finisse mai, che questo viaggio tra film e registi, storie e aneddoti, dive e comprimari proseguisse ancora, aggiungendo piacere al piacere, quello per un cinema che, nonostante gli anni grami che sembra vivere adesso, contagiato anche lui da qualche forma di Covid-19, continua a rinascere dalle sue ceneri ogni volta che una storia prende forma sullo schermo. Perché quando chiudi le 400 pagine di Short Cuts (Laterza) ti porti dietro l’impressione, davvero rinfrancante, che le storie di cinema che ti hanno accompagnato fin lì ne nascondano molte altre, quasi innescassero una reazione a catena. Merito della ricchezza inesauribile della storia del cinema, certo, ma merito soprattutto di Alberto Crespi, che ha abbandonato il suo abituale ruolo di critico cinematografico (lo è stato per «l’Unità», prendendo il posto che fu di Ugo Casiraghi, e lo è tutt’ora, dai microfoni di HoIlywood Party su RadioTre) per prendere quello, qui davvero azzeccato, di cantastorie. Come lui stesso si autodefinisce.

L’idea è semplice e curiosa insieme: prendere un biennio fondamentale della storia del cinema — il 1959-1960 — e attraverso dodici film ripercorrere uno dei momenti nodali della cinematografia, il passaggio dal cinema «classico» al cinema «moderno». Ma non come farebbe un diligente studioso della materia, magari aspirante accademico, che finirebbe per perdersi tra teorie e interpretazioni, tra sfoggio di cultura e dimostrazioni (magari presunte) di genialità. No, Crespi vuole solo raccontare. Raccontare le tante cose che ha scoperto e imparato in tanti anni di amore per il cinema, fatto di amicizie e di interviste, di ricerche e di letture, e naturalmente di visioni. Come ha imparato a fare dai registi “classici” che inchiodavano lo spettatore con le loro storie, ma anche con la libertà dei registi «moderni», capaci di mandare a quel paese le regole e inventare un nuovo modo di raccontare. Tra Hawks e Godard, si potrebbe dire, prendendo spunto dal primo e dall’ultimo dei dodici film che compongono l’ossatura del libro.

Il cinema in 12 storie, dice il sottotitolo del libro, tutte contenute in quei due anni, il 1959 e il 1960 del secolo scorso. Ma che storie signora mia, verrebbe da aggiungere. Si comincia con Un dollaro d’onore di Howard Hawks e si prosegue con La dolce vita di Fellini, L’appartamento di Billy Wilder, La grande guerra di Monicelli, Nazarìn di Buñuel, Il mondo di Apu di Satyajit Ray, I magnifici sette di John Sturges, Psyco di Alfred Hitchcock, La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, Historias de la revolución di Tomás Gutiérrez Alea, Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz e si finisce con Fino all’ultimo respiro di Jean-Lue Godard.

Dodici capolavori, dodici film che hanno segnato la storia del cinema, ma Crespi non si ferma ad esaltarne le qualità, lo dà (giustamente) per scontato. Quello che gli interessa è metterne in evidenza una caratteristica, una specificità o anche solo un dettaglio laterale, per esempio la reazione di Buñuel che alla notizia del premio e del successo avuto da Nazarìn a Cannes si lamentava perché «se i miei film cominciano a fare soldi, sarà la fine del mio prestigio come regista. È terribile». E da lì trovare lo spunto per parlare d’altro, per raccontare di un altro film o di un altro regista, per incastrare un’altra storia, lontanissima magari a rigor di logica, ma che in quel momento s’incastra perfettamente. E così da Buñuel si passa alla «nuova Greta Garbo» sovietica Lauis Septiko e poi al maliano Souleymane Cissé, all’hong-konghese Tsui Hark (intervistato alle otto di mattina di un giorno di Pasqua) per arrivare agli «800 eroi» di Shanghai. E di ognuno il «cantastorie» Crespi racconta un aneddoto, illustra una scelta di stile, sottolinea un’assonanza o una differenza con chi viene prima o dopo. Finendo per fare dei dodici film selezionati altrettanti ami con cui pescare mille altre storie.

E che storie! La lezione di Billy Wilder sul Lubitsch touch vale l’imbarazzo di Stravinskij quando scopre la sua sagra della primavera «riadattata» da Disney (e Stokowski) in Fantasia; come De Sica evitò di diventare un regista della Repubblica di Salò sta sullo stesso piano dell’invenzione del gatto in Il lungo addio; il ritratto di Ruan Lingyu (la più grande diva del cinema cinese degli anni Trenta) fa il paio con quello di Dino Risi e la sua erre arrotata; l’elogio dei film muti di Lois Weber (la prima regista di Hollywood) appassiona come il racconto del film mai fatto da Luigi Magni in Etiopia. E si potrebbe non fermarsi più, tanti sono i nomi e i fatti che stanno dentro Short Cuts. Abbiamo detto prima che per questo libro l’autore mette da parte la sua preparazione da critico, ma della sua assidua frequentazione cinematografica una cosa ha conservato, e lo dimostra quando parla di Howard Hawks e del suo Dollaro d’onore: per spiegare la semplicità ma anche la fluidità di quel modo di raccontare (dopo avere illustrato scena per scena i primi 3 minuti e 8 secondi di quel capolavoro western, dove non si pronuncia una parola ma si capisce benissimo che film sarà e che personaggi incontreremo) Crespi spiega come Hawks legava le scene una dietro l’altra: «Taglia sempre sul movimento e il pubblico non se ne accorgerà». Ecco, anche per questo libro Crespi ha tagliato sempre le sue storie «sul movimento». Non lascia mai che diventino troppo lunghe: taglia anche lui in movimento e passa alla prossima storia. E così non ne hai mai abbastanza, anche dopo averlo letto tutto.

Vanessa Roghi racconta “Il passero coraggioso”

Generazioni di lettori di tutte le età si sono innamorate della storia di Cipì, il passero coraggioso inventato negli anni Cinquanta da Mario Lodi e i suoi bambini. Pochi però ne conoscono la storia. Nel centenario della nascita di Mario Lodi, ripartiamo da Cipì – con Vanessa Roghi e Il passero coraggioso – per ricostruire la grande avventura della didattica democratica, una pratica che ha cambiato il nostro Paese.

 

 

Il libro:

Il giovane Enrico, il capo e la lotta

Il capo del circolo del Pci ha 22 anni e finisce in cella per 100 giorni per aver partecipato a una tumultuosa protesta contro la penuria di generi alimentari e contro il prefetto fascista

Vindice Lecis | Il Fatto Quotidiano |  15 maggio 2022

Alla domanda “Sappiamo che lei è un tifoso juventino”, Berlinguer secco rispondeva: “No, io tifo la Torres!”. Pur apprezzando moltissimo anche il Cagliari il segretario comunista, anche durante le sue trasferte politiche all’estero, non mancava mai di far telefonare alla sede romana dell’Unità: “Chiedi che cosa ha fatto la Torres” ha ricordato il responsabile Esteri del Pci dell’epoca, Antonio Rubbi.

La Torres è la squadra di calcio di Sassari. Ma Berlinguer restò legato sempre alla sua città natale, incubatrice decisiva della formazione della sua personalità e nella politica. In un’intervista alla Nuova Sardegna del 15 gennaio 1984 al direttore Alberto Statera, a proposito dei moti del pane del gennaio 1944, Berlinguer spiegava che si trattò “di una forte e tumultuosa protesta della parte più povera della città, provocata soprattutto dalla penuria dei generi alimentari di prima necessità ma anche dalla permanenza in molti posti di comando di gerarchi fascisti, nonostante da mesi fosse caduto il regime e la Sardegna fosse stata liberata”. Aggiungeva che “la massa principale era di donne e giovani dei quartieri popolari, che allora erano il centro di Sassari”. A questo proposito ricordava “bene anche la montatura imbastita da molti capi della polizia, che inventando di sana pianta reati gravissimi mai commessi cercarono di scompaginare la forte organizzazione giovanile comunista che si era formata nei mesi precedenti nella nostra città”.

Il sindacalista Nino Manca, in un libro curato da Tore Patatu (edito nel 1993 dalla Libreria Dessì) tratteggiò in modo vivace la poverissima Sassari e quanto accadde nei “moti del pane” all’indomani della caduta del fascismo in una città stretta tra fame e inquietudine. Eravamo, scrive Manca, una “massa di persone in età giovanile, assolutamente inesperta nell’organizzare manifestazioni o dimostrazioni di qualsiasi natura, e ancora più incapace di organizzare e gestire manifestazioni così dure e così aggressive come furono quelle di allora”.

Enrico Berlinguer era il capo del circolo giovanile comunista in via San Sisto, descritto da Giuseppe Fiori nella sua Vita di Berlinguer (Laterza, 1989) come “un budello fradicio con odore di cavoli e lardo aspina sul Corso”. In quella sede la sera del 12 gennaio una ventina di ragazzi dei rioni popolari ascoltano il segretario del circolo. Berlinguer è uno studente di 22 anni, prossimo alla laurea in legge, figlio di Mario, uno dei leader del Partito d’azione e nipote di Enrico, che fu esponente di una famiglia di piccola nobiltà agraria e avvocato repubblicano garibaldino, deputato dell’Unione amendoliana e fondatore della Nuova Sardegna.

Quei giovani comunisti – tra cui Nino Manca, Nino Pinna, Pietro Carta, Giuseppe Cossu, Paolo Achenza e molti altri – discutono della manifestazione dell’indomani 13 gennaio. E si dividono i compiti, compreso quello di mostrare- e sarebbe stata la prima volta dopo il fascismo – un grande drappo rosso confezionato da un certo Ricci abitante in via Alghero. La notte diluvia, ma l’indomani molte centinaia di manifestanti percorrono in corteo la città. Chiedono la distribuzione di pane, pasta e olio. Sassari è stremata, povera, affamata Nel descrivere lo spettacolo di miseria di molte zone, Nino Manca racconta che in vicolo Sant’Elena, la famiglia di Pietro Francesco Conti, ogni notte doveva tirare su con una carrucola il tavolo da pranzo che rimaneva così sospeso per aria durante tutta la notte, muto spettatore della miseria imperante. In quell’unico vano di 25 metri quadrati vi abitavano in dodici: nonna nonno, padre e madre, cinque figlie femmine e tre maschi.

Torniamo al corteo che arriva in piazza d’Italia che invoca tra le urla la rimozione del prefetto considerato fascista. La polizia carica e i manifestanti si dirigono allora verso la sede della Commissione Alleata. Berlinguer li guida. Il corteo si scioglie tra le tensioni.

La sera, durante una riunione urgente nel circolo in via San Sisto 4, i dirigenti del Pci degli “adulti” appena rinato – diretto da uomini che avevano fatto carcere e confino come Andrea Lentini che nel 1920 era stato sindaco di Gonnesa – critica duramente l’avventurismo dei giovani compagni che partecipando a queste manifestazioni, ammoniscono, fanno il gioco dei fascisti, nascosti e sempre presenti.

Ma il giorno dopo le manifestazioni riprendono. Gli scontri più duri, questa volta con l’impegno dell’esercito con cani armati leggeri, mitraglie, fucili, moschetti che occupano tutta l’area del centro da piazza Castello a piazza Municipio fino a porta Sant’Antonio. Il corteo con il drappo rosso con falce e martello, arriva invia Mercato e in via Rosello, segue un’irruzione al mercato del pesce dove il direttore dottor Marras venne colpito con un cestello. “Il poco che trovano – ricostruisce Peppino Fiori – semola, pasta, zucchero e carbone è immediatamente distribuito”. Un primo scontro avviene al corso Vittorio Emanuele con i primi feriti e alcuni arresti. Due giovani sono liberati da tal Mario Usai, che se li fa consegnare senza colpo ferire dai militari, fuggiti a gambe levate.

Durante un’incursione al panificio della ditta Arru-Fadda in via Capo d’oro vengono sottratti cinque quintali di pane. L’assalto si ripete al mulino Farbo-Naseddu e al magazzino Fara. Un concentramento si forma in piazza Santa Caterina dove ci sono gli uffici annonari, spostandosi in piazza Municipale presidiata dall’esercito. I manifestanti ricorda Nino Manca “superando la barriera delle mitragliatrici la occupano, trovandosi a contatto fisico con i soldati che si trovano mescolati con la folla dei dimostranti senza che nulla di grave accada”.

Per i giovani comunisti sarà un duro risveglio il giorno dopo. Criticati dal partito, sconfessati dalla Concentrazione antifascista, sono oggetto anche di una repressione poliziesca. In galera finiscono molti di loro tra i 43 arrestati. Tra questi appunto Enrico Berlinguer portato in manette la mattina del 17 gennaio 1944 nella caserma dedicata al suo antenato Gerolamo Berlinguer che nel 1835 aveva sbaragliato la banda del fuorilegge Battista Canu.

“Comunista convinto, studioso delle teorie leniniste, dopo la caduta del fascio fu uno dei promotore fondatore del Partito comunista a Sassari – scrive in un rapporto il questore Dino Fabris, già funzionario della famigerata e occhiuta Ovra. Nominato segretario della sezione giovanile, si assunse il compito di spiegare le nuove idealità alla massa impartendo periodiche lezioni di comunismo un certo numero di gregari… Fanatico dell’idea, credette giunto il momento di applicare alla pratica le teorie più spinte del partito”.

Berlinguer e i suoi compagni restano in carcere a San Sebastiano cento lunghi giorni. Ne usciranno domenica 23 aprile 1944. Due mesi dopo Berlinguer è già a Salerno col padre Mario dove conosce Palmiro Togliatti, appena rientrato dal lungo esilio e dalla esperienza alla guida del Comintern.

In tanti anni continentali Berlinguer però non smise mai di coltivare i suoi rapporti con la Sardegna e con Sassari. Ritornò più volte per partecipare a iniziative politiche – l’inaugurazione della federazione di via Mazzini nel 1973 e diversi comizi in piazza, l’ultimo nel 1982 – e occasioni private. Come per assistere alla Faradda (la secolare festa dei candelieri) de114 agosto, trascorrere le sue vacanze a Stintino o passeggiare quasi intimidito dalla gente che lo saluta tra piazza d’Italia, via Giorgio Asproni e viale Dante dove in una casa presa in affitto era nato alle 3 del 25 maggio 1922. Così vicina alla chiesa di San Giuseppe che il 30 giugno dell’anno prima aveva visto il padre Mario sposare Mariuccia Loriga, figlia di Giuseppina Satta-Branca. E dove venne battezzato il 9 luglio con il nome di Enrico, come il nonno repubblicano.

 

Cinquant’anni dopo Peteano

‘Il presidente dell’ufficio istruzione mi disse: “Come primo fascicolo prendi questo. Guarda: roba vecchia di dieci anni, la puoi chiudere subito”. Io in realtà ero ancora formalmente uditore e sbirciai la copertina del mio primo fascicolo come aspirante giudice istruttore. C’era scritto “Peteano”.’

Felice Casson, Venezia, aprile 2021; intervista a cura di Ugo Dinello.

Ugo Dinello, La via delle armi

 

 

Una pietra massiccia alta grosso modo un metro, circondata da basse aiuole, riporta questa scritta: «Qui addì 31 maggio 1972 alle ore 23.15 mano omicida in vile attentato spegneva tre giovani vite». Poi i nomi: «brigadiere Antonio Ferraro – carabiniere Donato Poveromo – carabiniere Franco Dongiovanni». E infine: «La cittadinanza di Sagrado ad imperituro ricordo – ottobre 1972». […] Riparti con una strana sensazione: perché davvero non ti capaciti di come qualcuno possa avere pensato e realizzato una strage qui, non in una banca o in una piazza di una città, o su un treno, bensì alla periferia di tutto, di notte in una stradina sterrata nascosta dalla vegetazione, lungo una provinciale che corre tra un fiume e una ferrovia, nell’estremo nord-est d’Italia a una dozzina di chilometri dal confine oggi sloveno e allora jugoslavo. E sarà anche per tutto questo che il sangue di quei tre giovani carabinieri è sempre passato in secondo piano rispetto a quello di tante altre vittime degli anni di piombo. Ma anche perché, di tutte le stragi del terrorismo neofascista, questa è l’unica per la quale esiste un reo confesso: Vincenzo Vinciguerra. […] Sono trascorsi cinquant’anni da quando tutto iniziò, un’ora dopo il termine della finale di Coppa dei Campioni a Rotterdam in cui l’Inter di Invernizzi si arrese all’Ajax e alla doppietta di Johan Cruijff. E sarà pure ormai storia del secolo scorso, ma ancora oggi a ripercorrerla non ci si crede.

Paolo Morando, L’ergastolano

 

 

#CasaLaterza: Mimmo Franzinelli dialoga con Carlo Greppi

In tanti sostengono che il fascismo abbia una data di morte precisa e definitiva. Ma è davvero così?
E allora come spieghiamo le molte continuità tra il regime e la Repubblica? Le bombe, i pellegrinaggi a Predappio e le continue violenze?

Ne abbiamo parlato per Casa Laterza con gli storici Carlo Greppi e Mimmo Franzinelli, autore del libro Il fascismo è finito il 25 aprile del 1945.

 

 

 

 

 

 

La Sinistra e il popolo tradito

«Perché i concetti di “popolo” e “sovranità” fondanti della Costituzione si sono trasformati in concetti denigratori?», si chiede Luciano Canfora. L’autore del pamphlet La democrazia dei signori analizza l’attuale periodo storico, dall’avvento di Draghi al ruolo geopolitico dell’Europa

Carlo Crosato | Left | 10 marzo 2022

«Abbiamo sotto i nostri occhi un fenomeno macroscopico – afferma Luciano Canfora la denigrazione del popolo, un disdegno per di più riservato al popolo da parte della Sinistra – o ci ciò che ne resta –, la quale usa la parola “populismo” come accusa contro i propri avversari, rei di amoreggiare con il popolo». Questo il punto di partenza del suo ultimo libro, pubblicato da Laterza, La democrazia dei signori: un pamphlet puntuto, in cui la più stringente attualità è posta sotto una lente critica spietata. «È evidente che la democrazia che hanno in mente le élite dominanti è una democrazia di persone che si distaccano dal popolo e si considerano superiori a esso».

Non solo “populismo”. Spesso si muove anche l’accusa di sovranismo.

L’ordinamento costituzionale italiano si fonda, fin dal suo primo articolo, sul concetto che la sovranità appartiene al popolo: com’è potuto accadere che i concetti di “popolo” e “sovranità” presenti nell’articolo fondante della Costituzione italiana si siano trasformati in concetti denigratori? Oltre alla separazione fra popolo ed élite, c’è un altro elemento: la ex-Sinistra non ha più alcuna idealità connessa alla sua origine di movimento dei lavoratori. L’ex-Sinistra ha in testa un’unica idea: l’europeismo, ossia la delega di gran parte del potere decisionale a organismi per nulla elettivi e soprattutto separati, lontani e onnipotenti. A partire da tale delega, la sovranità è divenuta un ingombro e chi si richiama a essa è considerato un avversario. La Destra italiana, con le sue idee ripugnanti, ha buon gioco a richiamarsi alla sovranità e a reclamare il tradimento del popolo da parte della ex-Sinistra.

Chiedendo la fiducia al Senato, Draghi ha affermato: «Nelle aree definite dalla debolezza degli Stati nazionali, essi cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa». Questa della sovranità condivisa non è un’espressione ossimorica?

È un gioco di parole che nasconde un’evidenza ormai consolidata: le leve del potere sono altrove; i Parlamenti nazionali contano poco o nulla potendo solo ratificare e non legiferare; i governi legiferano ma, di fatto, sono rinchiusi nella gabbia d’acciaio dei regolamenti europei. Se questo scenario venisse ammesso in maniera esplicita, susciterebbe sconcerto. Con questa espressione fumosa, “sovranità condivisa”, si può far accettare una dura realtà, che probabilmente si sclerotizzerà fino a produrre ordinamenti nuovi, i quali sostituiranno completamente quelli vigenti.

All’origine della democrazia dei signori, lei colloca le pressioni che l’Ue opera sui propri Paesi membri. L’Italia, essendo membro fondatore, non può essere maltrattata come la Grecia: serve un autorevole intervento dall’interno e da molto in alto. Lei cita, come complice dell’istituzione della democrazia dei signori, la presidenza della Repubblica, nei casi Monti e Draghi.

I due presidenti, fra loro molto diversi come storia personale, cultura, provenienza politica, che si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, Napolitano e Mattarella, si sono trovati sotto una forte pressione alla quale hanno prestato assenso. Quando fu cacciato Berlusconi, reso pressoché indifendibile dai suoi errori, l’azione fu viziata dalla nota lettera di Draghi e Trichet. Monti fu nominato senatore a vita e, dopo poche ore, gli fu affidato il compito di comporre un governo. Napolitano ordinò a Bersani, allora segretario del Pd, di sostenere il governo Monti assieme all’avversario Forza Italia. Nacque un governo che, a ben vedere, fu la causa della fioritura del Movimento 5 Stelle, il quale catalizzò lo scontento di tutti coloro che erano rimasti sconcertati da queste manovre di palazzo. Conosciamo la storia successiva: le elezioni del 2018, il risultato apparentemente inconciliabile di tre blocchi che si equivalevano come peso elettorale. Poi i governi Conte e, infine, nel gennaio 2021, l’appello con il quale il presidente Mattarella superava i poteri e lo stile riservati al capo dello Stato. Se si legge l’articolo della Costituzione, che elenca i poteri e le prerogative della presidenza della Repubblica, quello di rivolgere un appello ai partiti perché formino un governo secondo i suoi desiderata non si trova. Giuseppe Conte era riuscito a ottenere un cospicuo aiuto economico dall’Europa, i famosi 209 miliardi di euro. Dall’Europa, però, non ci si fidava di un governo come quello allora vigente: si ritenne doveroso avere come gestore di questi aiuti un uomo di fiducia. L’ex presidente della Bce era l’uomo giusto. Sono cose arcinote: messe tutte in fila, delineano un quadro tutt’altro che rassicurante.

Lei pone la seguente domanda: «Il nostro Paese sta forse ricevendo un trattamento di favore in cambio della promozione di Draghi a presidente del Consiglio?». È così?

È una domanda che contiene in sé la risposta. Mario Monti, nel luglio 2020, scrisse sul Corriere della Sera che i soldi che arrivavano dall’Europa non andavano considerati come un dono. Si doveva passare attraverso una serie di controlli e vagli. È un caso che nel caso del Pnrr di Draghi questi passaggi siano stati fluidificati e le prime quote di aiuti siano già arrivate?

Considerata la debolezza del pensiero di Sinistra che abbiamo detto prima, che ne è dello Stato sociale dentro il Pnrr e cosa ne sarà quando i soldi dell’Europa per l’emergenza sanitaria finiranno? Sono problemi che lei affronta anche in un altro libro, che vorrei segnalare: Europa: gigante incatenato pubblicato da Dedalo.

Lo Stato sociale è un oggetto delicato: nacque in Europa come risposta del mondo occidentale al fenomeno della Rivoluzione comunista, che rappresentava un punto di attrazione molto forte per le masse lavoratrici. Lo Stato sociale era lo strumento per evitare la rivoluzione tout court. Oggi la situazione è cambiata per molte ragioni: i parametri di Maastricht hanno indotto una situazione in cui il precariato è un’alternativa di gran lunga preferibile al padronato. Lo Stato sociale, di fronte al dilagare del precariato, sembra un fossile. Lo Stato sociale, così come lo Statuto dei lavoratori, sono considerati affari d’altri tempi. Il potere contrattuale dei sindacati è ridotto perché non hanno alcuna sponda politica e lo stesso dicastero che si dovrebbe occupare di simili questioni è impotente.

Come si può ristabilire una sana conflittualità sociale, se sul suolo nazionale i partiti si amalgamano in un partito unico, e se sempre di più ci si riferisce a direttive extranazionali impossibili da contestare.

Non è facile rispondere. Io credo che una delle grandi difficoltà delle organizzazioni sindacali sia di avere un interlocutore solo apparente sul territorio nazionale, e un interlocutore vero e decisivo in una dimensione in cui nessuna trattativa è davvero possibile. Dal punto di vista della ripresa di una sana conflittualità sociale, la situazione è fra le peggiori. E credo che questo possa avere conseguenze profonde e di lunga durata: un ribellismo inconsulto, mera manifestazione di disperazione, e cinismo e repressione come risposta. Si dovrebbero mobilitare le energie di un profondo ripensamento degli ordinamenti europei. Lo stesso Draghi più volte ha lasciato intendere che, durando lui al governo, si porrà la condizione di rifondare l’Unione europea. Lo prendo sulla parola: chissà se ne avrà le risorse. D’altra parte il nuovo governo tedesco ha nella sua maggioranza una forza, i liberali, che spingono per proseguire sulla linea del rigore. Nella partita del rinnovamento così aperta le forze sociali organizzate, se ancora ce ne sono, devono far sentire la propria voce.

Le chiedo provocatoriamente: lei auspica un’uscita dell’Italia dell’Europa?

No! Io auspico una trasformazione radicale dell’Unione europea, la quale è nata male, tutta centrata sulla moneta unica e conservando la sudditanza dell’Unione alla Nato e agli Usa. L’Europa ha una forza economica notevolissima e un drammatico nanismo dal punto di vista politico e militare. Questa Unione europea, che unione non è, deve trasformarsi profondamente al proprio interno, magari partendo dall’abolizione dei pesanti debiti dei Paesi membri, come richiesto da David Sassoli. Se l’Unione europea vuole contare, deve divincolarsi da questa sudditanza rispetto agli Stati Uniti, per cui magari un domani ci ritroviamo a far la guerra alla Russia.

Come vede il ruolo dell’Europa nella crisi innescata dall’attacco russo all’Ucraina? Come si sta comportando e come dovrebbe operare, a suo avviso, per sottrarsi alla storica subordinazione rispetto a Usa e Nato?

Nessuno di noi conosce le segrete cose e nessuno può pretendere di fornire ricette definitive. E di tutta evidenza che le sanzioni fanno più male all’Europa che le infligge che non alla Russia, che eventualmente le subisce. Chi rimane totalmente indenne dalle sanzioni sono gli Stati Uniti d’America. L’attualità conferma la diagnosi di sudditanza dell’Europa, priva di una propria linea politica chiara e autonoma. L’Europa: un grande continente pieno di cultura, di risorse, di intelligenza, ma totalmente eteronomo, cioè tutt’altro che autonomo. Difficile rispondere alla domanda su come altrimenti dovrebbe comportarsi: le automobili non si riparano in corsa, ma da ferme; e ora la corsa è frenetica e si assiste solo a un “si salvi chi può”. Per tutelare l’Europa, sarebbe bene che la Germania mettesse in funzione il gasdotto, cosiddetto North Stream 2: un gasdotto che è stato costruito come alternativa a quello che attraversa l’Ucraina e che proprio ora ritroverebbe il proprio senso. Abbiamo voluto badare ai nostri interessi ai danni dell’Ucraina e ora fingiamo di piangerne le sorti e, per di più, blocchiamo quel gasdotto a danno di noi stessi. È una politica delirante.

 

 

#CasaLaterza: Livio Sansone dialoga con Guido Barbujani

Cesare Lombroso è stato senza dubbio uno degli intellettuali italiani che hanno esercitato maggiore influenza sulle politiche sociali in tutto il mondo. A che cosa fu dovuta la fortuna delle sue idee, e che impatto ebbero fuori dai confini italiani?

Livio Sansone ne ha parlato per Casa Laterza a partire dal suo libro La galassia Lombroso, in dialogo con Guido Barbujani, genetista e scrittore.

 

Mystery Train: appuntamento a Roma

Un nuovo appuntamento per una lezione di storia in musica e un viaggio nell’immaginario americano, insieme ad Alessandro Portelli, Gabriele Amalfitano, Margherita Laterza e Matteo Portelli.

Questa volta il nostro Mystery train fa tappa a Roma, al Teatro Vascello, martedì 31 maggio alle 21.00.

Per prenotazioni e informazioni:

promozioneteatrovascello@gmail.com | 06 5881021 – 06 5898031 | www.teatrovascello.it | Acquisto biglietti online

 

Cos’ha significato il treno per un paese come l’America? La modernità è penetrata in un mondo rurale attraverso i binari, cambiando per sempre il paesaggio naturale come quello antropologico. Da oggettivazione del moderno e dell’accelerazione che lo contraddistingueva, la ferrovia è oggi diventata rottame, residuo, reperto di un mondo scomparso. Mystery Train. Un viaggio nell’immaginario americano ripercorre il rapporto dell’America con il treno, tra racconti, poesie e canzoni.

Un’attrice, Margherita Laterza, due musicisti, Matteo Portelli e Gabriele Amalfitano, e un americanista, Alessandro Portelli, mettono in scena questa originale e particolarissima Lezione di Storia, convocando, tra gli altri, Hawthorne e Dickinson, Woody Guthrie e Bruce Springsteen, Elvis Presley e Johnny Cash.

Qui un trailer:

 

 

Francesco Rutelli racconta “Roma, camminando”

Esplorare Roma camminando, per conoscerla sul serio. Scopriremo così la città che non illude, né delude mai. Allora partiamo da dove tutto è cominciato. Dal Tevere. E iniziamo a camminare. Ecco che quegli stessi luoghi che percorriamo distrattamente ci mostreranno un volto diverso e nuovo.

Ad accompagnarci una guida speciale con cui risaliremo 28 secoli attraverso 18 itinerari sorprendenti.

Francesco Rutelli racconta il suo ultimo libro, Roma, camminando.

 

Il libro: