La vigilia del disastro

Un saggio di Paul Jankowski, edito da Laterza, analizza le cause del Secondo conflitto mondiale. Le maggiori potenze si mostrarono incapaci di costruire un nuovo ordine all’insegna della sicurezza collettiva e delle norme condivise

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 2 novembre 2021

Doveva essere l’anno in cui l’umanità intera — con l’accordo ginevrino sul disarmo si sarebbe messa definitivamente alle spalle la Grande guerra. Al contrario in quei dodici mesi si posero le premesse per il Secondo conflitto mondiale. Lo si intuì (o, meglio, lo si sarebbe potuto intuire) alla fine di settembre del 1933 allorché Joseph Göbbels partecipò alla Conferenza per il disarmo che, dall’anno precedente, si riuniva a Ginevra. Göbbels vestiva i panni di ministro della Propaganda di Adolf Hitler e fece un certo effetto ascoltare le sue insincere parole di omaggio alla Società delle Nazioni. Quella stessa Società delle Nazioni che proprio lui, appena un anno prima, da candidato alle elezioni in Germania, aveva giurato di distruggere. Ora — scrive Paul Jankowski in Il lungo inverno del 1933. Alle origini della Seconda guerra mondiale in uscita il 14 novembre da Laterza — «si muoveva con disinvoltura nell’ambiente ginevrino, da scaltro e piacevole praticante dell’arte della conciliazione». Sostenendo «sfacciatamente che il nazismo significava pace, una forma più alta di democrazia e di difesa dell’Occidente dal bolscevismo». In quegli stessi giorni un fotografo lo ritrasse fuori dall’Hotel Carlton «con un’espressione arcigna sul volto… quasi a voler mostrare l’uomo che si nascondeva dietro la maschera». Sostanzialmente Göbbels era lì per annunciare che la Germania intendeva procedere sulla via del riarmo e far capire che il suo Paese presto avrebbe abbandonato quella Conferenza oltreché la Società delle Nazioni.

Arthur Henderson, l’anziano malato laburista inglese che presiedeva il summit di Ginevra, tentò in ogni modo di far andare avanti i lavori della Conferenza. Ma il primo ministro del suo Paese, Ramsay MacDonald, fu, con lui, persino scortese. La Francia chiese — inutilmente — che si formasse un esplicito fronte antitedesco contro le violazioni hitleriane del trattato di pace. Il Giappone rese manifesta la propria contrarietà ai limiti posti dai trattati navali del 1922 e del 1930. L’Urss fece capire che mai avrebbe firmato un accordo sul disarmo non sottoscritto dal Giappone. La Polonia lasciò intendere che non avrebbe firmato un’intesa da cui i sovietici si fossero chiamati fuori. Il delegato americano, Norman Davis, annunciò che da quel momento il disarmo era una «questione europea» e che lui sarebbe tornato immediatamente in patria. Da quel momento i ministri degli Esteri di tutti i Paesi disertarono la Conferenza destinata a chiudersi l’anno successivo con un nulla di fatto. Accadde anche che nella stanza di ingresso alla Crystal Chamber dell’Hotel National, in cui si riuniva il consiglio, il fregio allegorico che simboleggiava la pace si staccasse dalla parete e cadesse a terra andando in frantumi. Un evento fortuito, certo, che però fu colto dai più come un infausto presagio.

Già Alan J.P. Taylor in Le origini della Seconda guerra mondiale (Laterza), più recentemente, Volker Ullrich in Hitler. L’ascesa, 1889-1939 (Mondadori) e molti altri oltre a loro — avevano messo in evidenza l’importanza di quel 1933, anche al di là del fatto che fu l’anno in cui il dittatore tedesco andò al potere. In che senso? Quello fu il momento, scrive Jankowski, in cui le grandi potenze e alcuni dei loro partner minori «voltarono le spalle a quel che restava di un ordine mondiale» e si «allontanarono l’una dall’altra». Il Giappone, che nel 1931 aveva attaccato la Manciuria, uscì, come si è detto dalla Società delle Nazioni, Roosevelt accentuò il distacco degli Stati Uniti dall’Europa. America, Gran Bretagna e Francia raggiunsero l’apice del litigio tra loro su debiti di guerra, armamenti, moneta, tariffe daziarie, atteggiamento nei confronti della Germania. Alla fine di quel 1933, scrive Jankowski, «il mondo postbellico diventò un mondo prebellico».

Il lungo inverno del 1933 demolisce alcune false credenze su quel che caratterizzò il «decennio meschino e disonesto» (la definizione è di W.H. Auden) a cavallo tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta. Nonché alcune analogie tra quei tempi e quelli attuali. Analogie, sostiene Jankowski, basate «su presupposti confusi riguardo a ciò che il mondo era allora e quel che è oggi». E vero, ad esempio, che la catastrofe economica dei primi anni Trenta contribuì in alcuni Paesi a trasformare dei partiti fascisti di scarsa importanza in movimenti di massa, «ma d’altra parte», fa notare l’autore, «negli Stati Uniti e in Francia portò al potere governi socialdemocratici di centro-sinistra». E «fino a tempi recenti i “populisti nazionalisti” ritenuti parenti stretti di quelli degli anni Trenta si sono affermati nei contesti economici più vitali». Mentre, al contrario, «hanno dovuto faticare nei Paesi a crescita più lenta e con livelli di disoccupazione più elevati».

C’è da osservare poi che da maggior parte dei governi autoritari degli anni Trenta si era già insediata quando la Grande Depressione si abbatté sul mondo». E che «piuttosto che portare al centro della scena gli irrequieti fascisti», agì «in modo da tenerli fuori dal gioco, almeno per un po’». Alcune delle «più sguaiate manifestazioni di psicosi a sfondo etnico o razziale provennero dalle culture ritenute più democratiche». Il modello che sottolinea le analogie tra quei tempi e quelli attuali «non regge», ribadisce lo studioso. E un modello che, a detta di Jankowski, evidenzia semmai «l’eterna lotta tra lo storico che vede gli alberi ma non la foresta, e lo scienziato della politica che vede la foresta ma non gli alberi». Se andiamo in cerca di analogie con il passato per dare un senso alle nostre difficoltà attuali, un confronto con il mondo immediatamente successivo al 1900, sostiene Jankowski, «si rivelerebbe più utile» di quello con il mondo degli anni Trenta.

E ancora. Nel primo dopoguerra molti, compreso qualche marxista, prevedevano che la mano invisibile del libero commercio avrebbe agito come una marea in grado di erodere le dighe statuali e dar vita spontaneamente a un nuovo ordine. Ma, come ha ben spiegato Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale (il Mulino) queste idee furono mandate all’aria proprio dalla Grande Depressione. Chi negli anni Venti guardava alla Grande guerra come a «un momento in cui tutti erano precipitati in una lotta primitiva», negli anni Trenta «paventò una futura ricaduta ancor più calamitosa, l’infrazione di ogni residuo limite alla brutalità umana». Le personalità pubbliche richiamavano continuamente il rischio di una fine delle civiltà.

Però quando la Gran Bretagna cercò di promuovere la riabilitazione della Germania e la Francia tentò disperatamente di contenerla, l’equilibrio delle potenze divenne d’un tratto «una chimera che non trovò gli artefici necessari» e non fu mai qualcosa di concreto. L’Unione Sovietica, ironizza Jankowski, «al mattino cercò di impedire la formazione di qualsiasi forte coalizione fra Paesi europei», «a mezzogiorno di volgerne una contro la Germania» e «sul far della notte di accordarsi con il Terzo Reich». Con questi subitanei cambiamenti di idea, l’Urss sembrò rispondere ad una logica «realista». Ma si trattava di «espedienti tattici» per portare avanti il proprio processo di militarizzazione che, osserva Jankowski, aveva preso avvio prima di qualsiasi altro. Quanto agli Stati Uniti, non erano interessati a equilibri di alcun tipo.

In tempi successivi, i «realisti» avrebbero cercato di attribuire le instabilità del mondo tra le due guerre a difetti strutturali. Spiegando, ad esempio, «che non era emerso nessun sistema basato sul concerto delle potenze in grado di mantenere la pace, come era avvenuto invece dopo il 1815». O che «nessun Paese egemone a livello globale aveva preso il posto occupato nel secolo precedente dalla Gran Bretagna». Oppure ancora che, come ha sostenuto Ian Clark, «che il mondo tripolare precedente alla Seconda guerra mondiale era più pericoloso di quello bipolare subentratogli dopo il conflitto».

Ma qui il discorso va riportato al Congresso di Vienna, al 1815. In quel momento, ricorda Jankowski, le potenze europee che si erano coalizzate contro Napoleone «assegnarono alla stabilità, nel nuovo quadro di pace un posto prioritario rispetto all’ingrandimento dei singoli Stati». I Paesi vincitori decisero allora «un cambiamento rispetto al tradizionale sistema dell’equilibrio che fin dal 1763 aveva prodotto solo squilibri e conflitti endemici». Adottarono invece «un sistema concertato che prevedeva obblighi e limiti reciproci». Non tutti se ne avvantaggiarono: polacchi e sassoni ebbero piuttosto a soffrirne. Quel sistema, però, si basò sulla capacità di due potenze «poste ai margini del continente» (Gran Bretagna e Russia) di «moderare le altre». Funzionò. Lo spirito che lo ispirava consentì all’Europa di non conoscere, per un intero secolo, neppure un conflitto fra grandi potenze. Eccezion fatta per quello franco-prussiano, che però non può essere considerato un «conflitto tra grandi potenze».

Qualcosa di analogo, sempre secondo Jankowski, avvenne anche dopo il 1945, quando gli Stati Uniti, i loro alleati e i loro avversari in tempo di guerra concepirono un nuovo sistema di cooperazione internazionale che «non assomigliava a nessuno di quelli precedenti», ma che «ancora una volta fece prevalere le finalità comuni su quelle individuali». E, che generò una lunga pace. Anche se prese le sembianze di una guerra, la guerra fredda.

Negli anni tra le due guerre mondiali, invece, accadde l’opposto. E accadde nonostante alcuni dei Paesi che «più covavano risentimenti» — il Giappone, la Germania — fossero in grado di esibire «una ripresa più sostenuta di altri dal baratro economico dei primi anni Trenta». Forse tutto degenerò perché laddove a Vienna nel 1815 i diplomatici erano riusciti a ignorare l’opinione pubblica dei loro Paesi, a Versailles ciò non fu possibile. E nei vent’anni successivi lo fu ancor meno. Sempre meno.

A questo punto «una storia improntata ai metodi della psicanalisi sociale» ha messo sotto i riflettori gli aspetti degradanti della guerra totale, ipotizzando che 60 o 70 milioni di ex combattenti avessero riversato sul loro mondo «la brutalizzazione che la Grande guerra aveva loro inflitto». Alcuni — si veda Seymour Martin Lipset in L’uomo e la politica (Edizioni di Comunità) — sulla scia di tali analisi diedero un crescente rilievo alle classi medie «spremute», impaurite e antimoderne. Ma le diagnosi di tal genere non spiegavano perché un gran numero di altri reduci diventarono invece pacifisti. O per quale motivo «l’esperienza della brutalizzazione sofferta da tedeschi, italiani o russi dovesse essere più grave di quella vissuta dai soldati francesi o britannici». La verità semplice ed evidente è che i percorsi di ogni Paese furono diversi uno dall’altro. Negli anni fra le due guerre «ognuno si contrappose in qualche modo al mondo». Ognuno «agì in modo da rendere discrezionali, quando non irrilevanti, le norme e le procedure». Negli anni Trenta «con imbarazzo o disprezzo», scrive Jankowski, regimi di ogni sorta «seppellirono le vestigia della sicurezza collettiva e delle norme condivise».

E pensare che negli anni Trenta i Paesi che poi si sarebbero combattuti nella Seconda guerra mondiale «disponevano della forza necessaria a compiere delle scelte e ad orientare le proprie storie nazionali in una direzione diversa». Ma non lo fecero. Questa è l’unica vera analogia con quello che è poi capitato nei decenni successivi al crollo del muro di Berlino. L’ordine che si pensava avrebbe fatto seguito alla guerra fredda «si è dimostrato frutto di una fantasia», esattamente come quello «immaginato dopo la Grande guerra». Perciò gli accadimenti di quel «lungo inverno del 1933» ci dicono qualcosa di utile per comprendere i rischi che corre il mondo di oggi.

 

Il libro:

John Dickie racconta “I liberi muratori”

Intorno alla Massoneria aleggia da sempre un’aura di mistero e di sospetto. Ma chi sono i massoni? Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? I massoni hanno veramente architettato, tra l’altro, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa e le trame oscure della nostra storia repubblicana?

Ne I liberi muratoriJohn Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.

 

 

Scopri il libro:

 

[Proposte di lettura] Ambiente

Stefano Mancuso

La pianta del mondo

Dalla vita su questo pianeta alla voce di un violino, dal futuro delle città alla risoluzione di crimini efferati, all’inizio di ogni storia c’è sempre una pianta. Della maggior parte di esse si è persa memoria. Altre storie, invece, hanno avuto un destino diverso perché legate a persone o avvenimenti che hanno colpito l’immaginazione umana. Questo libro ne racconta alcune.

 

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Amedeo Feniello

Demoni, venti e draghi
Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi

Nel 1300 il mondo venne attraversato da una serie di eventi naturali drammatici e devastanti: pestilenze, inondazioni, piccole glaciazioni, carestie. Eppure le tre grandi civiltà del tempo, quella europea, quella islamica e quella cinese, seppero costruire dei veri e propri ‘paesaggi adattativi’ per affrontare le sfide del momento. Un libro che ci conduce alla riscoperta di una grande lezione dimenticata che ci viene dal passato.

 

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Seth Wynes

SOS
Cosa puoi fare tu contro il riscaldamento globale

Siamo abituati a credere che modificare i nostri comportamenti individuali non abbia un impatto significativo sul riscaldamento globale. Ma la scienza ci dice esattamente il contrario: azioni semplici fanno la differenza.

 

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Stefano Nespor

La scoperta dell’ambiente
Una rivoluzione culturale

Come abbiamo scoperto l’importanza dell’ambiente e della salute del nostro pianeta? Un viaggio attraverso le tappe fondamentali che hanno portato alla nascita della coscienza ambientalista contemporanea.

 

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Fabio Ciconte

Chi possiede i frutti della terra

Una mela qualsiasi non è mai una mela qualsiasi. È il risultato di una selezione genetica che l’ha resa perfetta e di proprietà esclusiva di industrie genetiche che controllano l’intera filiera. Questo reportage che attraversa le isole Svalbard fino ad arrivare alle campagne pugliesi, dall’America di fine Ottocento ai potenti club che oggi decidono chi può coltivare, per la prima volta mette in luce le nuove forme di controllo del cibo e i rischi per la biodiversità e gli ecosistemi.

 

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Edoardo Borgomeo

Oro blu
Storie di acqua e cambiamento climatico

Un pianeta più caldo significa ghiacciai che si sciolgono, piogge meno prevedibili, alluvioni più frequenti, deserti che avanzano. Nell’acqua vediamo gli effetti del riscaldamento globale e la probabile causa di guerre future.

 

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Stella Levantesi

I bugiardi del clima
Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo

Un libro imprescindibile per chiunque voglia finalmente sapere come sia potuta riuscire l’operazione di occultamento più grande del secolo: quella orchestrata dai negazionisti dell’emergenza climatica.

 

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Fabio Ciconte

Fragole d’inverno
Perché saper scegliere cosa mangiamo salverà il pianeta (e il clima)

Siamo abituati ad associare le emissioni di CO2 solo alla produzione energetica e ai trasporti. Ma vi siete mai chiesti quanto esse dipendano da cosa scegliamo di mangiare? La risposta è una sola: moltissimo, perché le abitudini di consumo, i processi di produzione e il riscaldamento globale ormai sono legati a doppio filo.

 

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Tiziano Fratus

L’Italia è un bosco
Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda

Gli alberi delle nostre città: li sfioriamo, talvolta li tocchiamo, ma non li conosciamo. Nel bel libro di Tiziano Fratus si racconta del superlativo patrimonio naturale che abbiamo sotto gli occhi: anche le nostre città sono piccole oasi. Antonio Pascale, “Corriere della Sera”

 

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Marco Ciardi

Terra
Storia di un’idea

Il nostro pianeta è stato osservato da molte angolazioni. I grandi esploratori europei ne hanno disegnato il volto, gli astronauti hanno visto la famosa ‘biglia blu’, i fisici ne hanno immaginato l’inizio, Darwin ha descritto come sono andate le cose per la vita che ospita. Marco Ciardi ripercorre la storia del pianeta con gli occhi della nostra cultura scientifica, attraversando discipline ed epoche, in un viaggio davvero globale.
Mauro Capocci, “Le Scienze”

 

 

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Marina Forti

Malaterra
Come hanno avvelenato l’Italia

Per decenni gli scarti delle attività industriali sono finiti nella terra che abitiamo. Il fumo delle ciminiere ha impestato l’aria; gli scarichi hanno avvelenato l’acqua. Conviviamo, e conviveremo a lungo, con la diossina nei giardini pubblici, il piombo nei terreni, il Pcb e gli idrocarburi nelle falde idriche. Marina Forti ci porta in alcuni dei luoghi più inquinati d’Italia e ce ne racconta la storia, le bonifiche mancate, la mobilitazione dei cittadini, l’emergere di una coscienza ambientalista, lo scontro tra le ragioni del lavoro e quelle della salute.

 

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Enrico Giovannini – Donato Speroni

Un mondo sostenibile in 100 foto

100 fotografie raccontano lo stato del nostro Pianeta e la maggiore sfida del nostro tempo: costruire le premesse per un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

 

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Stefano Mancuso

L’incredibile viaggio delle piante

Come le piante navigano intorno al mondo, come portano la vita su isole sterili, come sono state in grado di crescere in luoghi inaccessibili e inospitali, come riescono a viaggiare attraverso il tempo, come convincono gli animali a farsi trasportare ovunque. Sono solo alcune delle incredibili cose raccontate nelle storie che troverete in questo libro. Storie di pionieri, fuggitivi, reduci, combattenti, eremiti, signori del tempo.

 

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Stefano Mancuso

La Nazione delle Piante

«In nome della mia ormai pluridecennale consuetudine con le piante, ho immaginato che queste care compagne di viaggio, come genitori premurosi, dopo averci reso possibile vivere, vengano a soccorrerci osservando la nostra incapacità a garantirci la sopravvivenza. Come? Suggerendoci una vera e propria costituzione su cui costruire il nostro futuro di esseri rispettosi della Terra e degli altri esseri viventi. Sono otto gli articoli della costituzione della Nazione delle Piante, come otto sono i fondamentali pilastri su cui si regge la vita delle piante, e dunque la vita degli esseri viventi tutti.»

 

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Timothy Morton

Noi, esseri ecologici

Timothy Morton è il profeta filosofico dell’antropocene, l’era in cui è l’uomo e solo l’uomo a modificare il clima, il territorio e l’ambiente.
“The Guardian”

 

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Piero Bevilacqua

Miseria dello sviluppo

«Lo sviluppo – la corsa al conseguimento di sempre più alti standard di vita attraverso sempre più elevati livelli di produzione e di consumo di beni materiali e servizi – è finito.»

 

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Tiziano Fratus

Il libro delle foreste scolpite
In viaggio tra gli alberi a duemila metri

Un viaggio nel tempo alla scoperta di sé scandagliando quei luoghi dove le conifere resistono alle avversità d’un ambiente estremo e d’una terra rocciosa, là dove il resto dei viventi ha smesso di sopravvivere. Lariceti, pinete e cembrete dispersi lungo l’arco alpino, ma anche le cortecce contorte dei pini loricati che abitano le creste del Massiccio del Pollino, fra Calabria e Basilicata. E, infine, i pini longevi o Bristlecone Pines sulle Montagne Bianche in California, gli esemplari più antichi del pianeta (oltre 5000 anni). Un viaggio in paesaggi lunari dove la vita cerca a suo modo la strada per l’eternità. Luoghi dove l’anima si riveste di radici, di sogni, d’immaginazione.

 

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Piero Bevilacqua

Il grande saccheggio
L’età del capitalismo distruttivo

Piero Bevilacqua mette insieme storia politica, storia economica e storia della cultura per descrivere l’attuale condizione del Pianeta, le ragioni per le quali stiamo come stiamo e i possibili (anche se difficili) rimedi. Ricominciare, a crisi finita, come se niente fosse stato, sarebbe il più grave degli errori. Sarà necessario invece cambiare stili di vita, abitudini, soprattutto consumi. Corrado Augias, “il venerdì di Repubblica”

 

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Piero Bevilacqua

La Terra è finita
Breve storia dell’ambiente

Una guida alla comprensione delle ragioni dell’eccesso di pressione esercitata dagli esseri umani sulla biosfera. Una storia complessa, con una trama fitta e inaspettata che arriva fino a oggi. Paolo Cacciari, “Carta”

 

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Enrico Camanni

Il Grande Libro del Ghiaccio

Apparentemente algido e senza vita, il ghiaccio è un mondo a sé. Un mondo meravigliosamente vario, misteriosamente fuggevole e drammaticamente fragile che gli uomini hanno imparato a temere e ammirare nel corso dei millenni. Una esplorazione ancor più appassionante e necessaria nel tempo del riscaldamento climatico.

 

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Luigina Mortari

Educazione ecologica

La crisi ecologica è una delle emergenze del nostro tempo. Per affrontarla adeguatamente bisogna dare vita a un complessivo rinnovamento culturale, che chiama in causa con forza anche i processi educativi. È quanto mai urgente diffondere una pedagogia e una filosofia dell’educazione che aiutino i cittadini di domani ad affrontare questioni non più prorogabili.

 

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Alessandro Crosetti – Rosario Ferrara – Fabrizio Fracchia – Nino Olivetti Rason

Introduzione al diritto dell’ambiente

Questo libro presenta e discute la produzione legislativa e la prassi amministrativa in materia di diritto ambientale. Particolare attenzione viene dedicata alla ‘riforma amministrativa’ in corso e ai suoi esiti più recenti in materia di semplificazione amministrativa e di procedimenti di valutazione di impatto ambientale.

 

 

 

Piero Martin racconta “Le 7 misure del mondo”

Da sempre misuriamo il mondo. Per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire con i nostri simili. L’umanità misura per conoscere il passato, comprendere il presente, progettare il futuro. Ci sono voluti però millenni perché due rivoluzioni, quella scientifica iniziata con Galileo e quella francese, avviassero il percorso per rendere il sistema di misura condiviso e non più basato su deperibili artefatti umani, ma su elementi invariabili e universali della natura. Un cammino poco noto che è però una delle principali conquiste scientifiche e sociali dell’era moderna.

Oggi con solo sette unità di misura fondamentali – metro, secondo, chilogrammo, kelvin, ampere, mole e candela – misuriamo e cerchiamo di comprendere la complessità e le meraviglie della natura, dal microcosmo delle particelle elementari ai confini dell’universo. Queste unità fondamentali sono protagoniste di sette affascinanti racconti che, insieme ai grandi della scienza e a tanti inaspettati personaggi, conducono il lettore in un viaggio alla scoperta della fisica – da Galileo a Einstein, dalla meccanica di Newton alla quantistica – e di come la scienza aiuti a costruire un futuro sostenibile e rispettoso dell’ambiente. Con un finale a sorpresa.

Piero Martin racconta Le 7 misure del mondo.

 

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“Una malinconicamente ricca, l’altro vitalmente povero”

«Quando arrivai a Palermo per iscrivermi all’università, mi accorsi a pelle che Palermo era ‘fimmina’. Non solo per la bellezza delle sue ragazze dagli sguardi pirateschi, ma anche per la presenza ad ogni angolo del centro storico di numerose edicole votive dedicate a santa Rosalia, la Santuzza. Palermo era ‘fimmina’ nella sua carnale decadenza. Odorava di fiori tropicali e di monnezza. Odorava di umidità nelle scale di palazzi aristocratici ormai in sfacelo, e odorava di mistero dietro i portoni che introducevano a chiostri carichi di gelsomini e di rose».

In questo estratto da Le siciliane, il racconto di un giovane Gaetano Savatteri, giornalista sucainchiostro tra i salotti aristocratici e una sgangherata campagna elettorale tra i vicoli di Palermo.

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La marchesa viveva in un palazzo affacciato su via Maqueda. Vi arrivai una sera, invitato a una riunione di vecchie signore dell’aristocrazia che avevano a cuore il passato, e quindi il presente, di Palermo. L’ingresso era su un vicolo minore, trasversale all’asse centrale della città. Accanto al portone c’era un cumulo di immondizie (là vicino c’era un mercato, ne sopravvivevano i resti: verdura marcia, cassette di legno, lische di pesce, arance ammuffite; una torma di gatti si disputava selvaggiamente quanto restava della testa di un tonno).

savatteriPalermo era altrove. Il centro storico era buio e vuoto. Da me intervistato, Rosario La Duca, appassionato storico e topografo della Palermo perduta – così si intitolava un suo libro, appunto, La città perduta –, aveva paragonato i quattro mandamenti, cioè i quattro quartieri che racchiudono il centro storico, a una specie di “veliero fantasma”, con le occhiaie vuote dei palazzi sventrati dai bombardamenti alleati, dall’abbandono e dallo spopolamento, che ogni notte spegneva le sue luci e vagava nel nulla. Oggi per fortuna le cose sono molto cambiate, in meglio, ma quarant’anni fa questa era la vecchia Palermo.

Avevo poco più di vent’anni ed ero per niente avvezzo ai modi della nobiltà cittadina. Peraltro avevo una certa allergia per gli aristocratici. Venivo da una famiglia di origini borghesi progressiste: i miei avi erano mazziniani, repubblicani, imprenditori di zolfare, avvocati e notai, sucainchiostro come forse li avrebbero definiti le vecchie nobildonne riunite in quel salotto di via Maqueda quando volevano definire con disprezzo i praticanti delle professioni liberali.

E come sucainchiostro, infatti, ero stato ammesso alla riunione. Volevano raccontarmi, per un articolo che avrei pubblicato sul «Giornale di Sicilia», il quotidiano per il quale lavoravo, della loro iniziativa di creare un’associazione per salvare Palermo. Mi pare di ricordare che il gruppo si chiamasse proprio così: “Salvare Palermo”. Parlammo per tutta la sera, una cameriera offriva vol-au-vent e mesceva vino bianco. La mia diffidenza evaporò: le signore – qualcuna centenaria e completamente sorda, ma altre molto più giovani e combattive – argomentavano con competenza le campagne che volevano organizzare per sensibilizzare la città e la politica al tema della rovina del centro storico. Forse, col senno di poi, nella selezione del gruppo c’era quasi un contrappasso: figlie e vedove di quei principi e duchi che avevano liquidato sbrigativamente i loro palazzi adesso cercavano di restituire onore a quelle pietre che cadevano a pezzi. Cercavano di scrollarsi, moralmente, la polvere che ricadeva sulle loro teste blasonate.

Provai una battuta ad effetto: «Volete salvare Palermo? Perché? È stata costruita nel tufo proprio perché un giorno si sbriciolasse. Se doveva essere eterna, sarebbe stata costruita di pietra dura e di marmo, come Firenze o Roma. Questo è il suo destino». La mia provocazione animò la serata, che fu piacevole e piena di speranze, progetti e sogni che forse non riuscii a contenere nelle cinquanta righe che il capocronista mi concesse l’indomani in cronaca di Palermo.

Al termine della riunione fui signorilmente accompagnato all’uscita dalla marchesa padrona di casa. Sul pianerottolo, forse perché leggermente brillo per il vino bianco e freddo che avevo mandato giù per tutta la sera quasi a stomaco vuoto, con il piede urtai inconsapevolmente un capitello istoriato posato in un angolo. Lo vidi cadere come un birillo e spezzarsi in tre pezzi. Riuscii a scorgere lo sguardo inorridito della marchesa.

Non sapevo cosa dire. Balbettai qualche scusa. La marchesa mantenne il controllo. «Non si preoccupi – disse con noncuranza – era una cosa vecchia, aveva solo quattrocento anni. Ci penserà la cameriera».

Uscii dal palazzo vergognandomi come un ladro – anzi come uno zotico, come un vandalo, come un sucainchiostro qual ero. Nel vicolo buio i gatti vincitori della lotta si saziavano, in piena armonia, della testa di tonno. Alcuni topi, sul cumulo di immondizie, aspettavano pazienti che terminasse il pasto felino per spartirsi gli avanzi.

Tornai dalle parti di quel vicolo poco tempo dopo – nella compressione del ricordo, “poco tempo” può significare due giorni così come due anni –, durante la campagna elettorale per le amministrative del 1987. Centinaia e centinaia di candidati, alcuni già famosi – nelle liste della Dc c’erano Sergio Mattarella, Leoluca Orlando, Enrico La Loggia; nel Pci Simona Mafai ed Enrico Colajanni; nei Verdi la fotografa Letizia Battaglia e la giornalista Marianna Bartoccelli, tanto per dire – altri praticamente sconosciuti. Per il quotidiano cittadino una manna di lettori interessati. Andavamo a spulciare le liste per scoprire storie da raccontare. E venne fuori quella di Salvatore Tamburello.

L’uomo aveva meno di quarant’anni, il profilo e la postura di un classico venditore di panelle palermitano, simile ai molti che si possono incontrare agli angoli della città dietro a un banchetto di friggitoria, accanto a una motoape carica di pesche tabacchiere, vicino al chiosco di acqua e anice, alle prese col calderone dove si cuoce nello strutto la milza per il pani ca meusa: insomma, Tamburello era uno degli esponenti di quell’umanità varia e variopinta, misera e guascona, sempre sul bordo della legalità, che incarna una delle anime popolari di Palermo.

Abitava dalle parti del palazzo della marchesa alla quale avevo distrutto il capitello seicentesco. Certo, usare lo stesso verbo – “abitare” – per la marchesa con i suoi appartamenti da quattrocento metri quadrati e per Tamburello è una forzatura del concetto. Tamburello in realtà viveva in un catojo, antico termine che in Sicilia indicava e indica l’omologo del vascio napoletano: a piano strada, piccolo, umido, uno o due locali in tutto, dove un’intera famiglia di cinque, sei o più persone condivideva stentatamente lo spazio privato, avendo come sfogo lo spazio pubblico del vicolo o della piazza antistante.

Tamburello non aveva un mestiere, campava di espedienti, ma possedeva un potentissimo impianto stereo che campeggiava nel suo catojo con lo sfarzo di un altare barocco. Non credo avesse le stesse parentele della marchesa e delle sue amiche che volevano salvare Palermo, ma molto più di loro ne aveva il senso di casta. Si candidava infatti per la lista Stella e Corona, un movimento monarchico che sopravviveva con ostinata nostalgia al referendum sulla Repubblica del 2 giugno 1946 (Palermo comunque aveva dato l’84 per cento dei suoi voti alla monarchia).

La marchesa era decisamente repubblicana e democratica, Tamburello decisamente monarchico e aristocratico. Vivevano a pochi metri di distanza, una al piano nobile e l’altro al piano terra, una malinconicamente ricca e l’altro vitalmente povero. Tamburello, non so con quali soldi, aveva tappezzato la città di un manifesto con il suo nome, il simbolo di Stella e Corona e uno slogan credo inventato dal suo ufficio marketing che era lui stesso: «Voto perso che sia / dallo a mia». Slogan camilleriano ancor prima che Andrea Camilleri diventasse famoso. E politicamente accorto: voto utile, si potrebbe dire. Se devi disperdere il voto, tanto vale darlo a me. Messaggio umile che appartiene alla moderna cultura del riciclo: nulla si butta, tutto si riusa. A partire del voto.

Tamburello non fu fortunato: non venne eletto. Si vede che non c’erano così tanti voti persi. A sua discolpa bisogna dire che non venne eletto a Palazzo delle Aquile, sede del consiglio comunale, nessuno dei candidati di Stella e Corona, nemmeno il vecchio principe che ne era il capolista. A dimostrazione che, in lista o per la strada, miseria e nobiltà, ricchezza e povertà, in Sicilia sono meno distanti di quel che si crede.

 

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Silverio Novelli ospite di Paolo Di Paolo a “La lingua batte”

“Possiamo dire che l’italiano è un bene comune. È come l’acqua, il verde, l’arte ma anche il gioco, il dialogo, il divertimento: qualcosa che ci rispecchia, ci identifica, ci eleva; ed è anche una speciale palestra in cui alleniamo la nostra voce e sagomiamo la nostra impronta nel mondo: parlato, scritto (su carta o digitato), studiato, imparato, l’italiano apre le porte alla cittadinanza.”

Così scrivono Silverio Novelli, Tommaso Marani e Roberto Tartaglione nella presentazione di Italiano bene comune. Grammatica per la cittadinanza linguistica.

A questo link, dal minuto 50.20, l’intervento di Silverio Novelli, ospite di Paolo Di Paolo a La lingua batte, su Rai Radio 3.

 

 

 

 

 

«Savoir résister quand tout s’effondre»

Pour Andrea Marcolongo, l’Enée de Virgile est le héros vers qui se tourner en période de crise

Roger-Pol Droit | Le Monde des livres | 29 octobre 2021

[>> Andrea Marcolongo, The Brilliant Language. 9 reasons to love ancient Greek]

[>> Andrea Marcolongo, The lesson of Aeneas]

Elle est passée, presque du jour au lendemain, de l’ombre à la lumière. L’immense succès mondial de La Langue géniale (Les Belles Lettres, 2018), traduit en vingt-sept langues, a fait d’Andrea Marcolongo une star inattendue. La jeune professeure de grec ancien a montré depuis que cette révélation n’était pas un feu de paille. De livre en livre, explorant de grandes œuvres de l’Antiquité, elle a imposé un style très personnel, alliant érudition sans faille et sensibilité à fleur de peau. Son nouvel essai, L’Art de résister, scrute l’Enéide, de Virgile (70-19 av. J.-C.), en l’éclairant d’une lumière contemporaine.

Ce poème épique, il faut le rappeler, enseigne à endurer les crises : sortant de Troie en flammes avec son jeune fils et son père impotent, Enée doit traverser la Méditerranée à la recherche d’une nouvelle patrie. Après sept années d’épreuves, il fait naufrage à Carthage, où il s’éprend de la reine Didon. Elle se suicide quand Enée la quitte pour poursuivre sa mission. Arrivé en Italie, il mène une longue guerre ouvrant la voie à la fondation de Rome.

Virgile est célèbre, mais pas populaire. Pour quelles raisons ?

Comme presque tout le monde, j’ai rencontré Virgile pour la première fois au lycée. Et je l’ai retrouvé évidemment à l’université au cours de mes études de lettres classiques. Mais je n’avais jamais véritablement ressenti ce qu’Enée et l’Enéide avaient d’admirable. C’est toujours Homère que l’on aime, c’est à Ulysse, ou Achille que l’on s’attache. Jamais, autour de moi, je n’ai entendu personne dire qu’Enée était son héros préféré ! Même s’il a fondé l’Italie, et préparé l’essor de l’Empire romain, il n’est pas vraiment admiré, ne suscite aucune ferveur.

Alors, comment l’avez-vous redécouvert, et lu avec d’autres yeux?

Je travaillais déjà à ce livre quand la pandémie et le confinement m’ont fait comprendre que le poème de Virgile, qui évoque avant tout une histoire collective, la vie d’un peuple, et pas simplement celle d’un héros, se perçoit très différemment dans une période de crise. Quand tout va bien, que le monde est stable et que le bien-être et la sécurité règnent, on préfère Homère. Quand des malheurs s’annoncent et que la peur s’installe, c’est vers Virgile qu’on peut se tourner, parce qu’Enée est le héros qui enseigne à se tenir debout malgré tout, à résister quand tout s’effondre.

Cet « art de résister » dont Enée constitue selon vous le modèle, en quoi consiste-t-il ?

Etre sérieux, faire ce qui doit être fait, sans céder à l’abattement, à la douleur, au désespoir. C’est pourquoi ce n’est pas un héros spectaculaire ni éclatant. II remplit sa mission, quoi qu’il advienne. Si on le lit dans une période où tout va bien, on pourra lui reprocher d’être terne, austère, et même plutôt triste, incapable par exemple de vivre sa passion amoureuse. En revanche, quand tout va mal, on admire sa grandeur, qui consiste avant tout à ne pas agir pour lui-même mais pour les siens – son vieux père, son fils, son peuple – et pour leur avenir. II traverse toutes les souffrances du présent pour préserver un futur différent. C’est un héros pour temps de crise. Virgile l’a conçu à un tournant de l’histoire de Rome, le déclin de la République et la naissance de l’Empire. Dante l’a magnifié à un moment où les cités italiennes traversaient une crise politique majeure. Nous le retrouvons dans les effondrements qui nous menacent.

Notre relation aux œuvres antiques dépend-elle donc de notre époque ?

Bien sûr, nous lisons dans les œuvres du passé ce dont nous avons besoin en raison de notre présent. C’est pourquoi il faut éviter d’installer les classiques dans une position d’altérité inaccessible. Ils n’habitent pas un autre monde, exotique ou amusant. Ils exigent aussi que nous nous définissions par rapport à eux. Sur ce point, l’Enéide a connu une histoire très particulière, faite de temps de gloire et de périodes d’oubli. Si elle nous parle aujourd’hui, ce doit être aussi parce qu’elle fournit un modèle original pour penser l’identité culturelle. Enée est à la recherche d’une patrie, mais ce n’est pas un colonisateur. II ne fondera pas une seconde Troie, un empire semblable à celui qui s’est effondré. II enseigne à sa manière qu’il est nécessaire de savoir d’où l’on vient et de transmettre son héritage culturel, mais sans être pour autant crispé sur la reproduction de son identité. Sa capacité de métissage n’est pas un reniement. Dans le contexte actuel, c’est une leçon de première importance.

Qu’est-ce qui vous a surprise, en revisitant ce poème épique ?

Sa fonction politique ! Nous avons du mal à imaginer que ce fut, il y a deux mille ans, un outil de campagne électorale. Pourtant, ce fut le cas. Auguste a commandé le poème à Virgile pour imposer son pouvoir. Et ce poème était lu par un très vaste public, il constituait un véritable outil de communication politique, ce qui suppose un niveau poétique dans la société qui, à présent, paraît inouï.

L’humain antique était-il si différent de celui d’aujourd’hui ?

Biologiquement, il était exactement le même. Culturellement, presque tout a changé. Ce qui nous manque le plus est sans doute la croyance. Je ne parle pas simplement d’une foi religieuse ni d’un sens du sacré, mais de ce qui donne sens à l’existence : la croyance en un futur collectif, la confiance envers l’aventure humaine, la ferme résolution d’assurer une transmission de valeurs aux générations suivantes. Ne plus croire en rien, et ne vivre que dans la précarité de l’instant présent, ce n’est pas humain. Nous avons tous besoin de croire en quelque chose pour tenir. Si non, nous ne pouvons résister.

 

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Enée, héros malgré lui

IL NA PAS CHOISICE QUI LUI ARRIVE. Fugitif échappant à sa patrie détruite, Enée ne sait d’abord où se réfugier, ni quel sera son parcours. II décide malgré tout de ne jamais céder, de se relever à chaque chute. Et de garder le cap sur un avenir qu’il ne verra peut-être pas. Sa grandeur : « Savoir être un chêne au cœur de la tempête», écrit Andrea Marcolongo.

Héros malgré lui, il n’est admirable que par sa fermeté, son obstination, son endurance. Au premier regard, rien d’excitant. Mais sa résistance opiniâtre se révèle vitale quand souffle le vent de l’histoire et que les ouragans se déchaînent. On peut songer à ce que disait le philosophe Vladimir Jankélévitch dans un autre contexte : «II ne s’agit pas d’être sublime, mais fidèle et sérieux. »

Cette leçon d’éthique, de politique et de vie est éclairée par Andrea Marcolongo avec rigueur et émotion, alliage qui explique ses succès. Son voyage dans le chef-d’œuvre de Virgile (v. 70-19 av. J.-C.) convoque évidemment tout ce qu’il faut d’érudition, de la biographie du poète aux commentaires du chef-d’œuvre (notamment celui de Paul Veyne), de l’histoire de Rome à celle de Mussolini. Mais on y retrouve aussi, entrelacée aux détails les plus pointus, la tessiture affective, mélodie sur corde sensible, qui constitue la marque de l’autrice.

“La guerra in età moderna”, di Giampiero Brunelli

Letture | 28 settembre 2021

Prof. Giampiero Brunelli, Lei è autore del libro La guerra in età moderna, edito da Laterza: in che modo, a partire dalla fine del XV secolo, nell’Occidente europeo cambia radicalmente il modo di combattere?

Sono molti i fronti sui quali il modo europeo di combattere e di prepararsi alla guerra cambia, tra la fine del Quattrocento e la seconda metà del Settecento. Il libro si apre con il racconto della battaglia di Pavia (1525), che mostra come l’epoca della cavalleria pesante, armatura scintillante e lancia in resta, stia tramontando velocemente. I «fantaccini ignobili e privati» – come li definiva Paolo Giovio – cioè i soldati armati dell’«abominioso ordigno» che scandalizzava Ludovico Ariosto – l’archibugio – imparano presto a sparare da punti riparati e a coordinarsi nel tiro: i gentiluomini a cavallo diventano facili bersagli; un semplice archibugiere può prendere prigioniero il re di Francia. Ma questo è solo il punto di partenza di tutta un’evoluzione tattica. L’azione di archibugieri e moschettieri viene dapprima meglio organizzata con il contributo decisivo dei quadrati di picchieri; poi, acquista un’autonomia sempre più riconoscibile e, nel Seicento, viene affiancata dai primi esempi di artiglieria leggera da campo. Quanto alla guerra navale, questa conosce mutamenti ancora più manifesti: la galera viene sostituita dai vascelli a vela, con due o tre ponti irti di cannoni; chi ha combattuto a Lepanto (7 ottobre 1571), il più celebre scontro navale dell’età moderna, in una battaglia del Seicento non avrebbe saputo letteralmente cosa fare. È cambiato tutto: le galere usavano poco l’artiglieria pesante, puntavano all’arrembaggio di una nave avversaria e alla mischia sul ponte. I vascelli, invece, si dispongono in linea e fanno fuoco per affondare e distruggere le navi nemiche. Tutto diverso, dunque. Altro fronte di cambiamenti evidentissimi: le fortificazioni. L’immagine classica del castello – mura merlate, alte torri, caditoie per l’olio bollente – diventa pura letteratura. Ora le mura sono spesse, basse, bastioni a punta di freccia spuntano ovunque: prima in Italia, poi nel resto d’Europa (e del mondo).

Cosa hanno in comune tutte queste trasformazioni? A ben vedere, sono tutte risposte all’evoluzione delle armi da fuoco. Dunque, il libro non può che prendere le mosse dalla rivoluzione tecnologica militare tra Quattro e Settecento. Si tratta di innovazioni che partono da lontano, nello spazio (Cina) e nel tempo (medioevo), ma che solo nell’Europa dell’età moderna si cristallizzano in un nuovo format, quando si scopre che la polvere da sparo dà il suo meglio se usata non come arma incendiaria, ma come propellente esplosivo di proiettili. Da qui parte l’evoluzione delle armi da fuoco, prima solo pesanti, poi anche portatili. Quando le artiglierie raggiungono un buon grado di diffusione, è chiaro che le fortificazioni e le marine da guerra devono cambiare; quando i primi cannoncini portatili del medioevo diventano archibugi e moschetti e sono messi in mano a migliaia di uomini sui campi di battaglia, tutta la tattica deve essere trasformata. Un altro elemento decisivo – a questo proposito – sarà, a fine Seicento, la nascita della baionetta a ghiera: una punta d’acciaio di circa 50 cm di lunghezza innestata al moschetto tramite un anello con filettature e intagli che permettono il serraggio. Non dà fastidio alle operazioni di tiro e di ricarica: un fuciliere si trova in mano allo stesso tempo un moschetto e una picca, può sparare o combattere corpo a corpo.

Quali innovazioni conosce l’architettura militare?

Partiamo intanto dalla rielaborazione umanistica dei classici latini (intendo Vitruvio, innanzi tutto). C’è un grande dialogo con gli antichi dietro a tutte le innovazioni in questo campo. Le soluzioni più avanzate, però, vengono escogitate da un architetto che ha anche lavorato in una fonderia di cannoni: Francesco di Giorgio Martini (1439-1501). Il maestro senese propone circuiti romboidali, o comunque molto angolati. Solo moltiplicare gli angoli, a suo giudizio, permette di limitare i danni da parte delle artiglierie nemiche. D’altro canto, le nuove artiglierie possono diventare un vantaggio anche per i difensori, a condizione però di essere poste su bastioni a punta di freccia. Soprattutto se formano un sistema integrato: i nuovi baluardi, infatti, si difendono l’un l’altro; sono disposti in modo che il nemico, attaccando, venga colpito di fianco, d’infilata. È italiano il primato della prima fortezza interamente progettata e realizzata secondo i nuovi canoni: parliamo del forte di Nettuno (città costiera del Lazio, poco lontano da Roma), edificato fra il 1501 e il 1503.

Ne consegue l’apoteosi della geometria applicata: la progettazione delle nuove fortezze sarà fatta d’allora in poi con riga e compasso, coprendo sempre ogni postazione di tiro. Nel secondo Seicento, grazie al genio dell’ingegnere francese Sébastien Le Prestre, marchese di Vauban (1633-1707), l’età delle nuove fortificazioni tocca il suo apice. Visti dall’alto, i circuiti difensivi sembrano cristalli di neve al microscopio, tante sono le opere geometricamente approntate sul terreno.

Quale evoluzione caratterizza gli eserciti dell’epoca?

Le innovazioni tecnologiche da sole non provocano il mutamento di un esercito o di una marina da guerra. Tutte le trasformazioni di cui abbiamo già parlato sono avvenute in un contesto istituzionale molto particolare, lo Stato della prima età moderna. Dotato di forma di governo monarchica o repubblicana; di grandi, medie e piccole dimensioni; più o meno aperto agli apporti dei privati imprenditori militari: non importa. L’ambiente peculiare delle trasformazioni tecniche dell’arte della guerra è lo Stato. Gli stessi sovrani pronti ad accettare la sfida della polvere da sparo, a volere sempre più cannoni, più reparti di moschettieri, più fortezze bastionate, hanno intrapreso, fra Cinque e Settecento una completa riorganizzazione delle forze armate, sia di terra, sia di mare, investendo ingenti somme di denaro. Contemporaneamente, per seguirle stabilmente, hanno promosso la nascita di grandi uffici centralizzati e specializzati, forma embrionale di quei «Ministeri della guerra» che diventeranno protagonisti dell’Europa dell’Ottocento e che sopravvivono nel mondo attuale con il nome più tranquillizzante di «Ministeri della Difesa».

Così, l’età moderna ha visto la nascita dei primi nuclei di forze armate in servizio permanente. Non è stato un passo facile: inizialmente si tratta di poche migliaia di uomini anche in regni importanti come Francia o Inghilterra. Esperienza comune a molti stati europei è stata altresì la creazione di ordinamenti non professionali, le milizie, da usare come scorta di riservisti. Ma queste istituzioni – “armi proprie” le avrebbe chiamate Niccolò Machiavelli – si sono dimostrate ovunque un fallimento. La guerra diventa sempre più affare da professionisti. Ed è il numero di questi che aumenta vertiginosamente. I 25-30.000 uomini arruolati da Carlo VIII al momento della sua celebre “Discesa in Italia” (1494) impallidiscono al confronto dei 148.000 messi in campo dall’imperatore Carlo V d’Asburgo contro tutti i suoi nemici (Turchi compresi) nel 1552 e dei 180.000 registrati da un documento ufficiale ancora francese – intitolato Contrôle général des armées du Roy – nel 1636. Ma è sotto il Re Sole (Luigi XIV), cioè nel 1692, che si tocca il vertice quasi incredibile di 446.612 uomini sotto le armi.

La composizione interna di queste forze è radicalmente cambiata. La cavalleria perde la sua antica supremazia (era già molto in crisi nel Medioevo, in realtà: i primi che osarono sfidarla furono gli arcieri e i balestrieri). La fanteria è l’arma principale, distinta prima in archibugieri, moschettieri e picchieri, poi concentrata quasi esclusivamente sull’uso delle armi da fuoco, personali e da campo. La cavalleria abbandona l’armatura pesante e torna alla carica con la sciabola in pugno. Non è un modo di dire: è accaduto letteralmente così. E si è trattato di un’innovazione venuta da est e da nord (Polonia, Svezia).

Il coordinamento, dunque l’addestramento, di masse di uomini tanto grandi è diventato sempre più essenziale. Anche in questo caso, l’obiettivo è generare movimenti misurati, anzi di nuovo di impostazione geometrica. È appena il caso di ricordare che il Seicento è stato anche il secolo del matematico Cartesio, il quale peraltro fu anche un giovane soldato.

Ma vorrei rimarcare ancora un fatto importante. Per ottenere i movimenti coordinati di cui stiamo parlando, bisognava che i soldati fossero separati dal resto del tessuto sociale. La caserma nasce nell’età moderna: in prospettiva, essa ha dato un grande contributo al processo di professionalizzazione dell’esercito.

Qual è la percezione che di tale cambiamento hanno i protagonisti?

Questa è una delle mie parti preferite del libro. Tutte le innovazioni di cui stiamo parlando sono state accompagnate da un’intensa produzione intellettuale ed editoriale. I libri di argomento militare hanno letteralmente inondato l’Europa fra il Cinque e il Settecento. Il poemetto del filosofo illuminista Voltaire La tactique si apre con la scenetta di una visita al suo libraio di fiducia, che lo perseguita proponendogli un nuovo, imperdibile, saggio di arte militare. Ecco, dobbiamo immaginare uscite continue, sul soldato, sui compiti quotidiani di servizio, sui modi di dispiegare un esercito, sull’artiglieria, sulla scienza della fortificazione. Per non parlare dei racconti di guerra: vere e proprie opere storiografiche, quasi in diretta, e fascicoletti di otto fogli che riferiscono di una singola battaglia. Pubblicazioni incessanti. Un mare di carta.

Accanto a questo, deve essere notato che i protagonisti prendono la parola. Non scrivono solo i comandanti generali e gli ufficiali, ma addirittura i soldati semplici. E non sto parlando delle immagini dei soldati offerte dal Don Quijote di Cervantes o dal Simplicissimus di Grimmelshausen. No: intendo proprio scritti di cui soldati semplici sono stati autori: le memorie di Sydnam Poyntz, quelle – meravigliose – di Peter Hagendorf, che addirittura ci dà conto della sua scoperta del formaggio parmigiano, quelle dello scozzese Patrick Gordon, arrivato ai vertici dell’esercito dello Zar, quelle del soldato bretone Pierre Lévêque, quelle infine dello svizzero Ulrich Bräker, testimone della vita sotto le armi durante il regno di Federico II di Prussia.

Il fatto che, almeno dal Seicento in poi, i soldati semplici prendano in mano una penna e scrivano è di grande rilievo. Si è molto dibattuto sul fatto se nell’età moderna ci sia stata o no una vera e propria “rivoluzione militare”. A me sembra che da sola questa evidenza ne sia la dimostrazione. Segna l’ingresso in un’epoca diversa e peculiare.

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#CasaLaterza: Francesca Trivellato dialoga con Gad Lerner

Una ‘leggenda nera’, ormai dimenticata, vuole che siano stati gli ebrei medievali cacciati dal re di Francia a inventare le lettere di cambio, lo strumento fondante del capitalismo finanziario. Dove nasce questo mito e perché ha avuto tanta diffusione fino a diventare senso comune?

Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata, della storica Francesca Trivellato, smonta pezzo per pezzo le teorie complottiste su cui, per secoli, l’antisemitismo ha costruito la propria fortuna e mostra come lo sviluppo del mercato sia stato sempre legato alla definizione di gerarchie giuridiche e sociali di inclusione ed esclusione.

Per CasaLaterza ne abbiamo parlato con l’autrice e Gad Lerner.

Scopri il libro:

 

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

 

Gianni Rodari. «… vi sono allusioni a questioni del nostro mondo e del nostro tempo, alcune scoperte, alcune nascoste, sepolte in profondità sotto le parole. Chi avrà voglia di scavare un po’, le troverà senza sudare, perché a scavare sotto le parole si fa molto meno fatica che scavare gallerie sotto le montagne, o a zappare la terra. Chi non ha voglia di significati nascosti è libero di trascurarli e non perde nulla: secondo me la storia sta tutta quanta nelle parole visibili e nei loro nessi. E così, buon divertimento.»

Il 23 ottobre 1920 nasceva Gianni Rodari. Noi lo ricordiamo rileggendo Lezioni di Fantastica, di Vanessa Roghi, che ricostruisce la vita di questo grande intellettuale a partire dai grandi ‘insiemi’ che l’hanno riempita – la politica, il giornalismo, la passione educativa, la scrittura e la letteratura –con l’ambizione di raccontare un Gianni Rodari tutto intero, di sottrarlo allo stereotipo dello scrittore ‘facile’. Un uomo il cui gioco di invenzioni e parole, come ha scritto lui stesso, «pur restando un gioco, può coinvolgere il mondo».

→ Roghi, Lezioni di Fantastica

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Ddl Zan. 154 senatori (con 131 contro e due astenuti) hanno votato a favore della cosiddetta ‘tagliola’, procedura – chiesta da Lega e FdI – che ha fermato l’esame degli articoli e degli emendamenti del ddl Zan, di fatto bloccando l’iter della legge.

→ Bianchi, Hate speech
→ Serughetti, Il vento conservatore

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Festival internazionale dell’economia. Il “Festival internazionale dell’economia” parte da Torino. Gli Editori Laterza, Tito Boeri e Innocenzo Cipolletta hanno accolto l’invito della Regione Piemonte e della Città di Torino, insieme alla Compagnia di San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Camera di Commercio, Università degli Studi di Torino, Politecnico di Torino e Collegio Carlo Alberto.
“La Stampa”, che per prima ha lanciato la candidatura della città a ospitare il Festival raccogliendo l’adesione di tutti i candidati sindaco (quale che fosse il loro colore politico), sarà media partner.

Il Festival si terrà da giovedì 2 a domenica 5 giugno e avrà come tema Merito, diversità, giustizia sociale.

→ Tutte le informazioni qui

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Enrico Mattei. Il 27 ottobre 1962 l’aereo su cui viaggiava Enrico Mattei precipitava nelle campagne del pavese: solo uno dei misteri italiani cui per anni è stata correlata la figura di Eugenio Cefis. Paolo Morando, grazie a una documentazione inedita e sorprendente (compreso un clamoroso retroscena sulla morte di Mattei), ha provato ha disegnarne un profilo autentico e senza sconti. Perché raccontare Eugenio Cefis oggi significa raccontare l’Italia come mai è stato fatto prima.

→ Morando,  Eugenio Cefis