I vantaggi del progresso

Non solo tecnologia, ma anche creatività e passione civile: ecco una formula per il domani

Stefano Lepri | La Stampa | 16 marzo 2022

 

Quando si progetta un libro sul futuro, si rischia di restare indietro sugli eventi. Lo sa benissimo Salvatore Rossi, ora presidente di Tim (dopo una lunga carriera in Banca d’Italia fino a diventarne direttore generale), che nel suo lavoro cita infatti il film Metropolis di Fritz Lang, dove cent’anni fa si immaginava il mondo di oggi facendo volteggiare tra i grattacieli gli aerei biplani di allora.

Dati i limiti della fantasia umana, il tentativo di prevedere il domani può insomma soffrire di «presentismo» (50 anni fa, chi avrebbe previsto la scomparsa delle macchine da scrivere?), scrive nel suo Indagine sul futuro appena pubblicato da Laterza. In questa chiave ironica Rossi apre con un breve racconto di fantascienza, nutrito dai capolavori del genere, quelli di Isaac Asimov, H.G. Wells, Aldous Huxley.

La scelta è stata interrogare esperti che meglio potessero intravedere ciò che verrà: la studiosa di neuroscienze e senatrice a vita Elena Cattaneo, l’amministratore delegato di Google Cloud Thomas Kurian, Cristiana Fragola, direttrice di un’organizzazione internazionale che affronta il cambiamento del clima, il giornalista Ferruccio De Bortoli, l’architetto d’avanguardia Carlo Ratti, e una giovanissima ricercatrice informatica, Beatrice Polacchi.

Sembrava che una cesura nel corso della storia l’avesse portata la pandemia. Ora ce ne troviamo davanti una forse più profonda, creata dalla guerra in Ucraina. Dobbiamo già aggiornare la sua visione del futuro?

«Me lo sono chiesto, negli ultimi giorni, ma no, credo sia ancora giusto guardare lontano, seguendo tendenze che rimarranno in opera salvo che si precipiti in un conflitto mondiale: l’intelligenza artificiale, il cambiamento del clima, i social media fra trasmissione di notizie e trasmissione di emozioni, il ruolo dello Stato e quello del mercato. Mi conforta l’ottimismo di chi si occupa di scienza: i vantaggi del progresso sono talmente grandi da sormontare tutte le forze contrarie. Poi, certamente, mi cautelo con il raccontino di apertura, che è distopico e piuttosto pessimista».

Elena Cattaneo dice che per tenere insieme progressi delle tecnologie, creatività, attenzione alle persone e buon vivere, occorre una «passione civile della conoscenza».

«Passione che, nelle sue parole, spetta alle istituzioni democratiche promuovere e a noi cittadini coltivare».

Difficile, quando sulla rete troppi si accontentano di emozioni non ragionate e si rifiutano di approfondire come stanno davvero le cose. De Bortoli contro chi diffonde odio propone che, in caso di reati, la magistratura possa penetrare l’anonimato dei social network.

«Sì. Occorre fare grandi sforzi per diffondere la capacità critica. Ad esempio, mi pare giusto che alcune università prendano iniziative contro la povertà educativa, mandando i loro studenti e studentesse ad aiutare i bambini delle aree più disagiate. Un grande contributo lo può dare, sempre secondo Elena Cattaneo, la diffusione del metodo scientifico di avvicinarsi alla realtà, che insegna a separare i fatti verificati dalle opinioni, che impone di sottoporre sempre a giudizio critico le informazioni che si ricevono. Altrimenti prevalgono le paure contro il nuovo e contro il diverso, che tendono sempre a riemergere».

E inducono a disprezzare gli esperti, tra cui gli scienziati. Oppure a diffidare degli algoritmi, a temere il crescente ruolo dei robot.

«I macchinari, parlando in generale, ci hanno aiutato molto e molto ci aiuteranno, in modi che ancora non riusciamo a immaginare. Nel film Metropolis, che è del 1926, dalle fabbriche del futuro esce quasi tutto, ma per farle funzionare occorre il lavoro convulso di migliaia di operai davanti a quadri di controllo, impegnati ad azionare pesanti leve fino a sfinirsi. Sappiamo oggi che non è così. Le macchine possono imparare a guidarsi e a controllarsi da sole, senza bisogno di lavoratori-schiavi».

Thomas Kurian di Google le dice che molto manca ancora prima che i computer acquistino una vera creatività. Ma la paura ricorrente (ricorrente da due secoli, in forme diverse) è che le macchine sostituiscano gli uomini nei posti di lavoro.

«Il disastro può accadere se il guadagno di produttività ottenuto con le macchine resta tutto nelle mani di chi le possiede. Se viene distribuito, no. In passato hanno operato diversi meccanismi di riequilibrio, ma se ci trovassimo davanti a un fenomeno esteso e impetuoso di rimpiazzo del lavoro umano non basterebbero. Avremmo bisogno qui di un ruolo dello Stato maggiore di quello concesso dalle ideologie in voga dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi».

Salvo che in Italia, a leggere alcuni passi del suo libro. Lei scrive che da noi lo Stato ha sempre tagliato le unghie alle imprese. Certo le ingerenze della politica sono state enormi: ma proprio la storia dell’azienda da lei presieduta, Tim ex Telecom, snazionalizzata 25 anni fa, mostra che i privati — almeno quelli italiani — non hanno saputo cogliere un’occasione straordinaria.

«A me pare che lo Stato abbia continuato a immischiarsi. Guardiamo l’attualità: perché a Tim non dovrebbe essere concesso il vantaggio dell’integrazione tra la rete fissa, che abbiamo per lascito storico, con i servizi di telefonia mobile? A Deutsche Telekom in Germania e a Orange in Francia, ex monopolisti anche loro, è permesso. Nostri concorrenti che entrano nel fisso possono fare offerte combinate tra fisso e mobile, noi no. Io credo che l’intervento dello Stato sia necessario per attenuare le disuguaglianze sociali che il mercato inevitabilmente crea. Ma questo, in Italia, lo Stato non è riuscito a farlo».

Se per affrontare pandemia, pericoli di guerra e cambiamento del clima in tutto il mondo, il ruolo dello Stato crescerà, in Italia rischiamo di ripetere vecchi errori.

«È possibile. Ma io ritengo che l’Italia abbia doti che possono essere utilissime nella nuova fase; l’esperienza di un mercato temperato e di un settore pubblico forte non è inutile. In più, nel nostro passato troviamo una miracolosa combinazione fra il gusto del buon vivere e la sapienza produttiva tecnologicamente sofisticata».

L’Italia del Rinascimento era il Paese più istruito d’Europa. Adesso è uno di quelli che lo sono meno.

«Infatti è quello lo sforzo principale da fare per instillare la passione della conoscenza. L’Italia può insegnare al mondo un diverso rapporto tra innovazione tecnologica e benessere umano».

Il racconto che apre il suo libro, “La legge zero”, si svolge nel 2055. I suoi personaggi comunicano con «messaggi mentali» a distanza: dunque, non hanno bisogno di imprese di telecomunicazioni come Tim…

«Da trent’anni, tutte le aziende di telecomunicazioni del mondo sanno che per sopravvivere dovranno cambiare. Tim ci si sta dedicando».

 

Luigi Nacci racconta “Non mancherò la strada”

«Ci sono estati chiuse come scatole, sigillate. Sono estati che trascorri in una stanza, in ufficio, o su un letto d’ospedale, in una cella, in uno spazio delimitato da pareti che ti sono ostili. A volte è il lavoro che ti costringe alla clausura, altre volte la malattia, tua o di un tuo caro, oppure la necessità di concentrarti per originare un’opera, o è la depressione che ti impedisce di uscire. Sei rinchiuso in un buio che non se ne va nemmeno quando spalanchi le finestre. Sei al centro della stanza ma è come se non ci fossi. Capitano estati così. È da quel buio che nasce il desiderio incontenibile del cammino. Non è desiderio di andare in ferie dopo un anno di lavoro. Chi è al centro del buio non ha bisogno di ferie, non sa che farsene. Né di spiagge, di hotel, di baite, di centri storici, di musei. Chi sta in quel buio vuole di più. Vuole solamente una cosa: il cammino».

Mettersi in cammino vuol dire scegliere un’altra vita. Una vita semplice, in cui ogni incontro è una porta, ogni volto un viaggio, ogni sentiero una via per esplorare se stessi e il mondo. Farsi nomadi per essere liberi.

Luigi Nacci, originale cantore della ‘viandanza’, della vita come cammino, si interroga sul valore che ha in questi tempi concitati e iperconnessi la pratica ancestrale e stravolgente del viaggio a piedi. Qui un racconto a partire dal suo ultimo libro, Non mancherò la strada.

 

 

 

Alec Trenta racconta “Barba”

La storia del percorso di affermazione di genere di Ale inizia dall’infanzia.

Quando da piccolo lo chiamavano Lisa, lui non si voltava e continuava ad allontanarsi: non era il suo nome, inutile rispondere.

La sua è la storia di un ragazzo che nasce in un corpo di sesso femminile e vuole riaccordare questa disarmonia, come la musica. Una storia costellata da ostacoli difficili, ma anche da luminosi traguardi.

In questo video, Alec Trenta racconta il suo Barba. Storia di come sono nato due volte.

 

Lo spazio umano

Lo spazio umano è il nuovo manuale di Alessandro Barbero e Sandro Carocci, per studiare Storia e Geografia guardando al presente e integrare nella formazione storica l’orizzonte di valori dell’Educazione civica.

Gli autori coniugano autorevolezza scientifica e efficacia comunicativa tipica della grande divulgazione storica, scrivendo un manuale facile e appassionante, nel quale anche i temi più complessi sono posti in modo semplice, nella cornice di un “racconto vivo” del passato.

 

Risorgimento atlantico. I patrioti italiani e la lotta internazionale per le libertà 

Dott. Alessandro Bonvini, Lei è autore del libro Risorgimento atlantico. I patrioti italiani e la lotta internazionale per le libertà edito da Laterza. Il libro offre una visione “allargata” di quel fenomeno che va sotto il nome di Risorgimento, le cui origini si troverebbero nei Caraibi, nella cospirazione contro l’impero borbonico da parte di agitatori e napoleonici che si arruolarono poi sotto le bandiere dei libertadores sudamericani: cosa rappresentò, per la storia dell’epoca e successiva, il patriottismo atlantico?
Il patriottismo del Risorgimento fu un’epopea di “vite globali”, impossibili da contenere dentro i confini della penisola italiana. Per circa un secolo, avventurieri in cerca di gloria e intrepidi condottieri, giovani in camicia rossa e pensatori cosmopoliti si batterono per la causa dei popoli oppressi. Senza mai abbandonare le speranze di unità nazionale, ordirono cospirazioni contro re e imperatori, stabilirono alleanze internazionali per rovesciare il sistema del Congresso di Vienna, guidarono eserciti e legioni multietniche di combattenti, scrissero e teorizzarono immaginando una società fondata sui princìpi di autodeterminazione, sovranità popolare e uguaglianza.

Figure quali Guglielmo Pepe, generale murattiano e leader della Carboneria, Giuseppe Lamberti, instancabile organizzatore della Giovine Italia in esilio, o Ercole Saviotti, garibaldino che combatté nell’esercito messicano di Benito Juárez al tempo dell’invasione francese, concepirono sempre i propri obiettivi alla luce dei grandi processi di modernizzazione che, a partire dall’età delle rivoluzioni, avrebbero messo in crisi il mondo di ancien régime. Inoltre condivisero ideali, esperienze in armi e progetti politici con una comunità che comprendeva i principali protagonisti dell’epoca, da Simón Bolívar a Lord Byron, da William James Linton a Benito Juárez. Fino a trasformare l’Atlantico nel grande proscenio della sfida per le libertà. Dall’intreccio delle loro biografie, allora, il Risorgimento riappare sotto una luce completamente nuova. Non tanto con il suo peso di cocenti delusioni e amare sconfitte, quanto invece come una storia di progresso e di successi: una storia avrebbe aperto all’Italia il cammino verso la modernità.

Quale contributo offrirono alla difesa dei governi costituzionali iberici liberali e mazziniani?
Tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento la penisola iberica fu uno degli epicentri atlantici della lotta contro l’assolutismo. In circa un decennio, sperimentò quasi tutto il repertorio dell’insorgenza politica: pronunciamenti, conflitti civili e scontri dinastici, guerre di liberazione. Per il patriottismo risorgimentale, la difesa del costituzionalismo iberico costituì una causa profonda. Fu invocata in nome della fratellanza tra nazioni sorelle e rappresentò l’ultima resistenza contro l’ordine di ancien régime. Prese forma tra il 1820 e il 1823, durante il Triennio Liberale, quando esuli del Regno di Sardegna e del Regno delle Due Sicilie furono accolti dal governo delle Cortes. Tra Barcellona e Madrid, pubblicarono cronache dei moti italiani e catechismi politici, organizzarono legioni di combattenti per frenare l’invasione francese e animarono associazioni patriottiche, trasformando la Spagna in una delle piattaforme globali della cosiddetta “internazionale liberale”.

La cooperazione tra patriottismo risorgimentale e patriottismi iberici, tuttavia, non si esaurì con il crollo del regime gaditano. Anzi, si rinsaldò al tempo della Guerra di successione portoghese e della Prima guerra carlista. In Portogallo, circa cento volontari italiani presero le armi per sostenere la reggenza di Maria II contro il tentativo di restaurazione assolutista dello zio Michele. Convinzione comune era che il successo della fazione liberale avrebbe innescato una serie di vittorie a catena ai danni della Santa Alleanza. Ne era certo Manfredo Fanti, uno dei futuri architetti dell’esercito regio, che scrisse: «Di Portogallo seguirà la sorte di Spagna, e l’età provetta di Filippo, e l’ultimo trionfo dei radicali in Svizzera a costo di sangue, fa travedere grandi e prossime complicazioni». Così, quando Don Carlos si autoproclamò reggente, gli italiani dei Cazadores de Oporto sbarcarono in Catalogna per difendere la fazione liberale e riformista di Isabella II. Mentre diplomatici e funzionari dei regni pre-unitari li consideravano pericolosi sovversivi, agli occhi di Mazzini, invece, si presentavano come il nerbo del futuro esercito nazionale: un corpo di soldati-patrioti capaci di rilanciare e guidare la lotta per l’unificazione sulla penisola italiana.

In che modo garibaldini e radicali risposero alla chiamata in armi di Abraham Lincoln?
La Guerra civile americana non fu soltanto uno scontro tra progetti nazionali contrapposti, ma rappresentò un vero e proprio conflitto globale. Da un lato, i repubblicani di tutto il mondo invitarono l’Unione a battersi per l’abolizione della schiavitù, le libertà civili e l’uguaglianza dei cittadini. Dall’altro, conservatori e monarchici speravano che il successo della Confederazione assestasse un colpo definitivo all’azione dei movimenti democratici. Perciò, quando nell’aprile 1861 iniziarono le operazioni militari, New York fu inondata di manifesti per l’arruolamento di volontari. La città – immortalata da Martin Scorsese nell’indimenticabile Gangs of New York – era a tutti gli effetti un microcosmo di etnie, nazioni e religioni, popolato da una massa di disoccupati in cerca di lavoro.

I leader della comunità italiana ebbero un ruolo di rilievo nell’organizzazione dei combattenti stranieri. La prima campagna fu intrapresa dal genovese Alessandro Repetti, ex proprietario della Tipografia Elvetica di Capolago. Nel cuore di Manhattan, invece, il mazziniano Luigi Tinelli fondò i First Foreign Rifles: un corpo formato da unità locali della Guardia Nazione Italiana e reduci della guerra di Crimea. A Broadway, Luigi Palma di Cesnola diede vita alla War School of Italian Army: un’accademia che offriva alle giovani reclute lezioni di diritto militare, organizzazione della fanteria e strategia. Questi corpi non formarono una legione autonoma, ma si unirono nel 39° reggimento, simbolicamente ribattezzato Garibaldi Guard.

Per i volontari italiani, combattere per gli unionisti esaudiva ambizioni e aspirazioni politiche che, quasi automaticamente, tendevano a sovrapporre la questione americana con la causa repubblicana globale. Giovani emigrati e veterani delle guerre d’indipendenza concordavano che il successo del Nord avrebbe inferto un duro colpo all’ordine monarchico e legittimista nel Vecchio Continente. Ciononostante, la spinta all’arruolamento rifletté anche questioni di natura sociale, riguardanti il background, la posizione economica e lo status individuale degli stessi volontari. Il servizio in armi avrebbe legittimato queste adesioni iniziali, oltre a garantire un salario stabile, la futura cittadinanza e un’accelerazione nel processo di integrazione nella comunità nazionale degli Stati Uniti.

La lotta per l’indipendenza di Cuba segna un altro capitolo nella storia dei patrioti universali: quali vicende videro coinvolte i volontari garibaldini?
I rapporti tra patriottismo cubano e patriottismo risorgimentale affondavano le radici nell’età delle rivoluzioni, ma si consolidarono dopo il 1848. A New York, intorno ai circoli della diaspora, esuli italiani e cubani definirono alleanze e strategie per l’acquisto di armi e l’organizzazione di imprese corsare. A questo periodo risalgono alcuni rumors, fatti circolare dalla diplomazia spagnola, che denunciavano addirittura il coinvolgimento di Giuseppe Garibaldi in una missione clandestina diretta a L’Avana. È invece documentata la presenza di un volontario bergamasco della Prima guerra d’indipendenza, Giovanni Placosio, nella spedizione guidata dall’ufficiale ribelle Narciso López e salpata il 2 agosto 1851 da New Orleans, a bordo del piroscafo El Pampero.

Il punto di svolta della solidarietà filo-cubana si registrò nel 1895, quando José Martí annunciò l’inizio dell’insurrezione indipendentista. Il suo grido suscitò un moto di commozione che scosse trasversalmente repubblicani e socialisti. Con la Francia, l’Italia sarebbe diventata la principale piattaforma dell’indipendentismo cubano in Europa. Nell’aprile 1896, i deputati Salvatore Barzilai, Giovanni Bovio, Antonio Fratti e la scrittrice Adele Tondi fondarono a Roma il Comitato italiano per la libertà di Cuba. A coordinarlo fu il medico abruzzese Francesco Federico Falco. In pochi mesi, il comitato aprì liste di arruolamento nazionale, promosse eventi pubblici, raccolse donazioni e finanziamenti, animò un’intensa attività di propaganda su giornali e riviste. Manifesto ideologico del movimento filo-cubano fu il pamphlet La lotta di Cuba e la solidarietà italiana. Scritto e pubblicato dallo stesso Falco, il saggio era intriso di tutti i leitmotiv della retorica risorgimentale. Faceva appello allo spirito romantico delle rivoluzioni nazionali e si richiamava all’eroismo dei grandi patrioti del passato: Santorre di Santarosa, «morente per la libertà della Grecia», Giuseppe Cavallotti e Giorgio Imbriani, «cadenti per la Francia». Era l’esempio del loro sacrifico che avrebbe consacrato l’emancipazione dell’ultimo avamposto dell’impero spagnolo nel Nuovo Mondo.

In che modo le speranze di rinascita italiana facevano da sfondo a questa “militanza” globale?
L’anelito a battersi per la causa di altri popoli si fondava su un paradigma di fratellanza universale, che congiunse in un’unica dimensione lotta nazionale e lotta internazionale. Nel corso dell’Ottocento, alla tradizionale categoria di “patriottismo dell’odio” si affiancò quella di universalismo patriottico, i cui caratteri essenziali erano da ricercarsi nei tratti di comunanza con quei popoli che si reputavano compartecipi dello stesso moto storico. Era il prodotto di una coscienza avanzata, erede dalla cultura illuminista e che sarebbe stata arricchita dai repertori dell’attivismo liberal-costituzionale, per essere, infine, formalizzata dal repubblicanesimo nazionale e recepita anche dalle correnti radicali tardo ottocentesche.

Rimodulando l’universalismo dell’età dei Lumi e anticipando forme di internazionalismo tipiche del XX secolo, carbonari e mazziniani, unitari e democratici, anche prima dell’unificazione, contribuirono a fare dell’Italia un soggetto storico autonomo, al centro dell’arena politica internazionale. Connettere le loro vicende con gli eventi dell’epoca offre la possibilità di rileggere un momento cruciale della storia italiana, nonché di ripensare il Risorgimento alla luce delle trasformazioni che segnarono il passaggio verso l’età contemporanea.

 

Letture.org, 8 febbraio 2022

Il maestro Lodi tiene ancora la sua lezione

Cento anni fa nasceva l’insegnante che ha cambiato la didattica destinata ai più piccoli. Per tutti è l’autore di “Cipì”, ma la sua scuola è stata una rivoluzione a colpi di dialogo e di “parole gentili”

Simonetta Fiori | la Repubblica | 15 febbraio 2022

Per il maestro Mario Lodi il primo giorno di scuola fu un’esperienza traumatica. Era l’11 ottobre del 1951, a San Giovanni in Croce, un minuscolo borgo della pianura padana vicino a Cremona. I bambini stavano immobili nei banchi come “statue”, con “i cervelli inerti”, immersi in “un gelido silenzio” al cospetto dell’“insegnante-maresciallo”. La scuola del dopoguerra portava ancora i segni dell’irreggimentazione fascista. Al giovane maestro bastò osservare i suoi piccoli allievi mentre conquistavano la strada alla fine della lezione. Liberi di esprimere sé stessi, manifestavano “un’aggressività ricca di fantasia”, “un linguaggio scarno ma incisivo”, una “felicità motoria” fino a quel momento mortificati. Convogliare nell’invenzione e nella conoscenza la formidabile vitalità dei bambini – di tutti i bambini – fu la sua rivoluzione, compiuta nel nome della Costituzione. Ma oggi, tra i maestri della scuola elementare, chi conosce il magistero di Lodi?

Nel caso del maestro di Piadena, di cui ricorre il centenario della nascita il 17 febbraio, sarebbe sbagliato parlare di una rimozione radicale. Cipì, la storia del “passero eroico”, è un classico della letteratura per l’infanzia riedito da svariati decenni. Ma da molto tempo mancava dalle librerie un’opera fondamentale come C’è speranza se questo accade al Vho , il primo diario didattico uscito nel 1963 e ora riproposto da Laterza. Insieme a Il paese sbagliato, un bestseller del 1970 voluto da Giulio Einaudi e oggi ripubblicato negli Struzzi con la prefazione di Franco Lorenzoni, il C’è speranza custodisce l’eredità pedagogica di Lodi, raccogliendo entrambi i volumi le cronache quotidiane della sua rivoluzione silenziosa nell’arco degli anni Cinquanta e Sessanta.

Basta sfogliare qualche pagina dei due libri per partecipare in classe a una sua “non lezione”. La pratica del disegno e della discussione, la scrittura collettiva, il giornalino di classe stampato con il limografo, l’assemblea legislativa, il canto libero, la poesia, la musica, l’abolizione della cattedra e i banchi in circolo, sempre l’invenzione al posto della ripetizione, perché «una verità che viene ripetuta è una mezza verità». La scuola alla rovescia, realizzata in quegli anni insieme ai maestri del Movimento di Cooperazione educativa.

«Ma per molti Lodi continua a essere solo l’autore di Cipì», dice Lorenzoni, insegnante che ha tratto ispirazione da quella esperienza. «Nelle università italiane il suo nome circola poco. E se Il paese sbagliato, ancora più di Lettera a una professoressa di don Milani, ha formato una generazione di maestri – la stessa che ha poi dato vita al “tempo pieno” – in seguito la sua didattica è stata abbandonata da una scuola che, con qualche luminosa eccezione, tende a essere più trasmissiva che suscitatrice di conoscenza. Oggi molti maestri non sanno che cosa sia la discussione. E non pensano che i bambini possano essere in grado di sostenerla». Lodi, al contrario, era convinto che la conoscenza si potesse costruire insieme, in una reciprocità tra insegnanti e allievi. Ogni bambino è un artista, un musicista, un poeta: basta soltanto mettersi all’ascolto. «È questa la sua lezione senza tempo», dice Lorenzoni. «L’Italia non è più il Paese rurale raccontato nei suoi libri. E gli scolari non restano impietriti davanti all’insegnante. Ma i bambini hanno sempre bisogno di essere ascoltati. La metà di loro sono figli unici. Immersi in un flusso audiovisivo ininterrotto, cercano nel virtuale una via di fuga dalla solitudine».

Quella di oggi non è l’Italia contadina del lungo dopoguerra, ma certo non sono venute meno le aree di disagio e di esclusione sociale, ora aggravate dalla pandemia. E sono in molti a lamentare il ritorno alla scuola di classe, che distingue tra figli del privilegio e figli degli immigrati. La sua didattica inclusiva, sideralmente estranea alla retorica dell’eccellenza, appare ancora più necessaria. «Mario è stato il maestro che la nostra Costituzione e le nostre leggi promettono a ciascun bambino in Italia», dice Francesco Tonucci, insigne pedagogista e amico personale di Lodi, ora prefatore di un altro caposaldo, Cominciare dal bambino (Rizzoli). «Purtroppo si tratta di una promessa mai pienamente realizzata. Una sua frase mi ha sempre colpito molto: “Non ditemi che è difficile o che richieda particolari attitudini”. Così replicava a chi era convinto che il suo modo di fare scuola richiedesse un carisma particolare o una preparazione inarrivabile. È sufficiente mettersi dalla parte dei bambini».

Le sue aule erano solitamente bruttine, costrette in spazi infelici e bui. «Ma restituivano un mondo», continua Tonucci. «Ho avuto la fortuna di frequentare la sua classe nella piccola scuola di Vho, nel suo ultimo ciclo scolastico. Più che un’aula scolastica sembrava un laboratorio diviso in tanti angoli: acquari, terrari, la baracca dei burattini, la macchina da scrivere e il ciclostile, gli strumenti musicali, i colori e i pennelli. Il bambino era libero di trovare il suo “gioco” preferito, che era poi rivelatore delle sue capacità e della sua vocazione». E in questo modo si andava costruendo la società democratica del presente. Con uno sguardo al futuro.
Quella di Lodi era una scuola divertente e allo stesso tempo rigorosa, mai sciatta o approssimativa.

Sembra quasi un’ovvietà ricordarlo, se non fosse che anche il maestro di Piadena ha subito lo stesso trattamento che è toccato in sorte ad altri protagonisti della cosiddetta “scuola democratica”, sbeffeggiati dagli odierni cultori dell’anti politicamente corretto: dietro l’irrisione di un linguaggio che può avere esiti grotteschi – così spesso appaiono – si nasconde l’insofferenza verso le conquiste della cultura democratica. Da don Milani a Tullio De Mauro, passando per Gianni Rodari, tutti sono finiti nel tritacarne di chi attribuisce alle loro battaglie fondamentali il risultato di una scuola superficiale e un po’ cialtrona. Colpisce ad esempio che, a oltre quarant’anni dal suo pensionamento, la cultura italiana non abbia dedicato a Lodi un saggio biografico.

E l’unico ritratto esistente, certificato dalla Treccani, è una voce del Dizionario Biografico, a cura di Adolfo Scotto di Luzio, che liquida la sua esperienza come «mitografia della scuola democratica», «incapace di dare forma a una rinnovata proposta pedagogica e culturale». La voce è passata sotto silenzio, incluse le proteste di chi non vi ha riconosciuto le qualità del maestro. «Scotto di Luzio sostiene che la scuola di Lodi concepisce se stessa in termini di pratica più che di studio, dando luogo a una pedagogia senza troppe pretese teoriche. Ma è vero il contrario», obietta Juri Meda, professore di Storia dell’educazione all’Università di Macerata, ora al lavoro su una biografia del maestro. «Se Lodi non avesse avuto ambizioni teoriche non si sarebbe preso la briga di raccontare giorno dopo giorno la sua esperienza sul campo. È in questo modo che ha segnato un cambio di paradigma, ricavando dalla sua attività didattica quotidiana una teoria altissima, riconosciuta da università prestigiose».

Quanto alla mitografia, pochi come Lodi hanno evitato le luci dei media. In una delle ultime interviste realizzata nella sua casa di Drizzona, in occasione dei novant’anni, sembrava rifuggire da ogni forma di vanità che è naturale in ogni grande vecchio. Del maestro ormai segnato dall’età colpiva la qualità della voce: sussurrata, ma nitida e precisa. Era convinto che tutto avesse origine dalla “parola gentile”, anche la democrazia. «Con la parola cattiva si può offendere e litigare, con la parola gentile si possono raccontare le cose più belle».

C’è speranza era il suo libro preferito. E c’è ancora speranza se ricominciamo ad ascoltare la parola gentile di Lodi. Dentro e fuori di un’aula scolastica.

Magellano, il viaggio globale

Mezzo millennio fa la circumnavigazione da parte della flotta dell’esploratore portoghese. Una discesa agli inferi che aprirà la strada al mondo moderno e al superpotere marittimo.

Giovanni Mari | La Stampa | 6 febbraio 2022

Esattamente 500 anni fa, nel febbraio del 1522, l’Armada da Moluccas era a un miglio dal più disastroso dei fallimenti. La flotta si era ridotta da 5 navi a una sola, dei 237 marinai ne erano rimasti 60. La doppia traversata, prima dell’Atlantico e poi del Pacifico, si era rivelata un’odissea tra ammutinamenti, naufragi, battaglie e malattie di bordo. E la morte di Ferdinando Magellano in un’imboscata su un’isola sconosciuta (1500 nativi armati di frecce contro una cinquantina di europei con il moschetto) rischiava di mettere in ombra la colossale scoperta che l’intuito, la tenacia e l’autoritarismo del comandante avevano reso possibile: l’individuazione di uno stretto che consentisse l’attraversamento via mare dell’America Latina. E imprimesse la forza di affrontare l’immane deserto d’acqua del Mar del Sur.

La missione, del resto, aveva già rivelato che le Molucche, quello scrigno di spezie che avrebbe arricchito la Spagna, era nella sfera d’influenza del Portogallo. L’Armada era stata inviata nell’ignoto per dimostrare il contrario: che le Molucche fossero al di qua dell’antimeridiano di Tordesillas. A Est della linea immaginaria, riflessa nell’emisfero buio, rispetto a quella stabilita a 370 leghe dalle isole di Capo Verde, in mezzo all’Atlantico. Quella era la frontiera invisibile che Spagna e Portogallo avevano pattuito come confine sul mare della loro espansione.

A Est dominava Lisbona (e magicamente aveva ricompreso anche il grande bernoccolo del Brasile), a Ovest (quindi con quasi tutte le Americhe) la Castiglia. Dov’erano le Molucche? Più vicine ai possedimenti portoghesi dell’estremo Oriente o più vicine al Cile spagnolo? Erano terribilmente lontane dall’America. Il Mar del Sur, il Pacifico, era così vasto da spostare tutto il mondo a Ponente, da ingigantire le dimensioni della Terra come nessuno aveva immaginato. Magellano lo aveva compreso durante i mesi infiniti di navigazione, mentre i suoi equipaggi morivano a bordo, ammorbati dallo scorbuto e costretti a rosicchiare il cuoio dello scafo per la fame. Fu un periplo infernale, che David Salomoni racconta con incommensurabili dettagli in Magellano. Il primo viaggio intorno al mondo (Editori Laterza, 240 pagine): dai diari di bordo alle scorte di sedano, dalle trattative con i nativi alle condanne dei rivoltosi, dalla natura aggressiva della Patagonia alla perfida incontrollabilità dei marosi, dalle piccole colonizzazioni ai primi pinguini della storia, dalla preda di chiodi di garofano e zenzero ai repentini cambi di rotta.

Ma quando, in quel febbraio 1522, i superstiti sbarcarono nell’attuale isola di Timor, l’equipaggio aveva già nominato comandante Juan Sebastian Elcano, per certi versi, ancorché senza gradi, uno degli antagonisti di Magellano. Restava solo un obiettivo: salvare la pelle. In quel momento l’avventura della scoperta lasciava il campo a un’impresa di tutt’altra natura. Elcano non avrebbe per nessuna ragione messo la prua verso le Americhe: era sicuro che l’avrebbe portato alla morte. Allora invertì la rotta di 180 gradi e decise di sfidare la legge, la sfera d’influenza: di tornare in Europa solcando l’Oceano Indiano, aggirando il Capo di Buona Speranza, costeggiando l’Africa e raggiungendo per quella via Siviglia, anche se si trattava di acque portoghesi. Quelli avrebbero avuto il diritto di sequestrare la nave, rubare le preziosissime carte nautiche con i segreti delle scoperte di Magellano e condannare a morte gli equipaggi.

Così si scatenò la seconda discesa negli inferi. In Spagna rientrarono in soli 18, fecero scalo a Capo Verde, fingendosi naufraghi di ritorno dai Caraibi, e lì scoprirono di aver smarrito un giorno per strada: era colpa del fuso orario, correndo all’indietro avevano rubato 24 ore al Sole. Furono accolti in patria da vincitori, quindi raccontarono la storia a modo loro: oscurando Magellano ed esaltando Elcano, che divenne una sorta di eroe mitologico vivente. Solo le relazioni del vicentino Antonio Pigafetta, marinaio e scrittore, restituirono a Magellano l’onore della rivoluzionaria scoperta.

E tributeranno al comandante l’alba della globalizzazione. Da quel momento il mondo era diventato interamente conosciuto e i mari lo strumento vitale e assoluto per inscenare quella proiezione di potenza, come la chiamerà Alfred Mahan, necessaria agli Stati più forti per trasformarsi in imperi. Le flotte, controllando gli oceani, estendevano l’autorità centrale fino alle coste più lontane. Dando vita, da subito, a una globalizzazione rigidamente imperialista, che avrebbe trasformato l’Oceano Indiano in un lago europeo e arginato le velleità americane fino a tutto il XIX secolo. Restituendo qualche vestigia di talassocrazia prima a Spagna e Portogallo, poi alle Province Olandesi e infine all’Inghilterra. Un «sea power» globale declinato da Michel Du Jourdin nello strumento del «dominio del profitto» che l’Europa dei re e dei mercanti avrebbe imposto al resto del mondo con le armi del commercio, della violenza e della deterrenza. I mercati non sarebbero più stati (solo) locali: si sarebbe creata una rete mondiale di scambi marittimi sempre più fitta e protetta, dai cannoni e dalle leggi.

Il primo effetto fu infatti la globalizzazione del conflitto, con l’invio di flotte in aree lontanissime ma sempre meno remote, con la realizzazione di basi e blocchi navali, con il sistematico attacco al commercio concorrente e la nascita di convogli mercantili armati. Solo le grandi potenze, e tra queste le più dinamiche e meno paralizzate da nobili e burocrati, erano in grado di organizzarsi. La prima guerra mondiale fu così una guerra marittima e si scatenò nei primi 50 anni del Seicento. Gli europei cominciarono a combattersi su scala globale: tra gli olandesi e i regni iberici si estese all’America, all’Africa e all’Asia. Gli ottomani restarono ai margini e in ritardo; cinesi, giapponesi e impero Moghul la persero nelle prime battute. Gli europei occidentali costruirono un sistema di cui tutti gli altri Stati sarebbero stati dipendenti per secoli.

Ma il sistema, stabilizzandosi, cambiò alla radice i rapporti di forza: diminuiva il potere basato sulle risorse locali che i governi erano in grado di controllare direttamente, mentre aumentavano quelle necessità marittime e quelle capacità di relazioni che vedevano in vantaggio la forza liquida degli interessi mercantili. Si creò un nuovo potere, che dagli Stati sarebbe passato ad altre mani, fino a connotarsi in un’autorità quasi invisibile e compiutamente globalizzata, multinazionale e privata, talmente possente da non necessitare neppure più dell’assistenza (diretta) delle armi. La chiave fu il modello olandese. Le Province costruirono la miglior rete commerciale globale, con il centro nei suoi porti e un’organizzazione statale e mercantile impregnata della logica capitalistica e dell’innovazione: alleanze, contratti, guerre e tecnologie venivano stipulate e concepite per proteggere gli interessi commerciali, mai per prestigio o pretese territoriali o religiose. Da questo spirito nacquero le prime due grandi compagnie monopolistiche per il commercio e le guerre d’Oltremare, prototipo dei grandi poteri finanziari contemporanei e interpreti moderni delle grandi scoperte di Magellano.

Nel settembre del 1522, a Siviglia, in ogni caso, con ciò che restava dell’Armada da Moluccas, percorsi 86 mila chilometri in tre anni, la questione era già abbozzata. Carlo V dimenticò presto le Molucche e capì che altre, più grandi sfide, foriere di maggiori e durature ricchezze, aspettavano la Spagna. Per questo la riabilitazione di Magellano fu totale. Il paradosso starà nel fatto che la Spagna non riuscirà a interpretare il grande vantaggio che aveva accumulato e l’onda lunghissima della globalizzazione, che proprio l’impresa dello Stretto aveva favorito, finirà per travolgerla per prima tra i grandi vecchi del passato.

Decalogo del viandante (non del camminatore)

 

  1. Noi non amiamo camminare per poche ore. Ci capita di farlo, ne ricaviamo una forma di benessere fisico, ma non ne ricaviamo una forma di gioia. Se gioia è una parola troppo
    ingombrante, è possibile riformulare così: non ne ricaviamo dei sentimenti potenti tali da mettere in discussione la nostra vita. Sappiamo che c’è bisogno di giorni, di settimane, affinché ciò accada
  2. Noi possiamo guardare storto chi, incontrandoci, ci augura «buona passeggiata». Si passeggia nel tempo libero per prendere aria, per prendere un gelato, per far passare del tempo prima di una cena. Chi passeggia è ancora inserito in un modello di vita riassumibile dalla sequenza casa-ufficio-sport-svago-casa. Stiamo male perché è una sequenza che ci sta sempre più stretta. Ci può capitare di passeggiare, ma non accosteremmo mai questa esperienza a quella del cammino.
  3. Noi non abbiamo interesse per l’allenamento, la competizione, i cronometri. Se ripetiamo più volte l’ascesa a un monte non prendiamo nota di quanto tempo ci abbiamo messo. Non amiamo i dislivellomani. Dei percorsi che abbiamo fatto più volte ricordiamo gli alberi, le fioriture, le tracce animali, le locande, i volti di chi abbiamo incontrato, i volti di quelli che non hanno potuto accompagnarci.
  4. Noi ci spostiamo anche con mezzi privati e pubblici, eppure le persone ci chiedono: «sei arrivato a piedi?». Alcuni ti immaginano in continuo movimento, sei per loro un apostolo, un pioniere, un oggetto non identificato. Altri ti prendono apertamente in giro, ai loro occhi sei lo scemo del villaggio, un Forrest Gump minore, un disadattato. Quando spieghi loro che possiedi la macchina, o la moto, o che hai l’abbonamento dell’autobus, non capiscono. «Sta barando», pensano dentro di sé. Come se questo fosse un gioco.
  5. Noi siamo stanchi di fare i turisti. Ci interessa sempre meno viaggiare per visitare quella chiesa, quel monumento, quel museo, quel parco. Se anche prendiamo una mappa all’ufficio informazioni e ci dirigiamo in tutti quei posti a piedi non stiamo bene. Abbiamo camminato ma non siamo stati in cammino. Facciamo fatica a spiegarlo a chi è vicino a noi. Soprattutto fatichiamo a spiegare che non amiamo la «vacanza». Vacanza ha che fare col vuoto. Viandanza col pieno.
  6. Noi sentiamo quotidianamente, in particolare con l’avvicinarsi della primavera, un esagerato desiderio di stare all’aria aperta, di non avere vincoli, non avere orari, non fare la fila, non compilare moduli, non maneggiare soldi, non fare shopping, non accumulare roba (quando lo facciamo ci sentiamo in colpa). Si tratta di una voglia di libertà che pervade gran parte delle cellule del corpo. Ci sentiamo in gabbia. Andare a camminare per qualche ora, fare una passeggiata, corrisponde all’andare avanti e indietro dentro la gabbia.
  7. Noi sentiamo il richiamo dell’eccezionalità. Siamo attirati dalla meraviglia. Lo abbiamo provato nei nostri cammini, ne siamo diventati dipendenti. Non si trattava del panorama dalla vetta, altrimenti basterebbe fare un’escursione di giornata per provare di nuovo quel sentimento (noi non amiamo la parola «escursione»). Era eccezionale e portatrice di meraviglie la nostra vita in cammino. La non prevedibilità. Il non sapere cosa sarebbe potuto accadere. La consapevolezza di avere dinnanzi a sé il mondo aperto. Lì lottavamo per addomesticare l’ignoto. Qui siamo costretti, per sopravvivere, a ignorare il domestico. Stando nell’eccezionale, eravamo eccezionali. Era il cammino a rendere ciò possibile, non il camminare.
  8. Noi sopportiamo sempre meno le notizie dell’ultima ora. La cronaca nera, la cronaca rosa, la cronaca bianca. Diveniamo daltonici. Ci indigna, ci fa andare in collera, ci addolora la serie di gesti violenti e prevaricatori. Nei nostri cammini ci eravamo abituati a dividere il pane, ad essere accolti, a non giudicare dall’aspetto, a non avere timore degli altri. Ci sentivamo esseri umani migliori. Non era il camminare a rendere ciò possibile, ma il cammino.
  9. Noi siamo sognatori diurni. Sogniamo in continuazione. Di mollare il lavoro, la casa, ogni sorta di incombenza. Alcuni di noi possono sognare di abbandonare le persone che amano. Di sparire con il proprio zaino e mettersi in un’altra vita. Sono sogni di cui possiamo parlare solo con i sognatori diurni. Risultano incomprensibili agli altri. Se non possiamo parlarne veniamo travolti dalla frustrazione. Camminare non intacca la portata di quei sogni. Solo il progetto di un lungo cammino placa temporaneamente la nostra inquietudine.
  10. Noi siamo viandanti, non camminatori. Siamo le creature della via, della strada aperta, degli incroci, delle curve, delle soste. Lo siamo anche quando non camminiamo. Perché dal cammino non si fa ritorno. Non abbiamo più fatto ritorno dal nostro primo cammino. Una parte di noi è rimasta appesa a qualche ramo, rappresa in qualche corteccia. Noi intuiamo, senza riuscire a razionalizzarlo, di essere parte di quella cosa chiamata viandanza: una vita nuova, una soglia, una soglia sulla soglia, un’altra dimensione in cui le nostre fantasticherie di sognatori diurni si realizzano. Siamo pochi, siamo una minoranza. Ci riconosciamo subito. Ci passiamo parole sottobanco. Ci pensiamo in silenzio. Non amiamo i decaloghi. Chiamiamo i nostri zaini per nome.

Luigi Nacci, Non mancherò la strada

#CasaLaterza: Valentine Lomellini in dialogo con Maria Antonietta Calabrò e Mirco Dondi

Dalla ‘prigione del popolo’ dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. Da allora, per «lodo Moro» si intende l’accordo che consentiva ai palestinesi di utilizzare il territorio italiano come base per armi e guerriglieri in cambio della garanzia di preservare la penisola dagli attentati.

Ma il «lodo» quale sicurezza garantiva? Quella legata all’incolumità dei cittadini dagli attentati o quella dello Stato, assicurando approvvigionamenti energetici in tempo di shock petrolifero e stabilità sul fronte sud del Mediterraneo? La classe dirigente italiana si trovò a fare i conti con questo dilemma in una delle fasi più difficili della storia repubblicana.

A discuterne con Valentine Lomellini, autrice de Il «lodo Moro», la giornalista Maria Antonietta Calabrò e lo storico Mirco Dondi.

Il libro:

Israele. Una storia in 10 quadri

Prof. Claudio Vercelli, Lei è autore del libro Israele. Una storia in 10 quadri edito da Laterza: quale dibattito percorre la società israeliana in merito al carattere ebraico dello Stato?

Che Israele sia lo Stato degli ebrei è un dato assodato, prima di tutto attraverso la cognizione dei processi storici che tra l’Ottocento e il Novecento hanno portato alla nascita di quella comunità politica. Stato degli ebrei indica non una proprietà esclusiva ma il prodotto di un percorso che ha visto gli ebrei medesimi protagonisti di un via nazionale alla soluzione dei loro problemi, innanzitutto l’antisemitismo ma anche, non di meno, l’assimilazionismo, ovvero il rischio di perdere definitivamente i tratti identitari che avevano comunque mantenuto, sia pure attraverso molti cambiamenti, nella Diaspora. Altra cosa, anche se convenzionalmente si usa le espressioni come intercambiabili, è parlare invece di «Stato ebraico». Poiché in questo secondo caso, invece, ci si riferisce ad una sovranità politica che sarebbe basata sul diritto ebraico, ossia su un insieme di norme derivate dai testi religiosi fondamentali. Tradizionalmente, infatti, le religioni codificano e trasmettono non solo valori e principi ma anche regole vincolanti di condotta. I processi di secolarizzazione che hanno interessato le società negli ultimi secoli hanno invece concorso ad affrancare la sfera della politica da quella dell’autorità religiosa. Di fatto, la capacità di generare norme vincolanti si è trasferita in un potere che si vuole laico poiché indipendente dalla religione, ancorché non indifferente ad essa da un punto di vista tuttavia esclusivamente etico. Altrimenti, piuttosto che parlare di democrazia sarebbe meglio rifarsi alla teocrazia. Israele ha un corpus giurisprudenziale che si rifà solo per minima parte alla tradizione ebraica, mentre invece le sue leggi, e il modo in cui esse vengono applicate, sono tipici di una moderna democrazia secolarizzata. Altro tema, invece, è il rapporto tra identità ebraica, religiosità e sfera pubblica. Questo secondo aspetto rimanda non tanto all’autonomia delle amministrazioni collettive (lo Stato), chiamate a tutelare e realizzare l’interesse comune, ma al modo in cui gli israeliani si sentono ebrei e a cosa ciò comporti per davvero. A tale riguardo, le idee sono molto differenziate, posto che non esiste un unico modo di «essere ebrei». Così come, l’ebraismo medesimo è vissuto solo da una parte degli israeliani come una radice religiosa, divenendo semmai una sorta di collante, estremamente fluido nelle sue accezioni, rispetto alla definizione di un’appartenenza civile comune, ossia alla cittadinanza israeliana. Non di meno, almeno un quinto degli israeliani non è di origine ebraica. Ed anche questo pesa molto nelle discussioni sull’identità nazionale.

Quanto è radicato il sionismo nella società e nella cultura israeliane contemporanee?

Israele identifica il sionismo, in quanto movimento di indipendenza nazionale, come radice della sua storia. Si tratta di un fenomeno che è in linea con i nazionalismi ottocenteschi e che trova il suo sbocco nella costruzione prima di una comunità politica autonoma e poi nella nascita, con il 1948, dello Stato. Tuttavia, se il rimando sentimentale e affettivo alla radice culturale e politica della propria storia ha una sua coerenza, oggi il sionismo continua ad esistere soprattutto come ispirazione di principio. Poiché il quadro del paese è completamente mutato. Difficilmente si troveranno israeliani che non dicano di essere anche «sionisti», al netto di alcune componenti del radicalismo politico e religioso invece distanti da esso, ma il richiamo si rivela da subito insufficiente nel momento stesso in cui si chiede di aggettivare il senso di una tale identità. Il problema, per così dire, sta anche nel fatto che il sionismo ruota intorno ad un’irrisolta commistione tra ebraicità e cittadinanza politica. Ciò che resta del sionismo, e il suo parziale superamento nel neonazionalismo radicale di cui sono espressione alcune formazioni politiche, si basa d’altro canto sull’unione di tre presupposti che sono inscritti nel programma della destra sociale e di movimentazione di oggi: il rimando alla sovranità nazionale come espressione dell’identità collettiva, fondata non su un presupposto di natura costituzionalistico ma sul richiamo ad un’appartenenza di gruppo, preesistente allo Stato stesso; la rinegoziazione dei diritti di cittadinanza, stabilendo che alla base di essi sussista un solo vincolo, quello etnico; la riformulazione del sistema di equilibri tra poteri diversi, favorendo ogniqualvolta possibile, gli esecutivi, soprattutto se su base carismatica, con un premierato identificabile più con un «capo» che non con un leader. Queste ultime accezioni, che vengono proposte come una sorta di nuovo orizzonte del “vecchio” sionismo, in realtà aprono orizzonti problematici di riflessione, soprattutto per gli effetti che potrebbero produrre nel corso del tempo all’interno della stessa società israeliana.

Quale tensione caratterizza il rapporto tra demografia e democrazia in Israele?

Storicamente il Paese si è strutturato come società ebraica nazionale in almeno centoquaranta anni, dalla fine dell’Ottocento in poi. Poiché se lo Stato nasce nel 1948 alla sua origine ci sono almeno un’altra settantina d’anni di costruzione delle sue strutture fondamentali, a partire dal 1880, con le prime immigrazioni nella Palestina ottomana. L’Israel Central Bureau of Statistics (ICBS), l’istituzione che elabora e aggiorna i dati in materia, indica per la fine del 2021 la presenza di una popolazione stimata in 9.391mila individui. Attualmente il Paese raccoglie il 45,3% dell’ebraismo mondiale. La società israeliana è rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell’incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini. Il rimando all’elemento ebraico è tanto ovvio in linea di principio quanto problematico nei fatti, generando non poche volte conflitti di appartenenza, di legittimazione, di reciprocità. Il paradosso di Israele è che si fonda anche su questa inesistente omogeneità, rendendo difficile l’identificazione non tanto giuridica quanto culturale della nozione di cittadinanza, sottoposta in maniera permanente alle tensioni che derivano dal suo accostamento all’ebraicità come elemento prevalente se non esclusivo. I conflitti sulla concreta declinazione della democrazia, ossia sui modi di condividerla e viverla, si inscrivono dentro questo prisma mutevole, dove il legame tra cultura, identità e sovranità non sono per nulla risolti.

Come si esprime il populismo nella società politica israeliana?

Esiste una lunga tradizione, legata alla destra nazionalista, antagonista della sinistra laburista, quest’ultima al potere fino al 1977 e poi scalzata dalla prima. Ma il populismo odierno non ha troppe analogie con le politiche del passato. In realtà è partecipe di un trend molto più ampio, che riguarda un po’ tutti i paesi a sviluppo avanzato, dinanzi agli affaticamenti della democrazia rappresentativa. Benjamin «Bibi» Netanyahu è la figura più significativa in queste trasformazioni. È infatti il premier che ha governato più a lungo, assicurandosi quindici anni di mandati, tra il 1996 e il 2021. Abilissimo navigatore nella politica nazionale, ha spesso rivelato la capacità di sapere sopravvivere a se stesso, giovandosi delle contraddizioni dei suoi avversari, fuori e dentro il suo medesimo partito. Non a caso, quindi, ha trasformato la sua formazione politica, il Likud, in una sorta di partito personale, ovvero una piattaforma permanente delle proprie posizioni, traducendo inoltre le elezioni in un permanente plebiscito su se stesso. Volutamente divisivo, quanto meno nella medesima misura in cui ha rivelato di sapere raccogliere i voti parlamentari quando gli necessitano, si è conquistato sul campo l’appellativo di «Re Bibi». Anche per questa ragione, ha fatto sì che il Likud, da espressione della vecchia destra nazional-conservatrice, come anche in parte liberale, divenisse un soggetto il cui programma politico assomma elementi sovranisti, populisti e identitari. Ciò facendo, ha trovato sponde ed interlocutori interessati in quella destra europea, spesso invece non liberale, che schiaccia completamente l’idea di Israele sulla rappresentazione artefatta di un Paese che ha trasformato il suo bisogno esistenziale di sicurezza in un’opzione di autoaffermazione egemonica. Netanyahu, in questi anni, non ha caso si è comodamente riconosciuto nel milieu di una destra occidentale che ha abbandonato la vecchia radice istituzionale, debitrice del rispetto dei sistemi costituzionalisti, per rilanciarsi sul piano della mobilitazione sociale, raccogliendo una parte dei crescenti malumori e dei disagi delle rispettive società. Destra di lotta e, al medesimo tempo, di governo, capace di interpretare le due parti contemporaneamente. Il suo vero successo è stato il poterlo fare essendo parte di quelle stesse élite che dice invece di volere mettere in discussione, spesso identificandole sbrigativamente con i suoi avversari politici.

Quali sono, a Suo avviso, le maggiori sfide per il futuro di Israele?

La globalizzazione, per sua stessa natura, mette in discussione le identità nazionali. Soprattutto, tende ad erode confini e barriere. La qual cosa, per un paese come Israele, risulta essere una sorta di contrappasso, dal momento che da sempre invece rivendica il diritto a confini, non solo spaziali, certi e garantiti. Se mai si dovesse addivenire alla loro definitiva determinazione, cosa del tutto improbabile dinanzi alla permanenza della questione palestinese, ciò accadrebbe quindi nell’epoca in cui essi sono sottoposti ad una generale rimessa in discussione. Non dalla politica quanto dall’evoluzione economica che, per più aspetti, li rende secondari rispetto alla libera circolazione delle merci, delle idee, ma anche dei corpi e quindi delle identità. La sfida culturale, in questo caso, si gioca più che mai tra l’universalismo del mercato, che introduce nuove diseguaglianze, nel mentre abbatte muri e vincoli di antica data, e il vivace particolarismo delle identità degli ebrei israeliani. Quale sarà il punto di sintesi? Lo Stato d’Israele è come uno specchio. Una comunità di idee nata sulla base di una cultura politica – il sionismo – che ha solidi ancoraggi nel pensiero occidentale, prodotto di un intenso processo di secolarizzazione intellettuale, ha originato una società nella quale per molti europei ed americani è facile identificarsi poiché richiama diversi elementi della propria esperienza, rendendoli semmai ancora più intellegibili. Israele, la cui reale natura è quella propria ad una qualsiasi moderna società politica, offre come una sorta di surplus sentimentale ed affettivo, che facilmente può trasformarsi in una deformante adesione ideologica o, alternativamente, in un non meno aprioristico rifiuto fondato sul pregiudizio. Su Israele si proiettano ombre e angosce del nostro recente passato, quello consumatosi laddove tutto sembra avere avuto inizio e al quale tutto riconduciamo, ossia la “vecchia” Europa. Pesa in ciò il segno indelebile lasciato nella società continentale dalla cultura ebraica; pesa, non di meno, l’atroce vicenda dello sterminio sistematico degli ebrei per mano dei nazisti e dei fascisti. Israele diventa così l’irrisolta coscienza (o l’incoscienza a seconda dei casi), del mondo occidentale. Per il mondo arabo e, ancor di più, per la numerosissima comunità musulmana, presente non solo in Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico ma, oramai, in tutto il pianeta, le tante storie individuali che confluiscono in quella collettiva d’Israele sono invece perlopiù estranee alla propria esperienza. L’emotività che vi si ricollega non ha quindi nulla a che fare con quell’effetto di rispecchiamento che per noi è così importante. Ciò che resta d’Israele, oltre ad Israele stessa, è quindi il tema dell’appartenenza condivisa nell’età della globalizzazione. Una tensione irrisolvibile tra particolarismo e universalismo nell’era dell’insicurezza collettiva. Non solo in quei luoghi ma negli spazi dell’uomo in quanto tali.

Letture.org | 13 febbraio 2022