Ugo Dinello racconta “La via delle armi”

Cinquant’anni e più ci separano dagli anni di piombo, che hanno lasciato una tragica sequenza di massacri.

Piazza Fontana, piazza della Loggia, la questura di Milano, per arrivare al meno ricordato di questi eventi: nel piccolo paese isontino di Peteano il 31 maggio 1972 una bomba camuffata in una 500 rubata esplose uccidendo tre carabinieri.

Cinquant’anni sono passati ma fin qui non è stato evidenziato il fatto che tutte queste vicende hanno un elemento in comune: esplosivo e carnefici provenienti dalle stesse zone del Paese, quell’area del Nord-Est in cui nel secondo dopoguerra si sono innervate le trame oscure di Gladio. In quelle stesse zone per vent’anni qualcuno (probabilmente più di uno) ha colpito cittadini indifesi, donne e bambini inclusi, lasciando nei luoghi più comuni micidiali dispositivi pronti a esplodere.

Come mai gli autori di questi delitti non sono stati mai intercettati? Chi li ha formati e coperti?

Ugo Dinello mette insieme tasselli di un mosaico complesso, collegando protagonisti e fatti degli anni più cupi della Repubblica ne La via delle armi.

 

 

Alessandro Marzo Magno racconta “Venezia”

L’alfa e l’omega della parabola veneziana si vedono a Torcello: qua una lapide del 639, la più antica testimonianza scritta dell’esistenza di Venezia; là i banchetti acchiappaturisti di souvenir made in China. In mezzo, quasi mille e quattrocento anni: alcuni gloriosi e potenti, altri ricchissimi e splendenti, altri ancora declinanti e incerti.

Con il piglio del cronista e con il rigore dello storico, Alessandro Marzo Magno ci accompagna in un’avvincente passeggiata lungo i secoli per ricostruire la storia che ha portato alcune isolette della laguna adriatica a dominare per secoli mezzo Mediterraneo, e non solo.

 

 

La censura è stata la culla della modernità

Un libro dello storico Giorgio Caravale ripercorre la storia delle politiche di limitazione della libertà d’espressione, smontando i luoghi comuni. Il nostro mondo è il prodotto di filtraggio e sintesi all’interno di una dialettica aspra.

Raffaele Alberto Ventura | Domani | 18 marzo 2022

Siamo abituati a considerare la censura come un fenomeno condannabile e retrogrado, caratteristico di regimi autoritari come Russia o Cina. La “cancel culture” degli americani ci appare come la sua forma più blanda, un retaggio arcaico inspiegabilmente sopravvissuto al vento del progresso. Questa nostra diffidenza è figlia della cultura illuminista e liberale, forgiata nella lotta contro le istituzioni tradizionali, stato chiesa famiglia.

La censura, nel nostro immaginario, coincide con il Super-Io freudiano che viene a bastonare la vitalità e la creatività.

Eppure siamo pronti a concedere che sia talvolta opportuno sanzionare la disinformazione, la diffamazione, il bullismo, l’odio, fenomeni amplificati dalla tecnologia: un tempo era la stampa, oggi la rete. Con la modernità nasce la censura, ma forse vale anche il contrario: e se invece fosse dalla censura che nasce la modernità?

LE VIRTÙ DELLA CENSURA Prendiamo l’esempio dell’Inghilterra del Cinquecento, nella quale fiorivano gli spettacoli popolari a tema biblico, dalla storia di Adamo ed Eva alla passione di Cristo.

Una tradizione, quella del mistery play, brutalmente annientata da una serie di misure di censura. In un contesto di crescenti tensioni religiose, di tafferugli e violenze a margine delle rappresentazioni, come tre attori bruciati vivi a Salisbury nel 1541, i poteri pubblici iniziarono a intervenire per limitare la libertà: per andare in scena bisognava far verificare il testo alle autorità, ci voleva il nome di un autore da perseguire, bisognava rispettare certi luoghi e certi tempi, professionalizzarsi, e soprattutto venne proibito di affrontare temi caldi legati alla fede.

Insomma in pochi anni tra il 1543 e il 1576 la censura impose lo sviluppo del testo scritto, la definizione della figura dell’autore, la professionalizzazione degli attori, la costruzione di teatri e l’approdo a temi storici, politici, comici.

Così hanno iniziato a spuntare nuove forme teatrali, che ancora oggi leggiamo e mettiamo in scena perché la messa per iscritto, imposta dal legislatore, ha permesso di tramandarle: storie di vendetta e di potere, d’amore e di gelosia.

Tempo pochi anni e nel 1592 andò in scena il Riccardo III, capolavoro che viene rappresentato quotidianamente ancora oggi. In breve, la censura aveva creato Shakespeare. E pazienza per Adamo ed Eva, no?

UN’EPIDEMIA DA CONTENERE Fenomeni simili sono accaduti in tutta Europa, perché tutta Europa era divisa sulle questioni religiose: nel 1517 Lutero aveva reso pubbliche le sue 95 tesi contro il papa, nel 1534 veniva ratificato lo scisma anglicano.

Con la diffusione della stampa, i diversi poteri si erano convinti che fosse necessario controllare la proliferazione e la circolazione dei libri, che portava con sé il seme della divisione. Le società dell’epoca, proprio come la nostra, erano fondate sulla condivisione di un immaginario comune, e comprensibilmente si temeva quel che sarebbe accaduto – e che infatti accadde – e si fosse frammentata quell’unità.

Bisogna resistere alla tentazione di leggere la storia della Riforma come una lotta tra progressisti e reazionari: spesso erano i protestanti i più fondamentalisti e sessuofobi, e taluni episodi che associamo alla Controriforma cattolica, come i celebri braghettoni aggiunti al Giudizio Universale di Michelangelo, non erano altro che misure predisposte per venire incontro alla nuova sensibilità.

Una fetta importante di questa vicenda la racconta lo storico Giorgio Caravale in Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna, appena uscito per Laterza, mostrando come la censura non fosse un banale interruttore che accende e spegne la vita culturale bensì una forza che la rimodula, la orienta, la filtra, al di là del bene e del male: un fenomeno storico a tutto tondo, nella sua complessità.

Un tentativo, fin dall’inizio, non soltanto di affrontare problemi politici e di ordine pubblico, ma anche di gestire il sovraccarico costituito dalla produzione intellettuale attraverso un’ambiziosa economia pianificata del sapere, che a sua volta produce delle strategie di aggiramento che trasformano in profondità le forme di espressione e i registri espressivi.

LA POLITICA CULTURALE DELLA CHIESA Da parte papista, il contenimento della pubblicistica protestante apparve come un’urgenza in tutta Europa dalla metà del Cinquecento.

Come se già non fosse abbastanza complesso arginare i borbottii ereticali disseminati da predicatori e fraticelli con i poveri mezzi del passaparola, l’invenzione di Gutenberg aveva spostato il problema su una scala epidemica.

A Parigi, Lovanio, Milano, Venezia si stilano elenchi di libri proibiti, come poi a Roma con il Sant’Uffizio e il proverbiale Indice (1558), s’istituiscono magistrature preposte al controllo delle pubblicazioni e si definiscono sanzioni per i contravventori.

Il fosco ritratto della macchina repressiva papista viene tuttavia temperato da Caravale con vari elementi: innanzitutto la chiesa è tutt’altro che monolitica, e le maree della censura rispecchiano il moto astrale dei poteri al suo interno, i contrasti tra il centro e la periferia, l’equilibrio tra spinte riformatrici e spinte conservative; secondariamente non è monolitico lo spettro dell’eresia da sanzionare, che va da minuscoli scarti terminologici alle più visionarie cosmogonie alternative, in pratica le “fake news” dell’epoca. Soprattutto emerge un conflitto permanente tra norma e prassi.

Lontano da ogni caricatura, Caravale mostra bene quanti margini di libertà lasciano in ogni tempo i dispositivi di repressione.

La massa di testi da controllare e perseguire era troppo grande e i mezzi semplicemente non bastavano. Più profondamente perché lo scopo della chiesa spesso non era di cancellare i testi, soprattutto quando presentavano un valore intrinseco come quelli di Boccaccio e Petrarca, bensì correggerli ed emendarli dai loro errori.

Il risultato concreto fu di operare un continuo aggiornamento per renderli leggibili di epoca e in epoca: una fondamentale opera di mediazione culturale.

NON SI POTEVA PIÙ DIRE NIENTE Non era solo la chiesa a censurare: come nel caso inglese, o come in Francia dove Francesco I istituisce il deposito legale di ogni libro presso la Biblioteca del re, la censura è il primo grande banco di prova del potere dello stato moderno, lo spazio nel quale inizia a costituirsi un nuovo tipo di giurisdizione, spesso in conflitto con quella papale.

Caravale mostra come il dibattito all’epoca non fosse tanto sull’opportunità o meno che vi fosse una qualche forma di censura sulla produzione intellettuale e libresca, quanto su chi dovesse effettivamente svolgerla e in che modo.

Perché i problemi dell’epoca non erano tanto diversi da quelli da cui sorge oggi il dibattito sul “politicamente corretto”. Anzi erano esattamente gli stessi: controllare le esternalità negative della libertà sessuale, temperare l’odio intercomunitario, arginare la diffusione di saperi non conformi.

Obiettivo primario delle politiche di censura non era tanto quello di reprimere le minoranze religiose quanto piuttosto di evacuare i conflitti. Gli editti di pacificazione francese, dal 1570 in avanti, non fanno altro che insistere sulla necessità di una censura trasversale per cancellare la memoria delle violenze reciproche.

Lo stato moderno nasce facendo nascere uno spazio nuovo, che prima non esisteva, e che oggi chiamiamo “spazio pubblico”. Uno spazio sociale ordinato, sottomesso a dispositivi giuridici e polizieschi, ovvero oggetto di privilegio, registrazione, controllo, amministrazione, protezione ed eventualmente sanzione.

Il risultato di queste politiche fu di dare corpo a nuove comunità, definite dall’influenza di specifici centri di coordinamento della produzione culturale, che diventeranno poi le comunità nazionali.

LA CENSURA NON È UN PRANZO DI GALA Ovviamente la censura non è un pranzo di gala. Essa appare, a ogni epoca, come una forza sostanzialmente conservativa, che rallenta il cambiamento. È ovvio che soltanto spingendo in là i limiti del dicibile sia possibile generare innovazione – nella scienza, nelle arti, nella politica – e smuovere i rapporti di potere. La censura inoltre ricorre in talune occasioni a strumenti di repressione violenta, raramente persino alla morte.

E Caravale insiste sulla dimensione elitista nel progetto di “proteggere” i meno istruiti dai danni della lettura.

Tuttavia Libri pericolosi ci ricorda che la nascita della modernità non è banalmente il risultato dell’esplosione di certe istanze spontanee di novità, bensì il prodotto di un filtraggio e di una sintesi, all’interno di una dialettica aspra. Ci mostra, insomma, come la censura ha plasmato il mondo in cui viviamo.

 

 

 

#CasaLaterza: Vincenzo Paglia dialoga con Massimo Recalcati

In questi primi venti anni del XXI secolo abbiamo assistito a tragedie che non pensavamo possibili. È facile essere pessimisti. Ci sono però altrettante ragioni per sperare in un futuro migliore: siamo tutti radicalmente fragili, ma è dalla consapevolezza di questa comune vulnerabilità che si possono rifondare le basi della convivenza tra gli uomini.

In diretta Facebook e YouTube, per Casa Laterza, abbiamo parlato del libro La forza della fragilità con l’autore Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia, e con Massimo Recalcati, psicoanalista e accademico, con la moderazione di Lia Di Trapani.

 

 

Il libro:

Gabriele Balbi racconta “L’ultima ideologia”

La rivoluzione digitale ci ha reso sempre connessi e in grado di comunicare istantaneamente con persone di tutto il mondo.

Ci ha regalato una quantità apparentemente infinita di informazioni e opportunità, ci ha dato l’illusione che vecchie barriere e gerarchie crollassero e che ‘magnifiche sorti e progressive’ fossero davanti a noi. Ma è proprio così? O si tratta di una vera e propria ideologia, con i suoi miti e i suoi profeti, quasi come fosse una religione?

Gabriele Balbi, storico e teorico dei media, ci interroga con queste e molte altre domande in L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale.

 

 

Il libro:

Gianluca Falanga racconta “Non si parla mai dei crimini del comunismo”

«Nessuno parla mai dei crimini del comunismo!»: sul serio?

Dagli eccidi perpetrati dai bolscevichi al massacro di Piazza Tienanmen a Pechino, i crimini dei regimi comunisti o sedicenti tali non sono mai stati sconosciuti, anche quando si è provato a tacerli o negarli; hanno accompagnato la storia del secolo scorso come un’ombra cupa e assillante, condizionandone il corso. Oggi, oltre 5000 monumenti, musei e memoriali sparsi per il mondo, istituti di ricerca, fondazioni, associazioni di ex prigionieri politici e una letteratura vastissima testimoniano che non esiste alcuna congiura del silenzio a oscurare le violenze commesse in nome della società senza classi.

Il problema, in verità, è più serio. Se è vero che in tutti gli Stati comunisti, dall’Urss alla Cina, dall’Angola al Vietnam, dall’Albania a Cuba, si sono riprodotti i caratteri di una violenza che ha la sua matrice nella qualità totalitaria del progetto leninista, dobbiamo capirne le specificità al di là di semplificazioni faziose e di sciocche equiparazioni.

Non si parla mai dei crimini del comunismo, di Gianluca Falanga, smentisce immaginari e luoghi comuni di quello che, nel bene e nel male, è stato il più vasto movimento politico del mondo contemporaneo.

Invece che allenarsi da runner qualunque, meglio fare come Filippide a Maratona

Andrea Marcolongo rivela perché (e come) ha lasciato la scrivania per la strada, “faticando” come i Greci. Una passione nata a Parigi, coltivata con un motivatone d’eccezione e il più antico manuale di sport.

Viola Ardone | Tuttolibri – La Stampa | 2 aprile 2022

Io, personalmente, corro solo se inseguita. Non così Andrea Marcolongo, la quale ci confessa che dopo anni di vita sedentaria dedita esclusivamente all’allenamento della materia grigia, ha deciso di intraprendere una cosa nuova. Un’impresa titanica, a dire il vero, paragonabile soltanto a quella di aprire per la prima volta a 14 anni il ponderoso vocabolario di greco. Tra quelle righe scritte fitte fitte nacque un tempo il suo amore per le lingue classiche. Tra le strade di Parigi – dove risiede ormai da alcuni anni – è nato invece il suo amore per la corsa. E tra le pagine di questo libro di sorprendente originalità può cominciare, forse, anche il nostro. Che siate eredi di Achille piè veloce o esseri mitologici metà uomo metà divano, non importa: questo è il libro per voi. Perché il nuovo lavoro di Marcolongo, De arte gymnastica, potrebbe chiamarsi anche «maratona per principianti», ovvero come passare dalla scrivania alla pianura di Atene con l’aiuto di Filostrato. E di Murakami, naturalmente.

In questa sorta di «autobiografia della corsa», la studiosa di lettere antiche ci parla di sé – ma in fondo di noi – raccontando come ogni giorno abbia sostenuto un corpo a corpo, è il caso di dire, con se stessa per compiere quel semplice movimento di lasciare la scrivania, chiudersi la porta di casa alle spalle e uscire in strada per correre perlomeno un chilometro. E poi un chilometro in più, e poi un altro e un altro ancora. E mentre l’asfalto diventava sempre più docile sotto le suole di gomma, mentre la corsasi trasformava da dovere in abitudine si facevano strada in lei due idee, due progetti ambiziosi e paralleli: scrivere un libro che parlasse della corsa e preparare la maratona di Atene. Che per alcuni versi sono la stessa cosa. Scrivere un libro significa imbarcarsi in un’impresa che affascina e impaurisce, un impegno costante a cui ogni giorno aggiungere qualcosa, senza avere mai la certezza di arrivare in fondo. Proprio come la maratona: 41,8 km di corsa tra la cittadina di Maratona e la mitica capitale della cultura greca. E lì nel 490 a.C. che il primo maratoneta della storia, Filippide (o Filippide, a seconda delle versioni) stramazzò al suolo dopo aver percorso quella distanza senza mai fermarsi al solo scopo di portare ai suoi concittadini la notizia dell’esito dello scontro tra ateniesi e persiani. Giunto in città gli restò il fiato per pronunciare solo una parola: nenìkamen, ovvero abbiamo vinto. Che è la stessa parola che viene in mente a me – e forse a tanti scrittori – quando riesco ad arrivare in fondo a una storia. Nenìkamen: ce l’ho fatta, ho tagliato il traguardo, non ho abbandonato la gara. Ed è questa la vera sfida di ogni iscritto alla maratona: non certamente vincerla, ma giungere quantomeno ad attraversare la linea del traguardo entro il tempo massimo.

Marcolongo ci invita a sollevare le nostre intorpidite membra dal divano, ci porta con sé con dolcezza, ironia e autoironia, coniugando in maniera godibilissima la storia, la cultura e le valenze profonde della corsa dal mondo antico a oggi. E in ogni pagina del libro che insieme a noi sta scrivendo, proprio sotto ai nostri occhi, passo dopo passo direi, fuor di metafora, tenta di rispondere alla nostra domanda che poi e anche la sua: perché. Perché si corre? La domanda che tutti i non corridori vorrebbero fare a tutti i corridori, come se fossero due squadre in cui è divisa fin dalla notte dei tempi l’umanità: quelli che corrono e quelli che no.

Le risposte poi sono tante: perché fa bene, innanzitutto, per tenersi in forma, certamente. Perché è bello sentirsi parte di un club il cui unico requisito di ammissione siano un paio ei scarpette da ginnastica e dei polpacci ben allenati. Ma c’è di più, naturalmente. Ce lo spiega Filostrato, che già nel II secolo d. C. dedica allo sport e alla corsa un aureo libello intitolato appunto Sulla ginnastica. Ce lo ribadisce Murakami nel suo intramontabile L’arte di correre. Ce lo sussurra Forrest Gump, runner per caso. Ce lo insegnano i bambini, per i quali la corsa è un’andatura naturale che spesso i genitori tendono a inibire (non correre, non sudare, non ti fare male… ! ).

La corsa è forse la prova che il tempo esiste, ma è un tempo, quello del runner, che non scorre come l’acqua nel letto di un fiume, senza che ce ne rendiamo conto. E un tempo che si scala, invece, come una montagna, un tempo che non sfugge di mano nel perenne tentativo di agguantarlo. Un tempo lento, che riusciamo a percepire secondo per secondo, passo dopo passo, lastra dopo lastra di una strada di cui non percepiamo la fine a perdita d’occhio. Il tempo insomma è una corsa che sembra non dover finire mai anche se siamo sicuri che entrambi (tempo e corsa) arriveranno, infine, al traguardo. Capire che cosa ci sia dentro il tempo è il nostro mestiere di umani. Alcuni l’hanno scoperto grazie alla sublime arte della corsa.

 

 

 

Foto Francesca Mantovani – © Gallimard

La contraddizione, finitezza dell’umano

Alessandro Zaccuri | Avvenire | 1 marzo 2022

Cominciamo con un verso di Dante, tanto per non perdere l’abitudine ora che i fuochi del centenario si sono spenti. Si tratta di un endecasillabo celebre, nel quale viene distillata la sapienza di intere biblioteche. Guido da Montefeltro è finito tra i dannati «per la contradizion che nol consente» (Inferno XXVII, 120), filosofeggia il diavolo che si è impossessato della sua anima facendo leva, appunto, sul principio di non contraddizione: nello specifico, non è dato di commettere un peccato in vista di un successivo pentimento, come aveva immaginato di fare Guido. Questa, intendiamoci, è la lettura corretta di un brano nel quale il diavolo, proclamandosi “loïco”, rende un ambiguo omaggio al dispositivo di pensiero sul quale si è fondata per secoli la cultura occidentale. L’espressione potrebbe però essere interpretata in un altro modo, e cioè prendendo alla lettera la questione dell’impedimento suscitato dalla contraddizione. Che cos’è, in definitiva, a non essere consentito? Cercare una risposta a questo interrogativo significa abbandonare la condizione di spettatore, capziosamente assunta dal diavolo dantesco, e lasciarsi coinvolgere dalla dinamica drammatica e feconda della contraddizione. Significa stare dentro la contraddizione o, meglio, accettare di avere La contraddizione dentro, come recita il titolo del saggio postumo di Franco Cassano che Laterza ha appena portato in libreria.

Anche qui, c’è di mezzo un anniversario, il primo della morte dello studioso il cui nome resta legato alle tesi contenute in un altro piccolo libro di un quarto di secolo fa, Il pensiero meridiano (1996). La genesi di quella pubblicazione è ripercorsa da Alessandro Laterza nella nota che fa da premessa a La contraddizione dentro, un testo che non va inteso né come «testamento spirituale» né come «ultima lezione». «È molto di più – avverte Laterza -: è il desiderio di Cassano che sente vicina la fine, di esprimere un’interpretazione “autentica” del proprio pensiero». Interpretazione, andrà aggiunto, la cui autenticità consiste proprio nel conservarsi mobile e duttile, non contraddittoria in sé ma aperta alle contraddizioni che la realtà può suscitare. Era questa la scommessa su cui si fondava già la proposta del Pensiero meridiano.

Nato ad Ancona il 3 dicembre 1943, Cassano si era formato a Bari, dove è morto il 23 febbraio dello scorso anno. Nell’Università del capoluogo pugliese aveva tenuto a lungo la cattedra di Sociologia dei processi culturali, partecipando attivamente a un processo di revisione critica del marxismo per il quale era stata coniata la formula, scherzosa ma non del tutto impropria, di école barisienne. A un certo punto, la realtà aveva superato la teoria. Anzi, l’aveva contraddetta. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la conseguente dissoluzione delle ideologie novecentesche, Cassano si era trovato nella condizione di dover elaborare un pensiero “dell’altra riva”, in virtù del quale il Sud rinunciasse alla competizione (persa in partenza) con il Nord per fare affidamento sulla propria natura “meridiana”. Non era un arretramento consolatorio, ma una fuga in avanti verso un futuro che ancora stenta a realizzarsi. Negli armi Novanta la ferita dell’Europa irrisolta si manifestava nei Balcani, in questi giorni la linea di faglia sta tra Russia e Ucraina. In fondo, ogni guerra non è altro che il rifiuto di sottostare alla contraddizione, è la pretesa di sollevarsi attraverso la violenza al di sopra della mischia in modo da imporre una volontà incontestabile. Non è casuale, dunque, che la mischia sia la prima delle categorie messe in campo in questa riflessione serrata e incalzante, dettata da un uomo che, nella consapevolezza della morte imminente, si sofferma a meditare sulle ragioni della vita, e più precisamente della vita in comune.

Stare nella mischia della contraddizione comporta, per Cassano, prendere coscienza della finitudine. Per dirlo con le sue parole, «è forse la forma di esperienza più acuta della propria insufficienza e precarietà». Questa percezione della trascendenza non comporta necessariamente un affidamento di tipo religioso e tra le righe di La contraddizione dentro non è difficile scorgere la schiettezza di una ricerca che, pur fortemente connotata in senso spirituale, non si traduce mai in fede. Nello stesso tempo, è proprio da questa tensione che sprigiona il fascino della testimonianza di Cassano, all’interno della quale gioca un ruolo non irrilevante la ricezione del pensiero teologico di Reinhold Niebuhr. Si ragiona di finitezza, ancora una volta, nella convinzione che, per quanto si sforzi di emanciparsi da limiti e costrizioni, «l’uomo non può diventare Dio» e che ogni impeto rivoluzionario di assalto al Cielo esige di essere bonificato da qualsiasi pretesa di «perfettismo» (di nuovo, il riferimento è a un teologo, Antonio Rosmini).

Più che come sinonimo di indecisione e indeterminatezza, la contraddizione è il volto di una complessità che non manca di esprimersi anche a livello internazionale. Le osservazioni di Cassano si rivelano lungimiranti anche in merito agli assetti dell’ex Unione Sovietica, ma non vanno costrette in un ambito esclusivamente politologico. Nel campo largo della contraddizione quel che più conta è semmai il riproporsi in termini inediti del «vecchio conflitto tra i valori della comunità, in cui la solidarietà tiene insieme i membri innalzando barriere contro chi è estraneo a essa, e quelli della società, in cui ogni legame è libero ed elettivo e dove ci si muove in uno spazio globale dominato dall’individualismo, dal successo e dall’edonismo». Non più due blocchi politici contrapposti, ma due visioni del mondo ciascuna delle quali in sé insufficiente e bisognosa di essere temperata dalla relazione con l’altra. Stando alla logica hegeliana, saremmo nel pieno della coscienza infelice, non fosse che Cassano è di diverso avviso. La coscienza, argomenta nei paragrafi conclusivi, è sempre in qualche misura infelice, perché scaturisce da «una condizione permanente di tensione». Se qualcosa la contraddizione non consente, è esattamente l’illusione di ignorare la contraddizione per accomodarsi in un altrove fantomatico, in una separatezza tanto più colpevole quanto più esente da responsabilità.

#CasaLaterza: Gianluca Falanga dialoga con Marcello Flores

Davvero non si parla mai dei crimini del comunismo? Davvero nessuno ha mai sentito parlare dei milioni di morti prodotti da questa ideologia?

Eppure sono stati scritti ‘libri neri’, fondati istituti di ricerca, istituiti musei ed eretti monumenti per ricordare queste vittime.

Allora, forse, si tratta di parlarne seriamente.

Gianluca Falanga, autore di Non si parla mai dei crimini del comunismo, ne ha discusso insieme a Marcello Flores, in diretta su Facebook e YouTube per Casa Laterza.

 

 

Il libro:

 

I vantaggi del progresso

Non solo tecnologia, ma anche creatività e passione civile: ecco una formula per il domani

Stefano Lepri | La Stampa | 16 marzo 2022

 

Quando si progetta un libro sul futuro, si rischia di restare indietro sugli eventi. Lo sa benissimo Salvatore Rossi, ora presidente di Tim (dopo una lunga carriera in Banca d’Italia fino a diventarne direttore generale), che nel suo lavoro cita infatti il film Metropolis di Fritz Lang, dove cent’anni fa si immaginava il mondo di oggi facendo volteggiare tra i grattacieli gli aerei biplani di allora.

Dati i limiti della fantasia umana, il tentativo di prevedere il domani può insomma soffrire di «presentismo» (50 anni fa, chi avrebbe previsto la scomparsa delle macchine da scrivere?), scrive nel suo Indagine sul futuro appena pubblicato da Laterza. In questa chiave ironica Rossi apre con un breve racconto di fantascienza, nutrito dai capolavori del genere, quelli di Isaac Asimov, H.G. Wells, Aldous Huxley.

La scelta è stata interrogare esperti che meglio potessero intravedere ciò che verrà: la studiosa di neuroscienze e senatrice a vita Elena Cattaneo, l’amministratore delegato di Google Cloud Thomas Kurian, Cristiana Fragola, direttrice di un’organizzazione internazionale che affronta il cambiamento del clima, il giornalista Ferruccio De Bortoli, l’architetto d’avanguardia Carlo Ratti, e una giovanissima ricercatrice informatica, Beatrice Polacchi.

Sembrava che una cesura nel corso della storia l’avesse portata la pandemia. Ora ce ne troviamo davanti una forse più profonda, creata dalla guerra in Ucraina. Dobbiamo già aggiornare la sua visione del futuro?

«Me lo sono chiesto, negli ultimi giorni, ma no, credo sia ancora giusto guardare lontano, seguendo tendenze che rimarranno in opera salvo che si precipiti in un conflitto mondiale: l’intelligenza artificiale, il cambiamento del clima, i social media fra trasmissione di notizie e trasmissione di emozioni, il ruolo dello Stato e quello del mercato. Mi conforta l’ottimismo di chi si occupa di scienza: i vantaggi del progresso sono talmente grandi da sormontare tutte le forze contrarie. Poi, certamente, mi cautelo con il raccontino di apertura, che è distopico e piuttosto pessimista».

Elena Cattaneo dice che per tenere insieme progressi delle tecnologie, creatività, attenzione alle persone e buon vivere, occorre una «passione civile della conoscenza».

«Passione che, nelle sue parole, spetta alle istituzioni democratiche promuovere e a noi cittadini coltivare».

Difficile, quando sulla rete troppi si accontentano di emozioni non ragionate e si rifiutano di approfondire come stanno davvero le cose. De Bortoli contro chi diffonde odio propone che, in caso di reati, la magistratura possa penetrare l’anonimato dei social network.

«Sì. Occorre fare grandi sforzi per diffondere la capacità critica. Ad esempio, mi pare giusto che alcune università prendano iniziative contro la povertà educativa, mandando i loro studenti e studentesse ad aiutare i bambini delle aree più disagiate. Un grande contributo lo può dare, sempre secondo Elena Cattaneo, la diffusione del metodo scientifico di avvicinarsi alla realtà, che insegna a separare i fatti verificati dalle opinioni, che impone di sottoporre sempre a giudizio critico le informazioni che si ricevono. Altrimenti prevalgono le paure contro il nuovo e contro il diverso, che tendono sempre a riemergere».

E inducono a disprezzare gli esperti, tra cui gli scienziati. Oppure a diffidare degli algoritmi, a temere il crescente ruolo dei robot.

«I macchinari, parlando in generale, ci hanno aiutato molto e molto ci aiuteranno, in modi che ancora non riusciamo a immaginare. Nel film Metropolis, che è del 1926, dalle fabbriche del futuro esce quasi tutto, ma per farle funzionare occorre il lavoro convulso di migliaia di operai davanti a quadri di controllo, impegnati ad azionare pesanti leve fino a sfinirsi. Sappiamo oggi che non è così. Le macchine possono imparare a guidarsi e a controllarsi da sole, senza bisogno di lavoratori-schiavi».

Thomas Kurian di Google le dice che molto manca ancora prima che i computer acquistino una vera creatività. Ma la paura ricorrente (ricorrente da due secoli, in forme diverse) è che le macchine sostituiscano gli uomini nei posti di lavoro.

«Il disastro può accadere se il guadagno di produttività ottenuto con le macchine resta tutto nelle mani di chi le possiede. Se viene distribuito, no. In passato hanno operato diversi meccanismi di riequilibrio, ma se ci trovassimo davanti a un fenomeno esteso e impetuoso di rimpiazzo del lavoro umano non basterebbero. Avremmo bisogno qui di un ruolo dello Stato maggiore di quello concesso dalle ideologie in voga dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi».

Salvo che in Italia, a leggere alcuni passi del suo libro. Lei scrive che da noi lo Stato ha sempre tagliato le unghie alle imprese. Certo le ingerenze della politica sono state enormi: ma proprio la storia dell’azienda da lei presieduta, Tim ex Telecom, snazionalizzata 25 anni fa, mostra che i privati — almeno quelli italiani — non hanno saputo cogliere un’occasione straordinaria.

«A me pare che lo Stato abbia continuato a immischiarsi. Guardiamo l’attualità: perché a Tim non dovrebbe essere concesso il vantaggio dell’integrazione tra la rete fissa, che abbiamo per lascito storico, con i servizi di telefonia mobile? A Deutsche Telekom in Germania e a Orange in Francia, ex monopolisti anche loro, è permesso. Nostri concorrenti che entrano nel fisso possono fare offerte combinate tra fisso e mobile, noi no. Io credo che l’intervento dello Stato sia necessario per attenuare le disuguaglianze sociali che il mercato inevitabilmente crea. Ma questo, in Italia, lo Stato non è riuscito a farlo».

Se per affrontare pandemia, pericoli di guerra e cambiamento del clima in tutto il mondo, il ruolo dello Stato crescerà, in Italia rischiamo di ripetere vecchi errori.

«È possibile. Ma io ritengo che l’Italia abbia doti che possono essere utilissime nella nuova fase; l’esperienza di un mercato temperato e di un settore pubblico forte non è inutile. In più, nel nostro passato troviamo una miracolosa combinazione fra il gusto del buon vivere e la sapienza produttiva tecnologicamente sofisticata».

L’Italia del Rinascimento era il Paese più istruito d’Europa. Adesso è uno di quelli che lo sono meno.

«Infatti è quello lo sforzo principale da fare per instillare la passione della conoscenza. L’Italia può insegnare al mondo un diverso rapporto tra innovazione tecnologica e benessere umano».

Il racconto che apre il suo libro, “La legge zero”, si svolge nel 2055. I suoi personaggi comunicano con «messaggi mentali» a distanza: dunque, non hanno bisogno di imprese di telecomunicazioni come Tim…

«Da trent’anni, tutte le aziende di telecomunicazioni del mondo sanno che per sopravvivere dovranno cambiare. Tim ci si sta dedicando».