Come una bufala diventa “verità”

Nel ‘600 Étienne Cleirac sostenne che «i furbi infami» avevano inventato le lettere di cambio, con le conseguenti speculazioni: tesi che si è sedimentata negli anni

Giulio Busi | Domenica – Il Sole 24 Ore | 5 dicembre 2021

La storia si fa con i fatti o la si racconta mettendo una leggenda dopo l’altra, come si montano le tessere di un mosaico irreale, misterioso?

La maggior parte di noi, senza pensarci troppo su, risponderebbe sicura che uno storico deve tenersi il più lontano possibile da invenzioni, favole, apologhi. A ciascuno il suo mestiere. Al romanziere le novelle, allo storico i dati verificabili, questa la vulgata corrente. E un’opinione sensata, che vale nella maggior parte dei casi ma non sempre. Nel suo Ebrei e capitalismo, uscito per Laterza, Francesca Trivellato ci offre un esempio di ottima storiografia imbastita su fraintendimenti e stereotipi.

Tutto è “serio” e ben documentato, ci mancherebbe. A essere fuori fase, prive di fondamento sono le fonti, e il compito dell’autrice è risalire, con spirito da esploratrice, lungo le sorgenti bugiarde, per portare alla luce invenzioni e imbrogli. Immaginate il classico sassolino, che si metta a rotolare quasi per caso. Dopo pochi metri, la pietruzza è diventata una cascata di sassi. Più in là, i sassi si sono trasformati in slavina. Il sassolino in questione l’ha gettato, con malizia, un rispettabile giurista francese del Seicento. Etienne Cleirac, questo l’iniziatore di tanto trambusto, un nome che nessuno, o quasi, ricorda più.

Trivellato ha un debole per i personaggi minori, le comparse della storia, e non lo nasconde. Anzi, della ricerca dei contributi dimenticati e delle voci marginali ha fatto uno dei punti di forza del suo metodo. Con scoperte assai interessanti. Del resto, le leggende hanno bisogno dell’ombra per attecchire, e sono più forti se vanno di bocca in bocca, figlie di tutti e di nessuno.

Cleirac, all’età sua, godeva di una certa fama, ma non era sicuramente un gigante intellettuale. Colto ma non troppo, sfoggiava una vena da imbonitore, che gli faceva mescolare con disinvoltura verità e finzione. Il sassolino di cui parliamo si trova in un denso volume sugli usi di mare e sul diritto marittimo. Cosa c’entrano gli ebrei, con la giurisprudenza in mare? Nulla o quasi, e così deve essere, altrimenti che leggenda campata in aria sarebbe mai? Di sicuro Monsieur Cleirac gli ebrei non li poteva soffrire, come del resto non gli stavano simpatici mercanti e uomini d’affari italiani, e tanto gli bastò per lanciare la fatidica pietruzza.

Non si sa bene in che epoca, se nell’alto o nel basso Medioevo, comunque a dar retta al nostro giurista gli ebrei, cacciati dal suolo francese, avrebbero escogitato una trovata ingegnosa: «la necessità insegnò a questi furbi infami a servirsi di lettere segrete, e di biglietti scritti con poche parole e sostanza, come sono ancora le lettere di cambio, indirizzate a coloro cui avevano affidato quei beni, e che tenevano loro bordone. E tutto ciò lo fecero tramite … mercanti stranieri … gli italiani lombardi, spettatori e ministri di questo intrigo ebraico, ne ritennero il formulario [di queste lettere] e da allora seppero ben servirsene». Vi siete persi? E normale, poiché Cleirac ha uno stile involuto e una mente contorta. Il messaggio di fondo è però semplice. Sono stati gli ebrei a inventare le lettere di cambio, e i banchieri “lombardi”, ovvero provenienti dalla penisola italiana, famosi per aver diffuso questo sistema di pagamento, sarebbero stati solo gli allievi della “malizia giudaica”.

Per quanto strampalata e priva di fondamento, la trovata pseudo storica, escogitata a metà Seicento dal nostro pietruzzaro, ha cominciato a rotolare di libro in libro. Trivellato ricostruisce minuziosamente prestiti, scopiazzature, fraintendimenti di fraintendimenti. Oltre a una sciarada di altri illustri sconosciuti, c’è qualche grande, come Montesquieu, che prende per buona la sparata di Cleirac ma ne ribalta il tono. Con l’introduzione delle lettere di cambio, afferma, gli ebrei avrebbero permesso al commercio di eludere la violenza e di mantenersi ovunque.

Sono le capriole a rendere così insidiosi gli stereotipi. Positivi, negativi, neutri, poco importa, basta che riescano a rigirarsi, ovvero a moltiplicarsi e a trasformarsi in luogo comune. Se anche gli autori che simpatizzano con gli ebrei attribuiscono loro l’ideazione di un metodo finanziario così sofisticato e sfuggente come le lettere di cambio, in grado di spostare grandi somme per vie invisibili, senza lasciare tracce, allora sarà vero che le leve del denaro sono saldamente e occultamente nelle loro mani, o almeno così pensano in molti nell’Ottocento, e lo vanno declamando a piena voce.

Di stupidaggine in malevolenza, di benevolenza in partito preso, la frase avvelenata di Cleirac è diventata una valanga quasi inarrestabile. «La cambiale è il Dio reale dell’ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria». Lo scrive Karl Marx nel 1844. Rampollo di una dinastia di rabbini, fresco convertito al protestantesimo, grande rivoluzionario e ancor più grande credulone, almeno per quanto riguarda le leggende sulle cambiali, Marx s’impossessa di un abbaglio storico e lo trasforma in propaganda politica.

La ricerca di Trivellato è una lettura istruttiva, puntuale, documentata. Ed è anche un esperimento con un materiale altamente pericoloso. La storia è lastricata di leggende e di travisamenti. False le leggende, vere le violenze e le persecuzioni.

 

Il libro:

L’assurdo mito di un popolo incorrotto

Nel 1992, trent’anni fa, cominciava il crollo della prima Repubblica e il passaggio alla seconda, segnato dalla scomparsa di un’intera classe politica che dal 1945 in poi aveva governato la democrazia repubblicana; un passaggio cruciale che nell’opinione pubblica italiana resta legato alle inchieste sulla corruzione del pool Mani Pulite.

Attraverso una scrittura agile e un linguaggio sintetico, in Passatopresente Simona Colarizi ricostruisce una fase cruciale della storia d’Italia che ha lasciato una così difficile eredità nel presente.

_________________________________________________

Relativamente poco percorsa nelle analisi sulla caduta del sistema, l’ondata populista è invece a mio giudizio centrale non solo per interpretare l’ultima fase della prima Repubblica, ma anche per una lettura della seconda Repubblica, nella quale gli elementi di continuità con il passato sono così numerosi da ridurre la portata della rottura intervenuta nel ’92-’93 alla pura e semplice liquidazione forzata dei partiti al potere. Non a caso alle modalità del crollo va legata la gran parte dei fenomeni caratterizzanti il nuovo sistema politico, a cominciare dalla difficoltà di uscire dalla transizione aperta dopo il ’94 che solo in superficie era sembrata chiusa con il nuovo secolo. A tutt’oggi restano evidenti infatti le fragilità dei soggetti politici presenti sulla scena alla continua ricerca di una solida identità mai raggiunta, mentre non si restringe la divaricazione della forbice tra gli elettori e i loro rappresentanti, come testimonia l’astensionismo dilagante insieme alla sfiducia nella classe politica al governo e all’opposizione.

Debolezza dei partiti che rende inefficace la governance di fronte alle sfide e alle crisi del nuovo secolo – ad esempio quella devastante del 2008 – con risultati allarmanti per la tenuta del tessuto democratico. Lo dimostrano i fenomeni, in continua crescita dopo il ’94, di populismo, giustizialismo, razzismo, xenofobia, oblio dei diritti, delle libertà e dei valori civili; ma anche l’evolversi delle polemiche antipartitiche o per meglio dire antiestablishment che si riassumono in un antagonismo pregiudiziale contro chi ha istruzione, competenze, educazione e persino fede nei valori non negoziabili alla base del vivere civile. Pulsioni antipolitiche estese anche ai governanti europei, gli “spregevoli burocrati di Bruxelles” contro i quali si scagliano i sovranisti.

Un magma antidemocratico e qualunquista era sempre esistito in una democrazia giovane come l’Italia, ma la responsabilità di averlo fatto lievitare pesa sulle forze politiche che hanno abbattuto la prima Repubblica. Il lievito principale è stata la leggenda di una società politica malata in contrapposizione a un paese sano, per quarant’anni dominato da partiti corrotti, collusi con la criminalità organizzata, colpevoli di averne dilapidato le risorse economiche e persino di aver tramato contro le istituzioni democratiche. Accuse infamanti, risuonate sul palcoscenico delle Tv pubbliche e private, reati veri e propri contestati dai magistrati inquirenti, ingigantiti dalla stampa, potente cassa di risonanza delle inchieste giudiziarie.

Si era così consolidato – e si perpetuava poi anche negli anni a venire – l’assurdo mito di un popolo incorrotto contro l’evidenza, invece, di una cittadinanza afflitta dagli stessi mali dei suoi governanti, con i quali per mezzo secolo aveva stretto patti taciti che ai cittadini garantivano una sorta di diritto all’evasione, ma anche assunzioni e promozioni nel pubblico impiego svincolate da meriti e da esigenze di servizio, nonché il posto a vita, l’assenteismo, l’inefficienza, il passaggio ereditario del ruolo tra i membri delle famiglie, clientele fedeli dei politici al governo. Per non parlare di quanto fossero diffuse piccole illegalità e pratiche spartitorie in tutte le istituzioni pubbliche, nei sindacati, nell’associazionismo privato. Molto spesso a rileggere le cronache degli anni precedenti alla caduta del sistema non sembra esserci alcuna differenza tra passato e presente, persino in relazione alla degenerazione del linguaggio e della gestualità volgari e violente in Parlamento o tra gli “odiatori” della rete oggi, del popolo dei fax ieri.

 

Il libro:

Luciano Canfora racconta “La democrazia dei signori”

Come è potuto accadere che il potere legislativo passasse di fatto nelle mani dell’esecutivo riducendo le funzioni delle assemblee elettive a meri compiti di ratifica?

E soprattutto: un assetto politico resta ‘democratico’ anche quando il ‘demo’ se n’è andato? O si trasforma in una democrazia dei signori?

Luciano Canfora risponde a queste e a molte altre domande nel suo nuovo libro, La democrazia dei signori.

 

 

Il libro:

Le opere dell’uomo: le Lezioni di Storia a Bologna

Lezioni di Storia

LE OPERE DELL’UOMO

Teatro Arena del Sole

Via Indipendenza, 44 – Bologna

appuntamento domenica 16 gennaio, ore 11.00 – Sala Leo de Berardinis

Luciano Canfora – Il Tempio di Gerusalemme

 

Dal 16 gennaio fino al 3 aprile la domenica mattina alle ore 11.00 il Teatro Arena del Sole ospita per la prima volta a Bologna un nuovo ciclo di Lezioni di Storia dal titolo Le opere dell’uomo, frutto della fortunata collaborazione tra ERT Fondazione / Teatro Nazionale ed Editori Laterza, con il sostegno di Automobili Lamborghini.

Prendendo spunto dalla storia della realizzazione d’importanti opere del mondo – il Tempio di Gerusalemme, il Colosseo, la Mezquita di Cordoba, il Teatro della Scala, il Muro di Berlino, il palazzo della memoria –, sei studiosi d’eccezione, autorevoli per rigore scientifico e brillanti per efficacia comunicativa, ricostruiscono l’origine di un’idea, il suo farsi concreto, la continuità o le trasformazioni del tempo. In ogni lezione si cerca di comprendere ciò che tiene insieme storia, potere, denaro, cultura e consenso.

Il primo appuntamento, domenica 16 gennaio alle ore 11.00, è con uno degli storici italiani più autorevoli, professore emerito di Filologia classica all’università di Bari, Luciano Canfora con una lectio sulla tormentata storia del Tempio di Gerusalemme.

Nell’anno 70 d.C. l’imperatore Tito – delizia del genere umano secondo la vulgata adulatrice – distrusse il tempio di Gerusalemme, fondato un millennio prima dal mitico re Salomone, e ne lasciò depredare il tesoro. Il movente economico e l’odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato.

Le opere dell’uomo continua il 30 gennaio con Andrea Giardina che conduce il pubblico tra gli spalti del Colosseo, uno straordinario osservatorio sulla storia politica, sociale e antropologica dell’antica Roma. Amedeo Feniello il 13 febbraio racconta della Mezquita di Cordoba, foresta di simboli e luogo di mille contrasti. Carlotta Sorba il 6 marzo ripercorre le tappe storiche che hanno portato alla realizzazione di uno dei teatri più prestigiosi nel mondo, il Teatro alla Scala. Il 13 marzo Carlo Greppi propone una lezione sul Muro di Berlino, emblema di tutte quelle frontiere che negano la libera circolazione degli esseri umani. Chiude il ciclo il 3 aprile Ivano Dionigi presentando la sua coinvolgente lezione Il palazzo della memoria.

 

Il sostegno di Automobili Lamborghini al ciclo Lezioni di Storia si inserisce in una più ampia collaborazione con ERT / Teatro Nazionale e gli Editori Laterza, che ha già portato alla realizzazione di alcuni talk digitali dedicati ai dipendenti di Automobili Lamborghini, a conferma delle sensibilità della casa automobilistica di Sant’Agata Bolognese nei confronti della cultura, del proprio territorio e dei propri collaboratori.

 

Informazioni:

Teatro Arena del Sole, via Indipendenza 44 – Bologna

Biglietto unico: 8,50 €

Abbonamento alle 6 lezioni di Le opere dell’uomo a € 40,00

Biglietteria: dal martedì al sabato dalle ore 11.00 alle 14.00 e dalle 16.30 alle 19.00

Tel. 051 2910910 – biglietteria@arenadelsole.it | bologna.emiliaromagnateatro.com

 

Fino al 31 marzo 2022, come definito nel DL del 24/12/2021, l’ingresso a teatro per assistere agli spettacoli è consentito ai possessori di green pass rafforzato e mascherina FFP2. Per i minori di 12 anni non è previsto l’obbligo del green pass.

È possibile utilizzare i biglietti in formato elettronico. Acquistando biglietti on-line o telefonicamente si riceverà una conferma via mail che potrà essere utilizzata per entrare in sala senza necessità di passare dalla biglietteria.

#CasaLaterza: Goffredo Buccini in dialogo con Francesco Oggiano

Quando Mani Pulite esplose, Goffredo Buccini e i suoi colleghi giornalisti avevano poco più di trent’anni, ma si trovarono a seguire un’inchiesta epocale. Che cosa possiamo imparare da quella vicenda, e quali lezioni offre alla nuova generazione di giornalisti? 

Ne abbiamo parlato a partire da Il tempo delle mani pulite con Goffredo Buccini, autore del libro e giornalista del Corriere della Sera, e Francesco Oggiano, giornalista freelance. 

Il libro:

In ricordo di Enrico Berti

È scomparso Enrico Berti, sommo esperto di Aristotele e grande storico della filosofia antica. Iniziata dal 1989, la collaborazione con la nostra casa editrice è stata molto significativa ed estesa. Dalla Storia della filosofiaDall’antichità a oggi per i licei scritta con Franco Volpi, ai molti libri tra cui ricordiamo: Le ragioni di Aristotele (1989), Il pensiero politico di Aristotele  (1997), Guida ad Aristotele (a cura di, 2007), Aristotele nel Novecento (2008), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, (2007), Il libro primo della «Metafisica» (con Cristina Rossitto, 2008), Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone (2010). Da ultimo, la straordinaria traduzione della Metafisica di Aristotele.

Lo salutiamo e ricordiamo riportando di seguito un estratto dall’introduzione di In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia anticaCon la certezza che se c’è un Perìpato celeste, sarà in buona e giusta compagnia.

 

“All’inizio della Metafisica, Aristotele dichiara che «tutti gli uomini (hoi anthrôpoi, ossia uomini e donne, Greci e barbari, liberi e schiavi) per natura tendono al sapere». Poco oltre, egli precisa che «gli uomini, sia ora sia in principio (kai nun kai to prôton), cominciarono a filosofare (philosophein, cioè a cercare il sapere) a causa della meraviglia (dia to thaumazein)». Ma già Platone, suo maestro, aveva fatto dire da Socrate a Teeteto: «È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo, e chi disse che Iride fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia». Iride, messaggera degli dèi fra gli uomini, qui è identificata con la filosofia, ed è figlia di Taumante, nome che in greco richiama il verbo «meravigliarsi» (thaumazein). Tanto Aristotele quanto Platone, i due massimi filosofi greci, concordano dunque nel riconoscere che il desiderio di sapere ha inizio dalla meraviglia provata di fronte al darsi delle cose del mondo.

Per i greci, tutti gli uomini, anche quelli che credono in una religione, possono fare filosofia, cioè aspirare al sapere; eppure il credente e il filosofo attribuiscono al loro cercare una finalità e un significato differenti. La religione nasce – come disse Max Scheler – dal desiderio di salvarsi dalla morte, mentre la filosofia nasce dal desiderio di sapere, e la scienza (la scienza moderna, indissolubilmente legata alla tecnica) nasce dal desiderio di potere, cioè di dominare la natura. Ma, mentre la religione ha al suo inizio una rivelazione, la quale narra una serie di fatti ed in tal modo indica la via della salvezza, la filosofia ha al suo inizio solo la meraviglia, e tutti gli uomini, in quanto desiderano semplicemente sapere, non dispongono di alcuna rivelazione, ma solo dei sensi e della ragione – ovvero dei mezzi forniti dalla loro stessa natura – per soddisfare i propri interrogativi. (….) Ma che cos’è la meraviglia e come essa suscita nell’uomo il desiderio di sapere? La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarsi a questa, cioè di apprendere, di conoscere, di sapere. Il primo tentativo di sfuggire all’ignoranza è il ricorso al mito, cioè alle narrazioni dei poeti, che a loro modo forniscono una risposta alle domande degli uomini. Ma si tratta di una risposta del tutto insufficiente, che non estingue la meraviglia, anzi la accresce, perché non esibisce le proprie ragioni, le proprie giustificazioni. Per questo motivo, gli uomini non si accontentano del mito, ma ricercano la «scienza», cioè il sapere (in greco non ci sono parole diverse per indicare la filosofia e la scienza). Aristotele era convinto che negli uomini fosse presente questo desiderio di sapere fine a sé stesso, e che esso si manifestasse una volta soddisfatti tutti gli altri bisogni, legati alla sopravvivenza.

E ne è testimonianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando furono a loro disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta di indagine. È chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé. (Aristotele Metafisica I, 982b, 22-28)

La meraviglia, dunque, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, cioè della ricerca disinteressata di sapere, libera dai bisogni materiali e anche dal desiderio dell’agiatezza, o del piacere. Essa presuppone la soddisfazione dei bisogni primari, cioè naturali, e dei desideri secondari, cioè indotti. Per questo motivo, la meraviglia non è un sentimento facile da provare, frequente, diffuso, ma è uno stato d’animo raro e prezioso. Essa è l’espressione della vera libertà: libertà dal bisogno e dagli altri desideri. Si comincia con la meraviglia, ma non si rimane sempre nella meraviglia. (…) I Greci non avevano il gusto per la ricerca fine a se stessa: essi cercavano per trovare. Oggi a volte si preferisce concepire la filosofia come pura ricerca, o come ricerca senza fine. Sembra quasi che il cercare sia un atteggiamento nobile, critico, raffinato, che desta simpatia e rispetto, mentre il trovare sia banale, grossolano e dogmatico. In realtà la ricerca è sincera, o autentica, solo se cerca per trovare. Chi cerca per il solo piacere di cercare non cerca veramente, ma finge di cercare. Chi invece cerca veramente, con impegno, con determinazione, con passione, lo fa perché gli interessa trovare ciò che cerca. Altrettanto si può dire del domandare. Il domandare autentico è quello che vuole ottenere una risposta. Il domandare fine a se stesso è solo una posa. Perciò i Greci non hanno solo formulato domande, ma hanno cercato anche di dare delle risposte alle loro domande.”

Un governo pubblico dei dati per disinnescare i negazionismi

La pandemia piomba su popolazioni già affaticate dalla vecchia crisi e la reazione si veste di teorie assurde. L’introduzione di soggetti internazionali può controbilanciare il potere dei grandi oligopoli nelle sfide future

Gianni Cuperlo | Domani | 15 dicembre 2021

Domanda retorica: ma se negli ultimi mesi lo stesso tempo dedicato a nuovi ideologi del popolo No-vax lo avessimo dedicato a comprendere cosa può fare e come può agire la ricerca, oggi il panorama dell’informazione starebbe meglio oppure no? Risposta sincera: sul piano degli ascolti televisivi avremmo registrato un crollo, ma se lo sguardo punta al merito saremmo in una condizione migliore.

Detto in sintesi il compito che giornali e tv, non tutte per carità, hanno svolto solo in parte lo recupera Massimo Florio con un saggio accessibile, La privatizzazione della conoscenza, edito da Laterza. L’autore che insegna Scienza delle finanze a Milano da anni analizza il rapporto costi-benefici nell’impresa pubblica con un’attenzione a industrie a rete e ricadute economiche e sociali della scienza.

Dunque non di un virologo si tratta, ma di uno studioso dei processi che dovrebbero spingere la politica, intesa come azione coordinata degli stati, a sfruttare il valore della conoscenza indirizzandola alla promozione di beni comuni. E il libro questo fa, collega i fili di una trama quasi sempre mal riflessa nella sua complessità.

Ma andiamo con ordine. Anzi, partiamo dalla proposta che sorregge l’insieme dell’analisi. Bene o male la pandemia, e prima ancora la crisi del 2008-2009, un effetto sull’agenda del pianeta lo ha avuto: prendere atto dei nessi tra instabilità economica, una insicurezza sociale diffusa, il mutamento climatico, la minaccia globale alla salute, squilibri geopolitici, il potere dei giganti della rete e da ultimo la fragilità delle nostre democrazie.

Doppia crisi

Una miscela potente per quanto esplosiva che si è portati a leggere a compartimenti chiusi, al più correlando due, massimo tre, dei fattori, cancellando la relazione che li rende, mai come ora, universalmente interdipendenti.

Se partiamo da qui si intuisce quanto gli ultimi dieci anni, poco più, abbiano indotto la crisi acuta di una doppia tendenza: quella verso un potere concentrato in oligopoli simili a fortezze e un tasso di disuguaglianza crescente, anch’esso imposto dalle logiche della modernità.

Tutto ciò sino a un guasto evidente degli ingranaggi. Dapprima l’affondo della crisi di fine anni Dieci sul ceto medio impoverito, da ultimo il Covid. Tra le conseguenze un certo numero di persone ha preso le misure, e soprattutto compreso i rischi, di tagli severi alla spesa pubblica, di uno stato ridotto a “bestia da affamare”, ma pure di priorità ambientali ridotte a esercizio di retorica sino a grandi società a partecipazione pubblica smantellate nell’idea che settori vitali, dall’energia alle telecomunicazioni, fossero da gestire senza troppi controlli.

L’uomo forte

Una qualche reazione però quel modello l’ha prodotta. Come spiega Florio, «se non è lo stato a offrire servizi che tengono assieme la società mentre aumentano le disuguaglianze e peggiorano le opportunità per la maggior parte delle persone, allora tasse, frontiere aperte e democrazie cominciano ad apparire nemiche del “popolo”, in particolare delle classi medie impoverite: Trump viene da lì».

La pandemia, dunque, piomba sulla testa di governi e popolazioni affaticate dalla vecchia crisi mentre forze dall’impianto nazionalista, xenofobo e razzista paiono in rampa di lancio, scortate dal consenso e alquanto aggressive per toni e linguaggio.

La richiesta dell’uomo forte si fa sentire e la prima reazione di una parte al nuovo nemico (il virus) si veste di assurde teorie negazioniste. Si entra così nella stagione più delicata, quella da cui dipende l’uscita da questa tempesta perfetta (crisi del modello economico e sociale, impoverimento di massa, bisogni da tutelare).

Volendo, si è di fronte a qualcosa di analogo al bivio che riguardò le società europee, e non solo, a cavallo tra gli anni venti e Trenta del vecchio secolo. Con un pezzo del continente suicidatosi nei totalitarismi e un’altra convinta dal New Deal rooseveltiano, dal personalismo cristiano e dal welfare socialdemocratico a imboccare la via della liberal-democrazia.

E siamo al punto. Lo si può riassumere così: senza cogliere l’opportunità che la “tempesta” crea, e per certi versi impone, vale a dire, senza politiche e strategie realmente innovative non sarà possibile sottrarre le leve di economia e società al controllo sempre più invasivo di potenti oligopoli destinati non ad arginare, ma a fomentare nuovi squilibri sociali. Soprattutto quella struttura del potere su scala globale non avrà in un futuro prossimo maggiore capacità di farsi argine verso altre minacce derivate da crisi economiche, sanitarie o ambientali con rischi più grandi per la tenuta degli stessi ordinamenti democratici.

Soggetti pubblici

Tradotto, il comando attualmente concentrato anche sul fronte della conoscenza non è stato in grado ieri e non lo sarà domani di sostenere una «buona società» frutto di una «crescita economica inclusiva e ordinata».

Precisamente da questa fotografia deriva la proposta: indurre coalizioni internazionali di governi a costituire nuovi soggetti pubblici in grado di competere con il dominio sin qui incontrastato dei grandi oligopoli. Lo scopo dev’essere controbilanciare quel potere dal lato dell’offerta «di conoscenze di beni e servizi che ne incorporano il valore». Operativamente si tratterebbe di soggetti progettati come una combinazione di infrastrutture di ricerca e imprese pubbliche orientate su missioni a lungo termine.

Nello specifico la proposta si rivolge a tre nuove agenzie europee, nel caso nostro partendo dalle oltre mille infrastrutture di ricerca esistenti, alcune di dimensioni notevoli per risorse professionali e finanziarie che organizzano. I tre settori indicati sono la salute umana, il cambiamento climatico, il governo dei dati.

Obiettivo, garantire ai singoli governi, in un raccordo di strategie, di poter agire con politiche industriali più dirette ed efficaci sia in rapporto alla regolazione dei mercati che agli attuali strumenti tributari. Detto in modo ancora più netto: su queste frontiere decisive per programmare il “dopo” nessuno stato può spicciarsela da sé. A tutti, grandi e meno, serve una base di competenze scientifiche e tecniche che questa stagione segnata dalla pandemia per la prima volta può rendere percorribile. A cominciare dal fronte sanitario dove il rapporto tra spesa pubblica e oligopolio farmaceutico «mostra che c’è spazio per un soggetto europeo che intraprenda la ricerca, lo sviluppo, la produzione, la distribuzione di quei farmaci e delle innovazioni biomediche che le Big Pharma non ci daranno».

Lo stesso vale per la seconda missione che investe scienza e tecnologia del cambiamento climatico, filone in cima alle priorità dell’unione europea anche in relazione all’uso dei fondi di Next generation Eu.

In questo caso il pericolo è una dispersione di risorse in assenza di un soggetto che internalizzi una missione scientifica e tecnologica a lungo termine e si ponga come «proprietario o gestore dell’interesse collettivo di una rottura con il modello attuale».

Quanto all’ultima missione, la sfida starebbe in una impresa europea capace di fronteggiare lo strapotere dei colossi del digitale favorendo un’idea di governo pubblico dei dati. Utopie di là da essere? Forse, ma forse no e per una volta scommettere sulla seconda cosa potrebbe rivelarsi per l’Europa del “bla bla bla” e dei trattati una carta vincente.

 

Il libro:

“Le siciliane”, di Gaetano Savatteri

«Quando arrivai a Palermo per iscrivermi all’università, mi accorsi a pelle che Palermo era ‘fimmina’.

Non solo per la bellezza delle sue ragazze dagli sguardi pirateschi, ma anche per la presenza ad ogni angolo del centro storico di numerose edicole votive dedicate a santa Rosalia, la Santuzza.

Palermo era ‘fimmina’ nella sua carnale decadenza. Odorava di fiori tropicali e di monnezza. Odorava di umidità nelle scale di palazzi aristocratici ormai in sfacelo, e odorava di mistero dietro i portoni che introducevano a chiostri carichi di gelsomini e di rose».

Luca Ralli ha illustrato per noi Le siciliane, il nuovo libro di Gaetano Savatteri.

Il libro:

“I liberi muratori”, di John Dickie

Intorno alla Massoneria aleggia da sempre un’aura di mistero e di sospetto.

Ma chi sono i massoni? Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? I massoni hanno veramente architettato, tra l’altro, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa e le trame oscure della nostra storia repubblicana?

Luca Ralli ha illustrato per noi I liberi muratori, il nuovo libro di John Dickie.

 

Il libro:

“Adriatico amarissimo”, di Raoul Pupo

Le terre dell’Adriatico orientale sono state uno dei laboratori della violenza politica del ʼ900: scontri di piazza, incendi, ribellioni militari come quella di D’Annunzio, squadrismo, conati rivoluzionari, stato di polizia, persecuzione delle minoranze, terrorismo, condanne del tribunale speciale fascista, pogrom antiebraici, lotta partigiana, guerra ai civili, stragi, deportazioni, fabbriche della morte come la Risiera di San Sabba, foibe, sradicamento di intere comunità nazionali.

Queste esplosioni di violenza sono state spesso studiate con un’ottica parziale, e quasi sempre all’interno di una storia nazionale ben definita – prevalentemente quella italiana o quella jugoslava (slovena e croata) –, scelta questa che non può che originare incomprensioni e deformazioni interpretative. Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale come quello dell’Adriatico orientale, che nel corso del ʼ900 oscillò fra diverse appartenenze statuali. Inoltre, le versioni offerte dalle singole storiografie nazionali non fanno che rafforzare le memorie già a suo tempo divise e rimaste tali generazione dopo generazione.

Sono maturi i tempi per tentare di ricostruire una panoramica complessiva delle logiche della violenza che hanno avvelenato – non solo al confine orientale – l’intero Novecento.

Luca Ralli ha illustrato per noi Adriatico amarissimo, il nuovo libro di Raoul Pupo.

 

 

Il libro: