In ricordo di Antonio Pennacchi

Questo è un vero e proprio viaggio – un viaggio a tappe – in cui uno parte e chissà che s’aspetta; poi arriva, vede, gira e si rende conto che le cose stanno in un’altra maniera. È il viaggio di Antonio Pennacchi, narratore per vocazione, storico per necessità, alla ricerca delle ‘città del Duce’.

Un estratto dal suo libro, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce.

 

Borgo Riena

Totò Militello – Totò è il diminutivo di Salvatore – ha 80 anni ed è l’unico abitante di Borgo Riena. È basso, raggrinzito, ma quando si muove tra le piante ed i cavalli lo fa come un puma: efficiente ed efficace. Ha lo sguardo dolce, ed è dolce in ogni sua manifestazione, sia col forestiero che con la cagna maremmana che lo segue dappertutto. È un ergastolano, nel senso che fu condannato all’ergastolo per un omicidio: «Ma ero innocente, non ero stato io» dice, e difatti in appello venne assolto. In carcere fece solo un paio d’anni, poi ci fu lo sbarco degli alleati, bombardarono le carceri di Agrigento e lui evase. Aspettò l’appello in latitanza («canziatu» dice lui, cioè scansato dagli altri, etimologia stupenda), in mezzo alle montagne. Scendeva di notte a Borgo Riena, dove la sua famiglia s’era trasferita da Prizzi per la colonizzazione: «16 salme a mezzadria avevamo», dice. Una salma in Sicilia vale 17.463 metri quadrati – quasi 28 ettari in tutto – e li coltivavano a grano, fave, orzo e foraggio. Accudivano 20 bovini e 100 pecore – le pecore andavano a pascolo anche altrove – e parte del bestiame era di loro proprietà. Aveva vent’anni e a Borgo Riena c’era tutto – quand’era canziatu – ma c’erano pure i carabinieri e lui ci scendeva solo di notte. Adesso è l’unico abitante, il custode testamentario quasi.

Anzi, esattamente non è nemmeno abitante: la sua casupola, col recinto delle pecore e delle galline, è oltre il perimetro del Borgo, al di là di quella che era la circonvallazione, vicino la sorgente, sul declivio che punta alla cima del colle. Dopo la riforma agraria cessò anche la loro mezzadria, ebbero quattro ettari in proprietà – lui dice che se li comprò da solo, e li tiene tutti pieni di viti e di ulivi – e per un po’ di tempo continuarono ad abitare nel Borgo, finché un giorno la Regione Sicilia cacciò tutti quanti, mise il filo spinato e Borgo Riena divenne «vacante» come dice lui, abbandonato. E lui di nuovo canziatu più di prima: l’ultima sentinella al sacrario che muore.

La casa vecchia è in basso – l’indica con la mano, «la mè casa», con affetto, come se fosse davvero ancora casa sua – e mostra anche lei, come la chiesa, le crepe sui muri, gli squarci tra le tegole, le persiane sfasciate. Totò Militello ha 80 anni ed è l’unico abitante di Borgo Riena che invece ne ha solo 60. Non sta scritta da nessuna parte Borgo Riena, ma è una «città nuova», città di fondazione, anche se adesso è abbandonata. C’è la chiesa, con tanto di abside, rosone e campanile distaccato. C’è la piazza con gli assi sfalsati. Attorno alla piazza i caseggiati a due piani, con i portici sotto. La scuola, le Poste, la caserma dei carabinieri, quella che sembra la Casa del fascio, il dopolavoro, la locanda, il bar, le case e le botteghe per gli artigiani. C’è pure il belvedere, coi muri di pietra a faccia vista, il parapetto e le panchine. Pare proprio il plastico di Pomezia. O le foto di Aprilia nel ’38. E tutti i muri – di tutte le case, dal campanile alla caserma – tutti intonacati rossogiallastro, o giallo-rossastro che sia: rosso-fascio per capirci. Ma è tutto pieno di crepe – è l’abbandono – alcune grosse come un braccio. E i tetti crollati. Sotto i portici, dentro la chiesa e nelle botteghe, solo i cavalli. Abbandonata. Dalla sera alla mattina. Alla fine degli anni Cinquanta. Per arrivarci abbiamo spaccato la marmitta: la strada è un tratturo che si inerpica sulla montagna – all’inizio c’era scritto «Divieto di accesso. Strada interrotta per frane» – a 700 metri d’altezza, tra Lercara e Prizzi, all’estremo sud della provincia di Palermo. Nella cosiddetta «Sicilia interna», quella più oscura e misteriosa.

Di Borgo Riena non si parla in nessun libro, non c’è una citazione in alcun posto e nemmeno proprio sapevamo – solo fino al giorno prima – lontanamente che esistesse: «Provate a guardare per di là, oltre Filaga; lì dovrebbe esserci altra roba del fascio», ci avevano detto il giorno prima dei cacciatori in un bar a Gibellina Nuova, a una settantina di chilometri da qui. E quando finalmente m’appare dopo una curva stretta – alta, sul pendio, una sola macchia rossa inframezzata dagli eucalypti, col campanile che svetta, bucato da quei finestroni ad arco che richiamano il Petrucci di Segezia – veramente mi sento Schliemann che scopre Troia. È un gioiello. (Dice: «Vabbe’, ma può essere che tu trovi gioielli dappertutto?». Ho capito, ma mica è colpa mia se li hanno fatti. Stanno là, vatteli a vedere. Solo lo sfalsamento degli assi – a Borgo Riena – vale il biglietto. Quello della strada principale – il cardo su cui s’allarga la piazza – è millimetrico, nemmeno te ne accorgi in pianta, un paio di metri al massimo; ma sul posto lo noti come un autotreno dal diverso allineamento tra i fabbricati. Quello che invece sul posto non avevo razionalizzato – e che m’ha colpito come un fulmine a casa, solo dopo avere disegnato la pianta – è lo sfalsamento eclatante degli assi della piazza. Piazza che Marco Romano definirebbe forse, sic et simpliciter, un sistema a «due piazze» ma non è vero, è una piazza sola – anche se articolata – in cui lo spazio religioso è scandito da quello laico non solo dalla strada originante Nord-Sud, ma anche e soprattutto dallo sfalsamento dei rispettivi assi trasversali Est-Ovest e, per finire, dalla quota altimetrica. Tu dallo spazio laico, difatti, per accedere a quello religioso devi salire degli scalini e poi, se vuoi, ti ci affacci pure dalla ringhiera. Mi pare un prodotto d’altissima raffinatezza, che rende in un certo senso anche conto della sorta di intuizione lirica – se non proprio sindrome di Stendhal – in cui cademmo a Borgo Riena mia moglie ed io. Chissà chi era il progettista, ma certo è uno che deve avere fatto delle belle cose anche dopo. Giurerei che non si tratti di un architetto. Deve essere un ingegnere. È troppo pulito il lavoro. Un architetto avrebbe strafatto.) E adesso è tutto diruto.

Borgo Riena è una città di fondazione del 1941-43. L’hanno fatta mentre a un tiro di schioppo già Tobruk cadeva. «E l’hanno fatta», dice Totò Militello fornendo anche il principale specimen della datazione, «quando Mussolini obbligava i proprietari a fare le case coloniche, sennò ci levava il terreno e lo dava ai poveri». E a loro diedero appunto quelle «16 salme». Ne abbiamo trovate 25 così in Sicilia – ma ce ne sono sicuramente anche altre – per lo più abbandonate. Facevano parte dell’«assalto al latifondo siciliano» decretato dal Duce nel 1939: 500 mila ettari di terra. I latifondisti vennero obbligati per legge a frazionare e dividere, mettere a coltura e appoderare le loro sterminate proprietà. Ogni 25 ettari al massimo, deve esserci una casa colonica, un podere, un contadino con la sua famiglia di almeno 7-8 persone, dotazione di bestiame bovino-equino e tutto quello che serve. Chi non obbedisce viene espropriato. Tempo massimo di attuazione dieci anni in cui – a partire dal 1940 – dovranno essere categoricamente costruite più di ventimila case coloniche e un centinaio circa di centri rurali, alcuni da elevare a Comune. Poi hanno perso la guerra e non se n’è fatto più niente. Anzi, quel poco che avevano davvero realizzato loro, lo mandiamo a puttane noi con la cosiddetta riforma agraria. Ma nel solo primo anno di attuazione – 1940 – costruiscono 8 borghi e 2507 case coloniche. Mettici una pezza. E poi vanno avanti pure dopo. La guerra difatti divampava, ma questi continuavano imperterriti a costruire e appoderare come se niente fosse. Borgo Riena viene costruito tra il ’41 e il ’43 come Borgo Manganaro, Borgo Tumarrano già Callea, Borgo Borzellino e gli altri, e tutto questo – 2507 poderi nel solo 1940 – risale a «quando Mussolini obbligava i proprietari a fare le case coloniche, sennò ci levava il terreno e lo dava ai poveri». Robin Hood. Gesucristo.

Dice: «Vabbe’, ma tu mo’ vuoi prendere per oro colato tutto quello che t’ha detto Totò Militello?». No certo, ci mancherebbe altro. Come per ogni altra fonte orale, io non è che posso mettere la mano sul fuoco su tutto quello che dice lui, io – di regola – non ce la metto neanche sulle fonti scritte. La sua è una semplificazione popolare e – al limite – la stessa datazione di Borgo Riena potrebbe rivelarsi, a successivi studi, errata e più tarda. Ma ciò non toglie che – con tutto questo – non è esattamente così che dovrebbe comportarsi una dittatura borghese. Tu sei proprio sicuro che le dittature della borghesia – reazionarie e di destra – siano mai state solite donare le terre ai poveri? […]

Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce

 

 

[La fotografia di Antonio Pennacchi è stata scattata da Marco Tambara]

Un’estate insieme

Storie di viaggi in treno, in camper, a piedi. Storie di tesori e di scorie nucleari, storie d’amore e di non-amore, storie di ghiacciai e di città roventi. Storie che sono Storia, ma anche racconti del presente e visioni di futuro.

Le nostre proposte di lettura.

 

Gomme e rotaie

 

Camminare, a volte correre

 

Passaggi segreti e inattesi

 

Ghiacci e vette

 

Tutta mia la città

 

Attualità: dove si va da qui

 

La pianta del mondo

 

Lessico femminile

 

I luoghi comuni non vanno in vacanza

 

D’amore e di non-amore

 

Viaggiare nel tempo

L’otium rivelatore dei Romani

“Le smanie per la villeggiatura”, la nuova rubrica estiva della pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza, prosegue con un contributo di Massimiliano Papini.

Domenica dopo domenica, la rubrica accompagnerà i lettori alla scoperta del significato delle ‘vacanze’ e dei viaggi in diverse epoche e contesti storici, dall’antica Roma alla Germania della DDR, dai Greci dell’Odissea al Medioevo, fino all’avvento del turismo di massa, con gli scritti di Simona Colarizi, Alberto Mario Banti, Laura Pepe, Massimiliano Papini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alessandro Marzo Magno e Gianluca Falanga.

 

> Prossimo appuntamento: domenica 8 agosto,
con Maria Giuseppina Muzzarelli e Il dì di festa. Vacanze medievali, fra lussuria e penitenza.

Già online il contributo di Laura Pepe.

 

 

L’otium rivelatore dei Romani

Massimiliano Papini

 

L’otium va aggiunto all’operosità (industria) e all’impegno (studium), benché ne sembri l’opposto: attenzione, non quello che fa svanire la virtù, ma l’altro che la ristora, con il primo da evitare anche per i pigri e il secondo da desiderare talvolta dagli attivi, affinché, dopo una rapida sospensione del lavoro, più freschi possano tornare a nuovi impegni. Qualche esempio: nel II sec. a.C. i grandi amici P. Cornelio Scipione Emiliano e C. Lelio, vagando per le spiagge di Gaeta e di Laurento, raccoglievano conchiglie e testacei. Inoltre, il giureconsulto Q. Muzio Scevola, genero di Lelio e testimone di quelle pause, si dice che fosse bravissimo nel gioco della palla, perché soleva trovarvi un diversivo con il quale distendere l’animo spossato dagli impegni forensi: sembra inoltre che egli, dopo avere bene e a lungo dato norme di diritto civile e di pratiche religiose, giocasse ai dadi e agli scacchi. Come nelle cose serie egli si atteggiava da Scevola, così negli svaghi si comportava da uomo, cui la natura non permette di affaccendarsi in modo ininterrotto. Questo riporta lo storico di età tiberiana, Valerio Massimo (VIII. 8), il quale aggiunge come persino Omero avesse concesso ad Achille di rilassarsi dalla guerra con la cetra. Il poeta d’età flavia Stazio, abituato ad allietare con il canto gli otia vitae, in un’epistola all’amico avvocato Vitorio Marcello (Silvae IV. 4), lo ritrae mentre si allontana dalla calura estiva di una Roma ormai deserta di abitanti, partiti in villeggiatura (a Praeneste, Aricia, Tibur, Tusculum): maior post otia virtus, una sentenza di nuovo giustificata con l’esempio di Achille che, dopo avere cantato Briseide e deposta la cetra, si lanciò contro Ettore con maggior ardore.

Il termine otium, non chiaro etimologicamente e traducibile con difficoltà – anzi, forse è meglio non tradurlo: è reso a volte in modo inappropriato con “vacanza” – include un ampio spettro di interessi e attività svincolato dalla sola stagione estiva e ha una valenza mutabile nel tempo ma è sempre bisognoso di una legittimazione morale, così che è tutto un fiorire di specificazioni: moderatum, honestum, litteratum…Fu un concetto non solo inteso come pausa dagli affari (negotia, altro vocabolo dalle mille sfumature) ma anche distintivo di condotte alternative, distanti dai più tradizionali modelli etici. Di contro a un otium otiosum (nel coro dell’Ifigenia di Ennio, con i soldati dell’esercito acheo a disagio per l’inattività), l’otium doveva quasi negarsi per profilarsi virtuoso. Come per il condottiero P. Scipione Africano, il quale non era mai meno otiosus di quando era otiosus né meno solo di quando era solo: parole magnifiche e degne di un grand’uomo, commenta Cicerone nella sua ultima opera filosofica (De officiis III. 1-4), che dimostrano come nell’otium egli pensasse agli affari pubblici e nella solitudine parlasse con sé stesso. Certo, l’Arpinate avrebbe voluto che di lui si fosse detto altrettanto. Ma il suo otium, ammette, non è paragonabile a quello dell’Africano. Quello, per ristorarsi dalle più insigni cariche pubbliche, a volte cercava rifugio nella solitudine, come in un porto; invece, il proprio otium era dovuto alla mancanza di negotium causata dalla disgregazione dell’autorità del Senato. Proprio Cicerone (Pro Sestio 27. 66) riteneva tra le massime più nobili in assoluto quella leggibile all’inizio delle Origines di Catone il Censore: «Gli uomini illustri e grandi devono rendere conto dell’otium non meno del negotium». Bene, ma quella massima nel periodo imperiale non parve più valida: Galba, futuro imperatore fugace (per sette mesi), sotto Nerone preferì lasciarsi andare all’inerzia per non offrirgli il minimo pretesto e non compromettersi, nella convinzione che nessuno fosse obbligato a rendere conto del proprio otium.

Cicerone usa spesso il vocabolo: quasi nella metà delle occorrenze implica pace, nel senso del ristabilimento dell’unità della res publica negli anni turbolenti delle guerre civili; qui rientra anche lo slogan politico del cum dignitate otium, lo scopo di tutti i cittadini assennati, onesti e agiati: ma la più autentica gloria è sapere procurare otium e piaceri agli altri, non a sé stessi. Che fatica però tenere a bada la voglia di otium: perché era facile che, una volta perduta la misura, collidesse con i negotia, scivolando verso vizi quali luxuria, desidia, inertia, ignavia per entrare nei discorsi moralistici intorno al declino dei più ancestrali valori romani, come nella visione di storici come Sallustio e in Tacito. Diversamente, poteva diventare, in modo negativamente paradossale, occupatum; brontola Seneca nel De brevitate vitae (12. 2) come taluni, neanche in villa, nel loro letto o in solitudine, riescano a stare in pace. Perciò la maniera di riposarsi diventa un criterio di valutazione, con risvolti tutt’altro che “privati”. In un discorso tenuto in senato il 1 settembre del 100 d.C., Plinio il Giovane elogiò Traiano quale cacciatore e timoniere: passatempi non contaminati dall’infingardaggine di un imperatore per il quale ritemprarsi significava passare da una fatica all’altra. Viceversa, il cattivo predecessore, Domiziano, è detto incapace di sopportare l’otium del lago di Albano o il sonno e il silenzio di quello di Baia e di tollerare il movimento dei remi, dal che l’abitudine di farsi trascinare a rimorchio da un’altra nave: uno spettacolo indecente. Indi il bilancio: «proprio i piaceri consentono un retto giudizio sulla gravità, la probità e l’equilibrio di un uomo. Chi è mai talmente dissoluto da non mostrare, quando è occupato, qualche parvenza di austerità? È l’otium a rivelarci. Parecchi principi non lo trascorrevano forse nel gioco dei dadi, nella libidine, nel lusso, chiedendo sollievo dalle occupazioni impegnative alla frenesia dei vizi?» (Panegyricus 82).
Quali erano i luoghi dell’otium? Già dal II sec. a.C. intorno a Roma si formò un anello di aree con giardini: horti vicini al centro dell’Urbe, con il vantaggio di assicurare l’oblio temporaneo dei negotia. Per esempio, L. Licinio Lucullo, console del 74 a.C., eccellente uomo d’armi distintosi specie in Oriente e allontanatosi dalla vita politica dopo il 63 a.C., fu famigerato come maestro di voluttuosità e per la costruzione di lussuosi edifici, per l’allestimento di passeggiate e di bagni e per la raccolta di pitture e statue con enorme dispendio di denaro. Oltre agli sfarzosi horti sul Pincio, egli possedeva magnificenti ville, tra cui una a Tusculum con una biblioteca ricca di libri preziosi e aperta a tutti i Greci (e non solo). Stando a un aneddoto, il rivale politico Pompeo gli aveva rimproverato che quella fosse disposta in modo meraviglioso per l’estate, ma che d’inverno fosse inabitabile, donde la risposta divertita: «Ti pare che io abbia meno senno delle gru e delle cicogne, da non cambiare residenza a seconda delle stagioni?». Come uccelli migratori, nei mesi invernali egli preferiva soggiornare nelle proprietà in Campania, dove ancora nella tarda antichità restava viva la memoria degli opera Lucullana. Non era anomalo il possesso di più ville, dotate ciascuna di una propria amoenitas, care ai proprietari grazie alla diversità delle posizioni nel territorio nonché del clima e in grado di offrire così diverse intensità di otium. Le ville specie nel Lazio e in Campania, oltre a permettere lo sfoggio di ricchezza adeguato al ruolo sociale dei possessori ma senza essere luoghi soltanto di lusso improduttivo, inducevano ad atteggiamenti più disinvolti rispetto a quanto tollerato nell’Urbe. Per il proprio Tusculanum, Cicerone volle impianti dai nomi evocativi della cultura greca, come xystus (nel senso di ambulacro scoperto), Lyceum con annessa biblioteca e Academia, forse consistenti in lunghi peristili porticati con vasto giardino, adatti per lo svolgimento di conversazioni letterarie: quindi era una villa non insana ma quasi philosopha, per parafrasare le parole dell’Arpinate in una lettera del 54 a.C. a proposito di quella del fratello Quinto a Laterium presso Arpino, non priva di piacevoli abbellimenti come le statue di palliati che tra gli intercolunni parevano fare giardinaggio e vendere l’edera sparsa ovunque (Ad Quintum fratrem 3. 1. 5). Il giudizio sulla scelta di una vita rilassata dipendeva dai punti di vista. Come per il ricco ex pretore Servilio Vazia, invecchiato in una villa in una posizione molto favorevole presso Cuma in Campania per sottrarsi ai rischi della politica e noto unicamente per il suo otium: «O Vazia, solo tu sai vivere», questo il ritornello del volgo ogni volta che qualcuno pativa un rovescio causato dall’instabilità del potere. Era però scontato che uno come Seneca, avverso alle esibizioni plateali dell’otium e oltretutto indifferente ai luoghi, avesse da ridire. Secondo la credenza comune l’uomo otiosus è sereno e soddisfatto di sé, ma tali privilegi spettano al sapiens; insomma, altro che saper vivere: secondo il filosofo, la condotta appartata di Vazia, l’opposto del ritiro spirituale, equivaleva all’esistenza di una bestia che si rintana impaurita (Epistulae 55).

Il rapporto tra villa e (buon) otium è celebrato al meglio nell’epistolario del senatore Plinio il Giovane, uomo colto dall’illustre cursus honorum. A Roma i lacci delle occupazioni sono soffocanti, è raro poter ascoltare in tranquillità una pubblica lettura o perdersi tra tavolette e libri (salvo nei giorni dei giochi del circo), mentre il soggiorno in villa garantisce un otium studiosum tanto prolifico da assimilarsi a un negotium e a una fatica (labor): tante letture, traduzioni dal greco al latino e viceversa, ideali competizioni con testi celebri, studio di qualche episodio della storia, scrittura di lettere e redazione di orazioni senza dimenticare le composizioni brevi e argute, anch’esse capaci di generare ristoro. È il ritiro in campagna a fare apparire un’insulsa perdita di tempo i negotia (quali il presenziare a fidanzamenti e nozze, la controfirma di un testamento, l’assistenza in tribunale, la partecipazione a un consiglio), percepiti come necessari solo il giorno in cui si compiono; si aggiungono i negotia amicorum, i doveri dell’amicizia, altro intralcio al piacevole fare nulla. Nella sua villa al mare di Laurentum, presso l’odierna Castelfusano, Plinio può ripararsi dalle chiacchiere e stare solo con sé stesso e con i propri libri in un asilo delle Muse che funge da ispirazione. Ma occorreva vigilare affinché l’otium non divenisse esagerato: in una lettera a Bruttio Presente, il quale fu attivo sotto Domiziano (come tribuno militare) e Traiano (nel ruolo di comandante di legione), di fronte alla sua assenza prolungata dall’Urbe a favore dei possedimenti lucani e campani, Plinio lo invita a tornare ogni tanto alle seccature consuete a Roma, in modo tale che i piaceri non siano affievoliti dalla sazietà, e che la solitudine risulti meglio apprezzabile. Inoltre, se alla patria va assegnata la prima parte e quella centrale della vita, l’ultima va riservata a noi stessi, come fanno capire le leggi che restituiscono gli anziani all’otium, esentandoli dall’obbligo di frequentare le sedute del senato. Conosciamo l’organizzazione di una giornata-tipo estiva di Plinio nella villa in Toscana, ubicata ai piedi degli Appennini a diciassette miglia da Roma, preferibile ad altre a Tusculum, Tibur e Praeneste: sveglia nella prima ora di sole (tra le cinque e le sei), ancora con le finestre chiuse, quand’egli lavora con il pensiero come se stesse scrivendo, scegliendo le parole e correggendole; tra le nove e mezzo e le undici a seconda del tempo, si reca in terrazza o nel criptoportico continuando a meditare e a dettare; dopodiché monta in carrozza, lavorando alla stessa maniera di quando passeggia o sta sdraiato sul letto; dorme per un po’, poi cammina; dopo la lettura ad alta voce di un’orazione greca o latina per rinvigorire i polmoni, ecco un’altra passeggiata, un massaggio, un po’ di ginnastica e un bagno; durante la cena, se da solo con sua moglie o pochi convitati, egli legge un libro, e dopo è tempo di ascoltare un attore o un suonatore di lira; la giornata si conclude con un’ennesima passeggiata in compagnia dei propri dipendenti, tra cui diversi forniti di buona cultura, per discorrere degli argomenti più disparati. Eventuali modifiche alla routine: quando riceve amici in visita o gli capita di andare a caccia, un’attività che fa bene tanto al corpo quanto al pensiero, stimolato dal movimento del corpo e dai boschi; perciò non dimentica mai di portarsi dietro le tavolette, per mettersi a scrivere persino in quelle occasioni. Nella villa di Laurentum in inverno il programma resta affine, salvo la rinuncia al pisolino pomeridiano, le notti più occupate e l’eventuale soppressione dopo la cena dell’attore o del suonatore di lira per rivedere le arringhe, giacché in quel periodo sono più frequenti le cause. Resoconti affini si conoscono per la quotidianità di alcuni imperatori, con giornate oberate dagli impegni di governo benché intervallate da momenti di maggiore calma. Ma anch’essi vagheggiavano un riposo meno effimero. A proposito di Augusto, Seneca (De brevitate vitae 4. 2-5), a riprova di come ogni discorso del principe cadesse sulla speranza dell’otium e del poter vivere per sé, dichiara di avere trovato le seguenti parole in un’epistola (del 27 a.C.?) da lui indirizzata al senato. Egli, dopo avere promesso che la sua requies sarebbe stata decorosa e all’altezza della precedente gloria, dice: «Queste cose sarebbe più bello realizzarle che prometterle. Tuttavia, poiché la gioia della realtà si fa attendere, il desiderio di quel tempo così sospirato mi ha ridotto a pregustare un po’ di piacere parlandone». Sì gran cosa gli parve l’otium, chiosa Seneca, che, non potendo goderne, lo anticipava con il pensiero, sufficiente ad alleviargli le fatiche. Era felice, Augusto, pensando al giorno in cui avrebbe deposto la sua grandezza; ma l’abbandono degli oneri connessi al potere (guerre interne ed esterne, congiure) restò l’unico sogno per un uomo in grado di appagare tutti i desideri. Altri furono instancabili lavoratori, come Marco Aurelio, convertitosi in maturità a un modus vivendi asceticamente filosofico: colui che nei Pensieri afferma che il riposo è necessario, ma la natura ci ha posto un limite, come al mangiare e al bere; quando si è davvero appassionati e si ama il proprio mestiere, si preferisce né mangiare né dormire; è sempre lui ad ammettere di desiderare posti solitari in cui ritirarsi, in campagna, sulle rive del mare, sui monti, sebbene il rifugio più sereno per un uomo sia nella propria anima. In una sofisticata lettera del 162 d.C., il retore M. Aurelio Frontone si rivolge al suo discepolo ormai diventato imperatore, certo che egli nelle ferie nella località marina di Alsium (poco distante dall’odierna Ladispoli) riserverà quattro giorni pieni di divertimento, scherzo e otium. Se lo figura disteso al sole, in un angolo esposto a mezzogiorno e nell’atto dapprima, per assecondare il sonno, di ordinare che gli siano portati dentro i libri e più tardi, quando avrà voglia di leggere, di raffinarsi con lo studio di quattro scrittori come Plauto, Accio, Lucrezio, Ennio; a quel punto magari andrà in spiaggia per salire a bordo di un battello al fine di godere nel guardare e udire rematori e capiciurma; subito dopo andrà ai bagni, inducendo il corpo a una forte sudorazione per dare in seguito inizio al convito con frutti di mare di ogni genere, volatili, manicaretti, frutti e vini a volontà. Ma Frontone è ironico e sa bene che Marco Aurelio in quel luogo intende non dare piacere al suo animo ma continuare a tormentarsi con veglie e lavoro, patendo fame e sete. Eppure, anche il mare va in vacanza nei giorni di bonaccia; e poi quale arco è teso di continuo? Quali corde sono sempre tirate? Ancora, con l’otium non si procura fertilità al suolo? Altri exempla servono a demistificare un’immagine troppo augusta del potere: Traiano, sommo combattente, si dilettava degli attori e beveva molto (non solo caccia e navigazione, dunque); Adriano, diligente sia nel reggere il mondo sia nel percorrerlo con viaggi senza sosta, era entusiasta di melodie e suonatori di flauto e aveva fama di gran mangiatore; Antonino Pio, colmo delle virtù di tutti gli imperatori, frequentava la palestra, preparava gli ami e rideva dei buffoni. Siccome Marco Aurelio ha indetto guerra allo scherzo, all’otium, alla sazietà e al piacere, alla fine Frontone deve accontentarsi di poco e lo supplica scherzosamente di dormire almeno quanto basta a un uomo libero per rispettare i limiti del giorno e della notte, senza farsi travolgere dal fardello degli obblighi giudiziari. Prova a persuaderlo mediante una breve favola sul Sonno, che Giove creò con ali alle spalle in modo tale che potesse posarsi delicatamente sugli occhi degli uomini, fornendolo di sogni piacevoli. Marco Aurelio, mentre gli altri sono a cena, legge la lettera alsiense verso le venti, disteso e soddisfatto di un cibo leggero, quasi dando retta (in minima parte) alle raccomandazioni del precettore d’un tempo, ma senza scordarsi di insistere sull’implacabilità dei doveri. No, non era facile regolare l’otium; ma altrettanto difficile era impiegarlo serenamente, senza sensi di colpa, all’interno di una società basata sul prestigio derivante dall’adempimento dei negotia.

“Documanità”: Maurizio Ferraris dialoga con Riccardo Luna

È giunto il tempo di smetterla di pensare al futuro come una proiezione del passato. La rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema. Lasciamo l’homo faber nel capanno degli attrezzi e chiediamoci di nuovo: chi siamo noi? da dove veniamo? dove andiamo?

Il web è il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l’importanza dei cambiamenti che ha prodotto. Basti pensare che sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Il numero di segni disponibile per la manipolazione e la combinazione diviene incommensurabilmente più elevato che in qualunque cultura precedente, e questo cambia tutto. Ecco perché comprendere la vera natura del web è il primo passo verso la comprensione della rivoluzione in corso, che genera un nuovo mondo, un nuovo capitale, una nuova umanità: anzi una documanità.

Alla radicale revisione e alla costruzione concettuale dei nostri modi di guardare alla tecnica, all’umanità, al capitale è dedicato Documanità, il nuovo e definitivo libro di Maurizio Ferraris, uno dei più influenti e originali filosofi contemporanei, che in questo video dialoga con Riccardo Luna.

 

Raccontare e quindi essere. Anche per le imprese

Alessandro Perissinotto illustra con efficacia lo storytelling che vale per tutti

Fondazione Pirelli | 6 aprile 2020

Narrare. E quindi ricordare.  E prima ancora farsi conoscere. Condividere. Mettere a disposizione di altri la propria storia, oppure altre storie. Raccontare per esserci. E per non essere soli. Anche quando si tratta di organizzazioni (sociali e produttive), che in apparenza sono altro dal mondo della narrazione, ma che in questa si possono ritrovare, costruendo anche una cultura d’impresa più completa e comprensibile.

Il tema del racconto nelle sue diverse forme è importante per tutti. È il vasto tema dello storytelling  che assume importanza. Ed è per questo che è utile leggere Raccontare di Alessandro Perissinotto (che proprio storytelling  insegna all’Università di Torino), libro che non arriva alle duecento pagine, scritto esso stesso come un racconto (anche se in alcuni passaggi non è sempre di facile lettura), e denso di teoria e pratica, di storie per esemplificare come si costruisce una narrazione efficace e di numerosi esempi tratti dal mondo dell’economia e dell’impresa, dell’arte, dal territorio, dalla cronaca nera e dalla scienza.

Perissinotto propone prima la narrazione teorica del raccontare – iniziando dallo spiegare la complessità della stessa definizione di storytelling indicato come “termine ombrello” –, per passare poi ad approfondire gli strumenti utili a costruire una buona storia e quindi per collocare lo storytelling nell’ambito della spiegazione della società e del comportamento delle persone. Poi, messa a punto la teoria, l’autore guarda da vicino lo storytelling nelle organizzazioni (e prima di tutto nelle imprese), nell’illustrazione di un territorio, nei fatti di cronaca nera (come s’è detto), e quindi nel teatro, nella medicina arrivando fino alla diaristica e alle scienze umane.

In ogni passaggio, Perissinotto mischia insieme con accortezza fonti, luoghi e immagini diverse per restituire uno scatto a tutto tondo dei pregi (e anche dei rischi), delle numerose modalità di costruire e far conoscere una storia. Vale anche, per esempio, per l’ambito delle organizzazioni per le quali si spiega come lo storytelling possa davvero rappresentare uno strumento prezioso per spiegare meglio la propria natura, ma quanto questo debba essere approcciato con attenzione e cautela (per evitare gli “effetti distorcenti” che potrebbero fare solo danno).

Buona lettura, quindi, quella di Perissinotto che racconta il raccontare. E che mette in guardia, prima di tutto, dalle mode nelle quali lo storytelling può cadere (diventando fra l’altro esso stesso una moda).

Non possiamo vivere senza racconti. È il messaggio che l’autore lancia al lettore. E che deve essere assolutamente raccolto.

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Debre Libanos, il vero volto dell’Italia fascista

La strage compiuta nel ’37 dagli uomini del generale Graziani è un’eredità con la quale risulta difficile fare i conti. Un libro di Borruso indaga i fatti e i decenni di tentativi di occultare tanta ferocia

dalla prefazione di Andrea Riccardi | Avvenire | 23 gennaio 2020

Debre Libanos è il più importante monastero d’Etiopia: è il cuore della Chiesa etiopica, la più antica Chiesa africana con caratteri veramente originali, maturati lungo i secoli. Il cristianesimo etiopico è stato l’asse portante del secolare impero che il negus neghesti Haile Selassie incarnava. Il negus rappresentava il legame con la tradizione nazionale, era il protettore della Chiesa, formalmente dipendente dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, ma in realtà sotto il controllo dei sovrani […] A Debre Libanos avvenne una tremenda strage di monaci, diaconi, sacerdoti, fedeli, giovani, studenti, addirittura vicini della stessa area geografica, compiuta dagli italiani nel 1937, specie tra il 20 e il 29 maggio, come risposta all’attentato al viceré, maresciallo Graziani. Questo è il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Ma, in Italia, non si è parlato di Debre Libanos. L’ha fatto solo qualche studioso coraggioso, come Angelo Del Boca, che ha ricostruito gli aspetti oscuri della guerra d’Etiopia.

In questo libro lo storico Paolo Borruso ripercorre non solo la vicenda della strage, ma anche il tempo in cui viene dimenticata e accantonata, per la resistenza degli ambienti e delle istituzioni italiane del secondo dopoguerra, per la volontà radicata di non ridiscutere il mito degli italiani «brava gente» e di dare un’immagine edulcorata del fascismo. In realtà, la politica coloniale del fascismo è rivelatrice del volto oscuro del regime e della logica di violenza e di odio che lo pervadeva. Debre Libanos ha rappresentato il culmine e il simbolo della disumanizzazione degli italiani nel conflitto etiopico e nella successiva repressione. […] Quello che avvenne a Debre Libanos nel 1937 è una sequenza drammatica, degna dei più gravi episodi della seconda guerra mondiale.

Fu una strage voluta e non casuale. I comandi italiani ebbero coscienza che si trattava di un atto veramente grave, che poteva scuotere la sensibilità delle truppe. Tanto che utilizzarono anche le truppe coloniali (musulmane) nella strage dei monaci e nella distruzione della chiesa e delle residenze monastiche, per evitare di urtare i cristiani (italiani o coloniali) con l’assassinio dei religiosi innocenti. Successivamente alla strage, senza deflettere da una logica di crudeltà continuata con altre uccisioni e con le deportazioni nei campi di concentramento, le autorità italiane provarono a nascondere l’accaduto o almeno a minimizzarlo: operazione impossibile, perché la realtà parlava. Del resto erano eloquenti di per sé le rovine della chiesa e degli insediamenti monastici. Lo studio della vicenda di Debre Libanos non può esimersi dal chiedersi perché fosse necessaria tanta ferocia. Tale spietatezza ha avuto come risultato politico lo spingere gli etiopici su posizioni di resistenza, com’è avvenuto durante il governo coloniale del maresciallo Graziani. Perfino Mussolini, che aveva appoggiato le crudeltà del maresciallo, si accorse che si trattava di una politica sbagliata e si vide costretto a cambiare la linea del governo coloniale, promuovendo viceré il duca d’Aosta. Questi, in controtendenza, s’impegnò invece in una politica di valorizzazione delle strutture sociali locali e di pacificazione con la Chiesa etiopica. Tuttavia la crudeltà era, in qualche modo, «necessaria», per come la conquista etiopica era avvenuta e per l’impronta totalitaria del regime, rivelatasi chiaramente nell’impresa coloniale.

Potrà sembrare un’affermazione paradossale: la crudeltà era necessaria, perché il fascismo con questa guerra agiva in modo totalitario e mostrava il suo volto totalitario. Si doveva sradicare la società etiopica, che aveva una struttura elaborata, connessa a uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fondata su stratificazioni storico-religiose. Ma come farla tornare indietro a essere solamente una terra di colonia, senza identità e storia? Per questo era necessario distruggere e sradicare. Si doveva fare del mondo etiopico quasi una «tabula rasa», incapace di resistere alla dura dominazione coloniale italiana.

Così anche il governo del duca d’Aosta (che pure rappresentò una pausa di respiro dopo le repressioni di Graziani) era destinato al fallimento. Il consueto sguardo bonario e autoassolutorio sulle storie italiche, magari abituato a indulgere sull’inefficienza italiana, nasconde la strategia che presiede alla conquista fascista dell’Etiopia: distruggere un mondo che aveva una dignità (con tutti i suoi limiti, la sua instabilità tradizionale e le sue arretratezze). Questo mondo aveva il suo punto di forza nella connessione tra una monarchia consacrata religiosamente e la Chiesa etiopica: il monastero di Debre Libanos rappresentava questa connessione «sacra» con la sua storia e la sua presenza. […] La strage dei cristiani di Debre Libanos colpisce anche perché gli ufficiali e i soldati italiani venivano da un paese cattolico, che nel 1929 aveva riaffermato la sua cattolicità con i Patti del Laterano. E, proprio durante l’impresa etiopica, era emerso il consenso cattolico attorno al regime. Tanto che Mussolini si disse soddisfatto per l’atteggiamento del clero e dell’episcopato nella guerra d’Etiopia: «altamente commendevole dal punto di vista patriottico et morale», scriveva ai prefetti nel 1935.

Il consenso cattolico, come il cattolicesimo delle truppe e dell’ufficialità, non frena gli atti anticristiani sugli etiopi e i loro luoghi santi. E un altro interrogativo interessante: come fu possibile tutto questo? C’è un capitolo della propaganda di guerra che riguarda specificamente il cristianesimo degli etiopi e che venne alimentato dai cattolici italiani, vescovi, religiosi e missionari. La Chiesa etiope, la cosiddetta Chiesa täwahedo — ne ha scritto la storia in modo tanto documentato e ampio Alberto Elli—, dipendeva dal patriarcato copto di Alessandria d’Egitto, nonostante la sua autonomia; ma era considerata scismatica dalla Chiesa cattolica. Ci fu una propaganda del disprezzo nei confronti dei cristiani etiopi e delle loro istituzioni ecclesiastiche, condotta dai religiosi cattolici. Fu un modo di legittimare dal punto di vista religioso conquista italiana dell’Etiopia, ma anche di screditare agli occhi degli italiani la Chiesa etiopica, il suo personale, la sua liturgia e i suoi ambienti. […] credo che la Chiesa italiana abbia aspettato troppo tempo a prendere coscienza di questa storia, che l’ha vista — certo non attivamente, ma convintamente — sullo scenario di una guerra e di operazioni repressive, solidale con il regime nell’opera di discredito dell’altro etiopico, a cui si negava persino la qualità di cristiano. In realtà, scrivendo del martirio cristiano nel XX secolo, ho sentito anni fa la responsabilità di parlare dei caduti di Debre Libanos come di «nuovi martiri» del Novecento. Tali infatti mi sembrano essere.

Naturalmente la responsabilità prioritaria delle stragi fu del governo, delle istituzioni e delle forze armate d’Italia. Dopo la guerra, furono bloccati i processi contro i principali responsabili, Graziani prima di tutto, ma anche il generale Pietro Maletti, che fu l’esecutore dei crimini a Debre Libanos. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha reso omaggio agli ex combattenti etiopici contro l’Italia fascista ad Addis Abeba, proprio nel luogo dove avvenne l’attentato a Graziani nel 1937. Ma stiamo ancora aspettando dalle istituzioni e dalle forze armate una presa di coscienza ufficiale sulla strage di Debre Libanos e le complessive repressioni del 1937. Quella strage rappresentò il culmine dell’assurdo in un processo di «imbarbarimento» dei soldati, necessario a condurre una lotta a oltranza per la distruzione delle strutture tradizionali e nazionali dell’Etiopia. […] La guerra italiana agli etiopici, all’impero cristiano e alla sua Chiesa, mostra con tutta evidenza il volto brutale del fascismo. Mette in luce anche la miopia di tanta parte del cattolicesimo, irretito nel nazionalismo (seppure Pio XI fosse critico sulla guerra fascista). In quegli anni, l’impasto di violenza coloniale, totalitarismo, razzismo (e poi di antisemitismo) rivela la realtà di quello che il fascismo è veramente stato e di come andava diventando col passare degli anni di dittatura.

 

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Mystery train: un podcast in quattro puntate

 

Cos’ha significato il treno per un paese come l’America? La modernità è penetrata in un mondo rurale attraverso i binari, cambiando per sempre il paesaggio naturale come quello antropologico. Da oggettivazione del moderno e dell’accelerazione che lo contraddistingueva, la ferrovia è oggi diventata rottame, residuo, reperto di un mondo scomparso. Mystery Train. Un viaggio nell’immaginario americano ripercorre il rapporto dell’America con il treno, tra racconti, poesie e canzoni.

Un’attrice, Margherita Laterza, due musicisti, Matteo Portelli e Gabriele Amalfitano, e un americanista, Alessandro Portelli, mettono in scena questa originale e particolarissima Lezione di Storia, convocando, tra gli altri, Hawthorne e Dickinson, Woody Guthrie e Bruce Springsteen, Elvis Presley e Johnny Cash.

Lo spettacolo, prodotto dagli Editori Laterza in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, è ora un podcast in quattro puntate.

Ascoltalo qui:

1. Un suono aspro oltre ogni asprezza. La ferrovia come irruzione della modernità nel paesaggio bucolico dell’America di metà Ottocento (da Hawthorne a Dickinson, da Shenandoah a Mystery Train).

2. Il prezzo del progresso. La ferrovia come simbolo della rivoluzione industriale e della crescita economica, i treni merci, i vagabondi sugli assali (da Elizabeth Cotten agli Industrial Workers of the World).

3. Note di libertà e lontananza. La ferrovia come luogo di duro lavoro e di protesta, dalle rivolte del ‘77 a Chicago, alla leggenda di John Henry, minatore nero che sfidò la scavatrice fino alla morte (da Carson Robison a Utah Phillips).

4. Il treno non ferma più qui. La fine della ferrovia in America, l’arrivo dei pullman e delle automobili, le grandi compagnie autostradali smantellano le miglia di binari costruiti, il viaggio diventa individuale e ai treni si guarda con nostalgia (da Woody Guthrie, a Johnny Cash fino a Stolen Car di Bruce Springsteen).

 

Qui un trailer:

“L’amore non basta!”: la parola al libraio

L’amore può declinarsi in molti modi. Alcuni possono rivelarsi distruttivi: per esempio se la persona che amiamo è un narcisista manipolatore che, giorno dopo giorno, rende la nostra vita un vero inferno.

Attraverso la sua storia, Sophie Lambda racconta i comportamenti e gli schemi di una relazione manipolatoria. Un’esperienza vissuta da molti ma di cui si parla poco, perché chi l’ha superata ne porta i segni e chi ci è dentro spesso ne prova vergogna. Con  L’amore non basta!  Come sono sopravvissuta a un manipolatoreSophie Lambda ha trovato le parole per raccontarla e, soprattutto, prova che se ne può uscire.

La parola a Paolo Siena, libraio della Feltrinelli Libri e Musica Palermo, che ha letto e recensito L’amore non basta! per noi.

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

Carcere. La ministra della Giustizia Cartabia ha riferito alla Camera sulle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha invitato a riflettere sulle cause profonde che hanno portato a “un uso così smisurato e insensato della forza”. “Fatti di questa portata sono spie di qualcosa che non va e che richiede azioni ampie e di lungo periodo perché non accadano mai più”.

→ Bortolato – Vigna, Vendetta pubblica

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Via D’Amelio.  Il 19 luglio di ventinove anni fa Paolo Borsellino perdeva la vita in un attentato a via D’Amelio, Palermo, insieme agli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

→ Melati, Giorni di mafia

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Genova, 2001-2021.  A vent’anni dal G8 di Genova, lo ricordiamo con le parole di Simone Pieranni, che ne ha scritto nel suo Genova macaia:

«Io quello che è successo nel 2001 dentro quella caserma l’ho dovuto raccontare, riportare. È sui processi del G8 genovese, infatti, che ho cominciato a scrivere su un quotidiano nazionale. È da quella serie di eventi posteriori al G8 che ha preso forma la mia vita e la mia immagine di Genova. Non più trasognata da una nave, come si è fatto nel passato quando era Genua. Non più e non solo dalla Sopraelevata, amante odiata, mentre andavo in centro in auto. Non più e non solo dal centro storico e via Balbi, la via dell’università, e dunque dai luoghi più percorsi della città quando studiavo. Ma da quei posti (vie sconosciute che improvvisamente diventano dirimenti per la «giustizia») che hanno finito per segnare un’epoca su cui tutti più o meno si sono espressi. Un ricordo «generazionale» che sembra proprio come Genova, la città: alla portata apparente di tutti, ma allo stesso tempo inafferrabile. È nel 2001, infatti, che me ne sono andato da Genova. E cinque anni dopo, nel 2006, la fuga ha preso contorni intercontinentali: quando sono arrivate le sentenze di primo grado dei processi che seguivo, mi sono ritrovato in Cina. In Oriente ho vissuto otto anni provando a fare il giornalista e provando a dimenticare Genova, tanto quella della mia infanzia quanto, e soprattutto, quella più recente. E ho pensato a te, a tutto quello che avrei dovuto raccontarti prima e a tutto quanto avrei potuto raccontarti da lì in avanti, se solo ci fosse stata occasione. Quante volte me l’hai raccontata la sfuggevolezza della nostra città che si ripercuote sull’animo dei suoi abitanti? La Cina da lì a poco mi avrebbe insegnato che il segreto non è saper prevedere il futuro, ma farsi sempre trovare pronto.

Sulla caserma ho affrontato in tribunale gli sguardi degli imputati, di tutti gli imputati, compresi gli sguardi dei «colleghi». Lo sguardo poco rassicurante di chi sa che certe cose non verranno dimenticate. E ho sentito e letto di tutto. E poi dovevo scriverne. Vivevo a Milano, fino alla mia partenza per la Cina, e facevo il pendolare al contrario: tutte le mattine alle 7.10 prendevo il treno. Alle 8.50 arrivavo a Genova, alla stazione Principe. Scendevo, tempo di immettermi in via Balbi e la prima focaccia arrivava secca sullo stomaco. Focaccia con le cipolle e cappuccino, se si pensava di avere tempo perché l’udienza iniziava più tardi. Dopo il G8, quando mi è capitato di dire «sono di Bolzaneto», ho sempre visto un impercettibile movimento delle labbra e degli occhi nel mio interlocutore. È un lampo nell’animo, un ricordo tagliente; che uno sia stato a Genova o meno in quei giorni del 2001, Bolzaneto è quella roba lì: una ferita comune, un’offesa comune.»

→  Pieranni, Genova macaia

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Un giornalista quasi perfetto.  È morto a 70 anni David Randall, giornalista britannico, impegnato soprattutto con l’Observer e l’Independent. Giovanni De Mauro lo ricorda così su Internazionale:

«Randall era uno straordinario giornalista, un uomo di “macchina”, come si dice in gergo, di quelli che dietro le quinte mandano avanti intere redazioni. Ma le sue doti si estendevano alla scrittura, sempre brillante e asciutta.
Poi era un teorico dei mezzi d’informazione: ragionava molto, e spesso in modo critico, sul suo mestiere. Ha scritto un libro fondamentale, Il giornalista quasi perfetto, tradotto in Italia da Laterza, un testo che chiunque abbia voglia di fare il cronista dovrebbe leggere.
Le sue riflessioni non si esaurivano negli articoli o nei saggi. Perché Randall era anche un bravo insegnante. Nel corso degli anni aveva tenuto lezioni in giro per il mondo e le tante persone che hanno avuto la fortuna di seguire uno dei suoi workshop al festival di Internazionale a Ferrara ricordano quanto fosse acuto e divertente.
Randall, infine, è stato un mentore, un consigliere, una guida generosa per generazioni di giornalisti, britannici e non solo. Era a lui che ci si rivolgeva per un parere su un nuovo progetto o per un suggerimento professionale. Aveva una rara sensibilità, era curioso, ascoltava i suoi interlocutori con attenzione e sapeva sempre trovare le parole giuste, utili, mai banali.
John Mullin, del Telegraph, lo ha ricordato così: “Non c’è giornale al mondo che con lui non sarebbe stato migliore”.»

→  Randall, Il giornalista quasi perfetto

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Luglio rovente.  «Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo del fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un’illusione: l’illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa…». Di nuovo in libreria e negli store online Senza verso, di Emanuele Trevi.

→  Trevi, Senza verso

 

“Dante” di Alessandro Barbero: un audiolibro

Dante è l’uomo su cui, per la fama che lo accompagnava già in vita, sappiamo forse più cose che su qualunque altro uomo di quell’epoca, e che ci ha lasciato la sua testimonianza personale su cosa significava, allora, essere un giovane uomo innamorato o cosa si provava quando si saliva a cavallo per andare in battaglia.

Alessandro Barbero segue Dante nella sua adolescenza di figlio d’un usuraio che sogna di appartenere al mondo dei nobili e dei letterati; nei corridoi oscuri della politica, dove gli ideali si infrangono davanti alla realtà meschina degli odi di partito e della corruzione dilagante; nei vagabondaggi dell’esiliato che scopre l’incredibile varietà dell’Italia del Trecento, fra metropoli commerciali e corti cavalleresche.

Grazie alla voce di Alessandro Benvenuti, il Dante di Barbero è ora anche un audiolibro: realizzato da Emons in coedizione con gli Editori Laterza, è disponibile qui.

 

 

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