“Il buon tedesco”, di Carlo Greppi

Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.

Luca Ralli ha illustrato per noi la storia de Il buon tedesco, il nuovo libro di Carlo Greppi.

 

Il libro:

La legge della fiducia

Gli uomini sono tutti ‘rei’, ovvero malvagi e dediti alla sopraffazione e al proprio interesse? È sempre e comunque indispensabile pensare al diritto come strumento di coercizione e di pena per reprimere queste tendenze innate? Oppure il diritto mette necessariamente in gioco anche le nostre risorse relazionali: la solidarietà e la cooperazione, in altre parole la fiducia reciproca?

Riscoprire lo spazio della fiducia nel diritto non è solo un modo per mettere in primo piano la responsabilità di chi agisce e di chi fa cultura giuridica, ma è anche l’unica via per riportare al centro del nostro discorso giuridico le qualità migliori di cui siamo in possesso.

Martedì 14 dicembre 2021 Tommaso Greco ha presentato La legge della fiducia alla Sala stampa della Camera dei Deputati.

Insieme all’autore sono intervenuti Francesco Berti, Antonella Sciarrone Alibrandi, Marco Damilano, Giuseppe Conte, Enrico Letta.

Qui la registrazione dell’incontro.

Il libro:

 

 

La fine del merito

Il saggio di Marco Santambrogio recupera un concetto diventato tabù dopo la rivolta contro le élite

Giancarlo Bosetti | Robinson | 6 novembre 2021

La caccia al tesoro intellettuale della spiegazione della vittoria di Trump nel 2016 ha finito per mettere sotto accusa la “meritocrazia”. Diluviano libri e articoli contro. Persino Squid Games, la serie di Netflix sulla gara dei 456 disperati, che si lasciano ammazzare per il miraggio di un bottino che li liberi dai debiti, viene ora interpretata come metafora delle iniquità di una competizione sociale a carte truccate. Nel linguaggio corrente sta diventando un insulto alla povera gente. Se quella stessa parola – e sottolineo “se” – rappresenta l’anima della società americana, allora Dio ne scampi dal metterla in pratica. Imbocchiamo qui la strada di un paradosso nel quale sarà bene districarsi senza perdere di vista l’importanza delle critiche che, insieme a quell’idea, sono state rivolte alla società americana e a tante situazioni simili: Brexit e altri populismi. Se per meritocrazia intendiamo che i posti assegnati per concorso devono andare al più bravo e titolato dei candidati, faremo bene a presidiare il senso di giustizia, che qui va d’accordo con il senso comune: no al raccomandato e no ai concorsi truccati. Ma quel concetto ha anche, e soprattutto, quell’altro significato, fin da quando la parola fu inventata dal suo autore, Michel Young, nel 1958, in un’opera geniale, The Rise of Meritocracy (L’avvento della meritocrazia), metà satirica e metà no.

Young era un laburista e aveva lavorato al programma con cui Attlee batté Churchill alla fine della guerra e in particolare alla riforma della scuola, che voleva introdurre mobilità sociale e correggere fin dalle elementari il classismo del sistema inglese, introducendo una valutazione, appunto meritocratica, ché alla fine delle elementari aprisse la via alle carriere sulla base del talento, ovvero del quoziente di intelligenza. Era un criterio largamente prevalente nelle convinzioni scientifiche del tempo anche per la selezione delle università americane. Negli anni successivi però Young fu come perseguitato da un incubo, relativo alla sua stessa riforma, che prese la forma di quel famoso libro, nel quale la “meritocrazia” finisce per partorire un mostro, un mondo in cui le posizioni elevate diventano ereditarie, una selezione darwiniana, eugenetica, razzista, con l’aggiunta di matrimoni in base al QI: tutti “i migliori” sopra tutti “gli scartati” sotto.

Il risultato è una società che, sessant’anni dopo, cade nella rivolta cieca, nell’anarchia, nella violenza. Young dedicò per questo il resto della sua vita a correggere i programmi viziati dal peccato originale del QI. E negli anni Novanta sconsigliò a Blair di usare quella parola.

Una accurata storia di questo paradosso si trova ora nel libro, in (parziale) controtendenza, di Marco Santambrogio, filosofo analitico e del linguaggio (Il complotto contro il merito, Laterza). Dopo Trump, le pagine di Young offrivano qualche utile spiegazione alle follie degli elettori: evidenti le somiglianze tra quella distopia e l’America in preda ai fumi della rivolta dei “perdenti”. Cominciava Anthony Appiah, nel 2018, con un brillante saggio dedicato proprio a Young, sul Guardian: “Contro la meritocrazia: l’idea di una società che premia il talento ha creato nuove élite di privilegiati”. La critica mordeva la campagna elettorale di Hillary Clinton e la sua infausta battuta sui deplorables, che incendiava il risentimento dal basso contro l’élite. Proseguiva e allargava l’opera Daniel Markovits, con The Meritocracy Trap (Penguin), una trappola che è il mito fondativo del sogno americano e che invece «nutre l’ineguaglianza, distrugge il ceto medio e divora l’élite». Markovits spiega crudamente ai suoi studenti di Yale che per arrivare fino a lì hanno goduto del beneficio di un investimento famigliare di diversi milioni, inaccessibile non solo ai poveri, ma anche al ceto medio. A Young dà ulteriore credito Michael Sandel, il bestselling di Harvard, con La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e perdenti (Feltrinelli). L’incubo si è avverato, prima del previsto 2033: i vincitori si ritengono tali non più per diritto di nascita, ma per i propri meriti e sviluppano perciò arroganza nei confronti dei perdenti, i quali sono non solo sconfitti, ma anche umiliati dall’idea di esserselo meritati.

Santambrogio, con gli strumenti della logica, riprende nelle sue mani la discussione a cominciare dal principio aristotelico – «giustizia è dare a ciascuno ciò che merita» – per evitare che il principio ragionevole, e a portata del senso comune di cui dicevamo all’inizio, non vada perso. Buttiamo insomma, propone, l’acqua sporca ma non il bambi no, facendo chiarezza sulla omonimia pericolosa tra la visione angosciosa di Young e un modello virtuoso di ideale meritocratico: quello di una società che apre le camere ai talenti, che offre pari opportunità a prescindere dalle differenze e assegna i posti in base al merito.

A ben vedere allora, la società americana non è una meritocrazia, ma una meritocrazia fallita. Una utopia capovolta, come Bobbio diceva di quella comunista? Rispetto a una tradizione liberale che ha messo da parte il merito nel senso morale (l’impegno, la dedizione, le qualità umane) per preferirgli il valore economico o i titoli acquisiti con il curriculum, Santambrogio vuole aggiornare la considerazione del merito e insieme contrastare le sproporzionate differenze economiche che sono associate alla selezione. Sulle ricchezze dovrà allora agire la redistribuzione attraverso il fisco, antica scoperta socialdemocratica.

Ma la società dovrà assegnare al merito insieme alla ricompensa economica, da calibrare meglio che in Squid Games, anche l’onore che tocca non solo a chi ha i titoli, come il celebrato chirurgo, ma anche – e spesso di più – ai bravi e coraggiosi infermieri in corsia, uomini e più spesso donne.

Il libro:

CasaLaterza: Carlo Greppi dialoga con Francesco Filippi

Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.

Per Casa Laterza, un dialogo tra Carlo Greppi e Francesco Filippi a partire da Il buon tedesco, una vicenda autentica, tanto straordinaria quanto poco nota: quella degli ‘Special Germans’, i soldati tedeschi e austriaci che, nella seconda guerra mondiale, disertarono per unirsi ai partigiani.

 

 

Il libro:

[Proposte di lettura] Scrivere di scienza

Piero Martin Le 7 misure del mondo

Dal caffè alle galassie, dalle autostrade ai buchi neri, tutto l’universo si può descrivere con solo sette unità di misura. Non ci credete? A dimostrarlo basteranno le storie avvincenti raccontate in questo libro.

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Umberto Bottazzini  Istanti fatali. Quando i numeri hanno spiegato il mondo

Leggendo questo libro scoprirete che è vero quello che diceva a proposito della matematica l’americana del romanzo Altezza reale di Thomas Mann: «Non saprei immaginare niente di più divertente. È un gioco dell’aria, per dir così. Anzi, addirittura fuori dell’aria».

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Margherita Hack Vi racconto l’astronomia

Un libro, scientificamente fondato e insieme divulgativo, scritto con la passione di chi l’astronomia la insegna e la vive ogni giorno, per chi vuol familiarizzare con stelle, pianeti, eclissi, galassie.

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Paolo Ferri Il cacciatore di comete. Diario di un’avventura nello spazio profondo

Nel 2014, per la prima volta nella storia, l’uomo è entrato in contatto diretto con il nucleo di una cometa. Lo ha fatto con la sonda Rosetta e il suo modulo di atterraggio Philae, dopo un volo di 7 miliardi di chilometri nello spazio profondo durato 10 anni. Paolo Ferri, lo scienziato che ha diretto la missione, racconta la straordinaria avventura che ha rivoluzionato le nostre conoscenze delle comete e della nascita del sistema solare.

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Francesco Guglieri Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati

Di cosa parla questo libro? Parla di scoperte e del piacere di inoltrarsi in mondi che non conosciamo. Parla della curiosità e di come prendersene cura. Parla di meraviglia ma anche di vecchie paure e nuove preoccupazioni.

Un viaggio nell’universo, dal Big Bang alla ‘sesta estinzione di massa’ che stiamo vivendo, attraverso i libri di scienza che l’hanno raccontato. Una biblioteca scientifica minima – da Stephen Hawking a Stephen Jay Gould, da Yuval Noah Harari a Oliver Sacks – letta con lo sguardo non dello scienziato, ma dell’umanista.

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Marco Delmastro Particelle familiari. Le avventure della fisica e del bosone di Higgs, con Pulce al seguito

Con estrema chiarezza e con una pregevole attenzione alla scrittura, Marco Delmastro racconta i fondamenti teorici, il senso e il fascino del suo lavoro di fisico sperimentale. Incalzato dalle domande della moglie, La Signora delle Lettere, dell’amico Ingegnere, della Zia Omeopatica e soprattutto dagli inesauribili ‘perché?’ della figlia Pulce di cinque anni, il protagonista è costretto a trovare un modo efficace per spiegare il complesso mondo subatomico. Missione completamente riuscita. Bruno Arpaia, “l’Espresso”

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Gli ebrei non hanno inventato il capitalismo ma la leggenda ha creato l’antisemitismo

Un’indagine sulla nascita dei due stereotipi – prestatori & mercanti – che hanno provocato danni immensi

Elena Loewenthal | tuttolibri | 2 ottobre 2021

Che cosa potrà mai tenere insieme la piattaforma Rousseau (nel senso di Casaleggio & Co.), un naufragio di massa nel golfo di Biscaglia a metà gennaio del 1627 (due mercantili portoghesi e cinque galeoni armati di scorta), l’invenzione delle lettere di cambio e la numerosa, per quanto sottotraccia, comunità di conversos a Bordeaux, fra il XVI e il XVII secolo?

Più che una domanda sembra un rompicapo, e forse lo è. Eppure Francesca Trivellato, Andrew W. Mellon Professor presso l’Institute for Advanced Studies di Princeton, docente e ricercatrice di storia economica in età moderna, allieva di Giovanni Levi, fondatore insieme a Carlo Ginzburg della microstoria nonché grande studioso di storia moderna, crea in questo suo libro, Ebrei e Capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata, un tessuto perfettamente coerente di tutto questo e tanto altro.

È un saggio storico che si legge praticamente come un romanzo, che avvince e illumina – nel senso originario, quasi letterale della parola. L’obiettivo di questo saggio è, certo, quello di sfatare una leggenda tanto comune quanto scivolosa, che di fatto sta alla radice dell’antisemitismo moderno, secondo cui si attribuiscono ai figli d’Israele un uso morboso e malefico del denaro e l’invenzione del capitalismo più spregiudicato. Sta di fatto che, attraverso i lunghi secoli del Medioevo – età per molti versi tutt’altro che buia – il prestito su pegno o a interesse era vietato ai cristiani per il semplice motivo che si fondava, e si fonda, su un uso «economico» del tempo, che è Dio e non può per questo diventare profitto. Per questa ragione le comunità ebraiche facevano gioco, e a loro fu imposto l’esercizio di questa professione tanto sgradita quanto necessaria.

Etienne Cleirac (1583-1657), autore di Us et coustumes de la mer, un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 1647 che a suo tempo ebbe un gradissimo successo, offre a Trivellato lo specchio di un passaggio cruciale nella percezione della minoranza ebraica d’Europa, e dei danni immensi che questo passaggio provocò, pure a secoli di distanza.

L’indagine di Trivellato si sofferma anche su un altro testo, di pochissimo più tardo: il Parfait négociant di Jacques Savary che, uscito nel 1675, costituisce un vero e proprio «manifesto della società mercantile francese del Seicento». Ebbene, il Parfait négociant riprende l’associazione negativa, di lunga data, tra ebrei e credito e la variante introdotta da Cleirac: la figura dell’ebreo prestatore su pegno lasciava ora il passo a quella dell’ebreo mercante internazionale con tentacoli dappertutto e capacità superiori. Di primo acchito i due archetipi sembrano l’uno opposto all’altro, in quanto il primo è legato a un’economia di scarsità e al credito al consumo, mentre il secondo all’abbondanza e al credito commerciale. In realtà, sia nella cultura alta che nell’immaginario comune, il concetto di «usura» era connaturato a entrambi gli stereotipi.

Lungo un’indagine estremamente interessante che spazia sempre con grande acribia dalla filologia dei testi all’analisi dei dati, Trivellato conduce il lettore lungo la storia di questi due stereotipi, spiegandone per un verso l’eziologia, per l’altro le deleterie conseguenze sul piano sociale, culturale, materiale. In sostanza, non sono stati gli ebrei a inventare né l’usura né il credito, né tanto meno il capitalismo. Ma all’Europa ha fatto sempre molto comodo additare il «colpevole», tanto nefasto quanto necessario alle complesse dinamiche della storia.

Ne risulta un saggio storico interessante per molti versi. In primo luogo perché sfata un pregiudizio. Poi perché lo fa con un’analisi tanto ampia quanto minuziosa: il lettore può a tratti avere l’impressione che questa disamina si concentri essenzialmente su un periodo storico molto preciso (la metà del Seicento) e un particolare contesto geografico e politico (Francia), ma in realtà non è affatto così perché gli orizzonti entro cui spazia l’indagine sono ben più ampi, nel tempo e nello spazio.

E al di là di una doverosa «revisione» della storia europea in questo contesto, l’invito di Trivellato è anche quello di ripensare la vicenda ebraica per come è stata scritta e percepita dalla seconda metà del Novecento in poi. Tutto va insomma connesso con la disponibilità a rimettere in discussione i punti fermi, che per definizione stessa fanno molto in fretta a diventare luoghi comuni. Magari perniciosi.

 

Il libro:

Le basi del diritto. Fidarsi dell’altro

Maurizio Viroli | il Fatto Quotidiano | 12 novembre 2021

Quando ero ragazzo ascoltavo stupito e ammirato i miei zii commercianti narrare che ai loro tempi i contratti si chiudevano con una stretta di mano. Oggi solo uno sprovveduto venderebbe o comprerebbe alcunché senza adeguate garanzie legali. Abbiamo sempre meno fiducia negli altri. Gli studi sociologici confermano da anni queste convinzioni di senso comune.

Robert Putnam, nel suo classico Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, 2000 (“Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America”, Bologna, Il Mulino, 2004) ha documentato che negli Stati Uniti la fiducia negli altri è aumentata dalla metà degli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta, quando la tendenza si è invertita ed è iniziato un visibile declino. Con il trascorrere degli anni sono sempre meno le persone che condividono il principio che la maggior parte delle persone merita fiducia, mentre sono sempre più numerose quelle convinte che non si sia mai abbastanza diffidenti nei rapporti con gli altri. Perfino i giovani sono diventati più diffidenti dei loro genitori e dei loro nonni.

Tommaso Greco, nel suo importante saggio La legge della fiducia. Alle radici del diritto, condivide e rafforza l’idea della crisi della fiducia: “Sappiamo di essere diffidenti e predichiamo consapevolmente la necessità di esserlo per evitare brutte sorprese. Viviamo pienamente in un modello di relazioni che possiamo chiamare sfiduciario e lo impieghiamo a maggior ragione per interpretare i nostri ruoli e le nostre azioni nelle situazioni regolate dal diritto. Anzi, andiamo oltre e magari ci comportiamo di conseguenza, secondo un modello fondato sulla scelta dell’opportunismo come suprema regola sociale”. Per sostenere e precisare la sua tesi Greco cita Jon Elster, il massimo studioso contemporaneo dei comportamenti collettivi: “Perseguire il proprio interesse richiede […] di non dire la verità né mantenere le promesse, a meno che non convenga fare il contrario; di rubare e ingannare se solo è probabile che se ne esca bene, o, più in generale, tutte le volte in cui il valore atteso di tali azioni è maggiore di quello promesso dal comportamento contrario; e, ancora, di considerare la punizione semplicemente come il prezzo del reato, e le altre persone come strumenti della propria soddisfazione”.

Greco sa bene che da secoli i filosofi hanno messo in evidenza che gli individui sono più inclini a non fidarsi che a fidarsi: “Basta leggere le ultime pagine di un testo fondamentale come l’Etica Nicomachea aristotelica per trovare una piena consapevolezza del fatto che ‘molti non sono per natura portati a obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per le punizioni’. E invita a meditare il famoso passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dove Machiavelli scrive che ‘come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione […] Gli uomini non operarono mai nulla bene se non per necessità’.

La diagnosi è ancora più grave per l’Italia, dove da sempre è carente la cultura della legalità. Nella mentalità collettiva gli eroi sono i furbi che ingannano e sfuggono alla legge. Il cittadino onesto che assolve con scrupolo i propri doveri, il giudice inflessibile, il politico integerrimo sono spesso derisi come sciocchi. Per non parlare poi della inveterata arte italiana della simulazione e della dissimulazione. Coltivare la fiducia con i simulatori e con le persone che credono che onestà e doveri siano qualità degli sprovveduti, sarebbe pura follia. Meglio non fidarsi e ‘volpeggiare con le volpi’, come insegnavano i trattatisti della Controriforma.

Il rimedio consiglia Greco, può e deve venire da una seria riconsiderazione del ruolo della teoria del diritto: “La teoria del diritto deve solo esplicitare – invece di nascondere – quel che dentro il diritto presuppone e implica inclinazioni positive e cooperative. Facendolo, non si falsa affatto la realtà ma le si rende giustizia, mettendo l’accento sulla responsabilità dei soggetti e aiutando quindi ad evidenziare le mancanze di chi a quelle inclinazioni viene meno”. Ubbidienza e responsabilità “non sono due cose distinte, ma si richiamano l’una con l’altra. Una ubbidienza senza responsabilità possiamo chiederla soltanto agli automi”. Se sappiamo che gli altri non ci inganneranno perché se lo facessero incorrerebbero nelle sanzioni della legge, possiamo, con gli occhi bene aperti, cooperare loro. Ma se sappiamo che non ci inganneranno perché detestano l’inganno, e non perché temono la sanzione del giudice, allora potremo davvero fidarci. Accanto al diritto con le sue sanzioni è dunque necessaria l’educazione civile con il suo potere di formare coscienze e additare i giusti esempi.

 

Il libro:

Natale Laterza 2021

Natale Laterza 2021: i nostri consigli di lettura

 

 

Gaetano Savatteri, Le siciliane

Una lunga tradizione ha rappresentato la donna siciliana come vestita di nero e costretta a castigare i propri istinti. Un’immagine lontanissima dalla realtà, che si compone invece di tante storie del tutto estranee a questo archetipo, accomunate dalla volontà di reinventare il proprio destino.

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Sandra Petrignani Leggere gli uomini

Spalancando le chiuse ‘stanze tutte per sé’ degli scrittori, Sandra Petrignani legge gli uomini, con passione e in ordine sparso: da Pavese a Proust, da Calvino a Tolstoj, da Gary a Dostoevskij, da Tabucchi a Kafka…

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Raoul Pupo, Adriatico amarissimo

Sono maturi i tempi per tentare di ricostruire una panoramica complessiva delle logiche della violenza che hanno avvelenato – non solo al confine orientale – l’intero Novecento.

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John Dickie, I liberi muratori

Intorno alla Massoneria aleggia da sempre un’aura di mistero e di sospetto: John Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.

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Carlo Greppi, Il buon tedesco

Il capitano Jacobs è un buon soldato. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare dalla parte dei partigiani. Perché lo fa?

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Paul Jankowski, Il lungo inverno del 1933

Nell’inverno del 1933, in soli sei mesi il mondo cambiò improvvisamente rotta e si avviò sui sentieri che avrebbero portato alla Seconda guerra mondiale. Un racconto appassionante che è anche un ammonimento per i nostri tempi.

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Storia mondiale degli Ebrei, a cura di Pierre Savy

Questo libro vuole raccontare una vicenda epica e straordinariamente articolata: perché la storia ebraica non è soltanto una storia lunghissima e complessa ma anche, forse, quella dell’unico popolo ad avere una dimensione davvero mondiale.

 

 

 

Piero Martin, Le 7 misure del mondo

Dal caffè alle galassie, dalle autostrade ai buchi neri, tutto l’universo si può descrivere con solo sette unità di misura.
Non ci credete?

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Giovanni Bietti, Ascoltare Verdi

Una guida all’ascolto e alla comprensione profonda delle opere di Verdi inserite nel contesto sociale e culturale del loro tempo.

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L’espansionismo italiano, e l’antico come ideologia

Simona Troilo ha studiato e smontato il «discorso» archeologico che serviva a giustificare l’impero coloniale (1899-1940), naufragato con la Guerra

Carlo Franco | Alias | 5 settembre 2021

La ricerca archeologica non è fine a se stessa, semplice ricerca erudita, ma, in colonia, è anche alta opera politica». Non mancavano di consapevolezza le parole dette nel 1929 dal professor Carlo Anti (1889-1961) a proposito degli scavi italiani in Tripolitania e Cirenaica: e il loro senso si lascia facilmente estendere all’azione svolta in altre aree sotto controllate, come le isole italiane dell’Egeo, o per qualche tempo considerate ‘zone di interesse’, come Creta e talune regioni dell’Anatolia. Per il suo carattere politico, anche l’archeologia fu segnata per certo dalle ‘ideologie del classicismo’: aspetto da tempo riconosciuto, e studiato con differente prospettiva (anche ideologica), dagli studiosi di mondo antico, italiani e non. Tale carattere si manifestava anzitutto sul piano interno, come strumento per la costruzione della ‘nazione’ attraverso l’uso del passato e la valorizzazione di reperti e rovine e siti. Importante era anche la proiezione esterna, legata all’esperienza del dominio coloniale. Il senso delle ricerche condotte nell’età dell’imperialismo da missioni europee, in numerose aree del mondo, è ben noto. Oggi queste imprese generano pentimenti post-coloniali, con restituzioni di manufatti a titolo simbolico e risarcitorio.

Il regno d’Italia s’affacciò tardi e in modi pasticciati al banchetto coloniale, e con una peculiarità: l’occupazione di alcune aree permise di costruire un peculiare ‘discorso’ legato al passato classico e imperiale, del quale l’Italia appunto, come ‘terza’ Roma, si voleva erede. Della nostrana fase coloniale, naufragata con la guerra e chiusa bruscamente dal trattato di pace nel febbraio 1947, poco è rimasto nella coscienza collettiva. Non ha giovato il mito della ‘brava gente’, riproposto a lungo da certa compiacente divulgazione: con scarsa elaborazione consapevole e comune, ma ampia e tacita continuità di uomini e istituzioni. Il Museo Africano, inaugurato a Roma nel 1904, chiuse nel 1971 (!) per rinascere ora con nuovo nome. Ambigua eredità coloniale è anche la pubblicazione di scavi e ricerche prebelliche rimaste giacenti per decenni.

Nella storia dell’archeologia, il periodo è stato seriamente affrontato: per esempio da Marta Petricioli in Archeologia e Mare nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943 (Valerio Levi Editore, 1990). Un ripensamento alla luce dell’attuale sensibilità post-coloniale e con una specifica attenzione all’ambito mediterraneo, ne propone ora Simona Troilo con Pietre d’oltremare Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940). Lo sguardo della contemporaneista conduce a sottolineare l’attitudine eurocentrica degli attori. Essa determinò i modi in cui fu pensata e realizzata la ricerca archeologica in colonia, pur se essa talora voleva presentarsi invece come scienza ‘pura’. Si indagano con particolare ampiezza la politica e l’amministrazione: emergono così i caratteristici conflitti insorti tra sovrintendenze, governatorati, istituti e scuole archeologiche, variamente impegnati a intestarsi scavi, scoperte, influenze e denari. Così, al centro dell’analisi stanno non rovine e reperti più o meno spettacolari, quanto documenti d’archivio, diari e carteggi, che illustrano l’elemento amministrativo e le logiche politiche sottese.

Spazio è dato ai mezzi cui spettò di valorizzare in patria le intraprese archeologiche: quindi i francobolli, ma anche pittura e scultura, coinvolte nelle mostre di ‘arte coloniale’ degli anni trenta, e soprattutto la stampa. Riviste e pubblicazioni scientifiche erano destinate a circolazione limitata, ma furono prodotte con perizia, per esempio quelle dell’Istituto F.E.R.T. Impegno fu posto pure nella confezione di libri divulgativi e guide per la C.T.I: nel decennio del ‘consenso’ si ebbero promozioni turistiche per i siti di Libia e Egeo. Di più largo impatto erano gli articoli della stampa periodica e quotidiana, dove era largo assai Io spazio dell’archeologia, il volto più spendibile dell’antichità classica (lo mostra l’antologia di Margherita Mangiai, L’antichità classica e il Corriere della Sera. 1870-1945. Fondazione Corriere della Sera, 2017).

Nella ricerca di Troilo, le retoriche alla base dell’archeologia coloniale sono vigorosamente smascherate e denunciate come relazione di potere. Giova evocarle in sintesi. La prima era la missione dell’Italia: si pretendeva che l’eredità culturale e politica dell’impero romano legittimasse la nazione, più che ogni altra, a farsi carico dei resti della civiltà classica. Un discorso già pienamente attivo dal 1911, durante la guerra libica, e poderosamente rilanciato durante il ventennio fascistico (come illustra Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana. L’Erma di Bretschneider, 2001). In varie occasioni il paradigma fu rafforzato, anche in polemica con parallele iniziative ‘straniere’: si esibiva allora l’impegno a difendere nelle intraprese imperialistiche (e poi, per breve tempo, imperiali) un certo ‘onore nazionale’. Il secondo livello era lo sforzo di tutelare le rovine antiche dall’ignoranza distruttrice dei ‘barbari’: una forma, subdolamente nobilitata, di white man’s burden. Nelle aree delle imprese coloniali nostrane, la barbarie fu identificata (come già ai tempi di Lord EIgin) nel domino ottomano: in particolare, rinfacciando ignavo torpore, colpevole d’aver trascurato o minacciato la conservazione dei manufatti, segni della superiore civiltà greco-romana, estranea e incompresa. Si sa che lo stesso schema era stato usato, in patria, contro le politiche culturali degli stati preunitari, presentate sempre come inadeguate, e che il paradigma classico fu proposto ora in forma unitaria (Grecia e Roma) ora informa isolata (Roma!). Cacciato il neghittoso turco dall’Egeo, dalla Tripolitania e (con più difficoltà) dalla Cirenaica, i resti del passato andavano protetti ora dai nativi, essi pure in vario modo inetti: nomadi cirenaici e pastori ellenici non fornivano adeguate garanzie di preservare quei beni.

Qualche pezzo, contravvenendo a principi altrove asseriti, finì rimosso dal luogo di rinvenimento e trasportato altrove (persino a Roma, come nel caso di famosi spolia). In Libia il pregiudizio, razzistico, religioso e culturale insieme, legittimò l’espropriazione di siti, rovine e reperti, sottratti a indigeni considerati come ‘bambini’, perciò inconsapevoli e vandalici distruttori. A Creta l’archeologia italiana cercò soprattutto le premesse della civiltà greca (senza troppi legami con l’oriente!), ma valorizzò anche la fase veneziana, più problematica nella percezione locale, complicata dalla convivenza di diverse comunità. Anche a Rodi si diede grande peso al Medioevo, cristiano e crociato, liberandogli edifici dalle superfetazioni dei secoli di dominio ottomano, considerate deturpanti. Nell’Egeo agirono i pretesti della “scienza”: gli spazi locali di interesse per le antichità furono accantonati, e si impose la professionalità di archeologi formati alle rigorose pratiche distavo, catalogazione e conservazione, del metodo germanico. Pratiche che si pretendevano impeccabili, ma non sempre lo erano state, giacché nei tempi di guerra erano prevalse su tutto le esigenze militari. Che il punto di vista dei nativi, comunque qualificati, non trovasse spazio, non stupisce, poiché il discorso archeologico oscurava o falsava ampi aspetti della realtà coloniale. Per questo l’indagine sviluppata da Troilo è di grande interesse, e merita ulteriori allargamenti, verso l’Albania o l’Africa Orientale Italiana (che pongono questioni in parte differenti). Il ripensamento di quegli eventi legati a un altro mondo scomparso va condotto con equilibrio, senza i passati eurocentrismi, e senza preconcette condanne politicamente corrette. I limiti, gli errori e gli eventuali ‘meriti’ del colonialismo italiano, anche in archeologia, vanno esaminati e compresi, evitando anacronistici processi al passato.

Poscritto. L’autore si scusa d’aver usato il termine paleoitaliano ‘decennio’, e non l’ormai normale ‘decade’, e confida, contrito, nella clemenza di chi legge.

 

Il libro: