Come si diventa grandi giornalisti

In ricordo di David Randall, un estratto del suo Il giornalista quasi perfetto, un manuale di sopravvivenza per ogni giovane cronista.

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I reporter, come tutti quelli che fanno un mestiere che richiede qualcosa di più della semplice presenza, hanno due scelte. Possono tirare avanti, accontentandosi della mediocrità, e cercare altrove le vere soddisfazioni della loro vita. Oppure, se sono degli spostati come la maggior parte di noi, possono cercare di diventare ottimi, se non addirittura grandi, giornalisti. Se la seconda alternativa vi sembra più divertente (e vi assicuro che lo è), questo capitolo è dedicato a voi. Vi spiega quello che serve, dopo essere diventati ottimi giornalisti, per passare al livello successivo. Dare consigli su come raggiungere un livello così alto può sembrare un atto di presunzione da parte mia. Dopotutto, non sono un grande giornalista. Ma mi sono fatto un’idea piuttosto precisa di quello che ci vuole per diventarlo. In primo luogo, perché all’«Observer», all’«Independent» e all’«Independent on Sunday» ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni di loro; in secondo luogo, perché ho passato due anni a condurre ricerche sui grandi giornalisti per il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti; infine, perché per molti anni ho letto tutta la produzione giornalistica di qualità sulla quale sono riuscito a mettere le mani. Quello che segue è il frutto della mia ossessione: le qualità che a mio parere servono per diventare grandi reporter.

LA DEDIZIONE Dopo aver intervistato un musicista, un atleta, un attore o un ballerino, molti giornalisti scrivono nel loro pezzo che quel famoso personaggio ha studiato a fondo la sua disciplina, sperimenta sempre nuove tecniche e si esercita cinque ore al giorno. E in conclusione diranno quasi sempre, o lasceranno intuire, che c’è un collegamento diretto tra la dedizione dell’intervistato e il suo successo. Come lezione di vita, in fondo non è così sorprendente. Eppure a una buona percentuale di questi reporter non viene mai in mente che un po’ di quella dedizione potrebbe giovare anche nel loro mestiere. […] I giornalisti di classe affinano incessantemente le loro capacità. Si tengono aggiornati sulle nuove tecnologie e leggono, studiano, sperimentano tutto quello che serve per fare meglio il loro lavoro. Se si occupano di cronaca in generale, dedicheranno un po’ di tempo a migliorare le loro capacità di ricerca su internet, a imparare l’uso dei database e di tutti gli altri strumenti informatici che possono assistere un giornalista nel suo lavoro, a cercare spunti per articoli sul web e a tenersi aggiornati sulle possibili fonti online, a chiedersi perché l’articolo che hanno scritto la settimana prima non era poi così interessante come speravano; in breve, fanno l’equivalente di quello che ha fatto Tiger Woods per diventare il miglior golfista del mondo. […]

L’USO DELL’INTELLIGENZA Non ho mai conosciuto un grande giornalista che non fosse anche molto intelligente, riflessivo e attento. È essenziale per essere veramente bravi in questo mestiere. Per farlo in modo decente, non dico neanche eccezionale, non basta la tecnica, ci vuole l’intelligenza. E i migliori reporter applicano inflessibilmente la loro intelligenza non solo alla raccolta di materiale, ma anche all’analisi di quello che hanno raccolto. Ci ragionano sopra chiedendosi: Che cosa ho trovato? Che significato ha? Quali sono le cause di ciò che è avvenuto? Si rendono conto dei limiti di quello che hanno scoperto facendo ricerche per un articolo, sanno benissimo che non hanno scoperto tutto e che la situazione, il problema o il personaggio di cui stanno scrivendo sono sicuramente più complessi di quanto si creda. Hanno l’onestà e l’umiltà intellettuale di riconoscerlo. […]

IL CORAGGIO INTELLETTUALE Spesso i giornalisti migliori sfidano l’ortodossia corrente, una convinzione diffusa o un’opinione generale. È proprio quello che fece William Russell del «Times» quando scandalizzò l’establishment londinese denunciando la spietatezza e l’inefficienza dei soldati britannici in Crimea (e continuò a farlo, da solo, nonostante le smentite ufficiali); quello che fece J.A. MacGahan quando dimostrò che le voci sulle atrocità commesse dai turchi nei Balcani erano vere; quello che fece Ida Tarbell quando all’inizio del ventesimo secolo rivelò il funzionamento dei trust; quello che fecero Bob Woodward e Carl Bernstein quando sollevarono lo scandalo Watergate; e quello che fece Randy Shilts quando rivelò che l’Aids si stava diffondendo nella comunità gay americana. Un giornalismo di questo livello richiede molte qualità, ma forse la più importante, e il motivo per cui esempi del genere sono rari, è il coraggio intellettuale. Quando le autorità costituite demoliscono il vostro lavoro (e questo si è verificato in tutti i casi che ho menzionato), e quando il resto della stampa si rifiuta di seguirvi, ci vuole una notevole fermezza di carattere per tenere duro e continuare per la vostra strada. […]

LA METICOLOSITÀ Mi capita ancora di incontrare giornalisti che, quando gli si fa notare un errore nel loro articolo (o, più probabilmente, l’omissione di informazioni contestuali importanti), alzano le spalle come se sbagli del genere fossero calamità naturali completamente indipendenti dal loro controllo. Sembra che dicano (e a volte dicono veramente) che gli incidenti succedono. È un tratto caratteristico di chi rimarrà sempre un cattivo reporter e un pericolo non solo per se stesso, ma anche per il suo giornale. I grandi giornalisti non sono così. Il loro amore per la precisione va molto oltre quello di qualsiasi altro giornalista degno di tale nome. Soffrono di una nevrosi per la cura dei dettagli con la quale spesso è difficile convivere, per loro stessi e per chi li circonda. […]

LA PASSIONE PER I LIBRI Non ho mai conosciuto un grande reporter che non fosse anche un avido lettore, soprattutto di saggistica. L’amore per la lettura è al tempo stesso la causa e l’effetto del loro talento nello scrivere. L’irrefrenabile curiosità che li rende grandi giornalisti li porta anche a cercare la conoscenza e a interessarsi alle esperienze degli altri, cose che si trovano in forma più lucida, ampia e meditata nei libri, piuttosto che su internet. E questo volume di letture fa di loro dei giornalisti migliori per due motivi importanti. In primo luogo, come è ovvio, chi legge molta buona scrittura tende ad assorbire (consciamente e inconsciamente) parole, espressioni e costruzioni nuove. Se non altro, riconosceremo quella che in uno scrittore si chiama «voce», contrapposta allo stile esitante e disuguale di chi non ha facilità a comunicare sulla carta o sullo schermo. […]

UNA BUONA CONOSCENZA DELLA STORIA DEL GIORNALISMO Con questo non intendo dire che dovete sapere quando fu fondato l’«Huddersfield Examiner», quando fu chiuso il «Minneapolis Bugle», o quanto ha influito sui proventi pubblicitari la distribuzione gratuita nelle campagne all’inizio del ventesimo secolo. Intendo dire che dovete conoscere i migliori reporter del passato e il loro lavoro. Per un giornalista esperto ignorare queste cose è come per un musicista cercare di comporre una sinfonia senza aver mai sentito un’opera di Mozart, Beethoven, Čajkovskij, Brahms o Mahler. Potrà sembrarvi lapalissiano, ma mi capita di incontrare tanti giornalisti per i quali i migliori reporter del passato potrebbero anche essere scalpellini del quattordicesimo secolo. Se siete uno di loro, dovreste chiedervi: quanto sarebbe stato bravo Norman Mailer se non avesse saputo nulla dei grandi romanzieri del passato? Che tipo di cinema avrebbe fatto Stephen Spielberg se non avesse mai visto un film girato prima del 1970? […]

UNA NATURA MANIACALE Se non lo avete ancora indovinato, la verità è che per diventare giornalisti veramente eccezionali ci vuole una determinazione che non è sempre compatibile con l’essere persone equilibrate, e meno che mai mariti, mogli o compagni accettabili. Ci sono alcune eccezioni. Ann Leslie del «Daily Mail» è una di queste, e Geoffrey Lean, l’esperto di questioni ambientali dell’«Independent on Sunday», è un’altra. Ma le qualità necessarie per essere un giornalista di prima classe e una persona accomodante, riflessiva e piena di tatto non sempre coincidono. Un perfetto esempio di questa incompatibilità è una storia raccontata dal famoso cronista di guerra, redattore e commentatore Max Hastings. Dopo una lunga missione, un famoso corrispondente torna a casa da sua moglie che non vede da settimane. Naturalmente, quella sera stessa cominciano a fare l’amore. Squilla il telefono. È una stazione radio straniera che gli chiede se è disposto a lasciarsi intervistare per telefono. Lui accetta, e per i 15 minuti successivi risponde a una serie di domande sui complessi problemi del Medio Oriente, rimanendo disteso sulla moglie nella posizione in cui si trovava quando era squillato il telefono. «Fu in quel momento», avrebbe confessato più tardi la moglie, «che capii che la magia del nostro matrimonio era finita». Ma in fondo, in un certo senso, non credo che la sua natura gli desse molte possibilità di scelta. L’impulso che l’aveva spinto a trattare sua moglie con tanta noncuranza era anche la molla del suo giornalismo: una curiosità irrefrenabile, un bisogno costante di raccontare quello che aveva scoperto (e quello che pensava di quello che aveva scoperto) e un ego colossale. Era stato più forte di lui, anche se probabilmente sua moglie l’aveva vista diversamente. Come ha detto qualcuno, essere chiamati reporter non è tanto la descrizione di un lavoro quanto una diagnosi. Ma per alcuni di noi è la migliore diagnosi del mondo.

 

 

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

Fit for 55: il clima secondo l’UE. La Commissione Europea ha presentato un piano di riforme, il “Fit for 55”, contro il cambiamento climatico. Le tredici iniziative di cui è composto mirano a ridurre entro il 2030 le emissioni del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990, fino a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Il piano, presentato come molto ambizioso, è stato definito invece insufficiente da Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, che sul manifesto scrive: «L’annuncio con le fanfare dell’approvazione del pacchetto clima “FitFor55” dell’Unione Europea stride con la inadeguatezza degli obiettivi che si pone. […] l’UE si presenterà alla prossima Conferenza delle Parti di Glasgow con un obiettivo di riduzione e un relativo pacchetto di misure non coerente con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il taglio del 55 per cento delle emissioni di CO2 al 2030, infatti, non è sufficiente. Si tratta di un pacchetto clima che ricalca la legge tedesca sul clima del 2019, impugnata da giovani attivisti e alcune organizzazioni, tra cui i FridaysForFuture e Greenpeace. Quella norma è stata parzialmente bocciata dalla Corte Costituzionale tedesca che ha riconosciuto che gli obiettivi da essi fissati non sono sufficienti».
Oltre cento persone, intanto, sono morte a causa delle alluvioni che negli ultimi giorni hanno sconvolto la Germania occidentale e il Belgio. Come riporta il Post, «sia le autorità della Germania sia quelle del Belgio hanno attribuito la causa delle insolite forti piogge degli ultimi giorni al cambiamento climatico».

→ Levantesi, I bugiardi del clima
→ Mio, L’azienda sostenibile
→ Una selezione delle nostre proposte a tema Ambiente

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Terza dose.   Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha chiesto ai paesi più ricchi di donare le proprie riserve di vaccini contro il Covid-19 alle popolazioni più povere, anziché dibattere sull’eventualità di una terza dose. «Stiamo consapevolmente scegliendo di non proteggere chi ne ha bisogno», ha affermato.

→ AAVV, Il mondo dopo la fine del mondo
→ Florio, “Brevetti sui vaccini: le (tante) ragioni di Biden”
→ Gli interventi della seconda edizione del Festival della Salute Globale (novembre 2020)

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Didattica a distanza.   Ciò che emerge dalle ultime prove INVALSI è un sensibile peggioramento dell’apprendimento dell’italiano e della matematica rispetto al 2019, «mentre il livello dell’inglese è rimasto ai livelli simili a quelli registrati prima dell’introduzione della didattica a distanza». Come ricostruisce il Post, «oltre al prevedibile peggioramento generale, è stato confermato lo storico squilibrio di apprendimento tra le aree del Nord del paese e le regioni del Sud, così come le difficoltà tra gli studenti che provengono da famiglie svantaggiate. […] C’era una certa attesa per gli esiti: nel 2020 i test non sono stati organizzati a causa delle misure restrittive e per questo le prove del 2021 sono state presentate come un’occasione per valutare le conseguenze della didattica a distanza sull’apprendimento degli studenti».

→  Bruschi – Perissinotto, Didattica a distanza

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Afghanistan.  Come riportato dal Wall Street Journal, secondo l’intelligence statunitense il governo afgano potrebbe collassare entro sei mesi dal ritiro delle truppe, che dovrebbe simbolicamente concludersi l’11 settembre 2021. Previsioni che paiono però perfino ottimistiche: secondo il Corriere della Sera l’esercito filo-governativo non è più in grado di rispondere alle offensive talebane. Di oggi intanto la notizia della morte del reporter e fotografo Reuters Danish Siddiqui, ucciso mentre seguiva gli scontri tra le forze di sicurezza afghane e i talebani al confine con il Pakistan. Con il team Reuters, Siddiqui  aveva vinto il premio Pulitzer per la fotografia nel 2018.

→  el-Baghdadi, Il triangolo vizioso

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Cuba.   Migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il paese. Sulla gravissima crisi economica pesano sicuramente gli effetti del Covid-19, ma non solo: sul manifesto si parla di responsabilità “del potente vicino del nord” ma anche della necessità, sostenuta da intellettuali soci­ali­sti, di accelerare riforme strutturali. «”Le inedite proteste di domenica scorsa erano prevedibili – sostiene la storica Ivette García González -. Vi sono stati fattori detonanti, però le cause sono profonde”. Ovvero stanno nella lentezza di un processo di riforme iniziato dall’allora presidente Raúl Castro, gli investimenti concentrati nel settore turistico a scapito di agricoltura e assistenza sociale.»

→  Fidel Castro e la rivoluzione cubana: la lezione di Loris Zanatta
→  Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea

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Petrolio. Cosa non torna nella leggenda di Cefis e della morte di Pasolini. Paolo Morando interviene nel dibattito ospitato da Domani su Petrolio, l’opera di Pasolini pubblicata postuma.
«I buchi dell’inchiesta sulla morte di Pasolini e le due contraddittorie sentenze che condannarono Giuseppe Pelosi (con l’ipotesi di complici sancita dall’assise ma sbrigativamente esclusa in appello) consentono di immaginare che quella notte le cose siano andate diversamente. Lasciare però intendere che la ragione del delitto sta nella sola volontà di impedire a Pasolini di concludere Petrolio, significa imboccare ancora la strada che porta a Eugenio Cefis, l’allora presidente di Montedison la cui figura Pasolini intendeva porre al centro della propria opera: letteralmente, lo ricorda anche Benedetti, poiché a dividere in due Petrolio dovevano essere tre suoi discorsi pubblici.
Una tesi da anni alimentata da saggi, articoli, interviste, addirittura inchieste giudiziarie: anzi, proprio dal lavoro dell’allora sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia sulla morte di Enrico Mattei la vulgata ha preso piede. Ma non è una tesi, al massimo un’ipotesi tra mille: tant’è che Calia non solo non indagò Cefis per la morte del presidente dell’Eni (il cui “svelamento” da parte di Pasolini ne avrebbe provocato l’assassinio), ma neppure mai lo convocò come teste. Vuoi mettere però la fascinazione dell’uccisione del poeta perché sul punto di svelare l’indicibile?
L’indicibile: cioè Cefis. E i suoi discorsi.»

→ Morando, Eugenio Cefis

Viesti racconta la nuova questione meridionale

Pietro Spirito | la Repubblica Napoli | 8 giugno 2021

Le trasformazioni demografiche, sociali, politiche ed economiche configurano le caratteristiche di una nuova questione meridionale, profondamente diversa rispetto a quella che ha caratterizzato la storia d’Italia dalla unificazione all’inizio del ventunesimo secolo. Ci guida in questo viaggio il prezioso libro di Gianfranco Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, 2021.

Secondo Gianfranco Viesti, la geografia e la storia contano moltissimo, soprattutto in una fase nella quale è in corso un cambiamento di paradigma. La crescita del commercio internazionale rende ancora più complesso il gioco competitivo tra territori. L’allargamento dell’Unione Europea ha spostato l’asse industriale verso Nord-Est, ed ha distratto l’attenzione politica dal quadrante mediterraneo. Lo sviluppo delle nuove tecnologie, ed in particolare la diffusione della digitalizzazione, sta determinando effetti radicali sulle regioni, favorendo una ulteriore polarizzazione. Mancano di converso politiche pubbliche che consentano nelle aree periferiche lo sviluppo di nuove attività, che, in assenza di interventi attivi delle istituzioni, non si determinano. Il primo ventennio del secolo in corso ha acuito la debolezza strutturale del Mezzogiorno, nel quadro di una Italia che ha registrato una parabola discendente.

Dal punto di vista demografico si è ribaltato uno degli assi dominanti della questione meridionale: se prima il problema era l’eccesso di popolazione, ora accade l’inverso, con una curvatura che segnala la carenza di abitanti, che si farà sempre più sentire nel corso dei prossimi decenni, se non interverranno fattori correttivi.

Sotto il profilo industriale, le regioni meridionali non hanno solo perso occupazione nelle attività tradizionali, che si sono dislocate prevalentemente nei paesi di nuova industrializzazione, ma non hanno creato nuove opportunità nei settori avanzati che caratterizzano la nuova geografia della competitività.

Si delinea in questo modo quella che Gianfranco Viesti definisce la trappola dello sviluppo intermedio: il Mezzogiorno è contestualmente meno competitivo rispetto al Nord sul piano dell’innovazione e rispetto ad Est sotto quello dei costi di produzione. Uscire da questa trappola richiede strumenti sofisticati di politica industriale, che non si vedono ancora all’orizzonte. Nell’età contemporanea contano molto di più le politiche pubbliche nelle dinamiche di localizzazione delle attività economiche. L’azione redistributiva, precedentemente focalizzata sugli individui, opera oggi anche nei rapporti tra territori, influenzando le scelte di allocazione territoriale dei soggetti economici. Per le caratteristiche del nuovo capitalismo le politiche per l’istruzione hanno un rilievo essenziale, perché l’esistenza delle competenze adeguate di capitale umano sono una variabile di crescente importanza. Nel primo ventennio del nuovo secolo 263.000 laureati nelle regioni meridionali hanno lasciato il Sud per trovare la propria collocazione professionale nelle regioni centro-settentrionali del nostro Paese. Se si formano risorse adeguate, ma non si prospettano coerenti opportunità occupazionali, il territorio rischia di perdere ancora maggiore terreno per effetto della migrazione delle risorse adeguate (brain drain).

Opportunamente Gianfranco Viesti sottolinea che il divario meridionale è frutto della storia economica e politica dell’Italia. In particolare il fossato si allarga nel periodo tra il 1914 ed il 1952. Nel 1911 il reddito pro capite meridionale era pari all’85%, e scese al 61% nel 1951. Il trentennio tra le due guerre, come diceva Manlio Rossi-Doria, è stato fatale al Mezzogiorno.

Di converso, nel ventennio tra il 1951 ed il 1971 il reddito pro capite del Sud crebbe ad un tasso medio annuo che sfiorò il 6%. Mentre l’Italia conosceva il suo miracolo economico, il Mezzogiorno operò in grande balzo in avanti: nello stesso periodo il reddito pro capite meridionale rispetto a quello degli Usa passo dal 22% al 47%. Mancò, in una stagione di grande ripresa economica e sociale, la componente endogena di imprenditoria locale, con un processo di industrializzazione che fu guidato dall’ex imprese pubbliche e dagli investimenti diretti esteri. Poi venne la lunga fase del nuovo arretramento, caratterizzata dal ritiro della industria pubblica, da investimenti meno efficaci e poi calanti nelle infrastrutture, dalla affermazione di un modello clientelare della spesa pubblica. Oggi, le catene globali del valore e la digitalizzazione stanno determinando una nuova divisione internazionale del lavoro, che tende ad emarginare ulteriormente le aree periferiche nelle economie a capitalismo avanzato. Il presente ed il futuro delle regioni europee sarà sempre più influenzato dalla demografia. L’Europa del ventunesimo secolo, ed anche il Mezzogiorno, sta attraversando cambiamenti demografici di primaria rilevanza.

Le regioni meridionali affrontano questa fase in grave difficoltà. All’inizio degli anni Venti del nostro secolo la dimensione dell’economia del Mezzogiorno è inferiore a quella dell’inizio del secolo, mentre quella del Centro-Nord è superiore di circa 7 punti percentuali.

Nello stesso periodo di tempo la popolazione del Centro-Nord è aumentata di tre milioni, mentre al Sud è diminuita di 300.000 unità. Contano contestualmente i flussi migratori, più accentuati nelle regioni centro-settentrionali del nostro Paese, e le dinamiche regressive dei tassi di natalità, più intensi nel Mezzogiorno.

Mali antichi restano purtroppo ancora radicati nel Sud: la presenza di aziende controllate dalle mafie distorce il funzionamento dei mercati e alimenta reti di connivenza con le amministrazioni pubbliche, anche per il tramite di operatori economici e professionisti che rappresentano una zona grigia al confine tra legalità ed illegalità. A ciò si aggiunge un ciclo regressivo dell’intervento pubblico, con il crollo degli investimenti e la caduta dei consumi finali delle pubbliche amministrazioni, che sono scesi tra il 2008 ed il 2018 dell’8,6% nel Mezzogiorno a fronte di un aumento dell’1,4% al Centro-Nord. Insomma, di fronte alla fase complessa che abbiamo di fronte, Gianfranco Viesti richiama alla responsabilità le istituzioni pubbliche, che hanno il dovere di affrontare le sfide complesse del nostro tempo con la capacità di catalizzare energie nei settori dell’innovazione e della digitalizzazione, lavorando per assicurare le condizioni di contesto che possono favorire l’insediamento di attività capaci di assicurare una svolta vitale per l’economia e la società meridionale.

 

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Luca Serianni racconta “Il verso giusto”

“Cento poesie di sessantatré autori distribuite in otto secoli: come sceglierle? come commentarle? e pensando a quale tipo di lettore?”

Luca Serianni, grande storico della lingua, ci accompagna in un viaggio affascinante nella poesia italiana: cento tappe, cento testi – noti e meno noti – alla ricerca del ‘verso giusto’

Valore assoluto, rappresentatività e, naturalmente, gusto personale sono i criteri che hanno selezionato cento poesie scritte ‘in italiano’ nell’arco di otto secoli di storia letteraria: da Giacomo da Lentini a Petrarca, da Gaspara Stampa a Tasso, da Leopardi a Caproni, affacciandosi su qualche nome meno noto, dedicando attenzione alla lirica femminile.

Il verso giusto. 100 poesie italiane è una lettura fondamentale per gli studenti e gli insegnanti che vogliono scoprire o riscoprire il patrimonio letterario italiano, avvalendosi del commento di un insigne linguista.

L’autore ha raccontato il suo libro a Rai Cultura.

 

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Quando Bankitalia sfidò il partito unico del debito pubblico

Breve storia del disavanzo

Valerio Castronovo | il Sole 24 Ore | 8 giugno 2021

Ancora contenuta al 38,9% del Pil sino al 1970, da allora la spesa pubblica aveva cominciato a prendere il volo, in coincidenza con il terzo governo Rumor, a seguito di un uso politico smodato del deficit quale leva per l’acquisizione di consenso. Una specie di “keynesismo all’italiana”, poiché si basava sulla convinzione di poter finanziare e riassorbire il debito pubblico indefessamente e a basso costo. Sennonché lo stock del debito, che pareva ancora governabile sino a metà degli anni 70, era andato crescendo velocemente. Tanto che s’era reso necessario nel 1977 un prestito dall’Fmi, dopo quello dalla Germania che aveva voluto in garanzia una parte delle riserve auree di Bankitalia. L’anno dopo, però, non era stato più possibile dilazionare la nostra adesione all’iniziativa concertata fra il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, che aveva dato luogo nel marzo 1979 al Sistema monetario europeo. In questo contesto prese avvio la fase che portò al “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro. Come risulta anche dalla Storia del debito pubblico in Italia. Dall’unità a oggi, di L. Tedoldi e A. Volpi (Laterza), il nuovo titolare del Tesoro Beniamino Andreatta dovette correre ai ripari dopo che il 22 marzo 1981 la lira era stata svalutata del 6% nell’ambito dello Sme e il tasso di sconto aveva raggiunto la quota record del 19 per cento. Era perciò, essenziale contenere la crescita della liquidità bancaria e arrestare l’inflazione. Banca d’Italia non poteva più finanziare in disavanzo attraverso una politica di espansione monetaria. Di qui l’esigenza di una modifica delle procedure di spesa e di distribuzione del reddito.

Ad assecondare la svolta di Andreatta servì solo momentaneamente l’allarme da lui lanciato nell’ottobre 1981 sul “potenziale devastante” dell’indebitamento pubblico, poiché avrebbe depauperato le risorse del Paese e ne avrebbero sofferto anche le nuove generazioni. Un piano d’azione triennale che includeva un consistente taglio della spesa statale, insieme all’aumento e delle tariffe di alcuni servizi pubblici, aveva suscitato un coro di proteste e Andreatta era riuscito a sollevare la Banca d’Italia dall’obbligo di assorbire i titoli del debito pubblico emessi dal Tesoro che non si erano collocati sul mercato.

Tuttavia tale era la pressione esercitata dai diversi gruppi d’interesse contrari o recalcitranti a un ridimensionamento della spesa pubblica che il rapporto debito/Pil balzò dal 63,1% del 1982 all’85,1% del 1985. Erano innanzitutto i dipendenti dello Stato a beneficiare di un’estensione della spesa pubblica, in quanto assicurava l’aumento dei posti di lavoro e percorsi più rapidi di carriera. A loro volta, varie componenti del ceto medio si avvantaggiavano degli allettanti tassi di rendimento dei titoli di Stato. Sulla presenza pubblica in economia facevano affidamento i sindacati per accrescere l’occupazione nelle imprese a partecipazione statale. In base a questo genere di consociativismo, esisteva dunque una sorta di “partito unico del debito pubblico”, di grosso blocco sociale, che traeva profitto dall’incessante aumento della spesa. Perciò il debito aveva continuato a salire. D’altronde l’eterogenea coalizione di governo fra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli costituitasi nell’agosto del 1983, aveva seguitato a rimandare la decisione di porre uno stop al disavanzo pubblico. E l’opposizione Pci aveva rafforzato la sua presenza negli Enti locali, che continuavano a pompare soldi dallo Stato. In pratica, a opporre un argine agli sperperi dell’assistenzialismo e del clientelismo era rimasta solo la Banca d’Italia. Nel fortilizio di via Nazionale si sarebbero aperte grosse brecce, trasformandolo da banca centrale a semplice capogruppo, se la sua autonomia non fosse stata difesa tenacemente: in pratica se Ciampi non si fosse opposto con grande autorevolezza al disegno, concepito da una parte del mondo politico, di disgregare i flussi monetari per settori merceologici e non secondo logica macroeconomica. Ma per tanto tempo ancora la classe politica alla direzione del Paese sarebbe riuscita a padroneggiare la situazione grazie alla possibilità per l’Italia di scaricare, prima, sul cambio e, poi, sul debito le sue numerose anomalie in fatto di inflazione, spesa pubblica, evasione fiscale, iniquità distributiva, dualismo territoriale, conflittualità sociale, debolezze istituzionali e di governo. Finché, all’inizio degli anni 90, alla vigilia del trattato di Maastricht, l’opinione pubblica prese coscienza che si era giunti a raschiare il fondo del barile.

 

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#CasaLaterza: Maria Giuseppina Muzzarelli dialoga con Gianluca Briguglia

Cosa lega Dhuoda, il cui figlio Guglielmo fu consegnato come ostaggio a Carlo il Calvo, Matilde di Canossa, donna potentissima ma delusa nelle sue aspettative di maternità, Caterina da Siena, che pur non avendo figli agisce e scrive da ‘grande madre’ italiana, Christine de Pizan, impegnata a destreggiarsi tra i figli e la carriera, Margherita Datini, che cresce come fosse sua figlia una bambina che il marito ha avuto da una schiava, e Alessandra Macinghi Strozzi, vedova di un esule, che fa da madre e padre ai suoi 5 figli?
Maria Giuseppina Muzzarelli racconta sei storie esemplari di donne che nel Medioevo hanno saputo determinare il proprio destino e il proprio rapporto con la maternità.
Ne abbiamo parlato, per Casa Laterza, a partire da Madri, madri mancate, quasi madri, il nuovo libro di Maria Giuseppina Muzzarelli. In dialogo con l’autrice Gianluca Briguglia.

 

 

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Marco Ferrari racconta “Ahi, Sudamerica!”

All’inizio del Novecento, gli immigrati italiani fecero innamorare tutta l’Argentina del fútbol. In Ahi, Sudamerica! Marco Ferrari ne racconta le straordinarie vite: storie esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell’oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla.

 

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Contaminati e affascinanti: alla scoperta di Chernobyl, Najafgarh, Guiyu

Per la maggior parte di noi viaggiare significa visitare i luoghi più belli della terra: Parigi, il Taj Mahal, il Grand Canyon.

Non succede spesso di prenotare un biglietto per visitare il paesaggio lunare e senza vita dei giacimenti di sabbie bituminose del Canada o di far vela alla volta della Grande chiazza di immondizia del Pacifico. In Benvenuti a Chernobyl, Andrew Blackwell lo fa e viaggia per i luoghi più inquinati della terra: da Chernobyl alla grande isola di rifiuti del Pacifico, dall’Amazzonia devastata dalle coltivazioni di soia alle miniere di carbone in Cina.

Perché? Forse l’attrazione di risalire la traccia del futuro, oltre che del presente. Ma c’è anche dell’altro: qualcosa di inafferrabile bellezza abita questi luoghi. Scopriamo così che questo libro, irriverente e pensoso, è anche una lettera d’amore agli ecosistemi più contaminati e più degradati della nostra biosfera e una riflessione su che cosa significano per noi.

In questo estratto, disastri nucleari, fiumi di liquami, nubi di circuiti fritti: tre avventurose destinazioni per viaggiatori curiosi, pronti a cercare “pappagalli verdi volare sopra l’acqua scura”.

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  • Chernobyl

«Noi siamo qui. Chernobyl», disse, e batté sulla carta. «Andiamo con macchina a Kolači. Villaggio sepolto». Batté di nuovo. «Poi a Foresta Rossa. Questo oggi è punto più radioattivo». Mi fissò, come a sottolineare le sue parole. Aveva ancora addosso gli occhiali da sole.

Riprese, rivolto di nuovo verso la carta. «Da qui andiamo a Pryp’jat’. È città deserta. Poi possiamo andare vicino a reattore fino a centocinquanta metri». Era l’itinerario abituale, che permette ai visitatori di vivere i propri preconcetti su Chernobyl come luogo di disastro e orrore, ma senza allontanarsi mai dalle vie battute o rischiare di contaminarsi. Dopo tutto era quello che voleva la maggior parte della gente. Ma non ero venuto fin qui solo per sguazzare nella paranoia post-nucleare. Ero qui per godermi il posto e questo era il momento per riuscirci.

«C’è modo…». Come potevo dirglielo? «C’è modo di andarci in barca?».

Dennis mi scrutò con sguardo assente da dietro gli occhiali da sole. Nelle lenti argentate vidi il riflesso di uno che mi somigliava e che aveva sulla faccia un’espressione che diceva: Sì, sono un idiota.

«Questo non è possibile», disse Dennis.

«Be’, se fosse possibile passare per il fiume, o magari visitare un posto dove si pesca bene, rinuncerei volentieri a parte dell’itinerario previsto». Nella sala riunioni non volava una mosca.

Sul volto di Dennis passò l’ombra di una smorfia. «Questo non. È possibile», disse in modo asettico. Mi raggelava vederlo immune al mio entusiasmo che credevo contagioso. Ma è in momenti come questo, quando uno cerca di andare in vacanza nella zona di un disastro nucleare, controllata militarmente – e per visitare la quale, aggiungerei, nessuno ha mai pubblicato una vera guida – che bisogna avere più del solito il coraggio di fare la figura del cretino al servizio dei propri obiettivi. Scoprii tutte le mie carte.

«Guardi, mettiamo che io voglia fare un picnic e una gita in barca con gli amici in qualche punto della zona», dissi. «Parlando in via del tutto ipotetica, dove potremmo andare? Voglio dire, quali sono i punti migliori?».

Sulla sommità della testa di Dennis si era formato un accenno di ruga. Lo incalzai, dicendogli che i miei interessi non erano tanto da giornalista o da ricercatore, quanto da turista. Da visitatore. Per esempio, qual era un bel posto per fare un picnic nella Zona di esclusione? Lui dove andava nei giorni in cui non aveva da fare? E se non era possibile all’interno della zona, qual era il posto migliore più vicino? Indicai Stracholissja, appena fuori dalla zona, una cittadina che avevo identificato studiando la carta la sera prima. Lì com’era?

«Sì, quello è posto carino», disse Dennis. «Lì puoi pescare». Stavo facendo qualche progresso. Pescare? «Sì», disse Dennis, prendendoci gusto. «Ma questo posto è meglio». Indicò Teremci, una località minuscola nascosta in mezzo a un gruppo di isolette fluviali all’interno della zona. «Questo è buon posto per pescare», disse. «Sono andato una volta. Vado soprattutto per raccogliere funghi». Lo fissai. I funghi raccolgono e concentrano i radionuclidi del terreno e quindi sarebbero l’ultima cosa da mangiare nell’area contaminata. E Dennis li coglieva nel cuore della Zona di esclusione.

«Raccoglie funghi? E li mangia?». La mia voce manifestava soggezione.

«Sì, questa è area pulita, lo so. Questo non è problema». Non credevo alla mia fortuna. Appena arrivato, ero già pappa e ciccia con un tipo per cui la zona era una fungaia e una riserva di pesca. Volevo abbandonare l’itinerario. Perché uno dovrebbe andare a vedere un reattore nucleare distrutto quando appena più a valle si può pescare?

Non pensate che non lo abbia implorato. Ma Dennis era un professionista, troppo per scartare il programma ufficiale – con tutti gli incartamenti approvati, timbrati e firmati in duplice copia per ogni posto di controllo – solo perché uno straniero mezzo scemo gli diceva ti prego ti prego. Ma questa volta esitò per un attimo. «Questo non, ehm. È possibile», disse, tornando subito al copione. Ma intravidi l’accenno di un sorriso mentre si allontanava dalla carta.

 

  •  Najafgarh

Prima di partire da Delhi per il viaggio lungo il fiume, però, andai a vedere la fonte dei problemi. Il canale di scolo di Najafgarh un tempo era un corso d’acqua naturale, ma è stato completamente sopraffatto dal suo uso come canale per i liquami persino più dello Yamuna. Con una portata che si avvicina ai due miliardi di litri al giorno, comprese quasi quattrocento tonnellate di solidi sospesi – sì, quei solidi – il solo Najafgarh è responsabile di quasi un terzo di tutto l’inquinamento dell’intero fiume lungo quasi 1.400 chilometri. È il punto zero dello Yamuna.

Ci avvicinammo a piedi, facendoci strada nella baraonda di un cantiere edile. Stavano costruendo un nuovo ponte stradale che avrebbe oltrepassato il collo di bottiglia della strada che passava per lo sbarramento di Wazirabad. Superato il cantiere trovammo un ponticello pedonale che attraversava il canale a varie centinaia di metri dal punto in cui si immetteva nello Yamuna. Il ponticello pedonale era un sentiero in terra fiancheggiato da parapetti di cemento. Guardando di sotto si vedeva l’ampio letto coperto di cemento del canale, profondo forse come una casa di due piani. Una fanghiglia scura si agitava lungo il fondo. L’aria quasi risuonava dell’odore, quell’odore fermentato, quasi salmastro. Liquami. Era un odore in qualche modo distinto da quello delle feci vere e proprie. Un odore, si può dire, che distillava e concentrava qualunque cosa sia che nelle feci puzza così tanto. Avevo già sentito quell’odore, ma non aveva mai puzzato come puzzava quel giorno a Najafgarh. La puzza era tale che mi fece venire la pelle d’oca. La puzza era tale che mi riempì la bocca di saliva. I conati di vomito cercavano una presa per farmisi strada su per la gola. Cercai di inspirare a fondo.

Eppure.

Guardai di nuovo di sotto. La vegetazione si inerpicava nelle giunzioni del cemento sulle pareti del canale. Sopra l’acqua scura volavano pappagalli verdi con la testa affusolata. I piccioni si posavano su un margine di cemento e intingevano il becco. Le farfalle svolazzavano verso l’alto nell’aria assolata. Passando al lato del ponte a valle, vidi corone di fiori impigliate nei cavi elettrici che traversavano il canale. Erano rimaste lì quando la gente le aveva gettate. Persino qui facevano offerte.

E perché no? Sotto la puzza e il rumore, il motivo permaneva. Era un affluente dello Yamuna. Non dovremmo venerarlo soltanto perché puzza? Perché non essergli devoti, con tutti i solidi in sospensione? Che cosa ci può essere di più sacro di un fiume che sgorga dal ventre del tuo vicino?

 

  • Guiyu

Un salone di manicure con sei giovani donne in collant e stivali a tacchi alti lungo una strada piena di botteghe e di attività. A Guiyu tutte le donne giovani o giovanili vestono così. Chiacchieravano chine sul loro lavoro. Ovviamente non era un salone di manicure ma un negozio di circuiti. Ogni donna aveva una manciata di chip. Usando delle pinzette ne prendevano uno e immergevano ognuna delle due file di contatti in un recipiente di lega fusa su una piastra elettrica comune, lavorando con la velocità e l’efficienza di movimenti che deriva dal ripeterli con precisione tutti i giorni.

Chiedemmo se potevamo fotografarle mentre lavoravano. Risposero con risolini. Una di loro, nel secondo necessario per raccogliere la successiva manciata di chip, agitò la mano libera davanti alla faccia e sorrise. Per piacere no.

Vagammo per le strade, passando sopra piccoli canali zeppi di immondizia. Ma i rigagnoli zeppi di immondizia sono come i tramonti. Sono meravigliosi da ammirare, ma non è che significhino poi tanto. Sono più interessanti i molti odori presenti a Guiyu, le molte sfumature di acqua e aria che completano le nubi di circuiti fritti. Presso il fiume, macchie fluttuanti e sentore di fogna. Vicino alla stazione dei pullman, un odore fetido tossico generalizzato rimaneva sospeso sopra un canale lungo la strada. Sul ponte un puzzo inchiostrato di gas di scarico che viene da un trattore a tre ruote di passaggio. Guardai con un certo sgomento il pennacchio asfissiante che si avvicinava. Ma poi, mentre ci passava accanto, il conducente lasciò l’acceleratore per un momento, risparmiandoci il peggio. La cortesia era ancora viva persino a Guiyu.

Passando per un vicolo ci imbattemmo in un gruppo al lavoro su bancali di Motorola Broadband Media Center, i decoder per la tv via cavo. Un uomo ne aveva impilati una cinquantina lungo un lato dell’area di lavoro, formando un muro di scatole metalliche identiche, e passava dall’una all’altra con un’avvitatrice, svitando le stesse quattro viti di ognuna. Dietro a lui gli altri incolonnavano ordinatamente coperture, lati, sostegni di schermi a cristalli liquidi da cui penzolavano cavi a nastro: un groviglio di colori in un pomeriggio grigio. Lungo la strada ruttavano camion pieni di semiconduttori. Una motocarrozzetta ci passò accanto carica di strani oggetti verdi. Mi accorsi con un sussulto che erano cavoli.

Ci fermammo accanto a un autocarro col cassone sovraccarico di sacchi rigonfi da cui sporgevano angoli di circuiti stampati ripuliti. Materia grezza da portare ai misteriosi estrattori d’oro, dovunque fossero. Gli uomini che caricavano il camion sorrisero e mi chiesero da dove venissi.

Mei guo, rispondemmo. America. Che cosa porta il camion? Sorrisero un po’ meno. Cartone, dissero. Carta. Da riciclare. Montarono sul camion e partirono.

Un gruppetto di adolescenti ci sequestrò e ci portò a fare un breve giro fino a un centro civico in cui gli insegnanti cercavano di tenere sotto controllo una turba irrequieta di studenti di musica. Destammo sensazione. Per un momento capii la vita delle stelle del rock, che provocano convulsioni ai fan con uno singolo sguardo. I nostri rapitori ci portarono a un tempio vicino. È il nostro tempio, dissero. Ci addentrammo tra fatiscenti sale decorate, sotto lo sguardo di un plotone di divinità e semidei.

Dovresti pregare qui, dissero, a questo dio. Inginocchiati, unisci le mani, inchinati ed esprimi un desiderio. Lo feci. Ma non riuscivo a decidere se desiderare la pace o l’amore.

 

Scopri il libro:

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

Clima e disastri ambientali.

  • Il Canada occidentale è stato colpito da un’ondata di caldo senza precedenti: nella cittadina di Lytton, 260 chilometri a nord-est di Vancouver, la settimana scorsa sono stati registrati 49,6 °C, la temperatura più alta mai registrata in Canada. Come ricostruisce il Post, venerdì scorso il British Columbia Wildfire Service ha dichiarato che «dei 136 incendi attivi in quel momento molti erano stati innescati dai numerosi fulmini che avevano colpito la provincia il giorno prima […]; a favorirne la diffusione sono però le alte temperature e la scarsa umidità. Le stesse condizioni meteorologiche hanno contribuito alla morte di 719 persone nell’ultima settimana secondo il governo della British Columbia».
  • «La situazione è senza speranza»: in un video della CNN gli effetti sull’ecosistema marino a un mese e mezzo da quello che è stato definito uno dei peggiori disastri ambientali della storia dello Sri Lanka, e che ha visto la nave MV X-Press Pearl, carica di materiali pericolosi, bruciare per tredici giorni poco lontano dalle coste del paese e poi affondare.

→ Levantesi, I bugiardi del clima
→ Blackwell, Benvenuti a Chernobyl
→ Una selezione delle nostre proposte a tema Ambiente

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Europa e sovranismi.   Un «Appello per il futuro della Ue» è stato firmato da sedici partiti, come riporta Anna Maria Merlo sul manifesto, «appartenenti oggi ai gruppi Id e Ecr, da Lega e Fratelli d’Italia, ai belgi del Vlaams Belang, al Pis polacco, al Fpoe austriaco e al Rassemblement national di Marine Le Pen. Su questo eventuale nuovo gruppo se ne saprà di più in autunno […]. Ma il programma è pronto: difendere politiche a favore della famiglia, stop all’immigrazione di massa, priorità dello stato-nazione che deve poter “esercitare i legittimi poteri sovrani” contro un “super-stato Ue”, contro l’ “attivismo moralista” che vuole “imporre un monopolio ideologico”.»

→  Ottaviano, Geografia economica dell’Europa sovranista
→  Castronovo, L’Europa e la rinascita dei nazionalismi

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Angelo Del Boca. Ci ha lasciati Angelo Del Boca: lo ricordiamo con le parole di Nicola Labanca.

→ Le opere dell’autore

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Premio Strega. Vince l’edizione 2021 Emanuele Trevi, con Due vite. Per gli Editori Laterza ha scritto Senza verso, presto di nuovo disponibile in libreria e negli store online.
«Il calore e l’umidità ormai avevano preso ad aumentare senza tregua, giorno dopo giorno e notte dopo notte, senza che mai intervenisse un ostacolo, un fattore di equilibrio – nemmeno il minimo colpo di vento dalla parte del mare. L’esistenza si era fatta complessa in ogni minimo dettaglio, come a volte accade: ai limiti dell’ingovernabilità. Conosco bene, fin dalla primissima infanzia, questo sentimento di ingovernabilità dell’esistenza.»

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Euro2020.  Domenica 11 luglio la finale a Wembley: saranno Italia e Inghilterra a giocarsi il titolo di campioni d’Europa. Su Repubblica lo sguardo di Gabriele Romagnoli sulla storia di tre oriundi che, come Jorginho, Emerson e Toloi, avrebbero potuto vestire la maglia della nazionale: «Loro erano Enrico Guaita, Andrès Stagnaro e Alejandro Scopelli. Dovevano giocare nella Roma, favorita per lo scudetto del ’35-’36. A settembre furono sottoposti, come italiani acquisiti, alla visita di leva. Abili e arruolati. All’orizzonte c’era la guerra in Etiopia. Avevano preso la nazionalità per inseguire un pallone, non un posto al sole. Scapparono. In auto fino a La Spezia. In treno per Ventimiglia. A piedi oltre il confine. Un altro treno per Marsiglia, poi la nave per tornare nel continente d’origine. Si lasciarono alle spalle un rimpianto. E un ingiusto accusato: il presidente della Roma, Renato Sacerdoti, ebreo. I tre non ebbero più fortuna. Li inghiottì la storia. Guaita aveva contribuito alla vittoria nel mondiale del ’34 con un gol in semifinale e un assist in finale. Fa venire in mente Jorginho. In effetti l’Italia va a Wembley con tre oriundi: appunto Jorginho, Emerson e Toloi. Chissà da dove sono arrivate le loro anime?»

→  Ferrari, Ahi, Sudamerica!
→  Brizzi, Vincere o morire

In ricordo di Angelo Del Boca

Vent’anni fa, nel 2000, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, Angelo Del Boca scrisse: “Per più di cinquant’anni, prima come giornalista, poi come storico e docente, ho lavorato per fornire informazioni agli altri. È stato un lavoro particolarmente gradevole, perché secondato da una inesauribile curiosità e dal piace di tradurre in parole, in immagini, in verità a volte scomode, ciò che ho visto da ‘inviato speciale’ o scoperto da studioso nelle carte degli archivi. È stato soprattutto un grande bisogno di testimoniare, di denunciare menzogne e mistificazioni, che mi ha fatto scegliere quelle professioni. Penso che continuerò fino alla fine, fintantoché mi resterà un lettore e un contestatore, ad esercitare il mio diritto-dovere di informare”. Il passo è un po’ lungo, ma chiarisce perfettamente l’approccio, il taglio, il senso del suo lavoro.

Angelo Del Boca (Novara 1925-Torino 2021) è assai noto in Italia per le discussioni, diventate polemiche non per sua volontà, suscitate dalle sue pubblicazioni. Nel 1966 raccolse in volume una serie di corrispondenze giornalistiche che indagavano la guerra fascista d’Etiopia a trent’anni dalla sua fine. Pochi ne avevano parlato, ed era ancora troppo vicina per farne la storia. In quegli anni Del Boca dovette difendere quello che aveva trovato nei documenti dagli assalti rancorosi degli ambienti nostalgici di alcuni circoli combattentistici. A distanza di trent’anni, di fronte ad un’Italia che aveva dimenticato il passato coloniale e in particolare la vicenda fascista, nel 1996 Del Boca raccoglie gli studi già esistenti sul ricorso ai gas nelle colonie (fondamentali quelli, precedenti, di Giorgio Rochat). Di nuovo salì la polemica e se ne fece attore il giornalista Indro Montanelli, già volontario in Africa orientale, negando quel ricorso. Più tardi Montanelli avrebbe ammesso che i documenti trovati dagli storici erano indiscutibili: ma nel frattempo Del Boca era stato denunciato da una parte degli italiani come un denigratore antinazionale, mentre un’altra (e maggioritaria) parte lo ringraziava non solo per i contributi scientifici ma per quanto, nella coscienza civile nazionale, significava la presa in carico di un passato nazionale dalle pagine controverse. A seguito di queste discussioni pubbliche, che Del Boca sapeva ingaggiare e tenere vive con numerose interviste agli organi di stampa quotidiani, il suo lavoro di maggior successo editoriale fu certamente nel 2005 il suo Italiani, brava gente?, una carrellata nella storia nazionale in cui egli decostruiva il mito nazionale relativo agli italiani sempre buoni sempre e dovunque, un mito che non lo aveva mai convinto e che aveva imparato a demolire leggendo i documenti della storia coloniale italiana.

Ma Angelo Del Boca non cercava la polemica, era l’Italia che non voleva ricordare o sapere che ingaggiava, e perdeva, queste discussioni. D’altronde, era l’Italia che voleva sapere, che voleva ricordare e che anche voleva cambiare il proprio presente e futuro in base ad una più attenta conoscenza del passato che conosceva il suo nome, leggeva i suoi libri e lo ringraziava per le sue fatiche. Del Boca, come aveva scritto nel 2000, voleva solo informare, aveva piacere e sapeva informare.

Due altri elementi, però, vanno ricordati, soprattutto ora che Angelo Del Boca se ne è andato.

Il primo riguarda le sue conoscenze. Egli, parlando in pubblico o rispondendo alle domande dei giornalisti sulla guerra d’Etiopia o sul ricorso dei gas in Africa o della pericolosità del mito degli ‘Italiani brava gente’, sapeva di cosa si stava parlando. Da buon inviato nella storia, si era documentato. Alle spalle dei suoi scritti più puntuti, ci stavano i suoi studi storici sul colonialismo italiano. Fondamentali sono stati i suoi quattro volumi su Gli italiani in Africa Orientale, 1976-84, e i due volumi su Gli italiani in Libia, ivi, 1986-88: tutti editi da Laterza, così come con Laterza aveva fatto anche altre pubblicazioni prima e dopo di queste. E rispetto a quanto gli italiani sapevano, in quegli anni, del passato coloniale nazionale, questi sei volumi rappresentarono un eccezionale passo in avanti. È aspetto poco ricordato, ma a quella data – grazie ai volumi di Del Boca – anche nel contesto della memoria europea del colonialismo l’Italia recuperava un ritardo quasi quarantennale: prima di quei volumi, infatti, per la storia del colonialismo italiano, c’erano solo i volumi degli storici coloniali del regime fascista.

Il secondo elemento tocca un tema più ampio. Molti, in questi tristi giorni che seguono la sua scomparsa, certamente o ricorderà per le sue polemiche e le sue pubblicazioni storico-coloniali. È inevitabile, ed è giusto. Ma Angelo Del Boca fu molto più che questo. Era stato scrittore di racconti, giornalista, inviato speciale, redattore centrale di quotidiani importanti, presidente di un Istituto della rete degli Istituti di storia della Resistenza, direttore di riviste di storia. Insomma molto più che i soli gas in Etiopia.

Perdendo dopo una vita lunga e ricca protagonisti come Angelo Del Boca il panorama culturale, giornalistico, storico democratico italiano perde un altro di quei giovani che tre quarti di secolo fa, magari partiti da altre idee, avevano poi da partigiani contribuito a costruire l’Italia democratica. Giovani che erano rimasti tali anche crescendo, che lungo i suoi decenni avevano mantenuto la schiena dritta, ognuno nei propri campi: Del Boca, scrivendo e ricordandoci pagine del nostro passato nazionale che molti non conoscevano e che troppi volevano fossero dimenticate.

Nicola Labanca

07.07.2021