Amedeo Feniello racconta “Demoni, venti e draghi”

Nel XIV secolo, al finire del nostro Medioevo, l’intero pianeta venne scosso da epidemie, catastrofi ambientali e cambiamenti climatici. Improvvisamente fu come se demoni, venti e draghi si scatenassero assieme per punire l’orgoglio dell’uomo. Dalla Cina fino all’Europa si diffuse la peste nera, un’epidemia che sembrava annunciare l’apocalisse, accompagnata com’era da furiose inondazioni e giganteschi sciami di cavallette. Da un capo all’altro dell’Eurasia si avvertirono le conseguenze di un improvviso mutamento delle temperature e l’inizio di quella che viene chiamata ‘piccola glaciazione’.

Eppure l’uomo seppe reagire al trauma di questi eventi drammatici. Piano piano emersero dei veri e propri ‘paesaggi adattativi’, nuove forme di organizzazione sociale, politica ed economica che lanciarono il mondo verso una fase nuova. Una lezione, affascinante, che ci viene dal passato e che ha molto da insegnarci oggi.

Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi, il nuovo libro di Amedeo Feniello.

 

 

Il libro:

In balia della natura

Nel XIV secolo, al finire del nostro Medioevo, l’intero pianeta venne scosso da epidemie, catastrofi ambientali e cambiamenti climatici. Improvvisamente fu come se demoni, venti e draghi si scatenassero assieme per punire l’orgoglio dell’uomo. Dalla Cina fino all’Europa si diffuse la peste nera, un’epidemia che sembrava annunciare l’apocalisse, accompagnata com’era da furiose inondazioni e giganteschi sciami di cavallette. Da un capo all’altro dell’Eurasia si avvertirono le conseguenze di un improvviso mutamento delle temperature e l’inizio di quella che viene chiamata ‘piccola glaciazione’.

Eppure l’uomo seppe reagire al trauma di questi eventi drammatici. Piano piano emersero dei veri e propri ‘paesaggi adattativi’, nuove forme di organizzazione sociale, politica ed economica che lanciarono il mondo verso una fase nuova. Una lezione, affascinante, che ci viene dal passato e che ha molto da insegnarci oggi.

Un estratto da Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi, il nuovo libro di Amedeo Feniello.

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In balia della natura

Killer inconsapevoli

La madre di tutti i contagi fu la peste nera. La pandemia capace di oscurarne ogni altra nella storia dell’umanità. Un prodigio di distruzione, tanto ampia da abbracciare tutto il Vecchio Mondo e di espandersi con una velocità inusitata, devastando l’Asia, il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Europa. Di cosa si trattasse e chi avesse provocato questa catastrofe lo si sa davvero da poco tempo. Da quando la medicina ha elaborato nuovi strumenti d’analisi e di trattamento delle malattie infettive. Solo centocinquanta anni fa, infatti, si sono individuati con nettezza i killer inconsapevoli, i vettori. A partire dal più piccolo e micidiale: il bacillo. Grazie al lavoro di ricerca svolto, indipendentemente l’uno dall’altro, dal medico giapponese Shibasaburō Kitasato – allievo di Robert Koch a Berlino – e da Alexandre Yersin, uno studente svizzero che aveva studiato con Louis Pasteur e Émile Roux. Durante la peste di Hong Kong del 1894, entrambi scoprirono che un medesimo bacillo era presente sia nei tessuti dei topi sia di umani morti per il contagio. Era la svolta. Che, però, nel tempo, è andata tutta in gloria di Yersin, visto che il bacillo è stato battezzato col nome che tutti conosciamo – Yersinia pestis –; con buona pace di Shibasaburō Kitasato, ormai quasi completamente ignorato.

Yersinia, allora: se vogliamo indicarla con una formula, mi pare suggestiva quella di Drancourt, Houhamdi e Raoult, un «organismo ectoparassita tellurico». Una definizione azzeccata per un bacillo capace di generare una slavina di proporzioni inimmaginabili ma che, a guardarlo al microscopio, sembra innocuo. Così, senza né braccia né gambe. Che sembra né vivere né esistere – almeno secondo i parametri che attribuiamo noi umani alla vita –. Invece, se lo osserviamo, possiamo cogliere delle cose davvero interessanti. A partire dalla sua storia. Yersinia ha un gemello. Oggi chiamato Yersinia pseudotuberculosis: un gemello buono, relativamente benigno, che sopravvive nei corsi d’acqua e nel terreno e ha effetti sull’uomo limitati. Circa 28 mila anni fa, all’epoca dell’Ultimo massimo glaciale, Yersinia pestis si è staccato dal gemello e ha modificato il suo percorso. Ha mutato codice genetico, il genoma, l’impronta digitale che lo ha reso diverso e unico rispetto a tutti gli altri esseri viventi. Lo ha cambiato in un essere speciale. Se osserviamo le sue caratteristiche si resta colpiti. Innanzitutto, è estremamente abile, dotato di grandi capacità di invadere e colonizzare nuovi territori, di adattarsi ad ambienti climatici differenti e, per muoversi, di adoperare dei compagni di viaggio rapidi e altrettanto adattabili. Yersinia è resistente: può restare per settimane o anche mesi silente e contaminare i suoli, e insidiarsi in animali, per via aerea o per ingestione. Preferisce i mammiferi, non troppo grandi: marmotte, gerbilli, scoiattoli, furetti, arvicole. Finché la Yersinia vive con loro, la possibilità di contagio resta relativa. È quando incontra altri compagni di viaggio, più numerosi, più sociali, meno tolleranti al bacillo, che le condizioni fatalmente cambiano. Ciò accade quando incontra una particolare specie di roditore: nel nostro caso, il rattus rattus, il topo nero. È lui il vero tramite, diremmo l’autobus che trasporta la Yersinia dai boschi abitati dai mammiferi alle comunità dove vive un’altra specie, l’uomo. Per salire sull’autobus la Yersinia si serve però di un cavallo di Troia: un parassita, la pulce, la Xenopsylla cheopis, individuato come il principale vettore della peste due anni dopo la scoperta Kitasato-Yersin.

Il bacillo entra nel suo corpo. È lo spillover. Il salto di specie. E cosa fa la Xenopsylla? Infettata col bacillo della peste, la pulce non è più in grado di digerire il suo cibo e diventa voracemente affamata. Si ciba di sangue di mammiferi. Dei piccoli roditori o dei topi. Quando il roditore muore di peste, la pulce cerca disperatamente altro cibo e va alla ricerca di un nuovo ospite. Un umano, ad esempio. E si sposta con un altro spillover. In attesa di un nuovo ospite animale, una pulce di ratto può restare silente fino a cinquanta giorni nel grano (immaginiamo: nelle dispense delle case, nei granai, nei silos, nelle navi e nei carriaggi da trasporto ecc.) o tra oggetti bianchi e morbidi, come i panni di lana. E poi, una volta uscita da questi comodi rifugi, ricomincia ad andare di nuovo a caccia, alla ricerca di altro cibo, ratti o uomini che siano. E va notato che, poiché tanto il grano quanto i panni erano fondamentali articoli di commercio, il loro trasporto fu uno dei principali veicoli di diffusione della peste.

Il terzo grande imputato è, come abbiamo già visto, il topo nero. Il rattus rattus. Il nostro immaginario corre subito a rappresentazioni orrifiche impresse nella nostra fantasia, dalla favola del pifferaio di Hamelin – una delle più affascinanti metafore dei danni apportati dai topi alla quotidianità cittadina nordeuropea – alle sequenze del film Nosferatu di Herzog, con le schiere di topi che, lungo vicoli oscuri e marcescenti, accompagnano il signore dei vampiri. Restando aderenti alla realtà, nella peste verosimilmente furono implicate altre varietà di topi, come i topi di campagna, sebbene si tenda ad escludere la loro incidenza diretta, considerata la loro scarsa propensione al contatto con gli umani. Ben diversa è invece proprio la storia del topo nero. A lui, gli uomini piacciono. Preferisce stabilire la sua tana accanto alle riserve di grano predisposte dagli uomini o, ancora meglio, crearla nelle loro case. Si imbarca volentieri sulle navi e si sistema nelle bisacce dei viaggiatori, nelle botti, nei sacchi, nelle stive. Una volta a terra, ama la città. Le comunità, il calore, la disponibilità immediata di cibo, gli scarti e i rifiuti. Poiché le preferenze alimentari dell’uomo e del ratto sono simili, i ratti preferiscono avere tane a breve distanza da dove il grano si produce, si conserva e si vende. I mulini, i depositi, i granai, le spedizioni di frumento e di farina, i mercati piccoli e grandi sono i luoghi privilegiati dove pulci, topi e uomini hanno la maggiore possibilità di incontrarsi e contagiarsi. E non è un caso se mugnai e panettieri fossero spesso le prime vittime della peste. Quando le tane dei ratti neri venivano infettate dalle pulci, i ratti malati e morenti affluivano in superficie. Anche a centinaia se non a migliaia, come riportano le fonti. Con delle storie particolari, come quella dell’alto Egitto dove la maggior parte dei fellahin costruivano delle soffitte per i piccioni sui tetti delle loro case, e, una quindicina di giorni prima che gli abitanti delle stanze sottostanti iniziassero a morire di peste, i ratti morti cadevano dalle travi perché avevano le loro tane sui tetti, ghiotti com’erano delle uova di piccione.

Topi e pulci. Ma sono loro gli unici imputati? Non sembra. Le cose pare che andassero anche diversamente, come spiegano oggi i biologi. Perché questa trasmissione da ospite a ospite non appare rapidissima. Perciò oggi non si pensa più, come si è fatto a lungo, ad un solo vettore ma a tanti di essi. Vari tipi di pulci dei ratti, oltre la Xenopsylla: ad esempio il Nosopsyllus fasciatus o i pidocchi o la Pulex irritans degli uomini. Verosimilmente tutti agirono parallelamente e ognuno cooperò, per proprio conto, a trasportare lo stesso carico di morte. La Yersinia poté scegliere, allora, anche un’altra strada, respiratoria. È la forma polmonare della peste, la più micidiale. Passa da persona a persona per via aerea, sebbene essa non possa persistere indipendentemente dalla forma bubbonica. Tuttavia, non fu la principale forma di contagio. Era pericolosissima per chi stava vicino all’ammalato, quando egli cominciava a tossire sangue copiosamente. Il periodo di incubazione per la peste polmonare andava da uno a sei giorni, mentre la mortalità raggiungeva il cento per cento. Alla fin fine, ciò che conta è che in questa guerra che chiamiamo peste nera vince un esercito di miliardi di roditori, ratti, pulci, pidocchi. Che trova la sua capacità scatenante nella Yersinia. Che esiste in natura da milioni di anni. E ogni tanto si mostra, in tutta la sua virulenza. Che si adatta, sa scegliere vettori e vettori, ospiti e ospiti, migliorando, quando può, le sue performance. E salta di specie: passando da roditori selvatici a quelli comuni, dal topo di campagna al topo di città, dalle pulci dei roditori alle pulci dell’uomo e ai pidocchi. Attraverso queste interazioni e con questa enorme capacità di adattamento, la Yersinia diventa micidiale e violentissima, tanto da provocare l’incommensurabile disastro ecologico della metà del Trecento.

Ora, riavvolgiamo il nastro e seguiamo la sequenza, scenario per scenario. Con il progressivo incremento di complessità nel passaggio della malattia da enzootica a epizootica a panzootica a zoonotica a, finalmente, pandemica. All’inizio tutto si nasconde. Le riserve di bacilli esistono sottotraccia, tra gli animali selvatici dei boschi, tra le marmotte, gli scoiattoli e i gerbilli delle regioni semiaride dell’interno dell’Asia. Grazie alla loro lunga esposizione al contatto con la Yersinia, la convivenza tra loro è benigna e i livelli di mortalità bassi. Essa riesce a sopravvivere e non si estingue, capace com’è di trovare sempre un ospite, tramite appunto la pulce. Però non apporta troppi danni. La scarsa vegetazione e il numero limitato di ospiti ne attenua la virulenza. Fin qui, accade poco. Ma se il clima cambia e piove di più, cosa succede? La vegetazione si infittisce, i roditori selvatici hanno più risorse da sfruttare, la loro popolazione aumenta e la Yersinia scopre di avere un numero più grande di portatori. L’umidità poi scatena un altro effetto: fa aumentare le larve delle pulci e il loro numero si moltiplica. È un passaggio che comincia a coinvolgere gli uomini – cacciatori, boscaioli, pastori entrano in contatto con i roditori, li mangiano, lavorano le loro pelli, le trasformano in indumenti, guanti, pellicce – con la loro bella scatola cinese, con dentro pulci e bacilli. Non si tratta ancora di una condizione che permetta lo scoppio della pandemia. Gli effetti sono contenuti, frenati. Ci può essere un’epidemia circoscritta ma non una pandemia. Per arrivare alla pandemia bisogna fare un passo ancora oltre. In effetti, le cose si fecero davvero serie per gli umani quando i roditori selvatici cominciarono a incrociare quelli comuni, che vivevano in simbiosi con l’uomo. È questo lo stadio cruciale. Spinte dalla fame, per le pulci i roditori selvatici erano troppo pochi. Bisognava trovare una soluzione: incrociare ospiti alternativi, molto più numerosi dei topi, che restarono impigliati in una vera e propria trappola biologica. A differenza dei loro cugini selvatici, che hanno una lunga esperienza genetica di relazione col bacillo e con le pulci, i topi sono impreparati. Non hanno difese. Le pulci trasmettono rapidamente il bacillo. E i ratti, di conseguenza, muoiono in massa. Dal momento dell’infezione, al topo restano dai dieci ai quattordici giorni di vita. Ma, se essi muoiono in massa, una quantità infinita di pulci affamate e stordite dalla Yersinia a chi si può attaccare per soddisfare i propri appetiti? A un animale un po’ più grosso di taglia, più facile da avvicinare: l’uomo. Gli umani vengono assediati. Assaltati. Le loro difese cadono rapidamente. La trasmissione passa da uomo a uomo. Comincia la pandemia.

Adesso può espandersi senza limiti, in un mondo che – da Oriente a Occidente – convive con tanti parassiti, tratto consueto della quotidianità. L’uomo diventa così il nuovo portatore. E, con lui, si trasformano in vettori tutte le sue creazioni, i suoi strumenti, i mezzi del suo supposto dominio sul mondo: i mercati, le strade, le rotte commerciali, quelle carovaniere, i porti. Navi, cavalli e dromedari, che avevano annunciato l’epoca nuova degli scambi internazionali, si trasformano nei migliori veicoli di un contagio che si esprime meglio proprio sulle strutture ruggenti del commercio globale, dei traffici transahariani, dei lunghi percorsi delle vie della Seta e delle vie dei monsoni. «Le città, il grande elemento di snodo di un’epoca, alimentano i più violenti focolai, ricche com’erano di una massa di poveri, indigenti, affamati, dove la mancanza di igiene e di salute pubblica era la norma. Ma peggio avviene nelle campagne, abitate da donne e uomini indeboliti, provati dalle sequenze delle carestie, fiaccati dalla morte dei propri animali uccisi a loro volta da un’altra pandemia». Una ridda caotica che permette alla Yersinia di passare da una situazione di incubazione a una di crescita, fino a diventare la più letale bomba patogena mai incontrata dall’umanità.

Il libro:

Sandra Petrignani racconta “Leggere gli uomini”

Per secoli, solo gli scrittori maschi hanno potuto disporre di una stanza tutta per sé, di uno ‘studio’ inaccessibile dove indisturbati hanno composto capolavori. E quando ne uscivano, avevano il mondo intero per fare esperienza di cose e persone. Al sesso femminile raramente è stato concesso un analogo privilegio. Il sesso femminile per molto tempo non ha potuto scriverli quei libri meravigliosi: soltanto leggerli. Così intere generazioni di donne hanno esplorato le geografie dell’animo umano, scoperto l’amore, l’amicizia e la propria identità sulle opere scritte dagli uomini. Rispecchiandosi a volte perfettamente, a volte con difficoltà, a volte per niente.

Fra esercizi di ammirazione e scatti di rabbia, attraverso memorabili citazioni, in Leggere gli uomini Sandra Petrignani ci porta dentro tante pagine indimenticabili, da Dumas a Roth, da Pavese a Proust, da Calvino a Tolstoj, da Gary a Dostoevskij, da Moravia a Mann, da Manganelli a Kundera, da Malerba a Čechov, da Nabokov a Chatwin, da Tabucchi a Kafka e a mille altri. Fino ad alcuni grandi di oggi, Modiano, McEwan, Carrère…

Il libro:

Goffredo Buccini racconta “Il tempo delle mani pulite”

Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia. È stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire questa mitologia furono la carta stampata e le televisioni. E questa è la loro storia.

Goffredo Buccini racconta Il tempo delle mani pulite rispondendo a tre domande: come iniziò Mani Pulite? Quali illusioni infranse? Perché un’inchiesta epocale fu affidata a dei ragazzini?

 

 

Il libro:

La vigilia del disastro

Un saggio di Paul Jankowski, edito da Laterza, analizza le cause del Secondo conflitto mondiale. Le maggiori potenze si mostrarono incapaci di costruire un nuovo ordine all’insegna della sicurezza collettiva e delle norme condivise

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 2 novembre 2021

Doveva essere l’anno in cui l’umanità intera — con l’accordo ginevrino sul disarmo si sarebbe messa definitivamente alle spalle la Grande guerra. Al contrario in quei dodici mesi si posero le premesse per il Secondo conflitto mondiale. Lo si intuì (o, meglio, lo si sarebbe potuto intuire) alla fine di settembre del 1933 allorché Joseph Göbbels partecipò alla Conferenza per il disarmo che, dall’anno precedente, si riuniva a Ginevra. Göbbels vestiva i panni di ministro della Propaganda di Adolf Hitler e fece un certo effetto ascoltare le sue insincere parole di omaggio alla Società delle Nazioni. Quella stessa Società delle Nazioni che proprio lui, appena un anno prima, da candidato alle elezioni in Germania, aveva giurato di distruggere. Ora — scrive Paul Jankowski in Il lungo inverno del 1933. Alle origini della Seconda guerra mondiale in uscita il 14 novembre da Laterza — «si muoveva con disinvoltura nell’ambiente ginevrino, da scaltro e piacevole praticante dell’arte della conciliazione». Sostenendo «sfacciatamente che il nazismo significava pace, una forma più alta di democrazia e di difesa dell’Occidente dal bolscevismo». In quegli stessi giorni un fotografo lo ritrasse fuori dall’Hotel Carlton «con un’espressione arcigna sul volto… quasi a voler mostrare l’uomo che si nascondeva dietro la maschera». Sostanzialmente Göbbels era lì per annunciare che la Germania intendeva procedere sulla via del riarmo e far capire che il suo Paese presto avrebbe abbandonato quella Conferenza oltreché la Società delle Nazioni.

Arthur Henderson, l’anziano malato laburista inglese che presiedeva il summit di Ginevra, tentò in ogni modo di far andare avanti i lavori della Conferenza. Ma il primo ministro del suo Paese, Ramsay MacDonald, fu, con lui, persino scortese. La Francia chiese — inutilmente — che si formasse un esplicito fronte antitedesco contro le violazioni hitleriane del trattato di pace. Il Giappone rese manifesta la propria contrarietà ai limiti posti dai trattati navali del 1922 e del 1930. L’Urss fece capire che mai avrebbe firmato un accordo sul disarmo non sottoscritto dal Giappone. La Polonia lasciò intendere che non avrebbe firmato un’intesa da cui i sovietici si fossero chiamati fuori. Il delegato americano, Norman Davis, annunciò che da quel momento il disarmo era una «questione europea» e che lui sarebbe tornato immediatamente in patria. Da quel momento i ministri degli Esteri di tutti i Paesi disertarono la Conferenza destinata a chiudersi l’anno successivo con un nulla di fatto. Accadde anche che nella stanza di ingresso alla Crystal Chamber dell’Hotel National, in cui si riuniva il consiglio, il fregio allegorico che simboleggiava la pace si staccasse dalla parete e cadesse a terra andando in frantumi. Un evento fortuito, certo, che però fu colto dai più come un infausto presagio.

Già Alan J.P. Taylor in Le origini della Seconda guerra mondiale (Laterza), più recentemente, Volker Ullrich in Hitler. L’ascesa, 1889-1939 (Mondadori) e molti altri oltre a loro — avevano messo in evidenza l’importanza di quel 1933, anche al di là del fatto che fu l’anno in cui il dittatore tedesco andò al potere. In che senso? Quello fu il momento, scrive Jankowski, in cui le grandi potenze e alcuni dei loro partner minori «voltarono le spalle a quel che restava di un ordine mondiale» e si «allontanarono l’una dall’altra». Il Giappone, che nel 1931 aveva attaccato la Manciuria, uscì, come si è detto dalla Società delle Nazioni, Roosevelt accentuò il distacco degli Stati Uniti dall’Europa. America, Gran Bretagna e Francia raggiunsero l’apice del litigio tra loro su debiti di guerra, armamenti, moneta, tariffe daziarie, atteggiamento nei confronti della Germania. Alla fine di quel 1933, scrive Jankowski, «il mondo postbellico diventò un mondo prebellico».

Il lungo inverno del 1933 demolisce alcune false credenze su quel che caratterizzò il «decennio meschino e disonesto» (la definizione è di W.H. Auden) a cavallo tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta. Nonché alcune analogie tra quei tempi e quelli attuali. Analogie, sostiene Jankowski, basate «su presupposti confusi riguardo a ciò che il mondo era allora e quel che è oggi». E vero, ad esempio, che la catastrofe economica dei primi anni Trenta contribuì in alcuni Paesi a trasformare dei partiti fascisti di scarsa importanza in movimenti di massa, «ma d’altra parte», fa notare l’autore, «negli Stati Uniti e in Francia portò al potere governi socialdemocratici di centro-sinistra». E «fino a tempi recenti i “populisti nazionalisti” ritenuti parenti stretti di quelli degli anni Trenta si sono affermati nei contesti economici più vitali». Mentre, al contrario, «hanno dovuto faticare nei Paesi a crescita più lenta e con livelli di disoccupazione più elevati».

C’è da osservare poi che da maggior parte dei governi autoritari degli anni Trenta si era già insediata quando la Grande Depressione si abbatté sul mondo». E che «piuttosto che portare al centro della scena gli irrequieti fascisti», agì «in modo da tenerli fuori dal gioco, almeno per un po’». Alcune delle «più sguaiate manifestazioni di psicosi a sfondo etnico o razziale provennero dalle culture ritenute più democratiche». Il modello che sottolinea le analogie tra quei tempi e quelli attuali «non regge», ribadisce lo studioso. E un modello che, a detta di Jankowski, evidenzia semmai «l’eterna lotta tra lo storico che vede gli alberi ma non la foresta, e lo scienziato della politica che vede la foresta ma non gli alberi». Se andiamo in cerca di analogie con il passato per dare un senso alle nostre difficoltà attuali, un confronto con il mondo immediatamente successivo al 1900, sostiene Jankowski, «si rivelerebbe più utile» di quello con il mondo degli anni Trenta.

E ancora. Nel primo dopoguerra molti, compreso qualche marxista, prevedevano che la mano invisibile del libero commercio avrebbe agito come una marea in grado di erodere le dighe statuali e dar vita spontaneamente a un nuovo ordine. Ma, come ha ben spiegato Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale (il Mulino) queste idee furono mandate all’aria proprio dalla Grande Depressione. Chi negli anni Venti guardava alla Grande guerra come a «un momento in cui tutti erano precipitati in una lotta primitiva», negli anni Trenta «paventò una futura ricaduta ancor più calamitosa, l’infrazione di ogni residuo limite alla brutalità umana». Le personalità pubbliche richiamavano continuamente il rischio di una fine delle civiltà.

Però quando la Gran Bretagna cercò di promuovere la riabilitazione della Germania e la Francia tentò disperatamente di contenerla, l’equilibrio delle potenze divenne d’un tratto «una chimera che non trovò gli artefici necessari» e non fu mai qualcosa di concreto. L’Unione Sovietica, ironizza Jankowski, «al mattino cercò di impedire la formazione di qualsiasi forte coalizione fra Paesi europei», «a mezzogiorno di volgerne una contro la Germania» e «sul far della notte di accordarsi con il Terzo Reich». Con questi subitanei cambiamenti di idea, l’Urss sembrò rispondere ad una logica «realista». Ma si trattava di «espedienti tattici» per portare avanti il proprio processo di militarizzazione che, osserva Jankowski, aveva preso avvio prima di qualsiasi altro. Quanto agli Stati Uniti, non erano interessati a equilibri di alcun tipo.

In tempi successivi, i «realisti» avrebbero cercato di attribuire le instabilità del mondo tra le due guerre a difetti strutturali. Spiegando, ad esempio, «che non era emerso nessun sistema basato sul concerto delle potenze in grado di mantenere la pace, come era avvenuto invece dopo il 1815». O che «nessun Paese egemone a livello globale aveva preso il posto occupato nel secolo precedente dalla Gran Bretagna». Oppure ancora che, come ha sostenuto Ian Clark, «che il mondo tripolare precedente alla Seconda guerra mondiale era più pericoloso di quello bipolare subentratogli dopo il conflitto».

Ma qui il discorso va riportato al Congresso di Vienna, al 1815. In quel momento, ricorda Jankowski, le potenze europee che si erano coalizzate contro Napoleone «assegnarono alla stabilità, nel nuovo quadro di pace un posto prioritario rispetto all’ingrandimento dei singoli Stati». I Paesi vincitori decisero allora «un cambiamento rispetto al tradizionale sistema dell’equilibrio che fin dal 1763 aveva prodotto solo squilibri e conflitti endemici». Adottarono invece «un sistema concertato che prevedeva obblighi e limiti reciproci». Non tutti se ne avvantaggiarono: polacchi e sassoni ebbero piuttosto a soffrirne. Quel sistema, però, si basò sulla capacità di due potenze «poste ai margini del continente» (Gran Bretagna e Russia) di «moderare le altre». Funzionò. Lo spirito che lo ispirava consentì all’Europa di non conoscere, per un intero secolo, neppure un conflitto fra grandi potenze. Eccezion fatta per quello franco-prussiano, che però non può essere considerato un «conflitto tra grandi potenze».

Qualcosa di analogo, sempre secondo Jankowski, avvenne anche dopo il 1945, quando gli Stati Uniti, i loro alleati e i loro avversari in tempo di guerra concepirono un nuovo sistema di cooperazione internazionale che «non assomigliava a nessuno di quelli precedenti», ma che «ancora una volta fece prevalere le finalità comuni su quelle individuali». E, che generò una lunga pace. Anche se prese le sembianze di una guerra, la guerra fredda.

Negli anni tra le due guerre mondiali, invece, accadde l’opposto. E accadde nonostante alcuni dei Paesi che «più covavano risentimenti» — il Giappone, la Germania — fossero in grado di esibire «una ripresa più sostenuta di altri dal baratro economico dei primi anni Trenta». Forse tutto degenerò perché laddove a Vienna nel 1815 i diplomatici erano riusciti a ignorare l’opinione pubblica dei loro Paesi, a Versailles ciò non fu possibile. E nei vent’anni successivi lo fu ancor meno. Sempre meno.

A questo punto «una storia improntata ai metodi della psicanalisi sociale» ha messo sotto i riflettori gli aspetti degradanti della guerra totale, ipotizzando che 60 o 70 milioni di ex combattenti avessero riversato sul loro mondo «la brutalizzazione che la Grande guerra aveva loro inflitto». Alcuni — si veda Seymour Martin Lipset in L’uomo e la politica (Edizioni di Comunità) — sulla scia di tali analisi diedero un crescente rilievo alle classi medie «spremute», impaurite e antimoderne. Ma le diagnosi di tal genere non spiegavano perché un gran numero di altri reduci diventarono invece pacifisti. O per quale motivo «l’esperienza della brutalizzazione sofferta da tedeschi, italiani o russi dovesse essere più grave di quella vissuta dai soldati francesi o britannici». La verità semplice ed evidente è che i percorsi di ogni Paese furono diversi uno dall’altro. Negli anni fra le due guerre «ognuno si contrappose in qualche modo al mondo». Ognuno «agì in modo da rendere discrezionali, quando non irrilevanti, le norme e le procedure». Negli anni Trenta «con imbarazzo o disprezzo», scrive Jankowski, regimi di ogni sorta «seppellirono le vestigia della sicurezza collettiva e delle norme condivise».

E pensare che negli anni Trenta i Paesi che poi si sarebbero combattuti nella Seconda guerra mondiale «disponevano della forza necessaria a compiere delle scelte e ad orientare le proprie storie nazionali in una direzione diversa». Ma non lo fecero. Questa è l’unica vera analogia con quello che è poi capitato nei decenni successivi al crollo del muro di Berlino. L’ordine che si pensava avrebbe fatto seguito alla guerra fredda «si è dimostrato frutto di una fantasia», esattamente come quello «immaginato dopo la Grande guerra». Perciò gli accadimenti di quel «lungo inverno del 1933» ci dicono qualcosa di utile per comprendere i rischi che corre il mondo di oggi.

 

Il libro:

John Dickie racconta “I liberi muratori”

Intorno alla Massoneria aleggia da sempre un’aura di mistero e di sospetto. Ma chi sono i massoni? Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? I massoni hanno veramente architettato, tra l’altro, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa e le trame oscure della nostra storia repubblicana?

Ne I liberi muratoriJohn Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.

 

 

Scopri il libro:

 

[Proposte di lettura] Ambiente

Stefano Mancuso

La pianta del mondo

Dalla vita su questo pianeta alla voce di un violino, dal futuro delle città alla risoluzione di crimini efferati, all’inizio di ogni storia c’è sempre una pianta. Della maggior parte di esse si è persa memoria. Altre storie, invece, hanno avuto un destino diverso perché legate a persone o avvenimenti che hanno colpito l’immaginazione umana. Questo libro ne racconta alcune.

 

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Amedeo Feniello

Demoni, venti e draghi
Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi

Nel 1300 il mondo venne attraversato da una serie di eventi naturali drammatici e devastanti: pestilenze, inondazioni, piccole glaciazioni, carestie. Eppure le tre grandi civiltà del tempo, quella europea, quella islamica e quella cinese, seppero costruire dei veri e propri ‘paesaggi adattativi’ per affrontare le sfide del momento. Un libro che ci conduce alla riscoperta di una grande lezione dimenticata che ci viene dal passato.

 

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Seth Wynes

SOS
Cosa puoi fare tu contro il riscaldamento globale

Siamo abituati a credere che modificare i nostri comportamenti individuali non abbia un impatto significativo sul riscaldamento globale. Ma la scienza ci dice esattamente il contrario: azioni semplici fanno la differenza.

 

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Stefano Nespor

La scoperta dell’ambiente
Una rivoluzione culturale

Come abbiamo scoperto l’importanza dell’ambiente e della salute del nostro pianeta? Un viaggio attraverso le tappe fondamentali che hanno portato alla nascita della coscienza ambientalista contemporanea.

 

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Fabio Ciconte

Chi possiede i frutti della terra

Una mela qualsiasi non è mai una mela qualsiasi. È il risultato di una selezione genetica che l’ha resa perfetta e di proprietà esclusiva di industrie genetiche che controllano l’intera filiera. Questo reportage che attraversa le isole Svalbard fino ad arrivare alle campagne pugliesi, dall’America di fine Ottocento ai potenti club che oggi decidono chi può coltivare, per la prima volta mette in luce le nuove forme di controllo del cibo e i rischi per la biodiversità e gli ecosistemi.

 

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Edoardo Borgomeo

Oro blu
Storie di acqua e cambiamento climatico

Un pianeta più caldo significa ghiacciai che si sciolgono, piogge meno prevedibili, alluvioni più frequenti, deserti che avanzano. Nell’acqua vediamo gli effetti del riscaldamento globale e la probabile causa di guerre future.

 

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Stella Levantesi

I bugiardi del clima
Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo

Un libro imprescindibile per chiunque voglia finalmente sapere come sia potuta riuscire l’operazione di occultamento più grande del secolo: quella orchestrata dai negazionisti dell’emergenza climatica.

 

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Fabio Ciconte

Fragole d’inverno
Perché saper scegliere cosa mangiamo salverà il pianeta (e il clima)

Siamo abituati ad associare le emissioni di CO2 solo alla produzione energetica e ai trasporti. Ma vi siete mai chiesti quanto esse dipendano da cosa scegliamo di mangiare? La risposta è una sola: moltissimo, perché le abitudini di consumo, i processi di produzione e il riscaldamento globale ormai sono legati a doppio filo.

 

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Tiziano Fratus

L’Italia è un bosco
Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda

Gli alberi delle nostre città: li sfioriamo, talvolta li tocchiamo, ma non li conosciamo. Nel bel libro di Tiziano Fratus si racconta del superlativo patrimonio naturale che abbiamo sotto gli occhi: anche le nostre città sono piccole oasi. Antonio Pascale, “Corriere della Sera”

 

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Marco Ciardi

Terra
Storia di un’idea

Il nostro pianeta è stato osservato da molte angolazioni. I grandi esploratori europei ne hanno disegnato il volto, gli astronauti hanno visto la famosa ‘biglia blu’, i fisici ne hanno immaginato l’inizio, Darwin ha descritto come sono andate le cose per la vita che ospita. Marco Ciardi ripercorre la storia del pianeta con gli occhi della nostra cultura scientifica, attraversando discipline ed epoche, in un viaggio davvero globale.
Mauro Capocci, “Le Scienze”

 

 

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Marina Forti

Malaterra
Come hanno avvelenato l’Italia

Per decenni gli scarti delle attività industriali sono finiti nella terra che abitiamo. Il fumo delle ciminiere ha impestato l’aria; gli scarichi hanno avvelenato l’acqua. Conviviamo, e conviveremo a lungo, con la diossina nei giardini pubblici, il piombo nei terreni, il Pcb e gli idrocarburi nelle falde idriche. Marina Forti ci porta in alcuni dei luoghi più inquinati d’Italia e ce ne racconta la storia, le bonifiche mancate, la mobilitazione dei cittadini, l’emergere di una coscienza ambientalista, lo scontro tra le ragioni del lavoro e quelle della salute.

 

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Enrico Giovannini – Donato Speroni

Un mondo sostenibile in 100 foto

100 fotografie raccontano lo stato del nostro Pianeta e la maggiore sfida del nostro tempo: costruire le premesse per un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

 

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Stefano Mancuso

L’incredibile viaggio delle piante

Come le piante navigano intorno al mondo, come portano la vita su isole sterili, come sono state in grado di crescere in luoghi inaccessibili e inospitali, come riescono a viaggiare attraverso il tempo, come convincono gli animali a farsi trasportare ovunque. Sono solo alcune delle incredibili cose raccontate nelle storie che troverete in questo libro. Storie di pionieri, fuggitivi, reduci, combattenti, eremiti, signori del tempo.

 

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Stefano Mancuso

La Nazione delle Piante

«In nome della mia ormai pluridecennale consuetudine con le piante, ho immaginato che queste care compagne di viaggio, come genitori premurosi, dopo averci reso possibile vivere, vengano a soccorrerci osservando la nostra incapacità a garantirci la sopravvivenza. Come? Suggerendoci una vera e propria costituzione su cui costruire il nostro futuro di esseri rispettosi della Terra e degli altri esseri viventi. Sono otto gli articoli della costituzione della Nazione delle Piante, come otto sono i fondamentali pilastri su cui si regge la vita delle piante, e dunque la vita degli esseri viventi tutti.»

 

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Timothy Morton

Noi, esseri ecologici

Timothy Morton è il profeta filosofico dell’antropocene, l’era in cui è l’uomo e solo l’uomo a modificare il clima, il territorio e l’ambiente.
“The Guardian”

 

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Piero Bevilacqua

Miseria dello sviluppo

«Lo sviluppo – la corsa al conseguimento di sempre più alti standard di vita attraverso sempre più elevati livelli di produzione e di consumo di beni materiali e servizi – è finito.»

 

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Tiziano Fratus

Il libro delle foreste scolpite
In viaggio tra gli alberi a duemila metri

Un viaggio nel tempo alla scoperta di sé scandagliando quei luoghi dove le conifere resistono alle avversità d’un ambiente estremo e d’una terra rocciosa, là dove il resto dei viventi ha smesso di sopravvivere. Lariceti, pinete e cembrete dispersi lungo l’arco alpino, ma anche le cortecce contorte dei pini loricati che abitano le creste del Massiccio del Pollino, fra Calabria e Basilicata. E, infine, i pini longevi o Bristlecone Pines sulle Montagne Bianche in California, gli esemplari più antichi del pianeta (oltre 5000 anni). Un viaggio in paesaggi lunari dove la vita cerca a suo modo la strada per l’eternità. Luoghi dove l’anima si riveste di radici, di sogni, d’immaginazione.

 

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Piero Bevilacqua

Il grande saccheggio
L’età del capitalismo distruttivo

Piero Bevilacqua mette insieme storia politica, storia economica e storia della cultura per descrivere l’attuale condizione del Pianeta, le ragioni per le quali stiamo come stiamo e i possibili (anche se difficili) rimedi. Ricominciare, a crisi finita, come se niente fosse stato, sarebbe il più grave degli errori. Sarà necessario invece cambiare stili di vita, abitudini, soprattutto consumi. Corrado Augias, “il venerdì di Repubblica”

 

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Piero Bevilacqua

La Terra è finita
Breve storia dell’ambiente

Una guida alla comprensione delle ragioni dell’eccesso di pressione esercitata dagli esseri umani sulla biosfera. Una storia complessa, con una trama fitta e inaspettata che arriva fino a oggi. Paolo Cacciari, “Carta”

 

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Enrico Camanni

Il Grande Libro del Ghiaccio

Apparentemente algido e senza vita, il ghiaccio è un mondo a sé. Un mondo meravigliosamente vario, misteriosamente fuggevole e drammaticamente fragile che gli uomini hanno imparato a temere e ammirare nel corso dei millenni. Una esplorazione ancor più appassionante e necessaria nel tempo del riscaldamento climatico.

 

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Luigina Mortari

Educazione ecologica

La crisi ecologica è una delle emergenze del nostro tempo. Per affrontarla adeguatamente bisogna dare vita a un complessivo rinnovamento culturale, che chiama in causa con forza anche i processi educativi. È quanto mai urgente diffondere una pedagogia e una filosofia dell’educazione che aiutino i cittadini di domani ad affrontare questioni non più prorogabili.

 

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Alessandro Crosetti – Rosario Ferrara – Fabrizio Fracchia – Nino Olivetti Rason

Introduzione al diritto dell’ambiente

Questo libro presenta e discute la produzione legislativa e la prassi amministrativa in materia di diritto ambientale. Particolare attenzione viene dedicata alla ‘riforma amministrativa’ in corso e ai suoi esiti più recenti in materia di semplificazione amministrativa e di procedimenti di valutazione di impatto ambientale.

 

 

 

Piero Martin racconta “Le 7 misure del mondo”

Da sempre misuriamo il mondo. Per conoscerlo ed esplorarlo, per viverci, per interagire con i nostri simili. L’umanità misura per conoscere il passato, comprendere il presente, progettare il futuro. Ci sono voluti però millenni perché due rivoluzioni, quella scientifica iniziata con Galileo e quella francese, avviassero il percorso per rendere il sistema di misura condiviso e non più basato su deperibili artefatti umani, ma su elementi invariabili e universali della natura. Un cammino poco noto che è però una delle principali conquiste scientifiche e sociali dell’era moderna.

Oggi con solo sette unità di misura fondamentali – metro, secondo, chilogrammo, kelvin, ampere, mole e candela – misuriamo e cerchiamo di comprendere la complessità e le meraviglie della natura, dal microcosmo delle particelle elementari ai confini dell’universo. Queste unità fondamentali sono protagoniste di sette affascinanti racconti che, insieme ai grandi della scienza e a tanti inaspettati personaggi, conducono il lettore in un viaggio alla scoperta della fisica – da Galileo a Einstein, dalla meccanica di Newton alla quantistica – e di come la scienza aiuti a costruire un futuro sostenibile e rispettoso dell’ambiente. Con un finale a sorpresa.

Piero Martin racconta Le 7 misure del mondo.

 

Scopri il libro:

 

“Una malinconicamente ricca, l’altro vitalmente povero”

«Quando arrivai a Palermo per iscrivermi all’università, mi accorsi a pelle che Palermo era ‘fimmina’. Non solo per la bellezza delle sue ragazze dagli sguardi pirateschi, ma anche per la presenza ad ogni angolo del centro storico di numerose edicole votive dedicate a santa Rosalia, la Santuzza. Palermo era ‘fimmina’ nella sua carnale decadenza. Odorava di fiori tropicali e di monnezza. Odorava di umidità nelle scale di palazzi aristocratici ormai in sfacelo, e odorava di mistero dietro i portoni che introducevano a chiostri carichi di gelsomini e di rose».

In questo estratto da Le siciliane, il racconto di un giovane Gaetano Savatteri, giornalista sucainchiostro tra i salotti aristocratici e una sgangherata campagna elettorale tra i vicoli di Palermo.

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La marchesa viveva in un palazzo affacciato su via Maqueda. Vi arrivai una sera, invitato a una riunione di vecchie signore dell’aristocrazia che avevano a cuore il passato, e quindi il presente, di Palermo. L’ingresso era su un vicolo minore, trasversale all’asse centrale della città. Accanto al portone c’era un cumulo di immondizie (là vicino c’era un mercato, ne sopravvivevano i resti: verdura marcia, cassette di legno, lische di pesce, arance ammuffite; una torma di gatti si disputava selvaggiamente quanto restava della testa di un tonno).

savatteriPalermo era altrove. Il centro storico era buio e vuoto. Da me intervistato, Rosario La Duca, appassionato storico e topografo della Palermo perduta – così si intitolava un suo libro, appunto, La città perduta –, aveva paragonato i quattro mandamenti, cioè i quattro quartieri che racchiudono il centro storico, a una specie di “veliero fantasma”, con le occhiaie vuote dei palazzi sventrati dai bombardamenti alleati, dall’abbandono e dallo spopolamento, che ogni notte spegneva le sue luci e vagava nel nulla. Oggi per fortuna le cose sono molto cambiate, in meglio, ma quarant’anni fa questa era la vecchia Palermo.

Avevo poco più di vent’anni ed ero per niente avvezzo ai modi della nobiltà cittadina. Peraltro avevo una certa allergia per gli aristocratici. Venivo da una famiglia di origini borghesi progressiste: i miei avi erano mazziniani, repubblicani, imprenditori di zolfare, avvocati e notai, sucainchiostro come forse li avrebbero definiti le vecchie nobildonne riunite in quel salotto di via Maqueda quando volevano definire con disprezzo i praticanti delle professioni liberali.

E come sucainchiostro, infatti, ero stato ammesso alla riunione. Volevano raccontarmi, per un articolo che avrei pubblicato sul «Giornale di Sicilia», il quotidiano per il quale lavoravo, della loro iniziativa di creare un’associazione per salvare Palermo. Mi pare di ricordare che il gruppo si chiamasse proprio così: “Salvare Palermo”. Parlammo per tutta la sera, una cameriera offriva vol-au-vent e mesceva vino bianco. La mia diffidenza evaporò: le signore – qualcuna centenaria e completamente sorda, ma altre molto più giovani e combattive – argomentavano con competenza le campagne che volevano organizzare per sensibilizzare la città e la politica al tema della rovina del centro storico. Forse, col senno di poi, nella selezione del gruppo c’era quasi un contrappasso: figlie e vedove di quei principi e duchi che avevano liquidato sbrigativamente i loro palazzi adesso cercavano di restituire onore a quelle pietre che cadevano a pezzi. Cercavano di scrollarsi, moralmente, la polvere che ricadeva sulle loro teste blasonate.

Provai una battuta ad effetto: «Volete salvare Palermo? Perché? È stata costruita nel tufo proprio perché un giorno si sbriciolasse. Se doveva essere eterna, sarebbe stata costruita di pietra dura e di marmo, come Firenze o Roma. Questo è il suo destino». La mia provocazione animò la serata, che fu piacevole e piena di speranze, progetti e sogni che forse non riuscii a contenere nelle cinquanta righe che il capocronista mi concesse l’indomani in cronaca di Palermo.

Al termine della riunione fui signorilmente accompagnato all’uscita dalla marchesa padrona di casa. Sul pianerottolo, forse perché leggermente brillo per il vino bianco e freddo che avevo mandato giù per tutta la sera quasi a stomaco vuoto, con il piede urtai inconsapevolmente un capitello istoriato posato in un angolo. Lo vidi cadere come un birillo e spezzarsi in tre pezzi. Riuscii a scorgere lo sguardo inorridito della marchesa.

Non sapevo cosa dire. Balbettai qualche scusa. La marchesa mantenne il controllo. «Non si preoccupi – disse con noncuranza – era una cosa vecchia, aveva solo quattrocento anni. Ci penserà la cameriera».

Uscii dal palazzo vergognandomi come un ladro – anzi come uno zotico, come un vandalo, come un sucainchiostro qual ero. Nel vicolo buio i gatti vincitori della lotta si saziavano, in piena armonia, della testa di tonno. Alcuni topi, sul cumulo di immondizie, aspettavano pazienti che terminasse il pasto felino per spartirsi gli avanzi.

Tornai dalle parti di quel vicolo poco tempo dopo – nella compressione del ricordo, “poco tempo” può significare due giorni così come due anni –, durante la campagna elettorale per le amministrative del 1987. Centinaia e centinaia di candidati, alcuni già famosi – nelle liste della Dc c’erano Sergio Mattarella, Leoluca Orlando, Enrico La Loggia; nel Pci Simona Mafai ed Enrico Colajanni; nei Verdi la fotografa Letizia Battaglia e la giornalista Marianna Bartoccelli, tanto per dire – altri praticamente sconosciuti. Per il quotidiano cittadino una manna di lettori interessati. Andavamo a spulciare le liste per scoprire storie da raccontare. E venne fuori quella di Salvatore Tamburello.

L’uomo aveva meno di quarant’anni, il profilo e la postura di un classico venditore di panelle palermitano, simile ai molti che si possono incontrare agli angoli della città dietro a un banchetto di friggitoria, accanto a una motoape carica di pesche tabacchiere, vicino al chiosco di acqua e anice, alle prese col calderone dove si cuoce nello strutto la milza per il pani ca meusa: insomma, Tamburello era uno degli esponenti di quell’umanità varia e variopinta, misera e guascona, sempre sul bordo della legalità, che incarna una delle anime popolari di Palermo.

Abitava dalle parti del palazzo della marchesa alla quale avevo distrutto il capitello seicentesco. Certo, usare lo stesso verbo – “abitare” – per la marchesa con i suoi appartamenti da quattrocento metri quadrati e per Tamburello è una forzatura del concetto. Tamburello in realtà viveva in un catojo, antico termine che in Sicilia indicava e indica l’omologo del vascio napoletano: a piano strada, piccolo, umido, uno o due locali in tutto, dove un’intera famiglia di cinque, sei o più persone condivideva stentatamente lo spazio privato, avendo come sfogo lo spazio pubblico del vicolo o della piazza antistante.

Tamburello non aveva un mestiere, campava di espedienti, ma possedeva un potentissimo impianto stereo che campeggiava nel suo catojo con lo sfarzo di un altare barocco. Non credo avesse le stesse parentele della marchesa e delle sue amiche che volevano salvare Palermo, ma molto più di loro ne aveva il senso di casta. Si candidava infatti per la lista Stella e Corona, un movimento monarchico che sopravviveva con ostinata nostalgia al referendum sulla Repubblica del 2 giugno 1946 (Palermo comunque aveva dato l’84 per cento dei suoi voti alla monarchia).

La marchesa era decisamente repubblicana e democratica, Tamburello decisamente monarchico e aristocratico. Vivevano a pochi metri di distanza, una al piano nobile e l’altro al piano terra, una malinconicamente ricca e l’altro vitalmente povero. Tamburello, non so con quali soldi, aveva tappezzato la città di un manifesto con il suo nome, il simbolo di Stella e Corona e uno slogan credo inventato dal suo ufficio marketing che era lui stesso: «Voto perso che sia / dallo a mia». Slogan camilleriano ancor prima che Andrea Camilleri diventasse famoso. E politicamente accorto: voto utile, si potrebbe dire. Se devi disperdere il voto, tanto vale darlo a me. Messaggio umile che appartiene alla moderna cultura del riciclo: nulla si butta, tutto si riusa. A partire del voto.

Tamburello non fu fortunato: non venne eletto. Si vede che non c’erano così tanti voti persi. A sua discolpa bisogna dire che non venne eletto a Palazzo delle Aquile, sede del consiglio comunale, nessuno dei candidati di Stella e Corona, nemmeno il vecchio principe che ne era il capolista. A dimostrazione che, in lista o per la strada, miseria e nobiltà, ricchezza e povertà, in Sicilia sono meno distanti di quel che si crede.

 

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Silverio Novelli ospite di Paolo Di Paolo a “La lingua batte”

“Possiamo dire che l’italiano è un bene comune. È come l’acqua, il verde, l’arte ma anche il gioco, il dialogo, il divertimento: qualcosa che ci rispecchia, ci identifica, ci eleva; ed è anche una speciale palestra in cui alleniamo la nostra voce e sagomiamo la nostra impronta nel mondo: parlato, scritto (su carta o digitato), studiato, imparato, l’italiano apre le porte alla cittadinanza.”

Così scrivono Silverio Novelli, Tommaso Marani e Roberto Tartaglione nella presentazione di Italiano bene comune. Grammatica per la cittadinanza linguistica.

A questo link, dal minuto 50.20, l’intervento di Silverio Novelli, ospite di Paolo Di Paolo a La lingua batte, su Rai Radio 3.