Un nuovo appuntamento per “Mystery train”

Un nuovo appuntamento (anzi due!) per una lezione di storia in musica e un viaggio nell’immaginario americano, insieme ad Alessandro Portelli, Gabriele Amalfitano, Margherita Laterza e Matteo Portelli.

Questa volta il nostro Mystery train fa tappa a Roma, al Teatro Vascello, sabato 23 ottobre alle 21.00 e domenica 24 alle 17.00.

Per prenotazioni e informazioni:

promozioneteatrovascello@gmail.com | 06 5881021 – 06 5898031 | www.teatrovascello.it

 

Cos’ha significato il treno per un paese come l’America? La modernità è penetrata in un mondo rurale attraverso i binari, cambiando per sempre il paesaggio naturale come quello antropologico. Da oggettivazione del moderno e dell’accelerazione che lo contraddistingueva, la ferrovia è oggi diventata rottame, residuo, reperto di un mondo scomparso. Mystery Train. Un viaggio nell’immaginario americano ripercorre il rapporto dell’America con il treno, tra racconti, poesie e canzoni.

Un’attrice, Margherita Laterza, due musicisti, Matteo Portelli e Gabriele Amalfitano, e un americanista, Alessandro Portelli, mettono in scena questa originale e particolarissima Lezione di Storia, convocando, tra gli altri, Hawthorne e Dickinson, Woody Guthrie e Bruce Springsteen, Elvis Presley e Johnny Cash.

Qui un trailer:

 

Lo spettacolo, prodotto dagli Editori Laterza in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, è ora un podcast in quattro puntate.

Ascoltalo qui:

1. Un suono aspro oltre ogni asprezza. La ferrovia come irruzione della modernità nel paesaggio bucolico dell’America di metà Ottocento (da Hawthorne a Dickinson, da Shenandoah a Mystery Train).

2. Il prezzo del progresso. La ferrovia come simbolo della rivoluzione industriale e della crescita economica, i treni merci, i vagabondi sugli assali (da Elizabeth Cotten agli Industrial Workers of the World).

3. Note di libertà e lontananza. La ferrovia come luogo di duro lavoro e di protesta, dalle rivolte del ‘77 a Chicago, alla leggenda di John Henry, minatore nero che sfidò la scavatrice fino alla morte (da Carson Robison a Utah Phillips).

4. Il treno non ferma più qui. La fine della ferrovia in America, l’arrivo dei pullman e delle automobili, le grandi compagnie autostradali smantellano le miglia di binari costruiti, il viaggio diventa individuale e ai treni si guarda con nostalgia (da Woody Guthrie, a Johnny Cash fino a Stolen Car di Bruce Springsteen).

La mitologia dei muratori

Intorno alla Massoneria aleggia da sempre un’aura di mistero e di sospetto. Ma chi sono i massoni? Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? I massoni hanno veramente architettato, tra l’altro, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa e le trame oscure della nostra storia repubblicana? Ne I liberi muratori, John Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.

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G sta per…

I simboli principali usati dai massoni nei loro rituali – i grembiuli e le colonne, le squadre e le cazzuole – derivano dalla professione del muratore. I massoni credono che queste cose, oltre ad avere un significato morale, raccontino la storia di una confraternita che affonda le sue origini nella vita degli artigiani medievali. La storia presentata in innumerevoli guide alla Massoneria è che sarebbe nata dalle corporazioni dei muratori medievali. Il termine craft, usato spesso come sinonimo di Massoneria in inglese, significa appunto «corporazione», «gilda». I massoni trovano affascinante l’idea di essere i diretti discendenti dei muratori medievali, perché li collega ai costruttori delle grandi cattedrali, come quella di Salisbury, di Lincoln e di York: è una cosa che fa molto Merry England. Quando però si è trattato di dimostrare concretamente in che modo le corporazioni medievali si fossero evolute nelle logge massoniche, gli storici massoni si sono trovati di fronte a difficoltà insormontabili, perché la realtà è che i muratori medievali non erano particolarmente bravi a costituire corporazioni. Nell’Inghilterra del XIV e XV secolo quasi ogni mestiere rispettabile, in ogni città, aveva una sua gilda: i macellai avevano una gilda, i fornai avevano una gilda, i candelai avevano una gilda. Qualunque mestiere dei tempi andati, anche il più singolare, aveva una sua corporazione consolidata: ciabattini e maniscalchi, bottai e conciatori… Ogni mestiere, insomma, tranne i muratori.

Il motivo è che non c’era abbastanza lavoro. La maggior parte degli edifici, nell’Inghilterra medievale, non era costruita in pietra, ma con un ignobile miscuglio di ramoscelli, paglia, argilla e sterco. La domanda dei servizi che avevano da offrire i muratori non era neanche lontanamente paragonabile a quella dei falegnami e dei fabbricanti di tetti di paglia. Il risultato è che nella maggior parte delle città non c’erano abbastanza muratori neanche per organizzare una partita a dadi come si deve, figuriamoci una gilda. Quando erano organizzati in una gilda, di solito era in comune con altri lavoratori dell’edilizia, in particolare i carpentieri.

I muratori conducevano una vita girovaga, trascinati di qua e di là dal loro lavoro: si riunivano solo in quei luoghi e momenti rari in cui c’era un ponte di pietra o una casa in pietra da costruire. In molti casi, la linea di demarcazione fra un muratore e un normale manovale non era così netta. Quando bisognava costruire qualcosa di grosso – un castello, un’abbazia, una cattedrale – i muratori venivano reclutati in gran numero anche in posti lontani. Spesso e volentieri non potevano rifiutarsi, perché venivano assunti d’imperio (empressment, era chiamato). Erano ai comandi di un mastro muratore (master mason), assunto dal re o dal vescovo. Anche questa élite di mastri muratori girava di città in città, ma individualmente avevano un grande potere, cosa che rendeva impossibile, per una gilda convenzionale, rappresentare sia loro che la massa della forza lavoro.

Il fatto incontrovertibile è che fra i tanti artigiani del Medioevo inglese, l’ipotesi che i muratori potessero aver creato una corporazione capace di sopravvivere nei secoli e trasformarsi in una confraternita come la Massoneria è la meno probabile in assoluto. Per generazioni, gli storici massoni hanno tentato senza successo di dimostrare l’esistenza di un collegamento fra quelli che chiamano muratori operativi, uomini con scalpelli e piombini, muscoli e calli, e gli odierni liberi muratori speculativi, uomini i cui strumenti hanno un significato filosofico, più che un uso pratico.

Se non sono le corporazioni medievali l’anello di congiunzione fra muratori operativi e liberi muratori speculativi, qual è? Qualche minuscolo passo avanti possiamo farlo andando a guardare non la realtà della vita lavorativa dei muratori medievali, ma il loro folclore, di cui la Massoneria successivamente ha integrato alcuni elementi.

La vita collettiva di tutti i mestieri medievali era ricca di normative, rituali e miti. C’erano riti di passaggio a cui bisognava sottoporsi. C’erano giuramenti solenni e spaventosi, finalizzati a proteggere i segreti del mestiere e rafforzare la solidarietà. C’erano leggi e parole d’ordine da memorizzare, che avevano lo scopo, fra le altre cose, di stanare gli impostori che si presentavano ai cancelli della città cercando lavoro. C’erano banchetti celebrativi nei giorni di festa. C’erano anche favole: i calzolai, che fabbricavano calzature di lusso, credevano che le ossa di Sant’Ugo, il loro santo patrono, dopo il suo martirio fossero state trasformate in utensili per la fabbricazione delle scarpe.

I muratori, in tutta la Gran Bretagna, compensavano la debolezza della loro organizzazione corporativa con una riserva particolarmente ricca di regole, simboli e miti. Conosciuto con il nome di «Antichi doveri» (Old Charges), questo folclore dell’arte muratoria veniva memorizzato e trasmesso di bocca in bocca. Essendo la memoria umana fallace, il contenuto variava notevolmente, con frammenti aggiunti e rimossi, alterati e dimenticati. Di tanto in tanto, una versione degli Antichi doveri veniva trascritta. Il primo testo a essere sopravvissuto a questo processo aleatorio è in versi, per rendere un po’ più facile memorizzare le sue 826 righe: i massoni di tutto il mondo lo conoscono con il nome di Poema Regius. Non si sa con certezza quando e dove sia stato scritto: probabilmente nello Shropshire (una contea tra Birmingham e il Galles) e forse nel 1430.

Le regole enumerate dagli Antichi doveri sono tutte cose standard per gli artigiani medievali. Si va da raccomandazioni generiche sul galateo (non imprecare in chiesa, non soffiarsi il naso con la tovaglia) a regole specificamente finalizzate a regolamentare la vita lavorativa dei muratori, come il dovere per un mastro muratore di pagare equamente i suoi uomini e salvaguardare la qualità del lavoro. Ma il vero tratto distintivo di questi Antichi doveri, che ci mette sulle tracce di quella che sarebbe diventata la Massoneria, è la mitologia dei muratori, la storia di un’arte nata agli albori dei tempi e trasmessa attraverso le epoche da grandi muratori.

Le dramatis personae della storia sono pescate da una lotteria di fonti: sapienti della Grecia antica fianco a fianco con vecchi saggi della Genesi e del Libro dei re. In questo ricco consesso ci sono alcune personalità che contano più di altre, perché successivamente sarebbero state incorporate alle leggende della Massoneria. Una di queste è Ermete Trismegisto, un sapiente che dopo il Diluvio Universale riscoprì le regole geometriche dell’arte muratoria, che i muratori antidiluviani si erano premurati di incidere su due colonne di pietra. Euclide, il matematico greco, è il prossimo grande muratore dell’elenco, perché fu lui a insegnare agli antichi egizi tutte le nozioni sulla lavorazione della pietra, da cui le piramidi. Poi viene Salomone, che impiegò quarantamila muratori per costruire il suo Tempio, summa dell’arte e delle conoscenze edili. Il suo capomastro era di Tiro; in versioni successive degli Antichi doveri venne chiamato Hiram Abiff, lo stesso Hiram Abiff che si è poi guadagnato un ruolo da protagonista nel rituale del terzo grado massonico.

C’è grandiosità nella mitologia dei muratori: un gruppo eterogeneo di artigiani che si attribuisce un lignaggio antico e potente come quello di una dinastia reale. Erano molto pretenziosi anche sul piano intellettuale. Gli Antichi doveri associano l’arte muratoria con la scienza geometrica: per questo Euclide, il matematico della Grecia antica conosciuto come il «padre della geometria», rivestiva un ruolo importante. I muratori ritenevano che l’arte muratoria e la geometria fossero la stessa cosa: e la geometria era una scienza molto prestigiosa. Insieme alla grammatica e alla logica, alla retorica e all’aritmetica, alla musica e all’astronomia, era un elemento centrale dei programmi di insegnamento delle università medievali. Gli Antichi doveri sostenevano addirittura che la geometria/arte muratoria era la più prestigiosa di tutte le discipline del sapere umano. Ancora oggi i massoni venerano la geometria come metafora dell’ordine fondamentale dell’universo. La lettera G maiuscola, che figura spesso insieme alla squadra e al compasso nelle insegne massoniche, sta sia per geometria che per God, Dio.

Con tutto questo, siamo ancora ben lontani dallo stabilire un legame storico reale fra gli Antichi doveri e la Massoneria. (Più in là di così gli storici massoni non sono riusciti ad andare nei loro sforzi per collegare i tagliapietre dell’Inghilterra medievale con i liberi muratori odierni.)

Dopo secoli di mistificazioni (di cui i principali responsabili sono i massoni del XVIII secolo, come vedremo), un resoconto convincente sulle origini della Massoneria è venuto fuori solo in tempi recenti: la svolta decisiva arrivò con uno studio pubblicato nel 1988. Oggi abbiamo capito che le radici della Massoneria non sono medievali, ma risalgono al periodo in cui il mondo medievale andò in pezzi e nacque la modernità.

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Medioevo sarà lei!

Antico moderno odierno | con Giusto Traina, per la pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza
Insieme ai nostri ospiti, un viaggio nel tempo e nello spazio per parlare di analogie, differenze e anacronismi

Medioevo sarà lei!

Incontro con Franco Cardini

Una conversazione con Franco Cardini a proposito di Afganistan e di ṭālebān, del Feroce Saladino e della Feroce Oriana, di San Francesco e di Papa Francesco.

Simone Pieranni racconta “La Cina nuova”

Attraversiamo metropoli futuristiche e hutong, locali fumosi e campi di ginseng, antichi principi confuciani e intelligenza artificiale, neomarxismo e ipercapitalismo. Incontriamo l’ambiguo funzionario del Partito comunista, l’operosa dottoressa di Wuhan, l’eterea vlogger della Cina rurale, l’astro della letteratura fantascientifica, la giovanissima attivista per l’ambiente.

Addentriamoci nella Cina nuova, quella che scopriamo appena smettiamo di leggerne soltanto la superficie, insieme a Simone Pieranni.

 

 

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Giovanni Bietti: un viaggio in musica tra le storie di Giuseppe Verdi

Le melodie di Verdi sono memorabili ondate di emozioni.

Dall’aria di Violetta nel primo atto della Traviata fino a ‘Tacea la notte placida’ nel Trovatore, il compositore, pianista e musicologo Giovanni Bietti, suona e racconta alcuni dei fraseggi che hanno fatto e continuano a far sognare milioni di appassionati.

Per approfondire, non resta che leggere Ascoltare Verdi, il nuovo libro di Giovanni Bietti.

 

 

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Lo storico Emilio Gentile scrive al direttore del Foglio

14 ottobre 2021

Gentile Direttore,

La ringrazio per aver pubblicato la mia lettera di smentita alla falsa intervista.

Con la replica, il Suo giornalista ha confermato la sua scorrettezza, aggiungendo la menzogna di “intesa e complicità”.

Ciò conferma, dopo la pubblicazione abusiva di una conversazione privata, la sua assoluta mancanza di dignità professionale.

Inoltre, il giornalista si spaccia quale “accanito consumatore” dei miei libri, ma il suo comportamento e il modo in cui ha manipolato la mia conversazione, dimostra che dai miei libri non ha tratto alcun esempio di serietà, di rigore e di onestà intellettuale. E non ne ha capito neppure l’indice.

Emilio Gentile

 

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Pubblichiamo la lettera dello storico Emilio Gentile inviata oggi al direttore del Foglio per smentire le dichiarazioni a lui attribuite.

 

13 ottobre 2021

Egregio Direttore,

sul Foglio di oggi è pubblicato in prima pagina un articolo a firma di Carmelo Caruso, che appare come una intervista “chiacchierata” fatta a me.

In verità, alla richiesta di una intervista da parte del giornalista Caruso ho risposto di no, e gli ho esplicitamente negato di pubblicare alcunché della conversazione che abbiamo avuto in forma esclusivamente personale e privata. Trasformando la conversazione in una intervista o in una “chiacchierata” senza la mia autorizzazione, il giornalista Caruso non solo ha commesso un atto scorretto nei miei confronti, ma ha riportato in modo distorto o mutilato il contenuto delle mie frasi, attribuendomi inoltre frasi che non ho pronunciato, come “non chiamateli fascisti, chiamateli selvaggi”, né ho chiamato “selvaggi” coloro che hanno manifestato per sostenere il “no vax”. Infine, non corrisponde al vero che alla domanda “Possiamo virgolettare”, io abbia risposto “Certo”. Non c’è stata la risposta, perché non c’è stata la domanda. Più volte nel corso della conversazione ho ricordato al giornalista che nulla della nostra conversazione doveva essere pubblicato.

Le chiedo pertanto cortesemente, Egregio Direttore, di pubblicare questa mia lettera.

Cordiali saluti,

Emilio Gentile

La “vera vita” secondo François Jullien

Daniele Baron | Filosofia e nuovi sentieri | 8 settembre 2021

«Un mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra rispetto a quella che stiamo vivendo. Dubbio tanto insidioso quanto vertiginoso, forse il più antico del mondo, sorto con il mondo stesso: la vita che viviamo potrebbe non essere davvero la vita. Potremmo non avere nemmeno cominciato a esplorarla. Potremmo non avere neppure iniziato a vivere veramente».

La vita può essere oggetto di riflessione? Può essere un argomento per il pensiero oppure è posta su un piano differente, nell’immediatezza, e il pensiero per essere tale deve per forza astrarre dalla vita?

Ha ragione chi dice: primum vivere, deinde philosophari?

Per il filosofo e sinologo François Jullien la ricerca di quella che definisce la “vera vita” è essenziale e urgente per ogni individuo, ma deve essere intrapresa attraverso gli strumenti propri della filosofia, sgombrando il campo da tutta quella pseudo-filosofia che al giorno d’oggi è tanto in voga.

Infatti, molti tematizzano la vita senza sforzarsi di darne una definizione, come se fosse ovvio ciò a cui si riferiscono o come se non fossero in grado di farlo; il che rende i loro discorsi sulla vita delle nebulose, forse emozionanti e poetiche, ma di certo non significative da un punto di vista concettuale. Oppure c’è di fa di questo tipo di pensiero un mercato, come testimoniato dalla pletora di libri di successo che affollano gli scaffali delle librerie, farciti di frasi di buon senso spacciate per filosofia, libri di “auto aiuto” che commercializzano il tema della vita con una trattazione superficiale per una ricerca della felicità.

La riflessione sulla vita è un tema urgente e universale e il pregio del libro di Jullien è proprio quello di costruire un percorso profondo e originale da un punto di vista teoretico, ricollegando la tradizione occidentale con quella orientale.

Jullien parte da una constatazione molto semplice, come si è visto nella prima citazione: a ciascuno di noi capita un giorno o l’altro il dubbio di non vivere veramente o per meglio dire di condurre quella che non è la vera vita. Il dubbio è tremendo, è come un terremoto, perché mette in discussione tutto, fa crollare ogni certezza, è più comodo e tranquillizzante obliterarlo.

Da qui origina l’atteggiamento filosofico, dalla tematizzazione del dubbio che in ognuno sorge sulla vera vita. Ciò è molto difficile perché «il paradosso fondamentale della vita, infatti, è che essa non coincide originariamente con se stessa. Se “la vera vita è assente” come ha detto Rimbaud con una formulazione divenuta decisiva, ciò non dipende da qualche incidente o malessere personale […] ma dalla capitale contraddizione che affligge la vita stessa» (p. 7).

Se l’essenza della vita è la mancanza di coincidenza con sé, con il passare del tempo ogni persona avverte uno scarto tra la vita ordinaria, vincolata alla ricerca della soddisfazione, e un’altra vita possibile, che sembra far scivolare nell’illusione la prima.

«Quello di cui ci si rende conto è che la vita che si conduceva prima e che si reputava essere davvero la vita non era forse altro che una vita apparente, fittizia o falsa: forse era solo una pseudo-vita in cui ci si teneva al sicuro – al riparo – rispetto a ciò che la vita è effettivamente» (p. 23).

La vera vita per molti pensatori, tuttavia, sembra essere assente da questo mondo, ma raggiungibile Altrove; questa posizione metafisica, inaugurata da Platone ma ripresa pur con sfumature differente in tutta la storia del nostro pensiero, non è condivisa da Jullien.

«La vera vita infatti non è la vita che sogna di essere perfetta, la vita pienamente appagata, conforme all’idealità, la “vera vita” del platonismo, che si richiama alla salvezza di Lassù, che trova la verità nell’Essere o in Dio» (p. 41). Allo stesso tempo, Jullien mostra come non si debba cadere nell’estremo opposto, nel vitalismo, in cui la vita diviene valore di per sé nella sua autoaffermazione, come in Nietzsche. Infatti, se «la vera vita non è la scoperta di un’altra vita che la metafisica proietta nell’al di là, non è neppure un altro modo di vivere come quello predicato da Zarathustra» (Ivi).

Per Jullien occorre riuscire a elaborare quella che chiama una metafisica minima: un pensiero che non si lasci all’esperienza dell’empirico, che oltrepassi la chiusura del mondo e dell’esperienza senza però fare appello a un altro mondo o a un’altra esperienza. Un pensiero che è una critica alla nostra idea di sapienza, che ha prodotto uno scarto tra conoscere ed esistere, tra vita e verità. Solo in questo modo si può operare un ricongiungimento tra verità e vita e arrivare a riflettere in modo esatto sulla vera vita.

Il concetto di vera vita si tiene lontano da tutte le enunciazioni positive sulla vita, proprio perché la vita non può essere definita senza incorrere in equivoci e in dispute senza fine.

Un capitolo molto denso e interessante dal titolo significativo Vite Perdute (cfr. pp. 79-109) dell’opera di Jullien è dedicato all’analisi della non-vita che sembra caratterizzare molte delle esistenze della nostra società contemporanea. Un’analisi approfondita della non-vita, infatti, è in grado di farci capire come intraprendere il cammino verso la vera vita. Una vita perduta, la non-vita, è la vita rassegnata: quando ci si rassegna si è passivi, non si è più aperti all’inaudito che porta con sé la vera vita, si perde la speranza. In un mondo dominato dal mercato, dove tutto è tecnicizzato, la vita si reifica, vale a dire diventa cosa tra le cose, «la mia vita si è persa in quanto si è alienata: è divenuta estranea a se stessa a causa del formidabile sfruttamento, della dominazione, delle influenze o dei condizionamenti che essa subisce» (p. 80).

L’alienazione imposta dalla società, dai condizionamenti esterni della società capitalistica, per Jullien corrisponde agli atteggiamenti esistenziali della rassegnazione e dello sprofondamento.

Come ci si può ribellare a questo stato di cose che ha prodotto la non-vita? Ciò che è certo per Jullien è che questa situazione ci permette di intravedere cosa può essere la vera vita: la negazione della vita reificata.

«Ecco che allora, per via negativa, la non rassegnazione ci sollecita a ribellarci contro l’accettazione, compiuta con troppa facilità […]; il disoccultamento ci sollecita a de-concidere con il già-là instaurato dalla vita ripiegata nell’adeguazione e condotta all’inverzia; la disalienazione ci sollecita a ribellarci contro il fatto che la vita si sia lasciata espropriare da se stessa […]; la dereificazione, infine, ci sollecita a rifiutare che la vita subisca l’appiattimento allo stato di cosa» (p. 102).

La ribellione alla non-vita a cui si è ridotta la nostra vita avviene sempre per uno stimolo esterno: «la vita può rimettersi in movimento, riacquistare il suo slancio […] solo grazie ad un incitamento proveniente dall’esterno» (p. 103), che ci fa capire che la vita potrebbe essere tutt’altra cosa.

I capitoli conclusivi sono dedicati a indicare al lettore quale potrebbe essere la vera vita, con la precisazione che la vita non è oggetto insegnamento o apprendimento, non si può “imparare a vivere”, non ci si può preparare a vivere, perché nel vivere si è già sempre implicati, si può solo in senso profondo tentare di vivere. La vera vita non ha un’essenza, si può quindi solo definire negativamente, come resistenza alla non-vita, alla pseudo-vita in cui la vita cede alla rassegnazione, sprofonda, si aliena o si reifica. Tentare di vivere vuol dire in primo luogo quindi resistere alla non-vita che s’infiltra.

«La definizione migliore, la più esplicita e la più densa, di ciò che significa vivere, nella sua contraddittorietà, potrà forse essere questa. Da una parte, vivere è l’immediatezza, anzi la sola immediatezza possibile. Dall’altra, il vivere va cercato, conquistato, tentato – bisogna “tentare di vivere”. È dunque necessaria una mediazione incessante e prima di tutto da parte del pensiero che deve spingerci a non cadere nella rassegnazione, a disseppellire, disallineare e dereificare la vita. Questa interminabile mediazione è necessaria per avere accesso all’immediatezza del vivere: la mediazione del no detto alla non-vita per potersi elevare alla vita che vive» (p. 141).

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#CasaLaterza: Valentina Furlanetto dialoga con Marco Balzano

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Soprattutto sul lavoro dei para-schiavi, uomini e donne senza diritti che mandano avanti gran parte della nostra economia. Noi Schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, di Valentina Furlanetto, è un libro inchiesta durissimo, che farà molto discutere.

Ne abbiamo parlato per Casa Laterza, insieme all’autrice e allo scrittore Marco Balzano, con la moderazione della nostra editor Lia di Trapani.

 

 

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Per sconfiggere la Rivoluzione napoletana i Borbonici mangiavano il nemico

Quando l’esercito di Ferdinando IV entrò a Napoli nel 1799 le violenze culminarono in episodi di antropofagia. Dal tardo Medioevo al secolo d’oro olandese un saggio ripercorre decine di impressionanti massacri

Gianfranco Marrone | TuttoLibri | 11 settembre 2021

«Il bravo storico somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».

Questa singolare analogia, che Marc Bloch lasciava cadere quasi per caso nella sua Apologia della storia, fa da epigrafe a un libro storiografico a sua volta singolare: per la materia che tratta, per come lo fa, per gli esiti cui conduce. Lo ha scritto Luca Addante, e per farlo ha avuto un coraggio, o se si vuole un fegato, non comuni. Per quale ragione? Sostanzialmente perché ciò che per Bloch era un azzardato termine di paragone in questo libro diviene serissimo oggetto di indagine. Di modo che lo storico non è più come l’orco che fiuta carne umana poiché diviene esso stesso qualcuno che, semmai, va alla ricerca di orchi: e non nell’immaginario fiabesco bensì nel concretissimo passato dell’Europa moderna. Là dove, a dispetto dei tabù e delle reticenze che l’hanno da sempre ammantata, l’antropofagia veniva praticata con una certa regolarità in paesi ed epoche anche molti lontani fra loro.

A lungo si è creduto che il cannibalismo fosse prerogativa dei popoli considerati selvaggi, di quegli «altri» che, anche per questo, occorreva «civilizzare», colonizzare, permeandoli dei nostri illuministici valori europei, di quelle magnifiche sorti e progressive che l’Occidente ha spesso usato come giustificazione dell’imperialismo. Essere selvaggio significava mangiare altri uomini, e praticare il cannibalismo significava essere selvaggio (ricordate il Venerdì di Defoe?). Niente di più facile da comprendere: niente di più fallace da sostenere. Non solo difatti esistono nel mondo molteplici forme di antropofagia (alimentare, politica, magica, rituale, terapeutica…) che, pur mescolandosi fra loro, mantengono comunque significati e funzioni differenti; inoltre, spiega Addante con estrema cautela filologica e inappuntabili prove, tutto ciò non è stato affatto una prerogativa esclusiva dei popoli «selvaggi», quelli studiati dagli antropologi (occidentali), ma anche della nostra civilissima Europa.

Per riprendere un noto titolo di Claude Lévi-Strauss, siamo tutti cannibali. Prendiamone atto, facciamocene una ragione, cercando magari di capire dove, come, quando e perché tutto questo ha avuto luogo. Oggetto specifico dello studio di Addante è la Repubblica napoletana del 1799, durante la quale, com’è poco noto, lo scontro fra le forze giacobine, sostenute dall’esercito napoleonico, e quelle controrivoluzionarie, a difesa del re Ferdinando IV di Borbone (il famigerato Re Lazzarone), fu particolarmente cruento, violento fino all’inverosimile, dove l’inverosimiglianza sta soprattutto, appunto, nei numerosi casi di cannibalismo che vi furono praticati. Napoli non era stata ancora conquistata dai Francesi e già le forze controrivoluzionarie s’erano organizzate. Da Palermo, dove s’era rifugiato già dall’anno precedente, Ferdinando ordina al cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello di metter su un esercito per riprendere la capitale; Ruffo risale la Calabria e la Puglia alla volta di Napoli; la sua armata, nel tragitto, si ingrossa sempre di più di irregolari inferociti ai quali, in mancanza di meglio, viene promesso il libero saccheggio dei territori attraversati. L’esercito sanfedista, così battezzato dai suoi avversari, dilaga rapidamente. Ma la situazione sfugge di mano al cardinale, che non riesce a trattenere le brutali violenze, gli stupri continui, le distruzioni generalizzate, i maldestri furti dei suoi uomini. I quali, entrati a Napoli, fanno comunella coi cosiddetti lazzari, popolani sempre pronti a schierarsi in difesa dei loro secolari dominatori, e fanno man bassa di uomini e cose, senza sottilizzare fra giacobini, amici dei giacobini, presunti giacobini, semplici passanti, gente comune, tutti insieme indiscriminatamente colpevoli d’aver rovesciato l’amatissimo Re – lazzarone, si capisce, proprio per questo.

La Repubblica, proclamata il 21 gennaio del ‘99, cade così il 13 giugno dello stesso anno. Pochissimi mesi, cui precedono e seguono lunghi momenti di totale anarchia, dove la mancanza di qualsivoglia autorità, da un lato come dall’altro, lascia il popolo a briglia sciolta. Quel che colpisce è che non ci si limita a uccidere alla rinfusa migliaia e migliaia di persone, ma ci si accanisce sui loro corpi, con sevizie d’ogni sorta che Addante, appoggiandosi su numerose testimonianze d’epoca, descrive accuratamente. In questo contesto gli episodi di antropofagia sono numerosi: corpi lacerati, i pezzi distribuiti fra la folla, che ora li getta per la strada e ora, crudi o cotti, li ingoia con ferocia. Come gli orchi delle fiabe, ma questa volta nella vita vera, la carne umana viene mangiata: non certo per fame, sostiene l’autore, ma per puro spirito di vendetta. Una vendetta per certi versi politica, ritualizzata come un terribile mondo alla rovescia che, una volta rimesso a posto, verrà maldestramente rimosso dalle coscienze europee. Comprese quelle degli storici. Ma su cui adesso occorrerà riflettere a lungo: attendiamo altri libri del genere.

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