Raffaele La Capria (1922-2022)

3 ottobre 1922 – 26 giugno 2022

– La mattina faccio pensieri lievi.
– Lievi?
– Sì, come quelli di cui parla Rousseau quando descrive il suo fantasticatore disteso sul fondo di una barca a guardare le nuvole che passano.
– E poi?
– E poi passa il tempo e la mia età mi cade addosso. Sai, novantacinque anni non sono pochi.
– Certo, ma ho come l’impressione che tu abbia fatto un patto con il Tempo.
– Io aspetto la morte con naturalezza.

Ricordiamo Raffaele La Capria con un passo dal libro intervista Di terra e mare, curato da Silvio Perrella.

Costanza Rizzacasa D’Orsogna racconta “Scorrettissimi”

Mark Twain, Harper Lee, Patricia Highsmith. Cancelliamoli tutti. Cancelliamo Philip Roth, intollerabilmente misogino. E quanto era razzista Flannery O’Connor? Ma dovrebbe importarci?

Dobbiamo giudicare i capolavori della letteratura del passato alla luce delle sensibilità odierne? Dovremmo forse smettere di leggere Faulkner per non essere riuscito a fare i conti con il razzismo sistemico se cento anni dopo l’America stessa non riesce ancora a farli? E d’altronde, possiamo chiedere ai diritti di aspettare in nome di una presunta sacralità della letteratura? Cosa sta accadendo e come siamo arrivati qui?

Con Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Costanza Rizzacasa d’Orsogna ci porta al cuore del dibattito sulla cancel culture che infuria nella società non solo americana ma ormai anche europea.

 

Alessandra Minello racconta “Non è un Paese per madri”

Perché diventare ed essere madri in Italia è così difficile?

Nel nostro paese nascono sempre meno bambini, aumentano le donne senza figli, chi diventa madre lo fa sempre più tardi. Per rispondere bisogna affrontare sia gli aspetti culturali sia quelli strutturali che pesano sulle spalle delle italiane e degli italiani.

Non è un paese per madri di Alessandra Minello è un saggio informatissimo e ricco di dati, pieno di idee e proposte per superare la crisi demografica e per immaginare una società in cui vita professionale e vita privata siano in armonia.

 

Paolo Ferri racconta “Il lato oscuro del Sole”

In che modo l’esplorazione spaziale sta rivoluzionando quello che sappiamo sul Sole?

Dopo oltre trent’anni passati a seguire il controllo missione di alcune delle più importanti imprese scientifiche per conoscere la nostra stella, il fisico teorico Paolo Ferri racconta la sua esperienza e la storia dell’esplorazione solare in Il lato oscuro del Sole.

 

Paolo Morando racconta “L’ergastolano”

Cinquant’anni fa, vicino a Gorizia esplodeva un’auto uccidendo tre carabinieri. Il colpevole di quella che fu chiamata la ‘strage di Peteano’ è Vincenzo Vinciguerra, unico reo confesso di tutta la strategia della tensione, condannato all’ergastolo.

Ma è veramente tutto chiarito o esistono ancora delle verità nascoste che meritano di essere raccontate? Con un racconto incalzante e un’intervista inedita a Vinciguerra, in L’ergastolano. la strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra, il giornalista Paolo Morando ha ripercorso la storia di uno dei più incredibili depistaggi della strategia della tensione.

 

Stefano Ardito racconta “Monte Bianco”

È uno dei monumenti naturali più belli d’Italia e del mondo. È il simbolo dell’alpinismo, che inizia ufficialmente nel 1786 con la prima ascensione ai 4810 metri della sua vetta. È un crocevia della nostra storia, perché ai suoi piedi sono passati soldati, mercanti e pellegrini, e i suoi ghiacciai e le sue rocce hanno affascinato viaggiatori, artisti e scienziati.

Con il suo ultimo libro Stefano Ardito racconta il Monte Bianco, il massiccio più alto d’Europa.

 

Quando la “gente” invase lo schermo

Trent’anni fa, a i tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni haters. Ma quello, a differenza di guanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo

Giandomenico Crapis | l’Espresso | 15 maggio 2022

La storica Simona Colarizi nel saggio Passatopresente, uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo. Certo, la tv fu la protagonista principale di Tangentopoli, non solo documentandone gli sviluppi quotidiani ma costruendo sulle inchieste, proprio in virtù di questo fatto, una saga avvincente. Se a partecipare a questo racconto fu l’intero sistema dei media, la parte del leone però se la ritagliò il piccolo schermo. E con esso alcuni programmi come quelli condotti da Michele Santoro, Gianfranco Funari, Gad Lerner, che da qualche anno avevano inventato la gente, un soggetto sociale inedito. Proprio Santoro ne aveva certificato l’esistenza pochi giorni prima del fatidico 17 febbraio del ‘92, quando il «mariuolo» Mario Chiesa veniva preso con le mani nel sacco. L’aveva fatto allestendo una puntata di “Samarcanda” sul «partito che non c’è» dando spazio all’indignazione del «partito invisibile», quello, spiegava, della gente arrabbiata «nei confronti dei partiti che ci sono». La stessa indignazione e la medesima gente che un mese e mezzo dopo da Palermo gridava ai microfoni del conduttore che la morte di Salvo Lima non era come quella di Piersanti Mattarella.

Da un versante meno politicamente segnato un altro conduttore, Gianfranco Funari, riservava ai politici ospitati un trattamento ruvido e diretto: del resto per lui il talk show era «chiamare gente comune, dargli un tema e farglielo svolgere indipendentemente dal linguaggio che usa». Man mano che il verminaio di Tangentopoli veniva scoperchiato “Conto alla rovescia” cresceva negli ascolti, mentre lui incitava apertamente i magistrati e Antonio Di Pietro ad andare avanti. Più forbito ma non meno spigoloso appariva Gad Lerner, che nel ‘92 aveva cominciato a rovistare nel malessere filoleghista, e un poco razzista, del “profondo Nord”, diventando presto anch’egli con “Milano Italia”, un approfondimento quotidiano dedicato alle vicende di Mani Pulite di cui ci offriva sera per sera un’immagine aggiornata, uno degli alfieri di coloro che mettevano alla sbarra tutta una classe politica.

La verità era che la tv da qualche anno aveva assunto una nuova collocazione dentro la società e rispetto alla politica. Vanno di svolta era stato il 1987 con “Linea Rovente”, trasmissione condotta da Giuliano Ferrara che nei panni di un pubblico ministero imbastiva un processo su fatti che coinvolgevano politici o altri personaggi, sollecitando alla fine (tramite il telefono) il verdetto degli spettatori, primo nucleo costituivo di quella che poi sarebbe diventata la “gente”. Gli si sarebbe affiancato l’anno dopo Michele Santoro con “Samarcanda”, sguardo puntato su mafia e Sud trattati con reportage “forti”, e lo studio aperto alle piazze. Anche lo spettacolo del sabato sera nel 1987 sperimentava un’edizione di “Fantastico” «impegnata» condotta da Adriano Celentano, che proprio alla “gente” si rivolgeva con i suoi provocatori sermoni. Sia Ferrara sia Santoro andavano in onda nella neonata Raitre di Angelo Guglielmi dove il cambiamento si realizzava anche grazie ad altre trasmissioni, alcune delle quali in auge ancora oggi (“Telefono Giallo”, “Chi l’ha visto”, “Un giorno in pretura”). Poiché la filosofia del neodirettore era quella di «raccontare la realtà con la realtà», il racconto del reale divenne la mission della rete: fu così che il genere “informazione” si ritagliò una fetta centrale nel palinsesto della Rai, conquistandosi la prima serata con una visibilità prima appannaggio solo di qualche fuoriclasse come Enzo Biagi o Sergio Zavoli. Di questa tv della realtà l’uomo di punta, il conduttore più celebrato e contestato, divenne ben presto il salernitano Santoro: «Il numero uno, ma quanto antipatico», avrebbe scritto alla fine del 1991 Beniamino Placido. Santoro, come Ferrara, aveva puntato su un modello eterodosso di giornalismo, ma a differenza di quest’ultimo non solo riempiva il piccolo schermo di contenuti poco frequentati come il Sud e la mafia, ma apriva lo studio alla piazza, garantendo a casalinghe, operai, disoccupati, studenti l’interlocuzione con i politici e gli ospiti che sedevano dietro la telecamera.

La “tv militante”, chiamiamola così, di cui la “gente” fu l’indubbio prodotto, impresse una formidabile torsione alla “neotelevisione”. Con Santoro essa s’imponeva definitivamente (dopo “Samarcanda”, “Il Rosso e il Nero”, “Tempo Reale”) e se con Funari il modello era quello del bar sport (“Aboccaperta”, “Mezzogiorno italiano”), con Lerner assumeva quello neoassembleare e sessantottino, con i programmi allestiti in teatro dando la parola al pubblico in sala (“Profondo Nord” e “Milano, Italia”). Da questa tv veniva fuori un racconto dell’Italia dall’impianto drammaturgico e conflittuale, con messe in scena collettive in cui l’esuberanza della parola la faceva da padrona, dando un taglio netto alle nobili tradizioni giornalistiche dell’inchiesta o del documentario. Insomma una tv che scompaginava l’arena del discorso pubblico e un modello che se da una parte dava voce a saperi quotidiani prima esclusi dalla scena, dall’altra, esposto alla forte prevalenza del contenuto sulla forma, dominato dal conflitto e dalla drammatizzazione, correva il rischio di degenerare, specie in assenza di professionisti all’altezza. Ma soprattutto è con il talk impegnato e la comparsa dei nuovi conduttori (ma sono da ricordare anche Maurizio Costanzo e Piero Chiambretti) che il video diventava insieme bussola e termometro del Paese. Inoltre ribaltava i rapporti con la società e soprattutto con la politica animando passioni e conflitti, tematizzando questioni, creando eventi, come accadde con la staffetta antimafia tra “Samarcanda” e il “Costanzo show” del 26 settembre ‘91. Fu questo forse, con i suoi otto milioni e più di spettatori e la sua altissima carica emotiva, il punto più alto (oggi del tutto dimenticato, anche nelle ricostruzioni storiche) di un inedito sommovimento civile, il momento clou di una stagione che sembrò prima di impantanarsi in un teatrino inconcludente, ricaricare di forze vitali il dipolo società-politica.

Il mito della “società civile” contrapposta a quella “politica” (il vecchio “Paese reale” vs “Paese legale”), nasceva anche da queste trasmissioni che davano voce, e speranza, a tante persone fino ad allora rimaste in silenzio, schiacciate da ‘ndranghete e mafie, dal pizzo e dalle estorsioni. Era la società civile dei commercianti di Capo d’Orlando, degli otto milioni di spettatori della staffetta antimafia in memoria di Libero Grassi, dei tanti, militanti o senza tessera, ani- mati dalla voglia di cambiare una politica ingessata o peggio corrotta. Prima di diventare un mito autoassolutorio, come giustamente scrive Colarizi, la società civile celebrata dalla tv di quegli anni emergeva da un inferno di malaffare e sopraffazione, dal senso di soffocamento, prodotto da partiti immobili e dal giogo della mafia, su un’ampia fetta di italiani. La tv con e le sue battaglie e le sue denunce era diventata un riferimento, più che i partiti, i sindacati, la Chiesa. È bene non dimenticarlo.

L’impatto di questa “tv militante” che prendeva di mira mafia, politica, corruzione con ascolti stellari fu potente, tanto che proprio in televisione, più che altrove, finì col celebrarsi la morte della prima Repubblica. Il decesso lo certificava sempre RaiTre con “Un giorno in pretura”, mandando in onda nel corso del ‘93 i processi che vedevano imputata la classe di governo, infliggendole davanti a milioni di persone un “rituale di degradazione” impensabile solo qualche anno prima.

Il mutamento inauguratosi nel ‘87 però si esauriva presto. Nel gennaio del 1996 la nascita del “Porta a Porta” di Bruno Vespa tra lustrini e paillettes ne sanciva il tramonto, ma la carica dirompente c’era stata, eccome, e aveva cambiato tutto: sfera pubblica, partiti, politica, la stessa televisione. Perché era indubbio che la tv con le sue piazze e i suoi teatri aveva allargato i contorni ristretti ed elitari della sfera pubblica, che i partiti e la politica ne uscivano stravolti, cercando salvezza nella scorciatoia di leadership personali invece che nel reinsediamento sociale. La medesima tv ne usciva deformata, fuori margine, con una funzione ipertrofica e con qualche rischio in agguato. Ma davvero gli haters dei social sono i nipotini di quella tv? Non scherziamo: nella tv fiammeggiante dei Santoro, dei Ferrara, dei Lerner l’indignazione aveva una matrice collettiva, non priva di passioni altruiste, era il prodotto di un sistema che si mostrava immutabile, corrotto, a volte colluso con le mafie. La rabbia degli odiatori di oggi, invece, è frutto dell’individualismo esasperato dei social, non ha altre passioni che il narcisismo patologico, in un contesto storico privo di riferimenti che non siano l’attenzione per il sé. Se in quella c’era ancora un briciolo di comunità in questa c’è solipsismo malato.

Il punto piuttosto è che di quella televisione non è rimasto nulla. Non i conduttori di un tempo né gli ascolti, non un programma che detti come allora l’agenda, faccia le prime pagine dei giornali. La tv politica di oggi ha finito sovente per accentuare le componenti emotive, teatrali e buffonesche della rappresentazione mediatica. Se quella tv fu capace di portare in video un dramma autentico e di esercitare un reale contropotere, oggi siamo di fronte, tranne qualche eccezione, a una commedia delle parti dai tratti a volte farseschi o fake, le piazze finte, le parole vuote. Insomma se quella tv allargava la sfera pubblica del Paese arricchendola, questa la immiserisce, la banalizza infine la restringe.

La tirannide dell’io

Fin dall’antichità gli storici hanno scritto in terza persona. Oggi invece è nato un nuovo genere storiografico che lascia spazio alla soggettività dell’autore.
Gli storici raccontano la loro indagine e mettono in scena le emozioni che essa suscita in loro. Incontrano così i romanzieri che, sempre più attratti dal reale, costruiscono le loro narrazioni come inchieste basate su ricerche d’archivio (basti pensare ad autori come W.G. Sebald, Emmanuel Carrère, Javier Cercas o Daniel Mendelsohn).

Si può considerare questa nuova storiografia un’espressione dell’età neoliberale?

Ne abbiamo parlato sulla pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza a partire da La tirannide dell’io. Scrivere il passato in terza persona, il nuovo libro di Enzo Traverso. A discuterne con l’autore Carlotta Sorba e Alberto Mario Banti, introdotti e moderati dal nostro editor Giovanni Carletti.

 

Certificato sacrificale per tutti i cittadini

Un ambito plurale e assai variegato: tempi, luoghi, situazioni. Dai riti domestici ai (sospetti) culti orientali, al Cristianesimo…

Carlo Franco | Alias | 15 maggio 2022

Pare che tempo fa qualche diocesi cattolica abbia deciso di invalidare un certo numero di battesimi, perché impartiti senza seguire una certa formula canonica. Stupisce che la notizia abbia stupito. Qualunque individuo del mondo antico avrebbe trovato il fatto del tutto naturale e spiegabile: nei riti sacri, solo un’esecuzione scrupolosa dei gesti e la pronuncia esatta delle parole previste garantisce l’efficacia (vale anche per i giuramenti!). Benché vari riti delle moderne chiese riguardino il valore «performativo» delle parole, molto della antiquorum sapientia pare davvero perduto. Di qui l’utilità di ripensare il mondo religioso del passato: nella consapevolezza che un ambito così «plurale», marcato da varietà grande di tempi, luoghi e situazioni, va affrontato con cauta attenzione. Serve anche liberarsi dai pre-giudizi che, stante il moderno «orizzonte monoteistico», interferiscono con la comprensione dei modi in cui l’interazione fra uomini e entità soprannaturali» fu pensata e realizzata dagli antichi.

Tale appunto è la prospettiva scelta da Federico Santangelo in La religione dei Romani. Il taglio è felicemente selettivo e la scrittura apprezzabilmente chiara. Il libro non contiene una trattazione sistematica (sarebbe poi possibile?), ma precise messe a fuoco, con una scelta di problemi studiati a partire da documenti significativi: e si parla così di religione e potere, pluralità di culti, importanza dei luoghi, e altri aspetti. Alla base, mette conto sottolinearlo, è l’idea che la religione dei Romani, dai primordi repubblicani all’impero, non vada trattata con sufficienza, per esempio come cinico instrumentum regni, ma presa sul serio. Certo, nel mondo romano «fare è credere», secondo l’idea di John Scheid, ma non tutto si esauriva in ritualismo, invariabilmente descritto dai moderni come «vuoto». Per capirne le forme, un’iscrizione, un’immagine o un oggetto, possono valere più di una pagina pensosa dal de natura deorum di Cicerone, teorica e sempre a rischio di sovrainterpretazione.

I testi letterari si interessavano per lo più agli «eventi esteriori della comunità politica», più che alle prassi degli individui (e degli schiavi), delle quali resta infatti traccia inadeguata. Celebri pagine di autori antichi trattano con saputo scetticismo pratiche assai diffuse, come l’aruspicina: leggendo questo libro s’impara a distinguere con nettezza la religiosità dei più dalle visioni degli intellettuali. Il che tanto più giova, alle prese con un’esperienza del sacro aperta a pluralità di culti, fondata su «una conoscenza costruita collettivamente e largamente distribuita», e non uniformata dall’autorità di una rivelazione. Sicché, pur nella centrale opposizione tra religio e superstitio (che viene qui definita come una devozione «mal indirizzata»), nella realtà i due ambiti non erano sempre distinti. Se fossero sopravvissute le Antichità divine di Varrone, forse si capirebbe meglio. La perdita di quest’opera eruditissima ha certo complicato le cose, e lasciato troppi aspetti nell’incertezza, sicché per molti punti si dipende ora da reperti poco più che casuali.

Per il culto dionisiaco (sottoposto a controllo in età repubblicana) si deve molto a una celebre iscrizione, che conserva la decisione del senato de Bacchanalibus nel 186 a.C., e integra il racconto di Tito Livio. E dunque, per riti, ex-voto, pratiche divinatorie, si vede che la descrizione puramente antiquaria non basta: si deve penetrare dentro forme differenti, e per noi remote, di un «impegno reciproco» stretto tra uomini e dèi. Era però un patto diseguale. Gli dèi erano del tutto svincolati «da considerazioni etiche», da favore o ostilità verso i devoti, perciò non imponevano «il rispetto di codici di condotta personale o collettiva». Inviavano segni, che gli umani avevano il dovere di cogliere e interpretare con attenzione: di qui il valore delle forme di divinazione, volte ora a prevedere il futuro, ora a superare una criticità da espiare, ora appunto a conoscere l’atteggiamento degli dèi. E anche qui, il peso di tali pratiche nei contesti pubblici e controllati era molto diverso rispetto all’ambito privato: ecco perché i moti repressivi (neppure gli imperatori gradivano la circolazione di profezie sudi sé), e lo statuto ambiguo di pratiche magiche, sospette perché ritenute capaci di scardinare l’«ordine» sociale costituito.

Altro tema è costituito dall’orizzonte «largo» del politeismo: il numero delle divinità ritenute efficaci poteva estendersi senza scosse. Ciò permise tra l’altro la diffusione dei cosiddetti culti orientali, così interessanti per i moderni: Iside, per esempio, o Mitra, o alla costola del giudaismo evoluta poi nel cristianesimo. Il successo di tali riti poté in parte dipendere dal loro essere «elettivi», cioè «praticati nell’ambito di gruppi a cui si aderisce su base (…) volontaria», quindi diversi dai culti tradizionali praticati in pubblico dagli appartenenti alla comunità civica. Gli sviluppi successivi presentano un’ulteriore difficoltà: quella di evitare la teleologia del passaggio lineare e «inevitabile» verso le forme note. Né solo perché nel cosiddetto monoteismo v’erano evidenti sopravvivenze dei culti non cristiani, ma anche perché la storia religiosa dell’età imperiale appare più come un «dialogo tra due alternative». Dialogo certo aspro, con note durezze, in tempi diversi, da entrambe le parti. La strada del cristianesimo fu al principio incerta, e marcata dalle dolorose fratture interne delle cosiddette eresie. Vi fu un furore di dibattito teologico durato per secoli, che oggi appare lontanissimo e poco comprensibile: basterebbe fare il test del filioque a molte persone pie per accorgersene.

Più interessanti appaiono di fatto le complicate mediazioni politiche che l’imporsi del cristianesimo comportò. L’impero doveva avere un perno religioso, e ne cambiò la forma. Quindi, dall’interventismo di Costantino si arrivò, dopo la fine del mondo antico, verso il potere temporale, e dagli sviluppi bizantini si arrivò al cesaropapismo, così presente oggi nel cristianesimo ortodosso. Insospettate e frequenti, in effetti, sono le sollecitazioni che questo utile libro pone per riscontri con il tempo presente: anche la questione dei libelli che un editto dell’imperatore Decio impose nel 239, in età ormai di diffusione del cristianesimo: un certificato che provasse «la corretta celebrazione di un sacrificio», ossia che ogni cittadino romano attestasse di aver «sempre celebrato sacrifici conformemente alla tradizione». Il tutto potrebbe richiamare recenti esperienze: si ignora però quale colore fosse associato a questi passaporti sacrificali.

Fabio Ciconte racconta “Chi possiede i frutti della terra”

Mangiamo poche specie vegetali e pochissime varietà, tutte uguali le une alle altre. Esteticamente perfette.

È un fatto naturale? Assolutamente no. È un fatto neutro e senza conseguenze? Assolutamente no. Il kiwi giallo o l’uva senza semi che hanno invaso i mercati sono gestiti da potenti club che oggi decidono chi e come può coltivare frutta sotto brevetto.

Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra, ha indagato sulle nuove forme di controllo del cibo e sui rischi per la biodiversità e gli ecosistemi in Chi possiede i frutti della terra.