Magellano, il viaggio globale

Mezzo millennio fa la circumnavigazione da parte della flotta dell’esploratore portoghese. Una discesa agli inferi che aprirà la strada al mondo moderno e al superpotere marittimo.

Giovanni Mari | La Stampa | 6 febbraio 2022

Esattamente 500 anni fa, nel febbraio del 1522, l’Armada da Moluccas era a un miglio dal più disastroso dei fallimenti. La flotta si era ridotta da 5 navi a una sola, dei 237 marinai ne erano rimasti 60. La doppia traversata, prima dell’Atlantico e poi del Pacifico, si era rivelata un’odissea tra ammutinamenti, naufragi, battaglie e malattie di bordo. E la morte di Ferdinando Magellano in un’imboscata su un’isola sconosciuta (1500 nativi armati di frecce contro una cinquantina di europei con il moschetto) rischiava di mettere in ombra la colossale scoperta che l’intuito, la tenacia e l’autoritarismo del comandante avevano reso possibile: l’individuazione di uno stretto che consentisse l’attraversamento via mare dell’America Latina. E imprimesse la forza di affrontare l’immane deserto d’acqua del Mar del Sur.

La missione, del resto, aveva già rivelato che le Molucche, quello scrigno di spezie che avrebbe arricchito la Spagna, era nella sfera d’influenza del Portogallo. L’Armada era stata inviata nell’ignoto per dimostrare il contrario: che le Molucche fossero al di qua dell’antimeridiano di Tordesillas. A Est della linea immaginaria, riflessa nell’emisfero buio, rispetto a quella stabilita a 370 leghe dalle isole di Capo Verde, in mezzo all’Atlantico. Quella era la frontiera invisibile che Spagna e Portogallo avevano pattuito come confine sul mare della loro espansione.

A Est dominava Lisbona (e magicamente aveva ricompreso anche il grande bernoccolo del Brasile), a Ovest (quindi con quasi tutte le Americhe) la Castiglia. Dov’erano le Molucche? Più vicine ai possedimenti portoghesi dell’estremo Oriente o più vicine al Cile spagnolo? Erano terribilmente lontane dall’America. Il Mar del Sur, il Pacifico, era così vasto da spostare tutto il mondo a Ponente, da ingigantire le dimensioni della Terra come nessuno aveva immaginato. Magellano lo aveva compreso durante i mesi infiniti di navigazione, mentre i suoi equipaggi morivano a bordo, ammorbati dallo scorbuto e costretti a rosicchiare il cuoio dello scafo per la fame. Fu un periplo infernale, che David Salomoni racconta con incommensurabili dettagli in Magellano. Il primo viaggio intorno al mondo (Editori Laterza, 240 pagine): dai diari di bordo alle scorte di sedano, dalle trattative con i nativi alle condanne dei rivoltosi, dalla natura aggressiva della Patagonia alla perfida incontrollabilità dei marosi, dalle piccole colonizzazioni ai primi pinguini della storia, dalla preda di chiodi di garofano e zenzero ai repentini cambi di rotta.

Ma quando, in quel febbraio 1522, i superstiti sbarcarono nell’attuale isola di Timor, l’equipaggio aveva già nominato comandante Juan Sebastian Elcano, per certi versi, ancorché senza gradi, uno degli antagonisti di Magellano. Restava solo un obiettivo: salvare la pelle. In quel momento l’avventura della scoperta lasciava il campo a un’impresa di tutt’altra natura. Elcano non avrebbe per nessuna ragione messo la prua verso le Americhe: era sicuro che l’avrebbe portato alla morte. Allora invertì la rotta di 180 gradi e decise di sfidare la legge, la sfera d’influenza: di tornare in Europa solcando l’Oceano Indiano, aggirando il Capo di Buona Speranza, costeggiando l’Africa e raggiungendo per quella via Siviglia, anche se si trattava di acque portoghesi. Quelli avrebbero avuto il diritto di sequestrare la nave, rubare le preziosissime carte nautiche con i segreti delle scoperte di Magellano e condannare a morte gli equipaggi.

Così si scatenò la seconda discesa negli inferi. In Spagna rientrarono in soli 18, fecero scalo a Capo Verde, fingendosi naufraghi di ritorno dai Caraibi, e lì scoprirono di aver smarrito un giorno per strada: era colpa del fuso orario, correndo all’indietro avevano rubato 24 ore al Sole. Furono accolti in patria da vincitori, quindi raccontarono la storia a modo loro: oscurando Magellano ed esaltando Elcano, che divenne una sorta di eroe mitologico vivente. Solo le relazioni del vicentino Antonio Pigafetta, marinaio e scrittore, restituirono a Magellano l’onore della rivoluzionaria scoperta.

E tributeranno al comandante l’alba della globalizzazione. Da quel momento il mondo era diventato interamente conosciuto e i mari lo strumento vitale e assoluto per inscenare quella proiezione di potenza, come la chiamerà Alfred Mahan, necessaria agli Stati più forti per trasformarsi in imperi. Le flotte, controllando gli oceani, estendevano l’autorità centrale fino alle coste più lontane. Dando vita, da subito, a una globalizzazione rigidamente imperialista, che avrebbe trasformato l’Oceano Indiano in un lago europeo e arginato le velleità americane fino a tutto il XIX secolo. Restituendo qualche vestigia di talassocrazia prima a Spagna e Portogallo, poi alle Province Olandesi e infine all’Inghilterra. Un «sea power» globale declinato da Michel Du Jourdin nello strumento del «dominio del profitto» che l’Europa dei re e dei mercanti avrebbe imposto al resto del mondo con le armi del commercio, della violenza e della deterrenza. I mercati non sarebbero più stati (solo) locali: si sarebbe creata una rete mondiale di scambi marittimi sempre più fitta e protetta, dai cannoni e dalle leggi.

Il primo effetto fu infatti la globalizzazione del conflitto, con l’invio di flotte in aree lontanissime ma sempre meno remote, con la realizzazione di basi e blocchi navali, con il sistematico attacco al commercio concorrente e la nascita di convogli mercantili armati. Solo le grandi potenze, e tra queste le più dinamiche e meno paralizzate da nobili e burocrati, erano in grado di organizzarsi. La prima guerra mondiale fu così una guerra marittima e si scatenò nei primi 50 anni del Seicento. Gli europei cominciarono a combattersi su scala globale: tra gli olandesi e i regni iberici si estese all’America, all’Africa e all’Asia. Gli ottomani restarono ai margini e in ritardo; cinesi, giapponesi e impero Moghul la persero nelle prime battute. Gli europei occidentali costruirono un sistema di cui tutti gli altri Stati sarebbero stati dipendenti per secoli.

Ma il sistema, stabilizzandosi, cambiò alla radice i rapporti di forza: diminuiva il potere basato sulle risorse locali che i governi erano in grado di controllare direttamente, mentre aumentavano quelle necessità marittime e quelle capacità di relazioni che vedevano in vantaggio la forza liquida degli interessi mercantili. Si creò un nuovo potere, che dagli Stati sarebbe passato ad altre mani, fino a connotarsi in un’autorità quasi invisibile e compiutamente globalizzata, multinazionale e privata, talmente possente da non necessitare neppure più dell’assistenza (diretta) delle armi. La chiave fu il modello olandese. Le Province costruirono la miglior rete commerciale globale, con il centro nei suoi porti e un’organizzazione statale e mercantile impregnata della logica capitalistica e dell’innovazione: alleanze, contratti, guerre e tecnologie venivano stipulate e concepite per proteggere gli interessi commerciali, mai per prestigio o pretese territoriali o religiose. Da questo spirito nacquero le prime due grandi compagnie monopolistiche per il commercio e le guerre d’Oltremare, prototipo dei grandi poteri finanziari contemporanei e interpreti moderni delle grandi scoperte di Magellano.

Nel settembre del 1522, a Siviglia, in ogni caso, con ciò che restava dell’Armada da Moluccas, percorsi 86 mila chilometri in tre anni, la questione era già abbozzata. Carlo V dimenticò presto le Molucche e capì che altre, più grandi sfide, foriere di maggiori e durature ricchezze, aspettavano la Spagna. Per questo la riabilitazione di Magellano fu totale. Il paradosso starà nel fatto che la Spagna non riuscirà a interpretare il grande vantaggio che aveva accumulato e l’onda lunghissima della globalizzazione, che proprio l’impresa dello Stretto aveva favorito, finirà per travolgerla per prima tra i grandi vecchi del passato.

Decalogo del viandante (non del camminatore)

 

  1. Noi non amiamo camminare per poche ore. Ci capita di farlo, ne ricaviamo una forma di benessere fisico, ma non ne ricaviamo una forma di gioia. Se gioia è una parola troppo
    ingombrante, è possibile riformulare così: non ne ricaviamo dei sentimenti potenti tali da mettere in discussione la nostra vita. Sappiamo che c’è bisogno di giorni, di settimane, affinché ciò accada
  2. Noi possiamo guardare storto chi, incontrandoci, ci augura «buona passeggiata». Si passeggia nel tempo libero per prendere aria, per prendere un gelato, per far passare del tempo prima di una cena. Chi passeggia è ancora inserito in un modello di vita riassumibile dalla sequenza casa-ufficio-sport-svago-casa. Stiamo male perché è una sequenza che ci sta sempre più stretta. Ci può capitare di passeggiare, ma non accosteremmo mai questa esperienza a quella del cammino.
  3. Noi non abbiamo interesse per l’allenamento, la competizione, i cronometri. Se ripetiamo più volte l’ascesa a un monte non prendiamo nota di quanto tempo ci abbiamo messo. Non amiamo i dislivellomani. Dei percorsi che abbiamo fatto più volte ricordiamo gli alberi, le fioriture, le tracce animali, le locande, i volti di chi abbiamo incontrato, i volti di quelli che non hanno potuto accompagnarci.
  4. Noi ci spostiamo anche con mezzi privati e pubblici, eppure le persone ci chiedono: «sei arrivato a piedi?». Alcuni ti immaginano in continuo movimento, sei per loro un apostolo, un pioniere, un oggetto non identificato. Altri ti prendono apertamente in giro, ai loro occhi sei lo scemo del villaggio, un Forrest Gump minore, un disadattato. Quando spieghi loro che possiedi la macchina, o la moto, o che hai l’abbonamento dell’autobus, non capiscono. «Sta barando», pensano dentro di sé. Come se questo fosse un gioco.
  5. Noi siamo stanchi di fare i turisti. Ci interessa sempre meno viaggiare per visitare quella chiesa, quel monumento, quel museo, quel parco. Se anche prendiamo una mappa all’ufficio informazioni e ci dirigiamo in tutti quei posti a piedi non stiamo bene. Abbiamo camminato ma non siamo stati in cammino. Facciamo fatica a spiegarlo a chi è vicino a noi. Soprattutto fatichiamo a spiegare che non amiamo la «vacanza». Vacanza ha che fare col vuoto. Viandanza col pieno.
  6. Noi sentiamo quotidianamente, in particolare con l’avvicinarsi della primavera, un esagerato desiderio di stare all’aria aperta, di non avere vincoli, non avere orari, non fare la fila, non compilare moduli, non maneggiare soldi, non fare shopping, non accumulare roba (quando lo facciamo ci sentiamo in colpa). Si tratta di una voglia di libertà che pervade gran parte delle cellule del corpo. Ci sentiamo in gabbia. Andare a camminare per qualche ora, fare una passeggiata, corrisponde all’andare avanti e indietro dentro la gabbia.
  7. Noi sentiamo il richiamo dell’eccezionalità. Siamo attirati dalla meraviglia. Lo abbiamo provato nei nostri cammini, ne siamo diventati dipendenti. Non si trattava del panorama dalla vetta, altrimenti basterebbe fare un’escursione di giornata per provare di nuovo quel sentimento (noi non amiamo la parola «escursione»). Era eccezionale e portatrice di meraviglie la nostra vita in cammino. La non prevedibilità. Il non sapere cosa sarebbe potuto accadere. La consapevolezza di avere dinnanzi a sé il mondo aperto. Lì lottavamo per addomesticare l’ignoto. Qui siamo costretti, per sopravvivere, a ignorare il domestico. Stando nell’eccezionale, eravamo eccezionali. Era il cammino a rendere ciò possibile, non il camminare.
  8. Noi sopportiamo sempre meno le notizie dell’ultima ora. La cronaca nera, la cronaca rosa, la cronaca bianca. Diveniamo daltonici. Ci indigna, ci fa andare in collera, ci addolora la serie di gesti violenti e prevaricatori. Nei nostri cammini ci eravamo abituati a dividere il pane, ad essere accolti, a non giudicare dall’aspetto, a non avere timore degli altri. Ci sentivamo esseri umani migliori. Non era il camminare a rendere ciò possibile, ma il cammino.
  9. Noi siamo sognatori diurni. Sogniamo in continuazione. Di mollare il lavoro, la casa, ogni sorta di incombenza. Alcuni di noi possono sognare di abbandonare le persone che amano. Di sparire con il proprio zaino e mettersi in un’altra vita. Sono sogni di cui possiamo parlare solo con i sognatori diurni. Risultano incomprensibili agli altri. Se non possiamo parlarne veniamo travolti dalla frustrazione. Camminare non intacca la portata di quei sogni. Solo il progetto di un lungo cammino placa temporaneamente la nostra inquietudine.
  10. Noi siamo viandanti, non camminatori. Siamo le creature della via, della strada aperta, degli incroci, delle curve, delle soste. Lo siamo anche quando non camminiamo. Perché dal cammino non si fa ritorno. Non abbiamo più fatto ritorno dal nostro primo cammino. Una parte di noi è rimasta appesa a qualche ramo, rappresa in qualche corteccia. Noi intuiamo, senza riuscire a razionalizzarlo, di essere parte di quella cosa chiamata viandanza: una vita nuova, una soglia, una soglia sulla soglia, un’altra dimensione in cui le nostre fantasticherie di sognatori diurni si realizzano. Siamo pochi, siamo una minoranza. Ci riconosciamo subito. Ci passiamo parole sottobanco. Ci pensiamo in silenzio. Non amiamo i decaloghi. Chiamiamo i nostri zaini per nome.

Luigi Nacci, Non mancherò la strada

#CasaLaterza: Valentine Lomellini in dialogo con Maria Antonietta Calabrò e Mirco Dondi

Dalla ‘prigione del popolo’ dove era stato rinchiuso dalle Brigate rosse nel 1978, Aldo Moro chiedeva di trattare per la sua liberazione, svelando che questa era una prassi abituale per i terroristi palestinesi arrestati in Italia. Da allora, per «lodo Moro» si intende l’accordo che consentiva ai palestinesi di utilizzare il territorio italiano come base per armi e guerriglieri in cambio della garanzia di preservare la penisola dagli attentati.

Ma il «lodo» quale sicurezza garantiva? Quella legata all’incolumità dei cittadini dagli attentati o quella dello Stato, assicurando approvvigionamenti energetici in tempo di shock petrolifero e stabilità sul fronte sud del Mediterraneo? La classe dirigente italiana si trovò a fare i conti con questo dilemma in una delle fasi più difficili della storia repubblicana.

A discuterne con Valentine Lomellini, autrice de Il «lodo Moro», la giornalista Maria Antonietta Calabrò e lo storico Mirco Dondi.

Il libro:

Israele. Una storia in 10 quadri

Prof. Claudio Vercelli, Lei è autore del libro Israele. Una storia in 10 quadri edito da Laterza: quale dibattito percorre la società israeliana in merito al carattere ebraico dello Stato?

Che Israele sia lo Stato degli ebrei è un dato assodato, prima di tutto attraverso la cognizione dei processi storici che tra l’Ottocento e il Novecento hanno portato alla nascita di quella comunità politica. Stato degli ebrei indica non una proprietà esclusiva ma il prodotto di un percorso che ha visto gli ebrei medesimi protagonisti di un via nazionale alla soluzione dei loro problemi, innanzitutto l’antisemitismo ma anche, non di meno, l’assimilazionismo, ovvero il rischio di perdere definitivamente i tratti identitari che avevano comunque mantenuto, sia pure attraverso molti cambiamenti, nella Diaspora. Altra cosa, anche se convenzionalmente si usa le espressioni come intercambiabili, è parlare invece di «Stato ebraico». Poiché in questo secondo caso, invece, ci si riferisce ad una sovranità politica che sarebbe basata sul diritto ebraico, ossia su un insieme di norme derivate dai testi religiosi fondamentali. Tradizionalmente, infatti, le religioni codificano e trasmettono non solo valori e principi ma anche regole vincolanti di condotta. I processi di secolarizzazione che hanno interessato le società negli ultimi secoli hanno invece concorso ad affrancare la sfera della politica da quella dell’autorità religiosa. Di fatto, la capacità di generare norme vincolanti si è trasferita in un potere che si vuole laico poiché indipendente dalla religione, ancorché non indifferente ad essa da un punto di vista tuttavia esclusivamente etico. Altrimenti, piuttosto che parlare di democrazia sarebbe meglio rifarsi alla teocrazia. Israele ha un corpus giurisprudenziale che si rifà solo per minima parte alla tradizione ebraica, mentre invece le sue leggi, e il modo in cui esse vengono applicate, sono tipici di una moderna democrazia secolarizzata. Altro tema, invece, è il rapporto tra identità ebraica, religiosità e sfera pubblica. Questo secondo aspetto rimanda non tanto all’autonomia delle amministrazioni collettive (lo Stato), chiamate a tutelare e realizzare l’interesse comune, ma al modo in cui gli israeliani si sentono ebrei e a cosa ciò comporti per davvero. A tale riguardo, le idee sono molto differenziate, posto che non esiste un unico modo di «essere ebrei». Così come, l’ebraismo medesimo è vissuto solo da una parte degli israeliani come una radice religiosa, divenendo semmai una sorta di collante, estremamente fluido nelle sue accezioni, rispetto alla definizione di un’appartenenza civile comune, ossia alla cittadinanza israeliana. Non di meno, almeno un quinto degli israeliani non è di origine ebraica. Ed anche questo pesa molto nelle discussioni sull’identità nazionale.

Quanto è radicato il sionismo nella società e nella cultura israeliane contemporanee?

Israele identifica il sionismo, in quanto movimento di indipendenza nazionale, come radice della sua storia. Si tratta di un fenomeno che è in linea con i nazionalismi ottocenteschi e che trova il suo sbocco nella costruzione prima di una comunità politica autonoma e poi nella nascita, con il 1948, dello Stato. Tuttavia, se il rimando sentimentale e affettivo alla radice culturale e politica della propria storia ha una sua coerenza, oggi il sionismo continua ad esistere soprattutto come ispirazione di principio. Poiché il quadro del paese è completamente mutato. Difficilmente si troveranno israeliani che non dicano di essere anche «sionisti», al netto di alcune componenti del radicalismo politico e religioso invece distanti da esso, ma il richiamo si rivela da subito insufficiente nel momento stesso in cui si chiede di aggettivare il senso di una tale identità. Il problema, per così dire, sta anche nel fatto che il sionismo ruota intorno ad un’irrisolta commistione tra ebraicità e cittadinanza politica. Ciò che resta del sionismo, e il suo parziale superamento nel neonazionalismo radicale di cui sono espressione alcune formazioni politiche, si basa d’altro canto sull’unione di tre presupposti che sono inscritti nel programma della destra sociale e di movimentazione di oggi: il rimando alla sovranità nazionale come espressione dell’identità collettiva, fondata non su un presupposto di natura costituzionalistico ma sul richiamo ad un’appartenenza di gruppo, preesistente allo Stato stesso; la rinegoziazione dei diritti di cittadinanza, stabilendo che alla base di essi sussista un solo vincolo, quello etnico; la riformulazione del sistema di equilibri tra poteri diversi, favorendo ogniqualvolta possibile, gli esecutivi, soprattutto se su base carismatica, con un premierato identificabile più con un «capo» che non con un leader. Queste ultime accezioni, che vengono proposte come una sorta di nuovo orizzonte del “vecchio” sionismo, in realtà aprono orizzonti problematici di riflessione, soprattutto per gli effetti che potrebbero produrre nel corso del tempo all’interno della stessa società israeliana.

Quale tensione caratterizza il rapporto tra demografia e democrazia in Israele?

Storicamente il Paese si è strutturato come società ebraica nazionale in almeno centoquaranta anni, dalla fine dell’Ottocento in poi. Poiché se lo Stato nasce nel 1948 alla sua origine ci sono almeno un’altra settantina d’anni di costruzione delle sue strutture fondamentali, a partire dal 1880, con le prime immigrazioni nella Palestina ottomana. L’Israel Central Bureau of Statistics (ICBS), l’istituzione che elabora e aggiorna i dati in materia, indica per la fine del 2021 la presenza di una popolazione stimata in 9.391mila individui. Attualmente il Paese raccoglie il 45,3% dell’ebraismo mondiale. La società israeliana è rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell’incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini. Il rimando all’elemento ebraico è tanto ovvio in linea di principio quanto problematico nei fatti, generando non poche volte conflitti di appartenenza, di legittimazione, di reciprocità. Il paradosso di Israele è che si fonda anche su questa inesistente omogeneità, rendendo difficile l’identificazione non tanto giuridica quanto culturale della nozione di cittadinanza, sottoposta in maniera permanente alle tensioni che derivano dal suo accostamento all’ebraicità come elemento prevalente se non esclusivo. I conflitti sulla concreta declinazione della democrazia, ossia sui modi di condividerla e viverla, si inscrivono dentro questo prisma mutevole, dove il legame tra cultura, identità e sovranità non sono per nulla risolti.

Come si esprime il populismo nella società politica israeliana?

Esiste una lunga tradizione, legata alla destra nazionalista, antagonista della sinistra laburista, quest’ultima al potere fino al 1977 e poi scalzata dalla prima. Ma il populismo odierno non ha troppe analogie con le politiche del passato. In realtà è partecipe di un trend molto più ampio, che riguarda un po’ tutti i paesi a sviluppo avanzato, dinanzi agli affaticamenti della democrazia rappresentativa. Benjamin «Bibi» Netanyahu è la figura più significativa in queste trasformazioni. È infatti il premier che ha governato più a lungo, assicurandosi quindici anni di mandati, tra il 1996 e il 2021. Abilissimo navigatore nella politica nazionale, ha spesso rivelato la capacità di sapere sopravvivere a se stesso, giovandosi delle contraddizioni dei suoi avversari, fuori e dentro il suo medesimo partito. Non a caso, quindi, ha trasformato la sua formazione politica, il Likud, in una sorta di partito personale, ovvero una piattaforma permanente delle proprie posizioni, traducendo inoltre le elezioni in un permanente plebiscito su se stesso. Volutamente divisivo, quanto meno nella medesima misura in cui ha rivelato di sapere raccogliere i voti parlamentari quando gli necessitano, si è conquistato sul campo l’appellativo di «Re Bibi». Anche per questa ragione, ha fatto sì che il Likud, da espressione della vecchia destra nazional-conservatrice, come anche in parte liberale, divenisse un soggetto il cui programma politico assomma elementi sovranisti, populisti e identitari. Ciò facendo, ha trovato sponde ed interlocutori interessati in quella destra europea, spesso invece non liberale, che schiaccia completamente l’idea di Israele sulla rappresentazione artefatta di un Paese che ha trasformato il suo bisogno esistenziale di sicurezza in un’opzione di autoaffermazione egemonica. Netanyahu, in questi anni, non ha caso si è comodamente riconosciuto nel milieu di una destra occidentale che ha abbandonato la vecchia radice istituzionale, debitrice del rispetto dei sistemi costituzionalisti, per rilanciarsi sul piano della mobilitazione sociale, raccogliendo una parte dei crescenti malumori e dei disagi delle rispettive società. Destra di lotta e, al medesimo tempo, di governo, capace di interpretare le due parti contemporaneamente. Il suo vero successo è stato il poterlo fare essendo parte di quelle stesse élite che dice invece di volere mettere in discussione, spesso identificandole sbrigativamente con i suoi avversari politici.

Quali sono, a Suo avviso, le maggiori sfide per il futuro di Israele?

La globalizzazione, per sua stessa natura, mette in discussione le identità nazionali. Soprattutto, tende ad erode confini e barriere. La qual cosa, per un paese come Israele, risulta essere una sorta di contrappasso, dal momento che da sempre invece rivendica il diritto a confini, non solo spaziali, certi e garantiti. Se mai si dovesse addivenire alla loro definitiva determinazione, cosa del tutto improbabile dinanzi alla permanenza della questione palestinese, ciò accadrebbe quindi nell’epoca in cui essi sono sottoposti ad una generale rimessa in discussione. Non dalla politica quanto dall’evoluzione economica che, per più aspetti, li rende secondari rispetto alla libera circolazione delle merci, delle idee, ma anche dei corpi e quindi delle identità. La sfida culturale, in questo caso, si gioca più che mai tra l’universalismo del mercato, che introduce nuove diseguaglianze, nel mentre abbatte muri e vincoli di antica data, e il vivace particolarismo delle identità degli ebrei israeliani. Quale sarà il punto di sintesi? Lo Stato d’Israele è come uno specchio. Una comunità di idee nata sulla base di una cultura politica – il sionismo – che ha solidi ancoraggi nel pensiero occidentale, prodotto di un intenso processo di secolarizzazione intellettuale, ha originato una società nella quale per molti europei ed americani è facile identificarsi poiché richiama diversi elementi della propria esperienza, rendendoli semmai ancora più intellegibili. Israele, la cui reale natura è quella propria ad una qualsiasi moderna società politica, offre come una sorta di surplus sentimentale ed affettivo, che facilmente può trasformarsi in una deformante adesione ideologica o, alternativamente, in un non meno aprioristico rifiuto fondato sul pregiudizio. Su Israele si proiettano ombre e angosce del nostro recente passato, quello consumatosi laddove tutto sembra avere avuto inizio e al quale tutto riconduciamo, ossia la “vecchia” Europa. Pesa in ciò il segno indelebile lasciato nella società continentale dalla cultura ebraica; pesa, non di meno, l’atroce vicenda dello sterminio sistematico degli ebrei per mano dei nazisti e dei fascisti. Israele diventa così l’irrisolta coscienza (o l’incoscienza a seconda dei casi), del mondo occidentale. Per il mondo arabo e, ancor di più, per la numerosissima comunità musulmana, presente non solo in Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico ma, oramai, in tutto il pianeta, le tante storie individuali che confluiscono in quella collettiva d’Israele sono invece perlopiù estranee alla propria esperienza. L’emotività che vi si ricollega non ha quindi nulla a che fare con quell’effetto di rispecchiamento che per noi è così importante. Ciò che resta d’Israele, oltre ad Israele stessa, è quindi il tema dell’appartenenza condivisa nell’età della globalizzazione. Una tensione irrisolvibile tra particolarismo e universalismo nell’era dell’insicurezza collettiva. Non solo in quei luoghi ma negli spazi dell’uomo in quanto tali.

Letture.org | 13 febbraio 2022

Trame del tempo

Trame del tempo è il nostro nuovo manuale di storia per il triennio della scuola secondaria di secondo grado.

Le autrici e gli autori sono Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto: quattro giovani storiche e storici affrontano la sfida di “raccontare la storia” in modo avvincente, integrando direttamente nel testo fonti, storiografia, immagini, per mostrare l’intreccio che lega tra loro in trame indissolubili le vicende di re e sudditi, condottieri e vittime delle guerre, persecutori e perseguitati.

 

 

 

Salvo Palazzolo racconta “I fratelli Graviano”

Le stragi del 1992 hanno segnato un indelebile spartiacque nella storia del nostro Paese. Tra i protagonisti di quei fatti drammatici c’erano Giuseppe e Filippo Graviano, uomini di fiducia del boss Riina che mai si sono dissociati dall’organizzazione mafiosa.

In questo straordinario libro-inchiesta per la prima volta si ricostruisce la loro storia e si cerca di fare chiarezza su alcuni dei misteri ancora irrisolti di quella stagione.

Salvo Palazzolo racconta I fratelli Graviano.

Il libro:

“Giocare a calcetto coi maschi è la prova regina della virilità”

Bruno Ventavoli | Tuttolibri | 26 febbraio 2022

«Non sempre mi sono chiamato Ale. Prima mi chiamavano Lisa». Ma qualcuno, come il dentista, sbaglia ancora i nome. E poi, scusandosi per il lapsus, aggiunge la domandina indiscreta su «che cosa c’è là sotto». Perché la Natura costruisce corpi con indubitabili attributi sessuali in corrispondenza del bacino. Mentre lo spirito (se vogliamo essere hegeliani) o la provvidenza (se vogliamo credere in qualche divinità burlona) si diverte a sparigliare le cose. E non sempre l’identità sessuale s’accorda con l’involucro di carne e ossa. Questo racconta Alec Trenta con Barba, vaporosa autofiction a fumetti di un* ragazz* nat* due volte.

Lisa non si trovava nei panni della femminuccia. Voleva giocare a pallone con i maschietti. Vestirsi come loro. Comportarsi come loro. E per impadronirsi del loro status rubava addirittura le loro biglie, temperini, gomme.

All’inizio la confusione è grande. Se «le» piacciono le ragazze è una lesbica? No, troppo semplice. Serve un’operazione? Forse, però Lisa ha paura del bisturi. Il problema è più profondo: il senso di vuoto interiore. Prova a riempirlo come un kebab di ipotesi, esperimenti, sfoghi. Ma il maledetto vuoto resta. Finché non decide di intraprendere un percorso di «affermazione di genere». Perché ha semplicemente capito di essere «transgender».

Incontra lo psicologo, l’endocrinologo, l’avvocato. La mamma e il babbo sono due compagni comprensivi di questo viaggio attraverso la medicina, la burocrazia, il consenso sociale. A poco poco la metamorfosi comincia. Crescono gli agognati peli, che sono il sigillo esteriore di un’avvenuta vittoria interiore. Qualcuno comincia a scambiarlo per un uomo. Addirittura può giocare a calcetto con gli altri maschi. La prova regina della virilità. Naturalmente quando ha sui piedi la palla per segnare il primo gol maschio, sparacchia maldestramente sulla traversa. Perché continua ad avere i «piedi a banana». E anche, soprattutto, perché quella suddivisione del mondo in maschio e femmina, azzurro e rosa, calcio e bambole, è davvero una tassonomia fallata, troppo semplicistica per accogliere la ricchissima fluidità della vita.

Barba è la storia di una transizione riuscita. Di un’identità conquistata. Di una rinascita. Il segno molto semplice ben s’accorda con un percorso tutto sommato facile. Ben diverso dal romanzo grafico di un’altra adolescenza «trans», quella di Fumettibrutti, che raccontava il passaggio inverso, dal maschile al femminile, con dettagli urticanti. Lo sfruttamento anche violento che i maschi facevano del suo corpo androgino, la dolorosa operazione chirurgica, lo spaesamento amoroso. Tutto tragico e grottesco al tempo stesso. Trenta, che tra l’altro rende omaggio a Fumettibrutti, sceglie una via narrativa più dolce. Sottolinea più la comprensione e l’aiuto che l’ostilità, la complicità più che l’emarginazione, il sorriso più che il bullismo. I genitori sono dalla sua parte, gli amici, e persino alcune ragazze che finalmente può amare da maschio. In fondo al libro c’è un numero di telefono (vero) cui tutti quelli che hanno dubbio problemi di genere possono rivolgersi. Barba, caso mai ce ne fosse bisogno, è la dimostrazione della vitalità che sta attraversando il nostro fumetto. Oltre ad essere strumento di attrazione alla lettura per i giovani nelle forme più popolari, sta diventando sempre più un linguaggio potente, ricco, variegato per raccontare il mondo fluido delle generazioni millennials. E lì dentro, in quella fusione nucleare di parole e disegni, che sta accadendo il meglio della narrativa giovane. Padri (nonni) se volete capire figli (nipoti) lasciate perdere Edipo o Turgenev, andate in fumetteria.

Questioni di genere

Chiara Bottici

Manifesto anarca-femminista

«O tutte, o nessuno di noi sarà libero». Questo il motto dell’anarca-femminismo. Questa nuova e rivoluzionaria visione vuol dire la liberazione di ogni creatura vivente dallo sfruttamento capitalista e dalla politica androcentrica di dominazione.

 

 

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Florence Rochefort

Femminismi
Uno sguardo globale

Dall’Europa all’America Latina, dall’Asia all’Africa, una mappa della storia dei movimenti femministi che negli ultimi duecento anni hanno lottato per la libertà delle donne.

 

 

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Judith Butler

Questione di genere
Il femminismo e la sovversione dell’identità

Il libro che ha segnato un punto di svolta del femminismo internazionale e che è divenuto un classico del pensiero di genere. Judith Butler argomenta perché il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale.

 

 

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Cinzia Arruzza – Tithi Bhattacharya – Nancy Fraser

Femminismo per il 99%
Un manifesto

Abbiamo bisogno di un femminismo che dia la priorità alle vite delle persone. Oggi che il sistema di valori liberisti è in crisi e stiamo vivendo una nuova ondata femminista internazionale, abbiamo lo spazio per creare un altro femminismo: anticapitalista, antirazzista ed ecosocialista.

 

 

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Paola Columba

Il femminismo è superato
Falso!

Dalle battaglie delle femministe ‘storiche’ alle ragazze della youtube generation il punto resta la difesa dei diritti delle donne. Perché vanno difesi ogni giorno e di nuovo conquistati. Non possono mai essere dati per scontati. Le donne lo sanno. Lo sapevano le ragazze di ieri, devono saperlo le ragazze di oggi.

Festival Internazionale dell’Economia

 

FESTIVAL INTERNAZIONALE DELL’ECONOMIA

A Torino dal 31 maggio al 4 giugno 2022

 

Prende il via il Festival Internazionale dell’Economia, diretto da Tito Boeri, progettato e organizzato dagli Editori Laterza, con la collaborazione della Fondazione Collegio Carlo Alberto.

L’evento, che si terrà a Torino da martedì 31 maggio a sabato 4 giugno 2022 in alcune delle più belle sale della città, nasce da un’iniziativa pubblica promossa da “La Stampa” (che sarà Media Partner) e che ha visto protagoniste primarie istituzioni del territorio: Regione Piemonte, Comune di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Camera di commercio di Torino, Unioncamere Piemonte, Università degli Studi di Torino, Politecnico di Torino, coordinate dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto.

 

Il Festival Internazionale dell’Economia si gioverà di un comitato editoriale di altissimo profilo, coordinato da Innocenzo Cipolletta di cui fanno parte il Premio Nobel per l’economia Michael Spence, Francesca Trivellato (Institute of Advanced Study a Princeton), Maria Laura Di Tommaso (Università di Torino), Stefano Sacchi (Politecnico di Torino), Pietro Garibaldi (Torino Local Committee – TOLC) e Giorgio Barba Navaretti (Fondazione Collegio Carlo Alberto) e Giuseppe Laterza.

La manifestazione avrà le caratteristiche che l’hanno resa nota a livello nazionale e internazionale: unire la ricerca scientifica più avanzata su un tema di grande rilievo pubblico con la grande capacità divulgativa, il pluralismo delle idee, l’assoluta autonomia da qualsiasi condizionamento politico ed economico.

Il premio Nobel Michael Spence ha definito il Festival “una gemma per il pubblico internazionale di cui nessun ricercatore al mondo può declinare l’invito e un’occasione preziosa per gli stessi economisti di avere in pochi giorni una rappresentazione di sintesi delle ricerche più rilevanti, apprese attraverso la viva voce dei colleghi. Mentre per il pubblico generale il Festival è un’occasione straordinaria per connettere le teorie economiche alla vita di ogni giorno.”

Il tema di quest’anno, Merito, diversità e giustizia sociale, rimanda alle questioni centrali del dibattito pubblico degli ultimi anni, in particolare alla lotta alle diseguaglianze, questione che richiede risposte urgenti e innovative.

“La pandemia – come spiega il direttore scientifico Tito Boeri – ci sta restituendo un mondo più diseguale e soprattutto diversamente disuguale. Nuovi tipi di disuguaglianze si sono sovrapposti a quelle già esistenti. La nuova crisi che si prospetta con l’invasione russa dell’Ucraina e le spinte che questa esercita sull’inflazione rischiano di esacerbare ulteriormente i divari di reddito cui si sono aggiunti i divari nello stato di salute e nelle condizioni abitative. Le disuguaglianze di genere si sono particolarmente acuite dato che la crisi ha falcidiato il lavoro delle donne e fatto gravare su di loro in modo sproporzionato responsabilità genitoriali con figli spesso costretti a casa dalla chiusura delle scuole. Il festival dedicherà quest’anno un’attenzione particolare ai divari di genere con la presenza delle ricercatrici e dei ricercatori che hanno maggiormente contribuito alla letteratura di gender economics a livello internazionale.”

 

Il Festival si articolerà in una serie di formati diversi tra loro, anche per rispondere alle esigenze di un pubblico plurale. Numerose le lezioni magistrali che saranno il cuore del Festival e che saranno tenute in maggioranza da relatori stranieri. A queste si affiancheranno i dialoghi dove vedremo discutere persone di opinioni e competenze diverse e le parole chiave che avranno un carattere più schiettamente divulgativo. Ci saranno anche nuovi formati come ad esempio storia delle idee. Nel programma centrale del Festival – che conta più di 70 eventi – interverranno più di 100 nomi tra relatori e relatrici, tra cui diversi premi Nobel come Jean Tirole e Christopher Pissarides. “Tra i relatori – sottolinea Tito Boeri – le tre persone che hanno maggiormente contribuito allo studio della discriminazione di genere: Marianne Bertrand, Claudia Goldin e Shelly Lundberg. Il 42% dei relatori saranno donne, nonostante meno del 20% degli economisti sia di sesso femminile.”

 

Torino ha una realtà straordinaria come il Circolo dei lettori e per questo sono state potenziate le presentazioni di libri, prevedendo incontri anche su testi non ancora tradotti in italiano, come quello di Olivier Blanchard sul debito e di Adrian Wooldridge sul merito. Molte le lecture di taglio storico nella splendida cornice dell’Accademia delle Scienze. Tra gli storici e le storiche hanno già dato conferma Alessandro Barbero, Eva Cantarella, Simona Colarizi, Barry Eichengreen, Joel Mokyr, Gianni Toniolo. Approfondiremo la storia delle idee che hanno influenzato il pensiero economico, ad esempio quella di giustizia sociale con Thomas Piketty o di mobilità sociale con Daron Acemoglu. La stragrande maggioranza degli incontri sarà in presenza a Torino. Agli economisti si affiancheranno come sempre studiose e studiosi di alto prestigio di altre discipline, come il giurista Cass Sunstein o il filosofo di Harvard Michael Sandel, oggi considerato anche il più popolare divulgatore di filosofia e autore di un brillante saggio sul merito che ha provocato una grande discussione internazionale. Ci chiederemo ad esempio come vengono scelti i premi Nobel e lo faremo con chi per 15 anni è stato nel Comitato che li ha nominati. Ospiteremo personalità simbolo della lotta alla discriminazione: tra queste siamo onorati di avere al Festival Liliana Segre.

Il calendario degli incontri del Festival sarà arricchito dal Programma Partecipato: eventi organizzati da istituzioni e associazioni, anche locali. La candidatura degli eventi dovrà essere presentata entro il 21 marzo con un modulo apposito che è scaricabile dai siti web di Laterza e della Fondazione Collegio Carlo Alberto. Nel Festival come sempre ci saranno anche incursioni nel mondo del cinema, della musica e dell’arte, con presenze significative che animeranno vari spazi della città. A questo proposito è stata avviata una collaborazione con il Museo del Cinema per la proiezione di film legati al tema del festival e con il Museo del Risparmio.

 

Il programma di attività non coinvolgerà solo Torino. In avvicinamento al Festival sono previsti incontri in altri luoghi e città del Piemonte che via via verranno annunciati.

Una presenza significativa al festival, come tradizione, sarà quella delle scuole, con il concorso EconoMia che riunisce gli studenti delle secondarie superiori di tutta Italia e questa volta anche con l’Eco-quiz somministrato nelle scuole medie inferiori.

Infine, il logo del Festival, un albero che rappresenta anche il futuro green dell’economia: un sistema attento all’ambiente che alimenta tutte le forme di vita in un equilibrio dinamico, rispettoso del pianeta e delle sue non illimitate risorse.

 

Il Festival è progettato e organizzato dagli Editori Laterza con la direzione scientifica di Tito Boeri ed è promosso dal TOLC, Torino Local Committee, che riunisce Regione Piemonte, Comune di Torino, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Camera di commercio, industria e artigianato e agricoltura di Torino, Unioncamere Piemonte, Università degli Studi di Torino, Politecnico di Torino, coordinati dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto.

 

Qui il BANDO PARTECIPATO. La proposta di evento dovrà essere presentata entro il 21 marzo 2022.

Qui la conferenza stampa al Circolo dei Lettori di Torino (25 febbraio 2022)