Nel diario di Mario Lodi l’esperienza si fa conoscenza

Pagine che ripercorrono il lavoro di maestro elementare tra il ’51 e il ’62

Vanessa Roghi | il manifesto | 12 gennaio 2022

C’è una scena del film di Vittorio De Sica Miracolo a Milano (1951) nella quale un raggio di sole appare, inatteso, a illuminare la desolata distesa dove vivono i poveri, nella periferia della grande città. A questa visione tutti corrono a scaldarsi, e si accalcano in questo piccolo spazio che si sposta però, perché le nuvole veloci impediscono al sole di dare calore a lungo ai corpi infreddoliti. Piace pensare che Mario Lodi abbia avuto in mente questa sequenza quando, qualche anno dopo, ha iniziato a scrivere il suo diario scolastico C’è speranza se questo accade al Vho – che torna domani in libreria per Laterza, pp. 336, euro 19 – dove possiamo leggere: «Nel nostro cortile c’è pochissimo sole e noi bambini, durante la ricreazione, andiamo là a scaldarci. Oggi alle ore 11,15, cioè quando ce n’è di più, Stefana, Luciano e Claudio l’hanno misurato: la striscia era triangolare, lunga m 9,40 e alta cm 58. Trovate l’area della striscia di sole che abbiamo per scaldarci (Inventato da noi ragazzi)».

Se per Totò di Zavattini la striscia di sole è occasione per immaginare un modo diverso di vivere insieme, per Mario Lodi diventa spunto per trasformare l’esperienza in conoscenza, mettendo in pratica una nuova didattica che Lodi ha conosciuto grazie all’incontro con i maestri e le maestre della Cooperativa della tipografia a scuola (poi Movimento cli cooperazione educativa) che nasce nel 1951. Lodi, questa didattica, la racconta nel suo diario che va dal 1951 al 1962, attraverso episodi minuti, che lasciano sconcertato chi nel lavoro scolastico cerca innanzitutto dichiarazioni di principio e ricette: il suo è il resoconto di un’ordinaria amministrazione che diventa però eccezionale se messa a confronto con la classe accanto alla sua, dove sopravvive la scuola «che si è sempre fatta così».

Un episodio lo racconta bene: accade quando la maestra A. entra nell’aula di Lodi con un foglio che tiene con due dita «come se fosse una cosa schifosa». La maestra spiega che è stata lei stessa a incoraggiare i bambini a fare quello che volevano, a colori o anche con la matita nera. «Ho fatto bene, no? E guarda qui cosa ha fatto». Lodi guarda il disegno: il foglio è riempito da segni decisi che sono il mare, e una barchetta, e un pupazzetto dritto e un pupazzo più grosso e inclinato, dentro il mare con un’altra figura tutta nera e una bella pera. La maestra è sconcertata: «questa barca è la caravella di Colombo (stamattina ho parlato della scoperta dell’America), il pupazzo piccolo è Cristoforo Colombo vivo, quello grosso nel mare è Colombo morto, questa figura nera è il pescecane e questa la pera di cui avete conversato oggi». La maestra si chiede: «È possibile che un bambino intelligente come questo mi metta la pera nella storia di Cristoforo Colombo? Allora son io che ho sbagliato a spiegare».

Lodi prova a condividere con la collega quello che sa sulla psicologia dei bambini e sul disegno infantile. In questo caso il bambino ha insegnato alla maestra, che non intende tenerne conto però, «che vi sono leggi che non si possono eludere, che una pera per lui è cosa ben più importante e concreta di un’immaginaria caravella, che ben più pauroso è il pesce nero dell’incomprensibile immensità dell’oceano; che non si può dirgli: tanti anni fa è avvenuto questo, ora Colombo è morto, quando non ha ancora il senso della stagione». Così facendo Lodi propone una lezione di metodo sulla creatività infantile e allo stesso tempo sulla didattica della storia che deve entrare in classe quando un ragazzo scopre che in qualche modo lo riguarda. Nel suo caso questo accade quando un bambino capisce che a Vho i Longobardi hanno costruito una chiesa e un monastero, un fatto concreto, reale, che spinge a disegnare la mappa del paese e riempirla di storie e di storia.

Questo metodo mette insieme quello degli insegnanti dell’Mce, con quello della co-ricerca che parallelamente Lodi porta avanti secondo la linea proposta da Gianni Bosio. Le pagine dì Lodi, infatti, saranno pubblicate da Bosio nelle Edizioni Avanti! nel 1963. Questa collocazione editoriale è molto importante per capire che cosa il libro rappresenti non solo per la storia della scuola ma anche per la storia culturale italiana nel suo complesso.

Lodi è, senza dubbio, il primo intellettuale italiano a ragionare in senso critico sulla modalità di svolgere un lavoro politico coi bambini facendo con loro esattamente quello che Gianni Bosio propone nell’Introduzione al catalogo delle edizioni Avanti nel 1957: stimolare la produzione libera di testi. L’intellettuale rovescia la sua posizione e si pone in ascolto, non dà la voce, ma la accoglie. Lodi compie il gesto più radicale quando, sollecitato dalla riflessione dell’Mce, applica questo metodo all’infanzia.

Messo in ombra dal grande successo che avrà, dieci anni dopo Il paese sbagliato, C’è speranza se questo accade al Vho rimane, senza dubbio, il libro più bello di Lodi: l’incertezza del giovane maestro, i dubbi, il confronto con i colleghi restituiscono il senso di un progetto pedagogico ancora oggi valido come allora perché parte dal bambino nella sua realtà che cambia per definizione nel tempo e per questo non può mai invecchiare.

 

Il libro:

 

#CasaLaterza: Carlo Greppi dialoga con Francesco Filippi

Carlo Greppi e Francesco Filippi dialogano a partire da Il buon tedesco, che racconta una vicenda autentica, tanto straordinaria quanto poco nota: quella degli ‘Special Germans’, i soldati tedeschi e austriaci che, nella seconda guerra mondiale, disertarono per unirsi ai partigiani.

Il libro:

Non si può mai smettere di misurare

Un libro di Piero Martin racconta come sono nati metro, secondo, chilogrammo…

Adriano Favole | La lettura – Corriere della Sera | 9 gennaio 2022

Nel 1769 Tupaia, un polinesiano di Tahiti, salì a bordo dell’Endeavour, l’imbarcazione di James Cook, e guidò l’equipaggio alla scoperta delle isole della Società. A bordo Tupaia disegnò una celebre mappa (ora alla British Library) delle isole dell’Oceania. Mentre i britannici si orientavano collocando le isole in uno spazio cartesiano attraverso la griglia della latitudine e della longitudine, Tupaia e i marinai polinesiani che esplorarono tutta la Polinesia un migliaio di anni prima di Cook — misuravano la distanza tra le isole attraverso un insieme di variabili che includevano forma e frequenza delle onde, forza presunta dei venti, presenza o meno di correnti marine, mettendo in conto l’attesa serale delle rotte tracciate in cielo dagli uccelli marini e l’apparizione notturna dei «sentieri» di stelle che sorgevano all’orizzonte. La mappa di Tupaia rappresenta la distanza non attraverso una misurazione di tipo metrico, ma contraendo e dilatando lo spazio-tempo in funzione di venti, correnti e altre variabili. I polinesiani non erano Einstein, ma avevano una visione relazionale (e in fondo relativa) dell’universo marino: in base alle loro conoscenze era sensato misurare la distanza tra le isole in funzione del tempo di percorrenza delle rotte che le legavano in una trama di fili oceanici.

L’uomo misura tutte le cose, si potrebbe dire. Ogni società, a volte ogni comunità, ha sentito l’esigenza di misurare le distanze, lo scorrere del tempo, il peso degli oggetti, l’intensità di una fiamma. Ogni società lo ha fatto a modo suo, cioè a partire dal tipo di esperienza e di relazione che ha instaurato con l’ambiente. Le 7 misure del mondo del fisico Piero Martin (Laterza) prende spunto dalla confusa quanto ricca babele di modi con cui in passato si è misurato il mondo. Il corpo umano ha fornito ispirazione con le spanne, le braccia, i piedi, i passi, il cubito ovvero la distanza, di circa mezzo metro, tra la punta del gomito (cubitus) e quella delle dita, in uso in gran parte delle civiltà del Mediterraneo. La rotazione degli astri ha permesso di misurare il tempo, con le ore, i giorni, l’alternarsi delle stagioni. Prodotti come un chicco di grano, il seme di carrube (da cui viene il carato con cui definiamo i diamanti), una data quantità di acqua (per esempio i «talenti» di cui parla il Vangelo che corrispondevano nella Grecia antica a circa 26 chilogrammi) hanno costituito unità di misura molto diffuse. Nell’antico Egitto il dio Anubi usava una bilancia a due piatti per pesare il corpo del defunto paragonandolo con una piuma. La parola «bilancia» significa letteralmente «due volte» (bis) un «piatto» (lanx).

«Da sempre — scrive Martin — l’uomo misura il mondo. Lo misura per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire con i suoi simili, per dare e avere giustizia, per rapportarsi con le divinità. La misura è potere, ma è anche fiducia reciproca». Le 7 misure del mondo prende spunto dal caleidoscopico archivio delle culture, ma si propone di narrare, con gustosi episodi e riferimenti alle biografie dei grandi nomi della fisica, il modo in cui la scienza ha standardizzato e universalizzato la misurazione. Con sette unità di misura fondamentali — il metro, il secondo, il chilogrammo, il kelvin, l’ampere, la mole, la candela — possiamo comprendere e valutare l’universo, dal micro al macro. Come si è arrivati a questo accordo internazionale? E soprattutto, è possibile definire in modo preciso le unità di misura, sottraendole alla tentazione della manipolazione e dell’inganno e alla deperibilità dei materiali con cui tradizionalmente erano state identificate?

Prendiamo il metro, termine che già da un punto di vista etimologico ci porta alla «misura». Nell’antica Roma le pietre miliari definivano la distanza dalla capitale e dalla città più vicina in passi, corrispondenti a circa un metro e 48 centimetri, il tratto che unisce il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede (un po’ contro intuitivo per noi che in genere definiamo il passo in rapporto allo stacco del primo e all’appoggio del secondo piede). Il miglio, milia passum, corrispondeva a 1.480 metri. Con la fine dell’Impero romano il miglio cadde in disuso e in Europa tornarono a diffondersi sistemi locali, forme di «sovranismo metrico» le definisce Martin. Saranno il metodo di Galileo a livello scientifico e la Rivoluzione francese a livello politico ad avviare un processo di standardizzazione. Nell’Assemblea nazionale del 3o marzo 1791 il metro venne definito come un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’equatore misurata lungo il meridiano che passava per Parigi. Sulla base di ciò venne realizzata una barra in platino, definita mètre des archives, e varie copie furono sistemate su palazzi parigini. Quel prototipo sarà la base del metro italiano visto che nel i861 il sistema metrico decimale fu introdotto, non senza opposizioni, nel Regno d’Italia.

Un secolo dopo la Rivoluzione, il sogno di un sistema di misurazione internazionalmente condiviso divenne realtà, con l’istituzione nel1875 a Parigi della Conferenza generale dei pesi e delle misure. Le rivoluzioni scientifiche che sconvolsero la fisica classica tra il XIX e il XX secolo resero tuttavia anacronistica la definizione del metro in base a un materiale «deperibile» come il platino. I termini di paragone di metri, secondi, grammi cessarono di essere oggetti tratti dall’esperienza comune e divennero le nuove forze o leggi universali, come la costante di Planck o la velocità della luce, che la fisica svelava nel suo studio di micro e macrocosmo.

Oggi il metro è definito pari a 1.650.763,73 lunghezze d’onda della radiazione emessa durante una precisa transizione energetica dell’atomo di kripton 86. Una definizione per nulla intuitiva e, per fortuna, nelle nostre case continuano a esistere metri di legno snodabili con cui misurare lo spazio che abbiamo a disposizione.

Il libro di Martin mostra la transizione tra l’eterna esigenza di misurare il mondo e il processo di uniformazione degli standard di misura, prodotto e produttore della globali7zazione. Come tutte le rivoluzioni, però, anche quella dei pesi e delle misure ha avuto i suoi costi. Misurare, scrive Martin, è anche un atto di potere. E ancor più lo è imporre le proprie misure al resto del mondo. Come osserva James Scott (Lo sguardo dello Stato, Elèuthera, 2019), la globalizzazione delle misure ha significato anche la perdita di diversità culturale e la svalutazione di forme di esperienza del mondo altre da quelle basate sulla scienza occidentale. Se nessuno di noi sarebbe oggi disposto a rinunciare alla precisione di un Gps, alla puntualità di un Frecciarossa, alla sicurezza fornita da un puntatore laser capace di definire la temperatura corporea, è bello tuttavia immaginare un mondo in cui la massima precisione degli orologi atomici convive con l’esperienza della «durata» di un tramonto, in cui la capacità di calcolare la distanza tra la Terra e un cratere di Marte convive con quella che Scott chiama la metis, l’esperienza pratica e artigianale delle cose.

Il libro:

Pandemia. Lezioni dal Medioevo

Nel Trecento il mondo venne devastato da inondazioni, pestilenze, carestie. Ma le tre grandi civiltà del tempo costruirono dei “paesaggi adattativi”. E riscrissero il futuro

Emanuele Coen | L’Espresso | 9 gennaio 2022

Per quanto terribile, la pandemia di Covid-19 è solo una delle crisi che ha conosciuto l’umanità nel corso dei secoli. Nel 1300, ad esempio, sul finire del nostro Medioevo, il mondo viene attraversato da una serie di eventi naturali drammatici e devastanti: pestilenze, inondazioni, carestie. Da un capo all’altro dell’Eurasia si avvertono le conseguenze di un improvviso mutamento delle temperature e l’inizio di quella che viene chiamata “piccola glaciazione”. Eppure le tre grandi civiltà del tempo, quella europea, quella islamica e quella cinese, seppero costruire veri e propri “paesaggi adattativi” per affrontare le sfide e gettare le basi per il futuro. Amedeo Feniello, docente di Storia medievale presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila, ricostruisce il secolo della dinastia Ming e della peste nera nel suo libro “Demoni, venti e draghi” (Editori Laterza).

Professor Feniello, in cosa consistono i “paesaggi adattativi”?

«L’idea nasce negli anni Trenta dei secolo scorso. Il primo ad usarla è stato il genetista Sewall Wright, seguito da molti altri che l’hanno trasformata in una metafora globale dell’evoluzione, con l’idea dell’esistenza, in natura, di infiniti paesaggi ecologici, differenti ma interrelati tra loro, ognuno con le proprie asperità e i propri picchi, che tuttavia si adeguano e rispondono in modo sempre diverso all’ambiente circostante. Tante nicchie, come tante sono le nicchie sociali umane che, come vediamo oggi, seguono percorsi autonomi per rispondere alla pandemia».

Quali sono le differenze sostanziali tra le crisi del Trecento nel mondo islamico, in Cina e in Europa?

«Il mondo era molto più slabbrato di quanto lo sia oggi. Le distanze erano pressoché incolmabili per i mezzi dell’epoca. Ad esempio, in Cina prevalse prima un sistema assistenziale di massa che, sotto la dinastia mongola degli Yuan, fu, a causa del continuo esborso di carta moneta per garantire soccorso, una delle molle che fece completamente saltare il banco, innescando una spirale inflattiva cui non si riuscì a porre rimedio. Politica su cui prevalse, dopo la dura e terribile fase di instaurazione del nuovo governo Ming alla metà del Trecento, una sorta di new deal, con la realizzazione di enormi opere pubbliche, come il Gran Canale o la Grande Muraglia. Diversa fu invece la situazione europea, dove i grandi shock ambientali ed epidemici accelerarono molti dei processi in corso, trasformando l’Occidente cristiano in un grande laboratorio di innovazione politica, finanziaria, sociale. Frutto di quell’epoca sono l’invenzione della holding e la nuova impalcatura degli Stati nazionali».

E nel mondo musulmano?

«La più straordinaria rivoluzione riguardò l’attuale Indonesia, che nel giro di un secolo si trasformò in un universo islamico. Un’ondata di conversioni non dovuta all’esercizio della violenza, ma pacifica, importata da frotte di mercanti che attraversavano l’ampio spazio tra Oceano Indiano e mar della Cina. Una trasformazione religiosa figlia dei tempi, forse perché la spinta messianica insita nell’Islamismo ben si addiceva a un’epoca turbolenta e difficile come quella del Trecento. Ma, senza dubbio, una trasformazione trasportata dai monsoni, i venti dell’espansione commerciale dei mercanti islamici».

La storia non è maestra di niente, scrive lei, perché se insegnasse davvero vivremmo nel migliore dei mondi possibili. È così pessimista?

«No, non sono pessimista. Sono realista. Ma, leggendo la storia, mi resta una percezione chiara: che ogni crisi è strumento, allo stesso tempo, di vita e di morte. Ricorda le “distruzioni creatrici” di Schumpeter? Ecco, quella è una formula che mi convince. Prendo un esempio legato all’attualità: il mondo dopo il Covid-19 non è più quello di appena due anni fa, del febbraio 2020. I cadaveri lasciati dalla pandemia, non solo quelli concreti, reali, ma parlo di quelli metaforici, sono una miriade».

Come sostiene lo storico Carlo Maria Cipolla, che lei cita nel libro, «ai primi del Trecento il solo modo di essere ottimisti era quello di credere che nel futuro le cose sarebbero continuate ad andare come erano andate nel passato, il che nella storia non è mai vero». È una considerazione valida anche oggi?

«Non ho scelto a caso questa frase di uno storico straordinario come Carlo Maria Cipolla che aveva spesso una lente peculiare per leggere l’evoluzione dello spazio economico europeo. Quello che pensavano quegli uomini del Trecento non mi meraviglia: anche noi abbiamo la percezione che il mondo in cui viviamo sia non solo l’unico possibile ma, al contempo, immuta- bile. Pure per noi, all’inizio di questo millennio, sembrava che tutto fosse regolare, preciso, scandito a lettere di fuoco nell’evoluzione perfetta della “fine della Storia”. Mai parole furono più inette e inutili. La “fine della Storia” è stato un fraintendimento durato un attimo, trascinato via dalla crisi del 2008 e poi dal primo contagio Covid-19 nella città di Wuhan».

Nel caso della Cina, le strategie messe in atto nel Trecento dalla dinastia Yuan si rivelarono disastrose, mentre la dinastia successiva, i Ming, misero a segno opere di rilevanza fondamentale per i secoli successivi. Come avvenne il cambio di passo?

«Avvenne con una violenta e profonda rivoluzione, anche se quello di “rivoluzione” per i cinesi è un termine improprio: essi preferiscono quello di “geming” che non significa rivolta ma “revocare il mandato”, ossia sostituire una dinastia immeritevole del mandato del Cielo con una migliore. Ciò non toglie che, nel corso del Trecento, ciò avvenisse con una serie turbinosa di guerre dove diversi signori della guerra e il movimento dei cosiddetti Turbanti rossi e il potere Yuan si contendessero il potere e provocassero morte e distruzione. Quando vince e si consolida, la nuova dinastia Ming riesce a ristabilire l’ordine dal caos, con una serie di opere che intervengono dal basso, a partire dai villaggi rurali: un modello che non lasciò indifferente anche Maso Zedong».

L’emergenza ambientale, tra le priorità della nostra epoca, è stata cruciale anche in altre fasi storiche. Ad esempio in Egitto, dove il sistema si basava sull’unica risorsa delle piene del Nilo, quando arrivò la crisi demografica saltò l’intero sistema. Come si riorganizzò l’economia egiziana?

«Non si riorganizzò e l’Egitto entrò in una crisi irreversibile dopo essere stato per secoli uno dei bacini industriali e produttivi del Mediterraneo e del mondo islamico. Si interruppe il sistema di gestione delle piene del Nilo, indispensabili per la produzione agricola e per la distribuzione delle risorse nelle varie parti del Paese. Quando la peste nera fece irruzione nel paesaggio egiziano e trascinò con sé centinaia di migliaia di persone, venne a mancare la massa di manovra che doveva sovrintendere alle strutture del Nilo. Ebbero luogo impaludamenti, ingolfamenti, innalzamenti e abbassamenti inaspettati. Un disastro».

Il Trecento, dunque, è anche il secolo della peste nera. Dalla Cina fino all’Europa si diffonde un’epidemia che sembra annunciare l’apocalisse, accompagnata da furiose inondazioni e giganteschi sciami di cavallette. Come ne uscì l’umanità?

«La peste nera fu uno shock epidemico di una natura non comparabile con quanto stiamo vivendo oggi. Le proporzioni furono terribili, con un tributo di vite umane pari a un terzo dell’intera popolazione euroasiatica. Inoltre, la peste nera non fu che l’inizio e tornò in forme altrettanto virulente nei secoli a venire: basti pensare alla peste del Seicento raccontata nei “Promessi sposi”. II mondo non poteva essere più quello di prima e uscì dall’epidemia boccheggiante. Tuttavia, il nuovo avanzò. L’Europa, ad esempio, cominciò a liberarsi di alcuni fardelli culturali, si riscoprì il latino classico, la filologia la fece da padrona. Soprattutto si avvertì il fastidio verso l’epoca passata che esprimeva valori in cui il mondo dono I peste non si riconosceva più e nacque un’idea nuova di Medioevo: una lunga stagione compressa tra due splendori, quello dell’epoca classica greco-romana e quella rinnovata degli umanisti tre-quattrocenteschi. Risposte e accelerazioni che furono anche figlie della crisi ambientale e pandemica».

Il libro:

Vaccini covid-19: proposta di un fondo di solidarietà fra UE ed Africa

Pubblichiamo questo appello scritto da Massimo Florio e Giuseppe Remuzzi e promosso congiuntamente dal Corriere della Sera e dagli Editori Laterza.

Questo il link per partecipare e firmare.

[english version below]

PROPOSTA DI UN FONDO DI SOLIDARIETÀ FRA UNIONE EUROPEA ED AFRICA PER UN PROGRAMMA URGENTE SUI VACCINI COVID-19

7 Febbraio 2022

Massimo Florio * e Giuseppe Remuzzi **

  • I dati relativi alla somministrazione di vaccini contro il virus Sars Cov-2 nei paesi a basso reddito (definizione Banca Mondiale) sono allarmanti: solo il 10% della popolazione ha ricevuto almeno una dose.
    In Africa su 1,37 miliardi di abitanti in 55 stati dell’Unione Africana, comprendenti anche vari paesi a reddito intermedio, quasi il 90% della popolazione non è completamente vaccinato, e in paesi come il Burkina Faso, il Burundi, il Camerun, il Chad, l’Etiopia, il Madagascar, il Malawi, il Mali, il Niger, la Nigeria, la Repubblica Democratica del Congo, la Somalia, il Sud Sudan e la Tanzania le dosi somministrate sono meno di 10 per 100 abitanti ed in alcuni di questi paesi non arrivano neppure a 5 ogni 100 abitanti.
  • I dati sulla diffusione della pandemia in Africa sono incerti e quelli disponibili ad oggi (circa 11 milioni di casi e oltre 241mila decessi (dati Africa CDC) potrebbero essere sottostimati per mancanza in molti paesi di sistematicità delle diagnosi, tracciamento dei contagi, sequenziamento delle varianti. Non si può escludere che una bomba ad orologeria pandemica possa esplodere dalle coste del Mediterraneo fino all’Africa Australe, per quanto l’età media giovane possa essere un fattore protettivo dalla malattia grave.
  • Come dimostra il caso Omicron, il virus Sars Cov-2 nel replicarsi su larga scala in popolazioni non vaccinate crea mutazioni potenzialmente in grado di parzialmente evadere le difese immunitarie anche delle popolazioni vaccinate. Per contiguità geografica e legami storici, l’Unione Europea contribuendo alla vaccinazione dell’intera popolazione dell’Africa, non solo dimostrerebbe una concreta solidarietà, ma metterebbe maggiormente in sicurezza anche la popolazione degli Stati Membri.
  • Gli strumenti di solidarietà in essere, quali il meccanismo COVAX ed accordi bilaterali fra singoli paesi, non stanno funzionando in misura adeguata. A dispetto dei grandi annunci, le dosi somministrate nel 2021 nei paesi che ne hanno più bisogno sono state molto limitate. Proponiamo che il Governo Italiano insieme ad altri governi degli Stati Membri della UE chieda urgentemente al Consiglio dell’Unione Europea tramite la Presidenza di turno della Francia (semestre 1 Gennaio-30 Giugno 2022) di mettere in agenda un piano straordinario di solidarietà Europa-Africa per la campagna vaccinale, creando un fondo dedicato, per un importo pari a circa 8 Euro per ogni cittadino africano, per un totale di 10 miliardi di Euro.
  • Tale fondo dovrebbe finanziare direttamente i piani vaccinali dei paesi dell’Africa su tre assi:
  1. Disponibilità di vaccini: il quadro sta velocemente cambiando, rispetto allo scorso anno. A titolo di esempio si segnala l’importanza dell’iniziativa di vaccino open source Corbevax sviluppato da Peter Hotez, Maria Elena Bottazzi ed altri scienziati del Baylor College of Medicine (Texas). Questo vaccino, per il quale i ricercatori hanno rinunciato a depositare brevetti, è approvato in emergenza in India (dove la produzione è già iniziata) ed altrove. Ne è quindi possibile la produzione ovunque vi siano capacità e infrastrutture adeguate. Qualora questa strada non si rivelasse percorribile fino in fondo in tempi brevi (o si scelga di non essere vincolati a una sola opzione) si dovrebbe pensare comunque all’acquisto di almeno due miliardi di dosi di vaccini a prezzi accessibili. I contratti dovrebbero privilegiare in tutto o in parte vaccini adatti ad essere prodotti in paesi emergenti, in collaborazione con imprese farmaceutiche che si impegnino al completo trasferimento tecnologico e/o ad investimenti diretti in Africa, dove già esiste una potenziale base produttiva sia per vaccini a mRNA che di altro tipo (eventualmente con licenze di produzione o con la temporanea sospensione dei brevetti).
  2. Contributo alla logistica di stoccaggio locale e distribuzione capillare dei vaccini, finanziando sia le organizzazioni già presenti sul territorio sia eventualmente inviando un contingente di personale volontario sotto l’egida dell’Unione Europea (laddove le risorse locali non possano essere reperite e formate in tempi brevi) e dotando tutto il personale sia dei dispositivi di protezione individuale, sia dei mezzi di trasporto e di supporto all’attività vaccinale.
  3. Finanziamento di un’ampia campagna di informazione della popolazione, con il coinvolgimento delle comunità locali e di esperti di comunicazione sanitaria nei singoli paesi, che conoscendo a fondo i contesti possano aiutare le autorità sanitarie a realizzare il piano vaccinale.
  • Il Fondo Europeo di Solidarietà con l’Africa che proponiamo non dovrebbe sostituirsi alla partecipazione della Unione Europea e dei singoli paesi ad altri meccanismi solidali, dovrebbe essere addizionale, gestito direttamente dalla Commissione Europea insieme ai singoli paesi africani, in consultazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità ed altri soggetti.
  • Più a lungo termine, il Parlamento Europeo (Science and Technology Options Assessment STOA Panel), ha promosso recentemente uno studio che propone una infrastruttura pubblica sovranazionale di iniziativa della Unione Europea per la ricerca e sviluppo di vaccini e farmaci, pensando alle prossime pandemie e ad altri rischi sanitari. Proponiamo che tale progetto, di cui auspichiamo l’adozione, rivolga una particolare attenzione alla collaborazione con i ricercatori del continente africano e a meccanismi che affrontino il prezzo proibitivo dei farmaci, particolarmente quelli per le malattie rare, che arrivano a costare anche 400 mila dollari per paziente per un anno di trattamento.

 

*Professore ordinario di scienza delle finanze, Università degli studi di Milano. Per Laterza ha scritto La privatizzazione della conoscenza.

**Direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e professore di nefrologia per “chiara fama”, Università degli studi di Milano. Per Laterza ha scritto La salute (non) è in vendita.

 

Tra i primi firmatari: 

Andrea Boitani, economista, Università Cattolica
Innocenzo Cipolletta, economista
Silvio Garattini, Presidente Istituto ‘Mario Negri’
Donato Greco, infettivologo
Lucio Luzzatto, ematologo
Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica
Roberto Saviano, giornalista e autore
Gianluca Vago, patologo, già Rettore dell’Università di Milano

 

Fonti*:

 

*Per le fonti online l’accesso è del 7 Febbraio 2022

 

____________

 

PROPOSAL FOR A SOLIDARITY FUND BETWEEN THE EUROPEAN UNION AND AFRICA FOR AN URGENT COVID-19 VACCINE PROGRAMME

7 February 2022

Massimo Florio* and Giuseppe Remuzzi**

  • The data concerning the administration of vaccines against SARS-CoV-2 virus in low-income countries (World Bank definition) are alarming: only 10% of the population has received at least one dose. Of the 1.37 billion inhabitants of the 55 African Union countries, which also include some middle-income countries, almost 90% have yet to be fully vaccinated. In countries like Burkina Faso, Burundi, Cameroon, Chad, Ethiopia, Madagascar, Malawi, Mali, Niger, Nigeria, Democratic Republic of Congo, Somalia, South Sudan and Tanzania, fewer than 10 doses per 100 inhabitants have been administered. In some of these countries the rate is lower than 5 doses per 100 inhabitants (Our World in Data, Oxford).
  • The data on the spread of the pandemic in Africa are unclear and the figures available so far (roughly 11 million cases and over 241,000 deaths, Africa CDC data) may underestimate the true figure due to a lack of systematic diagnosis, infection tracing and variant sequencing in many We cannot rule out the possibility that a pandemic time-bomb could explode from the Mediterranean coast down to Southern Africa, although the low average age of the population may be a protective factor against serious disease.
  • As the Omicron variant case shows, when it replicates on a large scale among non-vaccinated populations, the SARS-CoV-2 virus creates mutations that are potentially capable of partially evading immunity, even in the vaccinated population. Given its geographical proximity and historical ties, the European Union could demonstrate concrete solidarity and offer the population of its own Member States greater protection by contributing to the vaccination of the entire African population.
  • Existing solidarity tools, such as the COVAX mechanism and bilateral agreements between countries, are not working well enough. In spite of momentous announcements, in 2021 the number of doses administered in the countries that needed them the most was very We propose that national governments urgently ask the Council of the European Union through the rotating presidency of France (1 January to 30 June 2022 semester) to include an extraordinary Europe-Africa solidarity plan for a vaccination campaign in its agenda. The plan would involve creating a dedicated fund, amounting to about €8 per African citizen, for a total of €10 billion.
  • This fund should directly finance African countries’ own vaccination plans through three axes:
    1. Vaccine availability: the range of vaccines available on a global scale is evolving rapidly. A good example is the Corbevax open-source vaccine initiative developed by Peter Hotez, Maria Elena Bottazzi and other scientists from Baylor College of Medicine (Texas) who waived any intellectual property rights. This vaccine has been emergency-approved in India (and elsewhere) where production has already started. It is, therefore, possible to manufacture it wherever capacity and infrastructures Should this option prove not to be available in the short term (or if there is a preference not to be bound to a single option), African countries should be allowed to purchase at least two billion doses of vaccines at affordable prices. The contracts with suppliers should favour, completely or at least in part, vaccines that are suitable for manufacture in emerging countries. Priority should be given to pharmaceutical companies that are committed to completing technology transfers and/or direct investments in Africa where a potential production base already exists for both mRNA and other types of vaccines (possibly with production licenses or with the temporary suspension of patents).
    2. Local storage logistics and widespread distribution of the vaccines: the organisations already on the ground should receive funding and a contingent of volunteers could be dispatched, under the aegis of the European Union (where local resources cannot be found and trained fast enough). All personnel must be equipped with personal protective equipment and means of transport and support for vaccination
    3. Extensive information campaign for the population: this should be financed with the involvement of local communities and health communication experts in individual countries who, with their in-depth knowledge of the contexts, can help local health authorities to implement the vaccination
  • The European Solidarity Fund for Africa that we propose should not replace the European Union’s and individual countries’ participation in other solidarity mechanisms. It should be an additional measure, managed directly by the European Commission with individual African countries, in consultation with the World Health Organization, the African Union and other international
  • For the longer term, the European Parliament (Science and Technology Options Assessment STOA – Panel) recently launched a study proposing a supranational public infrastructure as a European Union initiative for research into and the development of vaccines and drugs, to plan for future pandemics and other health We suggest that this project, which we hope will be adopted, should focus particularly on collaboration with researchers from the African continent and on mechanisms that address the prohibitive cost of drugs, particularly for treating rare diseases, which can cost as much as US$ 400,000 per patient per year.

 

*Professor of Public Economics, Jean Monnet Centre of Excellence, University of Milan

**Director, “Mario Negri” Institute for Pharmacological Research and Professor of Nephrology, University of Milan

 

Sources:***

 

*** Online sources were accessed on 7 February 2022

Valentine Lomellini racconta “Il «lodo Moro»”

Dalla ‘prigione del popolo’ dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. Da allora, per «lodo Moro» si intende l’accordo che consentiva ai palestinesi di utilizzare il territorio italiano come base per armi e guerriglieri in cambio della garanzia di preservare la penisola dagli attentati.

Ma davvero il «lodo» fu riferibile solo alla figura di Moro? E quale sicurezza garantiva? Quella legata all’incolumità dei cittadini dagli attentati o quella dello Stato, assicurando approvvigionamenti energetici in tempo di shock petrolifero e stabilità sul fronte sud del Mediterraneo?

La classe dirigente italiana si trovò a fare i conti con questo dilemma in una delle fasi più difficili della storia repubblicana.

Valentine Lomellini racconta Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986.

 

Il libro:

Versus. La Storia a duello

Luciano Canfora ed Eva Cantarella a duello per Versus, la nuova rubrica in diretta sulla pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza.

Appuntamento mercoledì 9 febbraio alle 19

____________

La Storia è costellata non solo di battaglie, ma anche di scontri ideologici: nasce la nuova rubrica Laterza Versus. La Storia a duello, condotta da Alessia Amante. Ricalcando il costume degli agoni classici, due storici si scontreranno nel difendere la propria causa o il loro personaggio. E, come nella corte di un’antica democrazia, sarà il pubblico a decidere volta per volta il vincitore. Ecco a voi il Tribunale della Storia… almeno quello social.

Primo appuntamento mercoledì 9 febbraio:

la sfida coinvolgerà le due poleis greche, in una disputa fatta di stoccate lunghe secoli.
A difendere le due cause saranno Luciano Canfora per Atene e Eva Cantarella per Sparta, in diretta sulla pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza.

A vincere sarà il culto del Bello ateniese o la morigeratezza spartana?

____________

Appuntamento quindi mercoledì 9 febbraio alle 19, in diretta dalla pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza con Luciano Canfora, Eva Cantarella e la nostra Alessia Amante!

5 domande su Joe Biden a Massimo Gaggi

Perché la superpotenza americana ha scelto di affidare il suo governo a un leader privo di carisma, di età avanzata e con una storia politica piena di contraddizioni?
Come è potuto diventare una sorta di ultima spiaggia della democrazia americana, l’uomo su cui puntare per scuotere un Paese che vive da tempo un lento declino e a cui affidare il difficile compito di reinventare una sinistra in crisi?
A un anno dall’insediamento di Joe Biden, abbiamo chiesto un bilancio a Massimo Gaggi, autore de La scommessa Biden.

Il libro:

Ebrei. Il lungo viaggio del popolo errante

Una storia mondiale in 80 tappe, tra figure e avvenimenti dimenticati, pagine drammatiche e vicende sorprendenti. Un percorso per date che ribalta i luoghi comuni

Emanuele Coen | L’Espresso | 14 novembre 2021

La distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, nel 1492, la nascita dello Stato di Israele, nel 1948. La storia del popolo ebraico, lunga tre millenni, è scandita da alcune tappe fondamentali. Date da segnare in rosso che si alternano con date meno eclatanti ma altrettanto significative come il 1290, l’anno in cui Edoardo I Plantageneto espelle gli ebrei per secoli da tutto il suo regno, la civilissima Inghilterra, primo re cristiano ad adottare una simile misura, seguito poi da altri sovrani. Un momento storico complesso eretto a simbolo dall’antigiudaismo medievale. Oppure il 1920, quando il Parlamento ungherese vara una legge che introduce il numero chiuso universitario in Ungheria, che istituzionalizza per la prima volta in Europa un antisemitismo razziale di Stato, dal momento che considera gli ebrei non una confessione, ma una nazionalità a parte. Una lunga storia, quella del popolo ebraico, popolata da personaggi noti e altri semisconosciuti come Regina Jonas, la prima donna rabbino, nominata nel 1935 a Berlino, caduta nell’oblio per quasi mezzo secolo dopo la sua morte ad Auschwitz, divenuta in seguito l’emblema dell’ebraismo riformato.

Per realizzare la “Storia mondiale degli Ebrei” (Laterza) il curatore Pierre Savy, direttore degli studi per il Medioevo presso l’Ècole française de Rome, ha coinvolto una schiera di storici e si è imbarcato in una sfida ambiziosa e appassionante, mettendo insieme avvenimenti e personaggi, un’ottantina in tutto, una selezione inevitabilmente incompleta ma non per questo meno interessante. «Non è una enciclopedia ma un testo divulgativo, rivolto non solo agli eruditi ma anche al grande pubblico. È il frutto di scoperte testuali e archeologiche, una materia in continua evoluzione», sottolinea Savy. Uscito in Francia l’anno scorso, realizzato con la collaborazione di Katell Berthelot, direttrice di ricerca al CNRS e specialista dell’ebraismo nelle età ellenistica e romana, e Audrey Kichelewski, docente di Storia contemporanea all’Università di Strasburgo, il volume esce ora nell’edizione italiana, rivista e adattata con il coordinamento di Anna Foa, già docente di Storia moderna all’università La Sapienza. «Una prima scommessa è stata quella di dare spazio alle date classiche ma insieme anche ad altre date meno scontate e addirittura quasi sconosciute, che permettono di presentare interi squarci della storia ebraica», dice Savy, che aggiunge: «Abbiamo dovuto trovare l’equilibrio fra le date che marcano la storia dell’antigiudaismo e le date che segnano relazioni più complesse, a volte addirittura felici, con la società maggioritaria, in modo da non sprofondare in quella storia “lacrimosa” giustamente denunciata dalla storiografia contemporanea da quasi un secolo». Le pagine dedicate alla Shoah, ad esempio, si concentrano sull’insurrezione del ghetto di Varsavia (1943), la conferenza di Wannsee (1942), in cui venne definita la soluzione finale della questione ebraica, e il ritorno dei deportati sopravvissuti, tralasciando altri fatti rilevanti.

Tra le voci del libro, inoltre, destano particolare interesse quelle che contribuiscono a ribaltare luoghi comuni: come quella, scritta da Giacomo Todeschini, dedicata al IV Concilio Lateranense, nel 1215, un evento cruciale che afferma l’importanza dell’osservanza delle regole cristiane per l’identificazione civica e politica degli individui, che accusa gli ebrei di spogliare delle loro ricchezze i cristiani, e soprattutto le chiese, designando gli ebrei come usurai pericolosi perla cristianità. Oppure la voce, realizzata per l’edizione italiana da Francesca Trivellato, che rievoca la leggenda delle origini ebraiche della finanza europea. In sostanza, nel 1647 un volume di norme di diritto marittimo stampato a Bordeaux diffonde il racconto secondo cui gli ebrei medievali, cacciati dalla Francia, avrebbero inventato l’assicurazione marittima e le lettere di cambio, vale a dire i due strumenti finanziari del capitalismo preindustriale, per esportare furtivamente i propri patrimoni nell’Italia centro-settentrionale. «Priva di fondamento ma destinata a riscuotere ampio successo, questa leggenda a lungo dimenticata è l’anello che nell’immaginario cristiano congiunge l’ebreo usuraio medievale al finanziare ebreo moderno», prosegue Savy: «È un cliché di cui si nutre l’antigiudaismo. E, come spesso avviene, chi crede nello stereotipo dimentica la sua origine precisa. Un meccanismo molto pericoloso perché alimenta l’antisemitismo».

Una vicenda complessa, quella del popolo ebraico, segnata da episodi tragici e fasi importanti di emancipazione e integrazione nel tessuto sociale, di relazioni felici con la società maggioritaria. Vengono in mente due date emblematiche: il 212 dopo Cristo, quando l’editto di Caracalla riconosce la cittadinanza romana a tutti gli abitanti non schiavi dell’impero, dunque anche agli ebrei. E, in un contesto del tutto diverso, il 1791, quando in Francia il re Luigi XVI firma il decreto in base al quale gli ebrei prestano giuramento ed entrano nella modernità politica, si possono presentare alle diverse funzioni elettive, candidarsi agli impieghi nella funzione pubblica. Un fatto che segna la fine della “nazione ebraica” e l’accesso, per la prima volta nella modernità, alla cittadinanza. «Si tratta di due date importanti, che pur nella loro diversità sottolineano la tensione tra l’integrazione e la rinuncia alla propria autonomia parziale», sottolinea Savy: «Una ambivalenza che si ritrova nell’editto di Caracalla, che infatti fu duramente criticato dai rabbini di Galilea, proprio perché insieme l’integrazione portava con sé l’abbandono di una certa fetta di autonomia giuridica».

Nell’edizione italiana sono state aggiunte alcune voci, tra cui quella dedicata a Primo Levi (scritta da David Bidussa), quella del viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa (di Andrea Riccardi), nel 2000, e del processo Eichmann (1%1) con Hannah Arendt, a cura di Anna Foa. Una selezione che, naturalmente, taglia fuori date e personaggi importanti, tra cui Albert Einstein. «Non si tratta di negare la rilevanza di questa e di altre figure, ovviamente, tuttavia occorre mettersi in una prospettiva lunga», conclude Savy: «Se per la storia della scienza Einstein è fondamentale, non è detto che lo sia anche per la storia complessiva del popolo ebraico».

Il libro: