Materie di base, altre a scelta. Idee per sbloccare l’istruzione

Paolo Conti | La Lettura | 24 aprile 2022

Per parlare del saggio La scuola bloccata dell’economista Andrea Gavosto, dal 2008 alla guida della Fondazione Agnelli, occorre partire dalla fine, dalle 59 pagine (129-188) che contengono le accuratissime note al testo (cifre di rilevamenti demoscopici, studi europei, parametrazioni internazionali) e una vasta bibliografia.

Dunque non siamo di fronte a un saggio-provocazione in cui si parte da una tesi, sostenuta da opinioni polemiche, per arrivare a una sintesi necessariamente di parte. Gavosto ci documenta — duramente ma scientificamente — ciò che vede chiunque abbia in casa un/a figlio/a sui banchi di scuola, o un parente insegnante, o segua le disperanti cronache giornalistiche sull’istruzione: la profonda crisi di uno snodo essenziale della società italiana.

Gavosto spiega subito che l’Italia è in ritardo, nell’istruzione, a partire dalle scarse risorse economiche (investimento del 3,8% del Prodotto interno lordo contro la media del 4,5% dei Paesi avanzati). Ora è in vista il mitico Pnrr con 20 miliardi, ma l’autore ci ricorda che gli impegni presi vanno mantenuti «pena la perdita dei finanziamenti.».

C’è un affanno insopportabile nei risultati scolastici, con quel .3%o di studenti che ancora non finisce la scuola superiore («anche se il tasso di abbandono si sta portando rapidamente in linea con la media continentale, tranne che in alcune regioni meridionali»).

Gli insegnanti sono anziani, età media 53 anni, la più elevata d’Europa: dato che da solo dimostra il baratro di incomunicabilità anche antropologico tra professori e alunni.

Altri dati. Un maturando su due «non possiede un bagaglio di conoscenze e competenze che gli consenta non solo di trovare un lavoro soddisfacente ma di essere un cittadino che capisca e partecipi alla vita di una comunità». La sentenza di Gavosto atterrisce qualsiasi genitore: «Siamo di fronte a una colossale débâcle della nostra scuola».

C’è poi il nodo delle differenze tra un Nord che si allinea alle migliori realtà europee e un Sud con livelli paragonabili a quelli turchi o greci. Una ingiustizia intollerabile «perché nessuno sceglie dove nascere». In quanto alle disparità di genere, stereotipi familiari e sociali allontanano ancora le studentesse dalle competenze scientifiche proprio mentre il mondo del lavoro produce posti nell’universo Steam (Science, Technology, Engineering, Mathematics ).

E il Covid con la didattica a distanza? Ha provocato «danni enormi, lacune che rischiano di trasformarsi in ferite permanenti nello studio e nel lavoro di una generazione». Andrea Gavosto condanna senza appello il fallimento di due riforme, la Buona Scuola di Matteo Renzi e, prima, quella di Luigi Berlinguer. Molti sono i suggerimenti operativi: rivedere il sistema di accesso all’insegnamento, evitare di buttare via troppi fondi nel risistemare edifici scolastici strutturalmente inadeguati, immaginare un forte asse di materie principali di insegnamento intorno al quale fare scegliere materie secondarie dagli stessi studenti.

Non un libro dei sogni, dunque: esperienze europee già solide unite a una logica deduzione da studioso appassionato e mai ideologico. Da raccomandare caldamente a tutti i nostri decisori politici, nessuno escluso.

Così nacque la seconda Repubblica

Un viaggio negli anni che segnarono il cambiamento all’interno del sistema politico italiano: dai prodromi di «Mani pulite» all’affermazione di Silvio Berlusconi e del centro-destra nel 1994

Piero Craveri | Domenica – il Sole24Ore | 6 febbraio 2022

Abbiamo ora con il libro di Simona Colarizi, Passatopresente, la ricostruzione storica più accurata, fino ad ora conosciuta, della caduta della prima Repubblica. Quella classe dirigente venne allora presa tra due fuochi concentrici, da un lato l’inchiesta giudiziaria avviata dalla Procura di Milano, dall’altro il deflagrare, nel settembre del1992, di una profonda crisi valutaria. Colarizi sa connettere, oltre questi due aspetti, i profili internazionali ed economici di questa crisi.

Nel dicembre 1991 era stato firmato il trattato di Maastricht, che introduceva la seconda fase dell’euro. Si apriva improvvisamente una nuova stagione di conti pubblici che riduceva le facoltà di spesa. Fu il governo Amato, l’ultimo della prima Repubblica, ad operare il risanamento necessario, con una forte manovra difensiva e di contenimento della spesa pubblica. Con esso crollava anche l’economia mista, che era stata la spina dorsale del sistema economico italiano.

Quanto all’inchiesta giudiziaria, avviata dalla Procura milanese, aveva un suo fondamento. Venivano infatti allo scoperto modalità del tutto illegali di finanziamento della politica. Bettino Craxi, in un suo discorso alla Camera, del luglio 1992, ne fece un quadro inequivocabile. Erano le modalità con cui la prima Repubblica finanziava la “politica”. E ciò fino ad allora era stato consentito dalla stessa magistratura, che finiva per archiviare i procedimenti in corso. V’erano state, nei passati decenni, tensioni ben più gravi, come alla fine degli anni Settanta, con i procedimenti aperti sui petroli, sui Caltagirone, sulla tangente Eni- Petronim con la P2 e altro ancora. Ora che la magistratura aveva cessato di avere, come si diceva, i suoi “porti nelle nebbie”, era l’intero sistema politico a saltare. I magistrati della Procura milanese condussero l’inchiesta, uniti dalla convinzione di vincere una volta per tutte la corruzione, che invece sarebbe continuata in altri modi. Presero così anche a forzare le procedure, una tendenza che, come nota Colarizi, si avviò proprio con “mani pulite”, alterando il rapporto costituzionale tra poteri dello Stato ed esercitando un ruolo senza meditato controllo, in seguito adeguandosi ad interessi neocorporativi, che non dovrebbero appartenere alle funzioni di un corpo dello Stato.

Colarizi mette giustamente l’accento sul fatto che quel sistema politico da quindici anni era rimasto lo stesso, portando con se promesse radicali di mutamento che non avvennero mai e determinarono così la lunga premessa di quel crollo repentino. E fu in una siffatta caduta di poteri statali che la sinistra italiana, guidata dal partito democratico postcomunista, pensò di poter in fine rappresentare una alternativa vincente, pervenire invece travolta nel1994 dall’improvvisata coalizione di Silvio Berlusconi.

Con BerIusconi il sistema politico acquisiva una valenza nuova: da centrosinistra stabile, diveniva tendenzialmente di centrodestra. Il paradosso italiano fu quello di trattarsi di un centrodestra senza un’idea di Stato. Nasceva infatti sulla pretesa di una società che voleva rappresentarsi quale era, senza altra specificazione che la natura funzionante del suo sistema economico-produttivo. Nelle elezioni successive del 1996 Berlusconi non riuscì a ricomporre interamente la sua coalizione e diviso dalla Lega Nord, lasciò la maggioranza nuovamente nelle mani della sinistra. Con Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi questa portò definitivamente l’Italia nell’euro.

Anche qui propriamente non era un’idea di Stato, ma di piena integrazione europea, quella da cui vennero i lineamenti di una nuova statualità, con il patto di stabilità e un rafforzamento dei poteri del governo. Si volle inoltre temperare tutto ciò con un rafforzamento delle autonomie locali. Quello che si faceva da un lato, si sfaceva dall’altro, cosa che non ha giovato all’armonia complessiva del sistema. Quando nel 2001 Berlusconi assunse nuovamente la guida del governo, pur avendo una forte maggioranza parlamentare, i suoi margini di governabilità risultavano strutturalmente assai ridotti, così che non riuscì a modificare il sistema ormai così consolidato istituzionalmente.

Da ciò si è manifestato un crescente populismo che rende precaria la stessa possibilità di una stabile alternativa interna di sistema. Una storia complessa da approfondire. Dispiace che Colarizi si sia fermata al 1994, premessa senza la quale, tuttavia, sarebbe difficile passare alla storia della seconda Repubblica.

 

 

Penne come armi: Virginia Woolf e le altre | Una bibliografia

Penne come armi: Virginia Woolf e le altre

Breve bibliografia relativa alla lezione di Valeria Palumbo presso l’Auditorium Parco della musica di Roma (27 marzo 2022) e il Teatro Grande di Brescia (2 aprile 2022), nell’ambito delle Lezioni di Storia Laterza.

La bibliografia che segue è solo parziale e approssimativa, e soprattutto sono puramente indicative le edizioni suggerite. In più, quasi tutti i testi stranieri citati e alcuni italiani antichi si trovano liberamente sul web: quelli stranieri in lingua originale. In più è relativa solo alla lezione e non intende ovviamente essere esaustiva per il tema trattato.

 

Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli.

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Feltrinelli.

Virginia Woolf e il fascismo, a cura di Merry M. Pawlowski, Selene edizioni, Milano 2004.

Virginia Woolf, Tutti i racconti, eNewton Classici. In particolare, A Society è online qui.

Virginia Woolf, Gli anni, Feltrinelli.

Christine de Pizan, Livre de la Cité des Dames, il libro della Città delle Dame, edizione francese Le Livre de Poche.

Film – BILLIE JEAN KING la battaglia dei sessi, 2017.

Dante, Donne ch’avete intelletto d’amore, Vita Nova, online.

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, online.

Tacete, o maschi – Le poetesse marchigiane del ‘300, Argolibri, 2020.

Valeria Palumbo, Veronica Franco. La cortigiana poeta del Rinascimento veneziano, Enciclopedia delle donne, 2019.

Veronica Franco, Lettere, Salerno editrice. Risulta esaurito.

Modesta dal Pozzo o Moderata Fonte, Il merito delle donne. On line qui. Ne parlo in Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle, Enciclopedia delle donne, 2018. Ne esiste anche una versione audiobook, edita da Storytel.

Vita Sackville West, Aphra Behn. L’incomparabile Astrea, Vanda edizioni, 2021.

Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman, 1792, qui.

Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Men, 1790, qui.

Mary Wollstonecraft, Maria, Dover Pubns, 2005.

Annie Denton Cridge, Man’s right o How would you like it?, 1870, qui.

Charlotte Perkins Gilman, La terra delle donne, Herland e altri racconti (1891-1916), 1915, Donzelli, 2011.

Margaret Cavendish, The Blazing World and Other Writings, Penguin Classics, 1994.

Luce d’Eramo, Io sono un’aliena, Edizioni Lavoro, 1999.

George Eliot, Middlemarch, Bur, 2008.

Anne Brontë, La signora di Wildfell Hall, Neri Pozza, 2014 (non indico Jane Eyre e Cime tempestose di Charlotte ed Emily Brontë, perché estranei alla lezione).

Louise Colet, Lui. Roman contemporain, Ligaran, 2015.

Natalie Clifford Barney, Pensées D’une Amazone, A preciser, 2011.

Elizabeth von Arnim, Uno chalet tutto per me, Bollati Boringhieri, 2018.

Louisa May Alcott: Her Life, Letters, and Journals, Read & Co. Books, 2019.

Pamela Lyndon Travers, Mary Poppins. Ediz. integrale, Bur, 2018.

Edith Wharton e Nellie Bly,  Da fronti opposti: Diari di guerra, 1914-1915, Viella Libreria Editrice, 2010.

Rebecca West, Trilogia degli Aubrey, Mattioli 1885, 2010. O nelle edizioni Fazi.

Rebecca West, Non è che non mi piacciano gli uomini, Mattioli 1885, 2012.

Valerie Solanas, Manifesto SCUM, Vanda edizioni, 2021.

Pauline Harmange, Odio gli uomini, Garzanti, 2022.

Andrea Dworkin, Intercourse, Basic Books; Anniversary edizione, 2006.

Sarai Walker, Dietland, Mondadori, 2020 (è anche una serie tv in streaming).

Johanna Russ, Vietato scrivere, Enciclopedia delle donne, 2021.

Valeria Palumbo, La donna che osò amare sé stessa. Indagine sulla contessa di Castiglione, Neri Pozza, 2021.

Valeria Palumbo, Non per me sola. Storia delle italiane attraverso i romanzi, Laterza, 2020 (rimando a questo libro per le scrittrici italiane dell’Ottocento).

Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli (che pubblica anche le altre sue opere).

Emilia Viola Ferretti, Una fra tante, Passerino, 2014.

Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, qui.

Valeria Palumbo, L’ora delle ragazze Alfa, Fermento, 2009.

Andrea Marcolongo racconta “De arte gymnastica”

Amanti del running oppure no, una cosa è certa. Tutto è cambiato dall’epoca di Filippide a oggi – la tecnologia, la politica, la scienza, la guerra, il modo di scrivere, di mangiare, di viaggiare, persino il clima –, ma due cose sono rimaste invariate: i nostri muscoli e quei maledettissimi 41,8 km che separano Maratona dall’acropoli di Atene.

Andrea Marcolongo, dopo anni trascorsi tra libri e grammatiche a provare a ‘pensare come pensavano i Greci’, ha cominciato ad allenarsi e ha provato a ‘correre come correvano i Greci’. E lo ha fatto utilizzando come strumento di accompagnamento il primo manuale di sport della storia, il De arte gymnastica del filosofo Filostrato. Fino al folle proposito finale: correre una maratona, anzi, la maratona, i 41,8 km che separano Maratona da Atene percorsi duemilacinquecento anni fa dal soldato Filippide, prima di stramazzare a terra per la troppa fatica.

 

Ugo Dinello racconta “La via delle armi”

Cinquant’anni e più ci separano dagli anni di piombo, che hanno lasciato una tragica sequenza di massacri.

Piazza Fontana, piazza della Loggia, la questura di Milano, per arrivare al meno ricordato di questi eventi: nel piccolo paese isontino di Peteano il 31 maggio 1972 una bomba camuffata in una 500 rubata esplose uccidendo tre carabinieri.

Cinquant’anni sono passati ma fin qui non è stato evidenziato il fatto che tutte queste vicende hanno un elemento in comune: esplosivo e carnefici provenienti dalle stesse zone del Paese, quell’area del Nord-Est in cui nel secondo dopoguerra si sono innervate le trame oscure di Gladio. In quelle stesse zone per vent’anni qualcuno (probabilmente più di uno) ha colpito cittadini indifesi, donne e bambini inclusi, lasciando nei luoghi più comuni micidiali dispositivi pronti a esplodere.

Come mai gli autori di questi delitti non sono stati mai intercettati? Chi li ha formati e coperti?

Ugo Dinello mette insieme tasselli di un mosaico complesso, collegando protagonisti e fatti degli anni più cupi della Repubblica ne La via delle armi.

 

 

Alessandro Marzo Magno racconta “Venezia”

L’alfa e l’omega della parabola veneziana si vedono a Torcello: qua una lapide del 639, la più antica testimonianza scritta dell’esistenza di Venezia; là i banchetti acchiappaturisti di souvenir made in China. In mezzo, quasi mille e quattrocento anni: alcuni gloriosi e potenti, altri ricchissimi e splendenti, altri ancora declinanti e incerti.

Con il piglio del cronista e con il rigore dello storico, Alessandro Marzo Magno ci accompagna in un’avvincente passeggiata lungo i secoli per ricostruire la storia che ha portato alcune isolette della laguna adriatica a dominare per secoli mezzo Mediterraneo, e non solo.

 

 

La censura è stata la culla della modernità

Un libro dello storico Giorgio Caravale ripercorre la storia delle politiche di limitazione della libertà d’espressione, smontando i luoghi comuni. Il nostro mondo è il prodotto di filtraggio e sintesi all’interno di una dialettica aspra.

Raffaele Alberto Ventura | Domani | 18 marzo 2022

Siamo abituati a considerare la censura come un fenomeno condannabile e retrogrado, caratteristico di regimi autoritari come Russia o Cina. La “cancel culture” degli americani ci appare come la sua forma più blanda, un retaggio arcaico inspiegabilmente sopravvissuto al vento del progresso. Questa nostra diffidenza è figlia della cultura illuminista e liberale, forgiata nella lotta contro le istituzioni tradizionali, stato chiesa famiglia.

La censura, nel nostro immaginario, coincide con il Super-Io freudiano che viene a bastonare la vitalità e la creatività.

Eppure siamo pronti a concedere che sia talvolta opportuno sanzionare la disinformazione, la diffamazione, il bullismo, l’odio, fenomeni amplificati dalla tecnologia: un tempo era la stampa, oggi la rete. Con la modernità nasce la censura, ma forse vale anche il contrario: e se invece fosse dalla censura che nasce la modernità?

LE VIRTÙ DELLA CENSURA Prendiamo l’esempio dell’Inghilterra del Cinquecento, nella quale fiorivano gli spettacoli popolari a tema biblico, dalla storia di Adamo ed Eva alla passione di Cristo.

Una tradizione, quella del mistery play, brutalmente annientata da una serie di misure di censura. In un contesto di crescenti tensioni religiose, di tafferugli e violenze a margine delle rappresentazioni, come tre attori bruciati vivi a Salisbury nel 1541, i poteri pubblici iniziarono a intervenire per limitare la libertà: per andare in scena bisognava far verificare il testo alle autorità, ci voleva il nome di un autore da perseguire, bisognava rispettare certi luoghi e certi tempi, professionalizzarsi, e soprattutto venne proibito di affrontare temi caldi legati alla fede.

Insomma in pochi anni tra il 1543 e il 1576 la censura impose lo sviluppo del testo scritto, la definizione della figura dell’autore, la professionalizzazione degli attori, la costruzione di teatri e l’approdo a temi storici, politici, comici.

Così hanno iniziato a spuntare nuove forme teatrali, che ancora oggi leggiamo e mettiamo in scena perché la messa per iscritto, imposta dal legislatore, ha permesso di tramandarle: storie di vendetta e di potere, d’amore e di gelosia.

Tempo pochi anni e nel 1592 andò in scena il Riccardo III, capolavoro che viene rappresentato quotidianamente ancora oggi. In breve, la censura aveva creato Shakespeare. E pazienza per Adamo ed Eva, no?

UN’EPIDEMIA DA CONTENERE Fenomeni simili sono accaduti in tutta Europa, perché tutta Europa era divisa sulle questioni religiose: nel 1517 Lutero aveva reso pubbliche le sue 95 tesi contro il papa, nel 1534 veniva ratificato lo scisma anglicano.

Con la diffusione della stampa, i diversi poteri si erano convinti che fosse necessario controllare la proliferazione e la circolazione dei libri, che portava con sé il seme della divisione. Le società dell’epoca, proprio come la nostra, erano fondate sulla condivisione di un immaginario comune, e comprensibilmente si temeva quel che sarebbe accaduto – e che infatti accadde – e si fosse frammentata quell’unità.

Bisogna resistere alla tentazione di leggere la storia della Riforma come una lotta tra progressisti e reazionari: spesso erano i protestanti i più fondamentalisti e sessuofobi, e taluni episodi che associamo alla Controriforma cattolica, come i celebri braghettoni aggiunti al Giudizio Universale di Michelangelo, non erano altro che misure predisposte per venire incontro alla nuova sensibilità.

Una fetta importante di questa vicenda la racconta lo storico Giorgio Caravale in Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna, appena uscito per Laterza, mostrando come la censura non fosse un banale interruttore che accende e spegne la vita culturale bensì una forza che la rimodula, la orienta, la filtra, al di là del bene e del male: un fenomeno storico a tutto tondo, nella sua complessità.

Un tentativo, fin dall’inizio, non soltanto di affrontare problemi politici e di ordine pubblico, ma anche di gestire il sovraccarico costituito dalla produzione intellettuale attraverso un’ambiziosa economia pianificata del sapere, che a sua volta produce delle strategie di aggiramento che trasformano in profondità le forme di espressione e i registri espressivi.

LA POLITICA CULTURALE DELLA CHIESA Da parte papista, il contenimento della pubblicistica protestante apparve come un’urgenza in tutta Europa dalla metà del Cinquecento.

Come se già non fosse abbastanza complesso arginare i borbottii ereticali disseminati da predicatori e fraticelli con i poveri mezzi del passaparola, l’invenzione di Gutenberg aveva spostato il problema su una scala epidemica.

A Parigi, Lovanio, Milano, Venezia si stilano elenchi di libri proibiti, come poi a Roma con il Sant’Uffizio e il proverbiale Indice (1558), s’istituiscono magistrature preposte al controllo delle pubblicazioni e si definiscono sanzioni per i contravventori.

Il fosco ritratto della macchina repressiva papista viene tuttavia temperato da Caravale con vari elementi: innanzitutto la chiesa è tutt’altro che monolitica, e le maree della censura rispecchiano il moto astrale dei poteri al suo interno, i contrasti tra il centro e la periferia, l’equilibrio tra spinte riformatrici e spinte conservative; secondariamente non è monolitico lo spettro dell’eresia da sanzionare, che va da minuscoli scarti terminologici alle più visionarie cosmogonie alternative, in pratica le “fake news” dell’epoca. Soprattutto emerge un conflitto permanente tra norma e prassi.

Lontano da ogni caricatura, Caravale mostra bene quanti margini di libertà lasciano in ogni tempo i dispositivi di repressione.

La massa di testi da controllare e perseguire era troppo grande e i mezzi semplicemente non bastavano. Più profondamente perché lo scopo della chiesa spesso non era di cancellare i testi, soprattutto quando presentavano un valore intrinseco come quelli di Boccaccio e Petrarca, bensì correggerli ed emendarli dai loro errori.

Il risultato concreto fu di operare un continuo aggiornamento per renderli leggibili di epoca e in epoca: una fondamentale opera di mediazione culturale.

NON SI POTEVA PIÙ DIRE NIENTE Non era solo la chiesa a censurare: come nel caso inglese, o come in Francia dove Francesco I istituisce il deposito legale di ogni libro presso la Biblioteca del re, la censura è il primo grande banco di prova del potere dello stato moderno, lo spazio nel quale inizia a costituirsi un nuovo tipo di giurisdizione, spesso in conflitto con quella papale.

Caravale mostra come il dibattito all’epoca non fosse tanto sull’opportunità o meno che vi fosse una qualche forma di censura sulla produzione intellettuale e libresca, quanto su chi dovesse effettivamente svolgerla e in che modo.

Perché i problemi dell’epoca non erano tanto diversi da quelli da cui sorge oggi il dibattito sul “politicamente corretto”. Anzi erano esattamente gli stessi: controllare le esternalità negative della libertà sessuale, temperare l’odio intercomunitario, arginare la diffusione di saperi non conformi.

Obiettivo primario delle politiche di censura non era tanto quello di reprimere le minoranze religiose quanto piuttosto di evacuare i conflitti. Gli editti di pacificazione francese, dal 1570 in avanti, non fanno altro che insistere sulla necessità di una censura trasversale per cancellare la memoria delle violenze reciproche.

Lo stato moderno nasce facendo nascere uno spazio nuovo, che prima non esisteva, e che oggi chiamiamo “spazio pubblico”. Uno spazio sociale ordinato, sottomesso a dispositivi giuridici e polizieschi, ovvero oggetto di privilegio, registrazione, controllo, amministrazione, protezione ed eventualmente sanzione.

Il risultato di queste politiche fu di dare corpo a nuove comunità, definite dall’influenza di specifici centri di coordinamento della produzione culturale, che diventeranno poi le comunità nazionali.

LA CENSURA NON È UN PRANZO DI GALA Ovviamente la censura non è un pranzo di gala. Essa appare, a ogni epoca, come una forza sostanzialmente conservativa, che rallenta il cambiamento. È ovvio che soltanto spingendo in là i limiti del dicibile sia possibile generare innovazione – nella scienza, nelle arti, nella politica – e smuovere i rapporti di potere. La censura inoltre ricorre in talune occasioni a strumenti di repressione violenta, raramente persino alla morte.

E Caravale insiste sulla dimensione elitista nel progetto di “proteggere” i meno istruiti dai danni della lettura.

Tuttavia Libri pericolosi ci ricorda che la nascita della modernità non è banalmente il risultato dell’esplosione di certe istanze spontanee di novità, bensì il prodotto di un filtraggio e di una sintesi, all’interno di una dialettica aspra. Ci mostra, insomma, come la censura ha plasmato il mondo in cui viviamo.

 

 

 

#CasaLaterza: Vincenzo Paglia dialoga con Massimo Recalcati

In questi primi venti anni del XXI secolo abbiamo assistito a tragedie che non pensavamo possibili. È facile essere pessimisti. Ci sono però altrettante ragioni per sperare in un futuro migliore: siamo tutti radicalmente fragili, ma è dalla consapevolezza di questa comune vulnerabilità che si possono rifondare le basi della convivenza tra gli uomini.

In diretta Facebook e YouTube, per Casa Laterza, abbiamo parlato del libro La forza della fragilità con l’autore Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia, e con Massimo Recalcati, psicoanalista e accademico, con la moderazione di Lia Di Trapani.

 

 

Il libro:

Gabriele Balbi racconta “L’ultima ideologia”

La rivoluzione digitale ci ha reso sempre connessi e in grado di comunicare istantaneamente con persone di tutto il mondo.

Ci ha regalato una quantità apparentemente infinita di informazioni e opportunità, ci ha dato l’illusione che vecchie barriere e gerarchie crollassero e che ‘magnifiche sorti e progressive’ fossero davanti a noi. Ma è proprio così? O si tratta di una vera e propria ideologia, con i suoi miti e i suoi profeti, quasi come fosse una religione?

Gabriele Balbi, storico e teorico dei media, ci interroga con queste e molte altre domande in L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale.

 

 

Il libro:

Gianluca Falanga racconta “Non si parla mai dei crimini del comunismo”

«Nessuno parla mai dei crimini del comunismo!»: sul serio?

Dagli eccidi perpetrati dai bolscevichi al massacro di Piazza Tienanmen a Pechino, i crimini dei regimi comunisti o sedicenti tali non sono mai stati sconosciuti, anche quando si è provato a tacerli o negarli; hanno accompagnato la storia del secolo scorso come un’ombra cupa e assillante, condizionandone il corso. Oggi, oltre 5000 monumenti, musei e memoriali sparsi per il mondo, istituti di ricerca, fondazioni, associazioni di ex prigionieri politici e una letteratura vastissima testimoniano che non esiste alcuna congiura del silenzio a oscurare le violenze commesse in nome della società senza classi.

Il problema, in verità, è più serio. Se è vero che in tutti gli Stati comunisti, dall’Urss alla Cina, dall’Angola al Vietnam, dall’Albania a Cuba, si sono riprodotti i caratteri di una violenza che ha la sua matrice nella qualità totalitaria del progetto leninista, dobbiamo capirne le specificità al di là di semplificazioni faziose e di sciocche equiparazioni.

Non si parla mai dei crimini del comunismo, di Gianluca Falanga, smentisce immaginari e luoghi comuni di quello che, nel bene e nel male, è stato il più vasto movimento politico del mondo contemporaneo.