Profezia e utopia

Quando i profeti incoraggiano e sostengono movimenti di emancipazione nel loro paese aiutano l’emancipazione dell’umanità. Altri profeti seguiranno il loro esempio presso altri popoli, annunceranno visioni di emancipazione affini per i contenuti di libertà, diverse per riferimenti storici e culturali.
Ogni popolo deve conquistare l’emancipazione con i suoi sforzi.
Ogni popolo ha bisogno dei suoi profeti.

In questo brano, tratto dal suo ultimo libro Tempi profetici. Visioni di emancipazione politica nella storia d’Italia, Maurizio Viroli racconta i confini porosi tra profezia e utopia, ove la prima è un’esortazione a riformare l’ordine sociale e politico, la seconda un invito a mettersi in viaggio verso un’incantevole nuova patria: può essere riformato ciò che non esiste?

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Profezia e utopia

Nell’Italia del secolo XVII circolavano non pochi testi utopistici. Alcuni di essi traevano ispirazione dal De optimo statu reipublicae deque nova insula utopia di Thomas More, l’opera che inaugura la tradizione dell’utopia moderna. Altri la criticavano apertamente. In apparenza simili, l’utopia e la profezia sono invece modelli di pensiero politico e morale molto diversi. I profeti esortano i loro contemporanei, con parole chiare e semplici, a compiere scelte morali e ad impegnarsi per riformare l’ordine sociale politico. Gli scrittori di testi utopici non esortano esplicitamente a compiere scelte morali, non intendono mobilitare le coscienze. Le repubbliche perfette che essi descrivono non devono essere fondate o riformate. Bisogna soltanto mettersi in viaggio e andare a viverci. Il problema è che non esistono. Quando criticano l’ordine sociale e politico lo fanno nella forma velata e indiretta del dialogo per offrire consolazione o semplice distrazione. I confini tra il linguaggio profetico e il linguaggio utopico sono porosi. Le sovrapposizioni e i passaggi dall’uno all’altro sono tutt’altro che rari. L’esempio più eloquente, in Italia, è quello di Tommaso Campanella (1568-1639), autore della Città del Sole, completata nel 1602 e pubblicata nel 1623. Scritta secondo le regole del genere utopistico, l’opera contiene un esplicito messaggio profetico. La forma è quella classica del dialogo. I protagonisti sono un marinaio di Genova che ha viaggiato con Cristoforo Colombo e un cavaliere di Malta che si limita a chiedere spiegazioni e chiarimenti. La benedetta Città del Sole collocata nel mare della Sonda, vicino a Sumatra, imita la struttura urbana della polis greca. L’ordine politico, gerarchico e autoritario, vuole sradicare l’egoismo dal cuore degli esseri umani e rimuovere tutte le tentazioni che possono indurre al peccato. A tal fine i fondatori della Città del Sole hanno abolito la proprietà privata e la famiglia. Nonostante i contenuti teocratici e autoritari, La Città del Sole esprime, come gli studiosi hanno rilevato, aspirazioni di giustizia sociale simili a quelle manifestate dai profeti.

Gli altri testi utopistici che circolarono in Italia nel secolo XVII raccomandano invece docilità e sottomissione all’ordine sociale. Ludovico Agostini (1536-1609), pio giurista e pessimo scrittore, che trascorse quasi tutta la vita nella sua villa vicino a Pesaro, fra il 1583 e il 1584 scrive i Dialoghi dell’infinito, pieni di lunghe citazioni dalle Scritture e dai filosofi classici, soprattutto Aristotele. […] L’utopia di Agostini è una teocrazia senza alcun messaggio d’emancipazione con l’esplicito intento di incoraggiare l’obbedienza alle autorità religiose e secolari. Ancora più avversi alle visioni di emancipazione sociale e politica sono gli scritti utopistici di Ludovico Zuccolo: Della Repubblica d’Utopia e la Repubblica d’Evandria. Il primo è un attacco diretto all’Utopia di More. Gli esseri umani sono così malvagi, asserisce Zuccolo, che è del tutto impossibile fondare una comunità perfetta come quella immaginata dal celebre More. Tutte le istituzioni della Repubblica d’Utopia sono «quale pravo, quale poco retto, quale su debil base appoggiato». Le leggi che impongono di alternare lavoro intellettuale e lavoro manuale, ad esempio, impediscono ai cittadini di raggiungere quell’eccellenza morale che deve essere fine supremo della repubblica. Il lavoro manuale indebolisce le capacità intellettuali e rende i cittadini inadatti a partecipare al governo della repubblica. Altrettanto sbagliato è il costume degli abitanti di Utopia di tollerare diverse confessioni religiose. L’unità religiosa, egli ammonisce, è fondamento prezioso dell’ordine politico. Ma l’aspetto più negativo delle dottrine di More è costituito dalle sue idee sociali comunistiche. Il comunismo può forse essere valido per comunità di monaci, non per cittadini. Priva di contenuti di emancipazione sociale, l’utopia di Zuccolo era di fatto nient’altro che un passatempo intellettuale del tutto estraneo alla tradizione profetica. Un monito eloquente contro le pretese di riforma sociale viene anche dall’altro scritto utopico di Zuccolo, Il Porto, overo della Republica d’Evandria. Il narratore, Lodovico da Porto, è un uomo che ha dedicato la vita alla causa della libertà italiana. Giunto alla conclusione che l’Italia era condannata alla servitù, decide di viaggiare per tutta la terra. Ormai vecchio, ritorna in patria, felice di condividere la saggezza che ha accumulato nella sua esplorazione dell’isola di Evandria. Dopo un’entusiastica descrizione dell’amenità del sito, spiega che in virtù delle loro leggi eccellenti «gli Euandrij erano i più da bene huomini del Mondo, e che la Città loro era più d’ogni altra felice». Mentre gli italiani sono «pieni di frodi e colmi di vitij», gli evandri non indugiano nella lussuria, vestono sobriamente, non praticano il vergognoso costume dei duelli. Ma al suo elogio delle virtù civili degli evandri Zuccolo non fa seguire un’esortazione agli italiani affinché combattano la corruzione e si liberino dalla servitù. Lo spirito degli italiani è corrotto a tal segno che in essi non alberga più coraggio alcuno. Meglio andare a dormire, conclude mesto il narratore, e con queste parole chiude il suo discorso, senza infondere speranza alcuna:

«E tu meschina, e mal saggia Italia, che già nobile Regina sapesti dar legge al Mondo, onde hai tu appreso costume di sottommeter sì di buona voglia il collo a straniero giogo? Non sei tu quella, la quale fosti già sì seconda madre, e sì chiara nutrice di que’ Fabij, Camilli, Marcelli, Marij, Scipioni, i quali fecero correre i fiumi del sangue di queste belve, e inalzarono monti delle loro ossa? E se quella sei, come hai sì agevolmente mutata natura? Forse altro Cielo ti mira? Altre stelle t’istillano nuovi influssi? Altro Sole t’illumina? O’ pur l’aria, che tu spiri, l’acqua, che tu bevi, i frutti della terra, che tu mangi, sono d’altro temperamento? Se quegli antichi Heroi, i quali col senno, e con l’arme loro ti fecero Donna delle genti, ritornassero in vita, e ti vedessero soggetta a quelli, ch’essi condussero già catenati ne’ loro trionfi, come credi tu, che arrossissero di vergogna? Che avampassero d’ira? Che rimanessero confusi di stupore? Con che occhi t’imagini, che havessero a mirare le tue disunioni? Con quali orecchie a sentire, che i loro trofei fossero stati preda degli altri? Con quale animo a soffrire la viltà tua? Ma, perché la notte è già innanzi assai, sarà meglio darsi al riposo, che spendere il tempo in querele, che nulla giovano, poiché non possono nelle sorde orecchie d’Italia penetrare, né gli animi inviliti riempire d’ardore, e di coraggio.»

 

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#CasaLaterza: Livia Capponi dialoga con Giusto Traina

Da sempre Cleopatra ha suscitato curiosità per il carattere tragico e sensuale della sua vicenda, che è stata trattata da tante magnifiche rappresentazioni drammatiche e cinematografiche, da Shakespeare a Hollywood. Nonostante si sia detto quasi tutto, però, da un punto di vista storico su di lei sappiamo ancora troppo poco. Affrontare un personaggio che è anche una leggenda implica un lavoro duplice: in primo luogo, raccogliere le fonti, eterogenee, in continuo aumento e appartenenti a discipline molto diverse tra loro; poi, tentare di districare la storia dal mito. Infatti, quando non sono ridotti a frammenti o del tutto perduti, i testi antichi che parlano della regina spesso mentono, deformano, inventano.

Chi era davvero Cleopatra? Una vamp ante litteram? Una donna sanguinaria e assetata di potere? Oppure una regina intelligentissima e colta, su cui pesano i pregiudizi della tradizione storiografica? Da Plutarco ai fumetti di Asterix, passando per innumerevoli film e videogiochi, una sola cosa è certa: la storia di Cleopatra continua a esercitare il proprio fascino su tutti noi.

Per scoprirne la ragione e dare la giusta profondità a questo personaggio iconico e complesso – troppo spesso vittima di ritratti bidimensionali -, mercoledì 9 giugno a Casa Laterza si è parlato di Cleopatra, il nuovo libro della storica Livia Capponi. In dialogo con l’autrice, Giusto Traina, professore di Storia Romana alla Sorbona.

 

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L’invenzione perfetta

[Letture, 10 aprile 2021]

Prof.ssa Federica Formiga, Lei è autrice del libro L’invenzione perfetta. Storia del libro edito da Laterza. Il titolo riprende una famosa citazione di Umberto Eco: quando nasce l’oggetto libro che tutti maneggiamo?
L'invenzione perfetta. Storia del libro, Federica FormigaLa prima versione di un libro la abbiamo a forma di rotolo, costruito grazie all’utilizzo di un supporto nuovo: il papiro. Il materiale, più duttile all’uso dello stilo per la scrittura, diede la possibilità di trasmettere testi più lunghi e di carattere letterario più di quanto avessero prima permesso le tavolette cerate. Era però poco agevole nella lettura e nella manipolazione nonché estremamente fragile visto che richiedeva di essere conservato in ambienti climaticamente favorevoli e soprattutto non poteva essere piegato su sé stesso per evitare tagli lungo la piega.

Il primo libro che conosciamo e scritto in greco su papiro è il Derveni datato tra il 340 e il 320 a.C., anche se i libri su papiro circolavano forse in Grecia già dalla seconda metà del V secolo a.C., o addirittura dal VI vista la notizia di un’edizione ateniese dei poemi omerici sotto Pisistrato.

Il papiro fu tra i primi supporti più pratici per la scrittura dei testi letterari e sostituì con fortuna i cocci e le tavolette anche grazie alla sua possibilità di essere più leggero e quindi anche più facilmente trasportabile. Il supporto mostrò da subito un inconveniente: non poteva contenere testi molto lunghi per non diventare troppo ingombrante sia nella sua conservazione sia nella lettura. Era poi molto faticoso aprirlo muovendo un braccio verso l’alto o con entrambe le braccia lateralmente. Tali posizioni fisiche non rendevano neppure facile individuare agevolmente le parti ben precise del testo, il quale era anche condizionato dalla lunghezza del papiro stesso.

La questione se sia il libro nato come struttura logica oppure fisica, se lo spazio fisico abbia condizionato la lunghezza del contenuto oppure se sia stato il testo a determinare la dimensione ha impegnato a lungo gli studiosi e la domanda rimane fondamentalmente ancora aperta. Un rotolo poteva contenere solo una certa quantità di linee molto corte di scrittura (in media circa mille) disposte su due o più colonne parallele, obbligo che, almeno in parte, ha costretto gli scrittori antichi a far coincidere la struttura fisica del libro con quella logica. L’Iliade ad esempio, come tutte le opere antiche, era suddivisa in libri e ogni libro corrispondeva a un rotolo di papiro; quando poi fu trascritta, sui fogli in pergamena piegati, la suddivisione fu mantenuta ed è rimasta fino a noi, anche perché ogni libro rappresentava un’unità anche dal punto di vista del contenuto.

Il papiro fu probabilmente oggetto di embargo da parte del faraone Tolomeo Epifane d’Egitto e l’esportazione verso Pergamo fu interrotta mentre regnava Eumene II. La leggenda vuole che proprio la mancanza di materia scrittoria condusse allo sviluppo, avvenuto attorno al 170 a.C., di un nuovo supporto: la pergamena, che divenne, nonostante i costi, il più utilizzato e diede vita a una diversa forma dei libri: il codice. La novità conobbe il suo massimo sviluppo dal III secolo d.C., sebbene il modello a rotolo rimase comunque in auge, fino al Medioevo, per tramandare testi liturgici.

Il nuovo dispositivo fornì presto tutto lo spazio utile per scrivere testi più lunghi e farlo anche bilateralmente. Si trattava di un supporto più costoso, ma anche più facile da trovare: era ricavato dal trattamento della pelle degli animali allevati spesso nelle fattorie degli stessi monasteri dove si preparavano i manoscritti e, pur risultando il processo di preparazione particolarmente lungo, venne sfruttato subito il pregio della pergamena di essere resistente, flessibile, riscrivibile e piegabile e quindi funzionale alla costruzione dei fascicoli, l’unità base della nuova forma del libro, ereditata poi dalla stampa. Il foglio di pergamena a seguito della piegatura ha inoltre consentito, con l’apertura del libro, di avere davanti per la lettura ben due pagine, al contrario del rotolo oppure ora del computer e di essere più facile da maneggiare.

Quali elementi identificano il prodotto librario?
La forma del libro si ottiene con fogli piegati, cuciti e legati poi su uno stesso dorso, che l’aggiunta di una copertina ha reso presto posizionabile verticalmente su degli scaffali senza però perdere la possibilità di rimanere anche appoggiato o aperto su un piano. Gli elementi che identificano il libro sono riassumibili in un’unica parola: librarietà, la quale indica che libro è l’insieme di una serie di superfici piane, piegate e collegate sequenzialmente grazie alle quali viene trasmesso un messaggio visivo/verbale chiamato testo. Il contenuto, sempre fissato e delineato sul supporto, è assoggettato a una serie di elementi caratterizzanti l’oggetto destinato a contenerlo: pagine, copertina, legatura, sequenzialità del testo, possibilità di essere conservato in uno scaffale sono gli aspetti peculiari del prodotto librario e comprendono anche la narrazione, la forma, lo scopo, il significato e l’uso.

Come si è evoluto il libro fino a giungere alla sua perfezione di forme?
Il libro lungo il passare dei secoli si è continuamente evoluto dalla forma a rotolo a quella a codice, dalla scrittura manoscritta all’utilizzo dei caratteri mobili; è stato un continuo perfezionamento nel modo di produrlo. La stampa, ultimo passaggio innovativo applicato al libro, lo ha reso un prodotto seriale grazie all’utilizzo di macchine da stampa, lo hanno reso sempre più veloce nella realizzazione con il conseguente abbattimento dei costi di produzione rendendolo, se vogliamo per parafrasare Mary Poppins, perfetto in ogni modo. Il risultato di diventare un oggetto seriale fu raggiunto in modo rapido solo dal libro, basti confrontarlo con la riproducibilità della musica, possibile da soli centocinquant’anni: prima non si poteva ascoltare un’esecuzione se non in presenza e ciò, a differenza del libro, ha cambiato senza sosta formati e canali sia di registrazione sia di diffusione. Ovviamente l’introduzione della stampa non trovò tutti d’accordo tanto che venne paragonata a una meretrice, perché si temeva che i libri messi in circolazione fossero a solo fine di lucro ed era estremamente pericoloso che molte più persone ne avessero indistintamente accesso. Non mancarono neanche autori, come ad esempio Giovanni Tritemio (1462-1516) che scrissero a favore degli scribi, perché consideravano i prodotti della stampa poco durevoli e piene di errori, salvo poi diffondere tali opinioni proprio attraverso i caratteri mobili per garantirsi un raggiungimento di un pubblico più ampio.

Il libro ha visto, di volta in volta, la costruzione attorno a sé di elementi fortemente caratterizzanti come un frontespizio, la presenza di una copertina, a motivi grafici a partire dagli inizi del XX secolo, un inserimento di contenuti paratestuali come le dediche, gli avvisi al lettore oppure di strumenti atti a renderlo sempre più facilmente consultabile quali, già a partire dagli albori nel XV secolo del testo a stampa, il numero delle pagine o l’indice dei nomi, dei luoghi o delle cose notevoli. La sua perfezione è data quindi non solo dalla forma a codice, ma anche da una serie di migliorie atte a renderlo un prodotto altamente commerciale nonché in grado di resistere nel tempo. Il percorso non è stato certamente lineare ma sicuramente è stato continuo e inarrestabile nel tempo; senza però subire sostanziali stravolgimenti nella sua struttura originaria tanto che, qualora Gutenberg tornasse tra noi, non avrebbe nessuna difficoltà a riconoscerlo come oggetto.

Quando nasce la figura dell’editore?
Non è facile indicare una data precisa alla quale attribuire la nascita della figura dell’editore come noi oggi possiamo intenderlo, cioè come colui che perseguendo un sogno e un progetto culturale investe del denaro per far pubblicare determinati autori o titoli. Fino al Settecento la figura dello stampatore, dell’editore e spesso quella del libraio coincidevano in un’unica persona. Forse la nascita dell’editore avvenne quando, nel XVIII secolo, iniziò a profilarsi anche il ruolo dell’autore (a solo titolo esemplificativo si può richiamare alla memoria Daniel Defoe con il suo Robinson Crusoe pubblicato nel 1719). Scrivere divenne una professione che assicurava un reddito facendo cadere definitivamente il sistema del mecenatismo, in base al quale gli autori fornivano i loro servigi ai membri regnanti, alle famiglie patrizie, o ai prelati per vedersi assicurati protezione e riconoscimenti monetari. La differenziazione del ruolo dell’editore da quello dello stampatore nel libro è più evidente dal XIX secolo, quando al primo iniziò a essere lasciata visibilità sul frontespizio riservando l’ultima pagina del libro al nome del tipografo.

Come si giunge alla nascita dei diritti editoriali?
Storicamente prima dell’invenzione della stampa non sono mai apparse norme che regolassero e proteggessero la proprietà intellettuale. Gli antichi greci consideravano la trascrizione e la conseguente manipolazione del testo un mezzo per raggiungere l’immortalità, la fama e per essere ricordati per sempre. A chi sfruttava il lavoro degli autori era riservate sanzioni solo di tipo sociale o morale o si limitavano a invettive lanciate dai defraudati della loro creazione. Solo nel Medioevo la riproduzione venne vietata, ma il problema rimase irrilevante almeno fino all’introduzione dei caratteri mobili, cioè quando il contesto editoriale prevedeva un negozio e degli accordi di carattere economico per regolare la grande quantità di titoli pubblicati. La legislazione sul diritto d’autore presupponeva insomma l’esistenza dell’industria editoriale che, come fatto sociale di rilevanza economica, precede la sua regolamentazione giuridica. I privilegi erano fino al Settecento l’unico strumento per regolare i diritti sulle pubblicazioni concedendo ai tipografi/editori la facoltà di stampare in determinati luoghi per periodi ben stabiliti. Tali concessioni riguardavano i produttori materiali dei libri, mentre gli autori potevano avvalersi del ‘privilegio letterario’, cioè dello sfruttare l’opera decidendo a quale tipografia farla riprodurre, con la diretta conseguenza di un maggior controllo sulla qualità e sui contenuti. Il sistema dei privilegi resse per oltre tre secoli e ha disciplinato in tutta Europa il commercio librario, fino a quando perse il carattere di atto istitutivo di un’autorità e venne rivendicato come un diritto naturale di ciascun individuo. L’autore era l’unico legittimo proprietario dei frutti del proprio lavoro, del quale disporre con la libertà di venderlo a un editore per vederlo trasformato in una ‘manifattura di pensiero’ (Maurizio Borghi).

L’inizio del XVIII secolo vide in Gran Bretagna l’emanazione dello Statute of Anne, oggi considerato la prima legge sul copyright. Nato come tentativo degli Stationers di prendere possesso del diritto di controllo preventivo diretto sulle stampe trova origine nella presentazione di una legge (base testuale dello stesso Statute) rubricata con il titolo A Bill for the Encouragment of Learning and for Securing the Property of Copies of Books to the Rightful Owners thereof, ma poi approvata nel 1709 come An Act for the Encouragement of Learning, by Vesting the Copies of Printed Books in the Authors or Purchasers of such Copies, during the Times therein Mentioned, abbreviata in Copyright Act e chiamata Statute of Anne perché fu la regina a porre il sigillo sulla legge, entrata in vigore il 10 aprile del 1710. Essa stabiliva che il copyright di un’opera appartenesse al suo autore e che poteva pretendere compensi più consistenti dalla vendita delle proprie opere agli stampatori.

Il verbo securing (assicurare) venne sostituito da vesting (attribuire, conferire) perché nella prima versione, se era chiaro che si incoraggiava l’apprendimento, non era facile individuare chi fosse il titolare del diritto tutelato da quella legge e rimaneva fumoso chi fosse il ‘beneficiario’ sebbene, forse, per gli editori londinesi fosse scontato che si trattasse di loro. La fame di monopolio non piaceva alla House of Commons, che definì il diritto di copia dell’opera certamente una libertà esclusiva, ma a termine. Gli autori da tutto ciò erano però sostanzialmente esclusi e continuavano a non vedere messe in pratica le prerogative che lo statuto gli avrebbe dovuto riconoscere; la Court of Chancery, infatti, nei casi di pirateria, accordava tutela all’editore se dimostrava di essere proprietario dell’opera, solo esibendo il contratto di acquisto del manoscritto: gli inediti venivano pagati una tantum, limitando a questo scambio istantaneo le relazioni commerciali tra l’autore e gli editori. Solo con l’Engraver’s Act del 1735 divenne chiaro che i diritti sulla creazione artistica spettavano solo all’autore specificando il suo ruolo rispetto a quello dell’editore. A tutto ciò seguirono decenni di discussione non solo in Inghilterra ma anche in Francia, dove si sviluppò il concetto di propriété littéraire (in base alla quale l’autore avrebbe potuto disporre commercialmente della sua opera senza ostacoli) e poi in Italia per giungere alla conclusione che il diritto d’autore nasce intrinseco alla creazione dell’opera e l’autore può cedere a un editore i diritti patrimoniali per vedere prodotta e diffusa la sua opera. Kant è considerato il fondatore del diritto d’autore, dopo aver affermato, nel 1786, che l’editore era solo il rappresentante dell’autore, il suo procuratore, che esercitava la funzione di mediazione nello sviluppo del proprio negozio in nome dell’autore, il quale deteneva la proprietà dell’opera, che coincideva con quella del pensiero, non poteva essere alienata, era e restava sua esclusività, così come ai giorni nostri.

In Italia nel 1848 venne approvata la Nuova legge e regolamento sui diritti degli autori delle opere d’ingegno che collegava il rapporto dell’autore con lo stampatore-editore a un contratto di vendita, con la conseguente qualificazione dei diritti degli autori in termini proprietari. Un ulteriore passo avanti fu compiuto nella prima legge organica che disciplinò tale materia nel 1865, dopo l’Unità d’Italia, base per tutti i passaggi legislativi successivi. La differenza rispetto alla realtà anglosassone era che l’attività di creazione intellettuale era passata in primo piano e aveva guadagnato maggiore attenzione non solo nei confronti del guadagno economico, ma nella protezione riservata alla paternità e all’integrità del lavoro.

Per concludere, il diritto d’autore e il copyright, al quale il primo è spesso accomunato, hanno alla base due concetti diversi perché differenziano nelle relazioni tra l’autore e la sua opera, che nel diritto d’autore si stabilisce direttamente tra l’autore stesso e la sua creazione originale, mentre nel copyright tale rapporto si trasferisce sulla copia prodotta da un editore (Antonella De Robbio).

Quale futuro per i libri?
Il libro è sempre stato oggetto di una serie di invenzioni e di novità, che hanno contribuito a migliorarlo, a renderlo anche più praticabile e più facilmente utilizzabile dai lettori. I modelli e le tecnologie nel corso dei millenni si sono continuamente rinnovati con un’importante accelerazione negli ultimi due secoli soprattutto nell’attività di stampa. Tutte le rivoluzioni sono avvenute spesso fuori dalla nostra percezione, fino a un cambio di piano con la sostituzione o meglio un affiancamento alla tecnologia libro quella dell’e-book. La domanda qui posta è particolarmente retorica in quanto non ha senso preoccuparsi del futuro dei libri, i quali continueranno ad esistere nella forma che conosciamo, sebbene altre innovazioni accompagneranno ancora il libro nella sua produzione, promozione e distribuzione per portarlo nelle mani del lettore. Il digitale attualmente non è altro che un altro modo per trasmettere testi e contenuti, ma è una struttura per noi troppo nuova se confrontata con quella del libro. Non possiamo fare nessun tipo di previsione se il libro cartaceo sopravvivrà, al momento ci si limita a considerare che il suo formato elettronico non ha ancora superato, in termini di produzione e vendita, quello analogico pur dimostrando una certa versatilità per una lettura in determinate situazioni, come ad esempio in viaggio.

L’e-book ha registrato, nel suo percorso durato qualche decennio e ancora in fieri, una serie di insuccessi legati soprattutto alla costruzione del supporto necessario alla lettura dei testi in digitale, considerato più scomodo e con scarsi risultati rispetto alle possibilità offerte da lungo tempo dal libro.

Parlare di libri digitali non significa solo discutere della trasposizione di quelle parole in altra forma, su diverso supporto; si tratta di un oggetto ancora giovane, ulteriore rispetto al libro, con potenzialità ancora da scoprire e che ancora disorientano.

Inoltre, non è quasi mai chiamato in causa il limite che molti dei titoli in digitale sono a disposizione dopo la loro pubblicazione in forma cartacea oppure non sono più coperti dai diritti di copyright. Si tratta sostanzialmente di una delle motivazioni principali per le quali la profezia sulla morte del libro è ancora nel vuoto. Infine, i libri elettronici sono anche rimasti fermi a lungo dal punto di vista del software perseguendo nuove soluzioni hardware per ottenere strumenti di lettura in grado di competere nella struttura e nella leggibilità del libro, il quale nelle forme, a noi note, sta continuando indisturbato la sua strada per assolvere alle sue funzioni, pur affiancato appunto dalle nuove e diverse tecnologie. L’e-book, al momento, non è altro che il feticcio o la brutta imitazione di un’invenzione perfetta, la quale si presenta come un contenitore ordinato, con una sua fisicità e autonomia, una sua geometria peculiare e visibile; pensare al digitale come un’esatta trasposizione della carta su uno schermo è un’idea fallimentare in partenza.

 

Scopri il libro:

L'invenzione perfetta. Storia del libro, Federica Formiga

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

 

→  “Codesti vostri applausi sono la conferma precisa della fondatezza del mio ragionamento. Per vostra stessa conferma dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà”. Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti veniva brutalmente assassinato dai fascisti.

 

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→  Balcani. Confermata in appello la condanna all’ergastolo per Ratko Mladic, il “boia di Srebrenica”. La condanna era stata emessa nel 2017: come ricostruisce AGI, «fra i capi d’accusa anche la responsabilità del massacro di Srebrenica del 1995, il peggiore in Europa dalla Seconda guerra mondiale, quando furono uccisi 8 mila ragazzi e uomini musulmani dalle truppe di Mladic, mentre la zona era sotto protezione dei caschi blu olandesi dell’Onu.
Nella guerra in Ex-Jugoslavia tra il 1992 e il ’95 i morti furono circa 100 mila e altri 2,2 milioni di persone furono costrette a lasciare le loro case».

+ Sempre su Agi, Nicola Graziani racconta una vicenda che combina in maniera curiosa la condanna di Mladic e l’avvio di questi strani campionati di calcio Europei: «Vale la pena ricordare quel che fu la vicenda di una miniera d’argento, di un campo di patate e di un paio di porte. Perché di cronaca di fatti terribili si tratta, di morte. Però se è di morte si sappia che è anche di resurrezione. E, soprattutto, dimostra che la storia di questo Continente – che non ancora scongiurata la pandemia già è lì che pensa al pallone – dal pallone è stata fatta, e che ha due nature. L’una demoniaca, sì, ma l’altra angelica. O, se non proprio angelica, almeno ludica. E il gioco, soprattutto se accostato al male, alle dimore celesti dei cherubini e dei serafini si avvicina parecchio». Qui il resto del racconto.

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→  Capitol Hill. Secondo un rapporto del Senato USA, l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio scorso era stato “pianificato alla luce del sole”. L’intelligence aveva raccolto online materiali significativi a partire da dicembre, compresi messaggi come “Portate le pistole. È ora o mai più”. Tuttavia, una combinazione di cattiva comunicazione (il rapporto l’ha definita “caotica, sporadica”), di debole organizzazione e di scarsa leadership ha portato a lasciare inascoltati segnali evidentissimi.

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→ Perù. Ancora in dubbio l’esito delle elezioni presidenziali in Perù: come ricostruito dal Post, l’attivista di sinistra Pedro Castillo avrebbe vinto «con un margine molto ridotto, ottenendo circa 60mila voti in più della rivale Keiko Fujimori, populista di destra, ma non è ancora stato proclamato presidente perché quest’ultima ha contestato i risultati sostenendo che ci siano state “frodi elettorali sistematiche”.
Benché diversi osservatori internazionali abbiano smentito le presunte irregolarità denunciate da Fujimori, le dispute legali potrebbero andare avanti anche per due settimane e ribaltare i risultati delle elezioni. Soprattutto, potrebbero far aumentare ulteriormente le tensioni nel paese, che è sempre più diviso a causa delle disuguaglianze economiche tra la popolazione, della corruzione molto diffusa tra i politici e i funzionari pubblici, e degli effetti della pandemia da coronavirus.
Castillo, ex insegnante e candidato del partito di ispirazione marxista Perù Libero, ha ottenuto il 50,2 per cento dei voti contro il 49,8 per cento di Keiko Fujimori, leader del partito di destra populista Forza Popolare e figlia dell’ex presidente del Perù Alberto Fujimori, che aveva governato il paese in maniera autoritaria dal 1990 al 2000».

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→ Opinioni. “L’Italia continua a ignorare i suoi crimini coloniali”: Igiaba Scego su Domani.
«Pochi sanno che la Germania è stata una potenza coloniale. Pochi sanno che si è macchiata di un genocidio ben prima del nazismo. Pochi sanno che da anni è in corso nel paese una presa di coscienza sui crimini coloniali compiuti un secolo fa contro le popolazioni Nama e Herero in quella Namibia poco narrata dalle cronache giornalistiche dell’occidente.
È di pochi giorni fa, esattamente del 28 maggio, l’annuncio del ministro degli Esteri Heiko Maas su un accordo tra Germania e Namibia su quei crimini del passato. La Germania, che già in precedenza ha presentato delle scuse formali per bocca della cancelliera Angela Merkel, ha riconosciuto il massacro delle popolazioni Herero e Nama tra 1904 e 1908 in pieno Reich Guglielmino. […]
La notizia è stata accolta da parte di alcuni con entusiasmo e da altri con scetticismo. Gli entusiasti hanno visto in questo un passo importante verso una Germania decolonizzata, conscia che i crimini partoriti dal Nazismo sono stati di fatto preparati già dal Reich guglielmino con un massacro che ha lasciato sul campo donne, bambini e uomini uccisi con una ferocia e brutalità inaudita. Una Germania conscia del suo futuro transculturale e proiettata nel futuro. Questa è una delle letture dei fatti.
Chi è scettico invece ha visto in questa presa di posizione della Germania un timing sospetto, dettato più da ragioni geopolitiche e soprattutto arrivato dopo le scuse formali della Francia al Rwanda sul genocidio degli anni Novanta. Anche molte delle comunità locali, i cui antenati sono stati massacrati dal Reich guglielmino, hanno parlato di una riparazione a metà.
Molti hanno denunciato che l’accordo è stato con lo stato e non con le comunità i cui antenati sono stati massacrati. Si è parlato di una cifra irrisoria da una parte e della ambiguità dell’aiuto europeo in un continente, l’Africa, sempre più al centro di una nuova guerra fredda tra Cina e il mondo occidentale.
Insomma non si ha una lettura univoca dell’avvenimento. Ma vista dall’Italia questa discussione che sta interessando la Germania e la Francia sembra davvero fantascienza.
In Italia il rimosso coloniale, soprattutto a livello istituzionale e culturale, è rimasto ancora rimosso. Negli ultimi anni tentativi di decolonizzazione sono arrivati dal mondo accademico e culturale. […] Negli ultimi anni c’è stato un grande interesse su quanto lo spazio urbano delle nostre città sia stato colonizzato dalla propaganda coloniale sia di età liberale sia di epoca fascista. Da Bari a Bologna spuntano vie con il nome dell’Africa, sempre possedimenti coloniali, o come a Roma via dell’Ambaradam, una via che porta il nome di una sanguinosa battaglia coloniale, un massacro di persone che stavano solo difendendo la loro terra. […]
Come è di fatto interessante quello che sta nascendo a Roma, apertura prevista tra un anno massimo due anni, del museo italo-africano Ilaria Alpi. Si può musealizzare il colonialismo e, se sì, come? Le curatrici si stanno ponendo tutte le domande scomode. Cosa mostrare, cosa restituire, cosa lasciare solo agli occhi degli studiosi o degli artisti. […] Insomma, il dibattito è forte in alcuni ambiti intellettuali anche qui in Italia. Ma questa consapevolezza è ancora di pochi»

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→  “How nasty was Nero, really?” Sul New Yorker un ritratto di Nerone a partire dell’esposizione che il British Museum gli sta dedicando, Nero, the man behind the myth. Il progetto mira, se non a riabilitare la figura dell’imperatore, a metterne in discussione la “grottesca” reputazione.

 

   

Ildegarda di Bingen, Tina Modotti, Francesca Woodman

Dall’antica Grecia a oggi sono moltissime le donne che hanno dipinto, scolpito, decorato. Tanti dei loro nomi sono finiti – ingiustamente – nell’oblio.

È arrivato il momento di raccontare un’altra storia dell’arte.

In quest’estratto, le storie di tre delle – silenziose, coraggiose, libere – artiste raccontate da Costantino D’Orazio nel suo nuovo libro, Vite di artiste eccellenti.

 

Le visioni di Ildegarda

Nel Medioevo, raggiungere la veneranda età di ottant’anni è un traguardo notevole, soprattutto per una donna. Quando il 17 settembre del 1179 scompare, Ildegarda di Bingen ne ha ottantadue, vissuti intensamente almeno per la metà. Da circa vent’anni gira l’Europa raccontando in pubblico le sue visioni in cerimonie dove viene acclamata come una santa e venerata come una prescelta da Dio, con cui intrattiene un rapporto speciale. Tra un’adunata e l’altra, detta ad un suo fido scrivano meravigliose apparizioni, che raccoglierà in uno dei suoi libri più preziosi e controversi, lo Scivias, crasi di Scito vias, «Conosci le vie».

[…] Non è stato facile per Ildegarda ottenere il via libera per manifestare a tutti questa sua dote: solo all’età di sessant’anni ha potuto uscire allo scoperto. La monaca deve aggirare l’ostacolo costituito dal divieto imposto da san Paolo, che invita le donne a rispettare il silenzio nelle comunità cristiane e ad evitare di mettersi in una qualsiasi posizione di autorità. Ma lei non agisce per sua volontà, bensì si limita ad obbedire al Signore, che le impone di rivelare ciò che vede.

Donna sensibile e intelligente, capace di prevedere i rischi che una esposizione pubblica avrebbe potuto procurarle, per evitare l’accusa di eresia o, peggio, quella di stregoneria, decide prima di tutto di rivolgersi ad una delle anime più pure e rispettate del suo tempo: il monaco Bernardo di Chiaravalle. Gli scriverà confidando nella sua approvazione, che diventa il viatico per ottenere anche il placet di papa Eugenio III. Grazie a due uomini di prim’ordine, il segreto che l’ha tormentata per gran parte della sua vita diventa un privilegio. Intrattiene rapporti epistolari con dignitari di mezza Europa, che le chiedono consigli o le scrivono per il solo desiderio di vantarsene con i membri delle loro corti, è la consigliera di Federico Barbarossa, proprio nel frangente che si concluderà in uno scisma e l’elezione di due papi nel 1159, diventa badessa del suo convento e ne fonda uno nuovo a Bingen sul Reno, da dove irradia la sua sapienza. Dalla sua ha la convinzione di essere un semplice strumento nelle mani del Signore.

[…] Ildegarda non ha studiato il latino né ha ascoltato lezioni di precettori e teologi, ma riesce a costruire immagini folgoranti, che traduce in miniature straordinarie. Lo Scivias è un capolavoro di filosofia naturale, in cui ad illustrare le sue visioni contribuiscono dettagli estremamente realistici e frutto della sua conoscenza delle cose terrene.

Le sue visioni sono molto più concrete di quelle che coglieranno Matilde di Magdeburgo, Angela da Foligno, Caterina da Siena, o Brigida di Svezia. Sono immagini che non lasciano nulla al caso e non si sciolgono in formule nebulose, affidandosi alla sola emozione e all’ascesi impalpabile. Alcune pagine potrebbero illustrare facilmente un trattato di cosmogonia o un volume di botanica, tale è la consapevolezza che la guida nell’invenzione di figure limpide e sintetiche. Non c’è nulla di narrativo e aneddotico in queste pagine, dove il fulcro dell’immagine è quasi sempre occupato da un cerchio intorno al quale girano le componenti della visione. Alberi, venti, astri, animali d’ogni sorta in dialogo con esseri umani alle prese con le attività quotidiane: Ildegarda dimostra una consapevolezza fuori dal comune, che prende le distanze dagli atteggiamenti ascetici dell’Alto Medioevo. È il segnale che quel ruolo subalterno che la donna sembra assumere subito dopo l’epoca tardoantica, all’esordio del nuovo millennio, comincia a cedere il passo a favore di una sempre maggiore autonomia, intellettuale e sociale.

 

L’impegno civile di Tina Modotti (1896-1942)

Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini apprende i primi rudimenti della fotografia in Friuli, grazie allo zio Pietro. Nel suo studio fotografico, la piccola Tina impara l’arte dell’esposizione, dell’inquadratura fino alle tecniche dello sviluppo.

Riuscirà a mettere a frutto queste informazioni quando a diciassette anni affronterà da sola il viaggio verso gli Stati Uniti che la porterà a ricongiungersi con la famiglia, nel frattempo emigrata oltreoceano. Con i genitori si trasferisce a San Francisco, dove nel 1918 si sposa con il pittore Roubaix de l’Abrie Richey. I due decidono di vivere a Los Angeles per poter perseguire una carriera nel mondo del cinema. L’esordio della Modotti da attrice risale al 1920, con il film The Tiger’s Coat, il primo di tre film che interpreta. Il pubblico la acclama per il suo fascino esotico, ma Tina non gradisce quell’immagine di terribile seduttrice che l’industria di Hollywood le cuce addosso. Decide presto di mettere fine alla breve avventura cinematografica per dedicarsi alla fotografia, che approfondisce accanto al fotografo Edward Weston, di cui diventa modella e poi amante. Scoperto il tradimento, il marito scappa in Messico, dove muore di vaiolo prima che la Modotti riesca a raggiungerlo. Una volta lì, viene sopraffatta dal fascino del paese che diventerà la sua terza patria.

In tutta la sua vita, i dieci anni trascorsi senza mai uscire dal Messico sono l’esperienza più stanziale che abbia vissuto. […] Tina si tuffa in questa vivace scena culturale sfruttando la macchina fotografica per raccontare il contesto che la circonda, sempre divisa tra tensione estetica e impegno politico. Vive a stretto contatto con gli artisti più all’avanguardia. Ospita sulla terrazza di casa sua i festeggiamenti per il matrimonio di Diego e Frida, partecipa alle manifestazioni operaie, che documenta puntualmente con il suo obiettivo.

Sull’onda di ciò che ha appreso da Weston produce un cambio di passo nella sua ricerca: da immagini estremamente sfumate, dove prevale l’effetto pittorico, Tina passa alla registrazione della vita reale attraverso gli oggetti e i simboli della rivoluzione messicana. Compaiono cartucciere, falci, chitarre, murales, sombreros, ma anche mani che lavorano, donne con bambini, tessuti e fiori.

Sta maturando una passione politica sempre più profonda, che la conduce all’iscrizione al Partito comunista nel 1927, quando stringe una vivace relazione con Frida Kahlo e Diego Rivera, che la accolgono nel loro mondo fatto d’arte e impegno civile. Le sue posizioni radicali giungono a procurarle la qualifica di «persona non grata» da parte del regime fascista, che attacca spesso nei suoi articoli per il giornale «El Machete». La sua passione la costringerà a diventare cittadina del mondo, fotografa apolide in cerca di avventura.

 

I «selfie» di Francesca Woodman (1958-1981)

Chissà quali erano le reali aspettative di Francesca Woodman, quel giorno che si presentò a Giuseppe Casetti, proprietario della libreria romana Maldoror, mostrandogli le sue fotografie. Non aveva nemmeno vent’anni, ma aveva già accumulato una grande quantità di scatti che dimostravano una chiarezza di vedute piuttosto insolita per una persona così giovane. È giunta a Roma dagli Stati Uniti per frequentare i corsi che la Rhode Island School of Design mette a disposizione dei suoi studenti in Italia. L’esperienza romana costituirà il momento più intenso del suo percorso artistico. A Roma stringerà amicizia con altri artisti, come la pittrice Sabina Mirri o Giuseppe Gallo, frequenterà la Galleria Ugo Ferranti, una delle situazioni di proposta più vivaci della capitale, e condurrà la sua ricerca, tanto originale quanto fugace.

Apparentemente semplici e immediate, le sue fotografie celano uno studio profondo del rapporto tra il suo corpo e lo spazio circostante, che si tratti di un ambiente naturale o di un’architettura. Quando non buca l’obiettivo con lo sguardo, gli autoritratti della Woodman la vedono sfocare i contorni a causa del movimento.

Ha solo quattordici anni quando realizza il suo primo autoritratto, nel quale inserisce anche il filo che collega la macchina al pulsante dell’autoscatto, manifestando una sorprendente coscienza della narrazione del processo creativo. I capelli le coprono il viso, in un gioco tra visibile e nascosto che continuerà ad appassionarla in tutta la ricerca successiva.

Woodman si spoglia per trovare risposte sulla propria identità. Fotografa il proprio corpo con estrema naturalezza, documentando il suo mutamento negli anni, dall’adolescenza all’età adulta, ma spesso non lo rivela del tutto, lo tiene nascosto dietro mobili e oggetti, carta da parati, piante, specchi. Non c’è alcun intento di denuncia o presa di posizione politica in queste immagini: il corpo di Francesca esplora il rapporto tra pieni e vuoti nello spazio, quello tra presenza e assenza e la consapevolezza di sé, che nelle sue foto è soggetto e oggetto allo stesso tempo, autrice consapevole e oggetto esplorabile, fuori da qualsiasi simbolismo. Il suo uso del corpo verrà da molti considerato un atto femminista di affermazione della presenza individuale, ma si tratta di riletture postume, perché lei non sembra interessata ad alcuna affermazione politica. È a livello formale, invece, che il suo lavoro è perentorio e deciso, tanto da ispirare artiste come Cindy Sherman, Sophie Calle e Nan Goldin.

[…] Incredibilmente prolifica, Woodman, negli appena otto anni in cui lavora prima di togliersi la vita, produce oltre diecimila negativi e ottocento stampe, di cui ne risultano pubblicate ed esibite poco più di un centinaio. In una che compare nel suo libro d’artista è appuntato questo messaggio a Casetti, che sembra una icastica descrizione del modo in cui ha vissuto intensamente la sua breve esistenza:

Questa è l’ultima pagina di una storia. Io da piccola leggevo sempre al contrario e adesso sono un po’ così… contraria. In bocca al lupo. La tua amica del cuore.

 

Scopri il libro:

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana, ma anche un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

Questa settimana parliamo di vaccini, di riscaldamento climatico, dell’EuroQci, del Festival Economia Trento 2021 – senza dimenticare la Festa della Repubblica.

 

→ Vaccini. Biden ha annunciato che gli Stati Uniti invieranno 25 milioni di dosi di vaccino nel mese di giugno a Paesi che ne hanno urgente bisogno, a rinforzare in gran parte l’iniziativa globale Covax. L’obiettivo, come riporta Time, è di inviare complessivamente 80 milioni di dosi prima della fine di giugno, conservando il 25% delle dosi in eccedenza per le emergenze.

Come anticipato dal Wall Street Journal, peraltro, l’Unione Europea sarebbe pronta a presentare un piano alternativo, che dovrebbe prevedere la sospensione delle restrizioni all’export di vaccini e delle relative materie prime.

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→ Caldo mortale. Come ricostruito dal Guardian, secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change, il 37% delle morti causate dal caldo tra il 1991 e il 2018 sarebbe attribuibile a un innalzamento della temperatura causato dalle attività umane.

“I dati suggeriscono che gli effetti sulla salute del rapido riscaldamento sono rilevabili già in queste fasi iniziali di un cambiamento climatico potenzialmente catastrofico” ha affermato il professor Antonio Gasparrini, della London School of Hygiene & Tropical Medicine. “Il messaggio è… non bisogna aspettare il 2050 per constatare aumenti nel numero delle morti causate dall’innalzamento della temperatura.”

 

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→ Cina. Grazie a una decisione del 31 maggio, alle coppie cinesi è ora permesso avere fino a tre figli.

Come ha ricostruito Pierre Haski, tradotto da Internazionale, “la politica delle nascite ha vissuto evoluzioni radicali nel corso del tempo. Mao vedeva nella popolazione numerosa uno dei punti di forza della Cina, innanzitutto sul piano militare. […] Tre anni dopo la morte di Mao, nel 1976, Deng Xiaoping ha operato una svolta a 180 gradi, introducendo la politica del figlio unico. Per trentacinque anni questa misura è stata imposta in modo autoritario, con aborti e sterilizzazioni forzate oltre a punizioni severe. […] La misura è stata cancellata soltanto nel 2015, quando ormai da anni i demografi avvertivano il Partito comunista del rischio che la Cina diventasse “vecchia prima di essere ricca”, secondo una formula molto diffusa. […] Ma laddove la generazione precedente aveva ardentemente desiderato creare famiglie più numerose, quella che è cresciuta con la politica del figlio unico non ne aveva più alcuna intenzione.

La politica del secondo figlio ha dunque avuto un impatto relativo sulla demografia cinese. Da questo insuccesso deriva la decisione, presa il 31 maggio, di alleggerire ulteriormente la regola, senza però abolirla.

Nel frattempo sono stati resi pubblici i risultati del censimento decennale condotto nel 2020. Malgrado gli 1,4 miliardi di abitanti, la Cina ha registrato l’aumento di popolazione più debole degli ultimi decenni, con una media di 1,3 figli per donna, una delle più basse del mondo. […]

La struttura familiare è riassunta dalla formula 4-2-1: quattro nonni, due genitori e un figlio. I nonni, senza pensione, sono a carico dei loro discendenti, che non possono permettersi di avere più di un figlio. Inoltre il mercato immobiliare e il costo della vita nelle grandi città sono proibitivi, e le coppie si scontrano con la mancanza di strutture di sostegno.

Il potere cinese non aveva previsto questa crisi demografica che rischia di costare caro all’economia, creando un reale problema di gestione degli anziani nei prossimi due decenni. Siamo davanti a un chiaro errore di pianificazione. Il colmo per un paese comunista”.

   

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→ EuroQci. La Commissione europea ha scelto di affidare la futura rete internet quantistica dell’Unione – EuroQci (quantum communication infrastructure) – a un consorzio di aziende e istituti di ricerca nei settori della difesa, dell’industria aerospaziale e del digitale. I soggetti coinvolti sono Airbus defence, Orange, Pwc, Leonardo e Telespazio, insieme al Consiglio nazionale delle ricerche e l’Istituto nazionale di ricerca meteorologica.

L’intenzione, come ricostruito da Wired, è quella di “imprimere un’accelerazione nello sviluppo del settore della sicurezza digitale, per incrementare l’indipendenza e l’autonomia del blocco rispetto ai competitor internazionali. L’obiettivo dell’iniziativa EuroQci è quindi di costruire uno scudo di comunicazione quantistica per proteggere tutti gli stati membri dalle minacce informatiche. […]

I primi utenti dell’infrastruttura saranno le agenzie governative e le autorità dell’Unione, che richiedono il massimo livello di sicurezza per proteggere informazioni vitali per la sicurezza del blocco”.

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→ Festival Economia Trento 2021. È partita il 3 giugno la sedicesima edizione del Festival. Tema conduttore sarà “Il ritorno dello Stato. Imprese, comunità, istituzioni”.

A ragionare sulle questioni che la pandemia ha posto sul tappeto quest’anno, anche cinque premi Nobel per l’Economia: Michael Kremer, Paul Milgrom, Joseph E. Stiglitz, Michael Spence e Jean Tirole.

Qui gli eventi che consigliamo, giorno per giorno.

Qui invece il programma completo e una panoramica sui tantissimi relatori.

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→ 2 giugno, Festa della Repubblica.

 

            

 

Come sono sopravvissuta a un manipolatore

«Spesso consiglio di trasformare la propria storia in disegni, in parole, in dipinti. Salire sul palco, filmarsi… Usare la propria storia finché ‘perde senso’ per noi. È quello che ho fatto io.»

Sophie si innamora perdutamente di Marcus e le sue giornate sembrano uscite da un romanzo rosa. A poco a poco però Marcus mostra il suo vero volto: è diverso, si contraddice, la isola dagli amici, nega l’evidenza.

L’amore non basta! è il primo fumetto di Sophie Lambda, che in questo video ci racconta la sua relazione con un narcisista manipolatore, dall’abisso alla liberazione: perché uscirne è possibile, una volta trovate le parole giuste per raccontare la propria storia e donarla al mondo.

 

 

Scopri il libro e leggi un estratto:

L’amore non basta!

L’amore può declinarsi in molti modi. Alcuni possono rivelarsi distruttivi: per esempio se la persona che amiamo è un narcisista manipolatore che, giorno dopo giorno, rende la nostra vita un vero inferno.

Quando Sophie incontra Marcus, un uomo brillante, passionale, affascinante, si innamora nel giro di 48 ore. Proprio lei, sicura di sé e disincantata sull’amore, stavolta ci crede, e tra i due ha inizio una relazione travolgente. Ma dopo poco tempo Marcus comincia a raccontare bugie, fa sempre più spesso scenate, ha reazioni spropositate, la isola dagli amici. Crescono le incertezze di Sophie – forse sono davvero opprimente e non me ne rendo conto? forse davvero non mi controllo? – che la sprofondano in un disagio a cui non riesce a dare un nome. La sensazione è di essere finita in un vortice dal quale non riesce a uscire.

Attraverso la sua storia, l’autrice racconta i comportamenti e gli schemi di una relazione manipolatoria. Un’esperienza vissuta da molti ma di cui si parla poco, perché chi l’ha superata ne porta i segni e chi ci è dentro spesso ne prova vergogna.
Con  L’amore non basta!  Come sono sopravvissuta a un manipolatore, Sophie Lambda ha trovato le parole per raccontarla e, soprattutto, prova che se ne può uscire.

 

In questo estratto, tre esempi di tecniche utilizzate da un manipolatore o da una manipolatrice per riprendere il controllo sul partner dopo una rottura, ma anche due buone strategie per evitare questi tentativi di destabilizzazione.

 

Festival Economia 2021, si parte!

La sedicesima edizione del Festival dell’Economia di Trento è partita!
Ecco i nostri consigli, giornata per giornata, in diretta sulla nostra pagina Facebook:
Puoi consultare il programma completo e seguire gli eventi in diretta sul canale YouTube e sul sito del Festival: https://www.festivaleconomia.it/it/programma/live

 

Il Coronavirus ha radicalmente modificato il contesto economico, sociale, politico e culturale in cui ciascuno di noi vive. In questo nuovo contesto lo Stato ha recuperato un ruolo primario nella vita dei singoli cittadini come scrive Tito Boeri, direttore scientifico del Festival, nella presentazione del programma del 2021: “La pandemia di Coronavirus ha spinto il settore pubblico a entrare in modo ancora più invasivo nelle nostre vite, regolando ogni aspetto più recondito della nostra quotidianità, dalle nostre uscite di casa alle persone che possiamo invitare a cena. Intendiamoci: lo ha fatto spesso (non sempre) per buone ragioni e altri paesi, che hanno avuto uno Stato meno invadente, se ne sono pentiti amaramente. Fatto sta che anche quando finalmente usciremo dall’emergenza ci ritroveremo con uno Stato ipertrofico che ha invaso campi in passato riservati esclusivamente all’iniziativa privata”. Per questo motivo il tema conduttore della sedicesima edizione del Festival sarà “Il ritorno dello Stato. Imprese, comunità, istituzioni”.

“La fine della pandemia – prosegue Boeri – può essere l’occasione per ridisegnare i confini dello Stato, rafforzare la sua presenza dove ce n’è maggiore necessità progettandone la ritirata altrove. Cosa deve fare il settore pubblico per i propri cittadini e cosa invece deve limitarsi unicamente a regolare e lasciare all’iniziativa privata? E come trattare il privato che non si limita perseguire i propri interessi individuali o d’impresa, ma che si organizza in comunità, in associazioni del Terzo settore, capaci di occuparsi del bene comune al pari, se non meglio, del settore pubblico?”

A ragionare sulle questioni che la pandemia ha posto sul tappeto quest’anno cinque premi Nobel per l’Economia: Michael Kremer (2019) che aprirà il festival riflettendo sui meccanismi che possano impedire colli di bottiglia e blocchi di esportazioni nella fornitura su scala globale di vaccini. Nei giorni successivi Paul Milgrom (2020), che si soffermerà sul disegno delle aste e delle gare d’appalto pubbliche, un tema di grande rilevanza alla luce del rilievo che hanno gli investimenti pubblici nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza; Joseph E. Stiglitz (2001) sul nuovo ruolo dello Stato in presenza di forti esternalità come quelle esercitate dai focolai globali di coronavirus e Michael Spence (2001) sul delicato rapporto tra trasformazione digitale, uguaglianza delle opportunità e sostenibilità sociale, mentre Jean Tirole (2014) tratterà della tutela della privacy nell’era del digitale.

È un’edizione ancora più internazionale delle precedenti, non solo per il gran numero dei relatori non italiani, ma anche perché ci si interrogherà su quale parte del pianeta parteciperà alla ripresa dalla pandemia, a partire dall’intervento di Gita Gopinath capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Olivier Blanchard, autore del manuale di macroeconomia su cui si sono formate generazioni di economisti, si interrogherà sulle sorti del Patto di Stabilità e Crescita alla luce dei livelli acquisiti dal debito pubblico durante la pandemia, mentre Lucrezia Reichlin e Luis Garicano ci spiegheranno come si è arrivati al Recovery Plan e in che misura questo cambierà i rapporti tra i paesi membri e le politiche dell’Unione. Enrico Moretti si interrogherà su come sia possibile rafforzare la cooperazione internazionale nella tassazione dei super-ricchi alla luce dell’esperienza degli Stati Uniti con la tassazione patrimoniale e le scelte residenziali dei più ricchi.

Lo Stato ha un ruolo molto diverso in diverse parti del mondo. Branko Milanovic ci intratterrà sulle enormi differenze fra ruolo dello Stato, da una parte, in paesi come Cina e Russia e, dall’altra, negli Stati Uniti e in Europa. Una differenza cruciale, come abbiamo visto durante la pandemia, è legata al ruolo giocato da una informazione indipendente, un tema di cui tratterà Julia Cagé.

Il ritorno di protagonismo dello Stato non deve avvenire a detrimento della società civile e del cosiddetto terzo settore. Daron Acemoglu porrà l’attenzione sull’attuale delicato equilibro tra ruolo rafforzato dello Stato e fragilità della società civile. Thomas Piketty, discuterà del ruolo di nuove forme “partecipative” che consentano un’ampia condivisione del potere, della ricchezza e della gestione delle imprese. Philippe Aghion si interrogherà su come rendere più inclusivi e sostenibili (anche sul piano ambientale) i meccanismi di mercato. Mark Carney, già Governatore della Bank of England e della Banca Centrale Canadese, ci parlerà delle vecchie e nuove disuguaglianze e della crisi di valori a queste associata. Luigi Zingales discuterà di come la pandemia sia stata anche uno stress test per il nostro senso civico, che ha giocato un ruolo cruciale nel contenere la pandemia. Nel rafforzare il senso civico e la fiducia fra i cittadini e fra le imprese è fondamentale avere un sistema giudiziario efficiente. Su questo tema interverranno, alla luce della loro esperienza, Giuseppe Pignatone e Paola Severino.

Il ritorno dello Stato viene invocato spesso come partecipazione diretta al capitale delle imprese. Beata Javorcik, capo economista presso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, affronterà la questione di quanto un maggiore ruolo dello Stato nell’economia attraverso l’intervento di banche e imprese pubbliche favorisca davvero gli investimenti privati e la crescita. Mariana Mazzucato, invece, proporrà un nuovo modo di concepire il ruolo dello stato imprenditore realizzando una simbiosi tra pubblico e privato. Lo storico Gianni Toniolo sosterrà che in realtà lo Stato non se ne è mai andato, non ha mai cessato di intervenire nella vita delle imprese. E la testimonianza di Romano Prodi sarà molto importante anche nel capire pro e contro dell’intervento diretto dello Stato in economia.

Lo Stato è soprattutto un arbitro e un regolatore dell’iniziativa privata, particolarmente attento ad evitare concentrazioni di potere di mercato in poche mani e a prevenire discriminazioni ed effetti distributivi indesiderabili. Oriana Bandiera tratterà di come le norme anti-corruzione possono avere effetti perversi sulle burocrazie. David Card nella sua Alan Krueger lecture discuterà dei pro e dei contro dei programmi di azione positiva nel contrastare la discriminazione di genere, etnica e razziale, un tema affrontato anche da Paola Profeta e Linda Laura Sabbadini.

Lo stato non è un monolite. Oggi, soprattutto, in Europa, lo Stato è un arcipelago di autorità a diversi livelli di governo, come ci esporrà Sabino Cassese. Durante la pandemia ci sono stati frequenti conflitti fra amministrazioni centrali e locali. Può essere il PNRR un’occasione per migliorare la cooperazione fra Stato e Regioni? Sul tema, tra l’altro, un dialogo tra Francesco Giavazzi e Mariastella Gelmini.  Per attuare le grandi riforme del Piano occorre rinnovare la classe dirigente della pubblica amministrazione che spesso si è rivelata inadeguata. Franco Bassanini e Bruno Dente ragioneranno su cosa fare dello spoils system e come rafforzare competenza e terzietà delle burocrazie. Pedro Gomes e Pietro Garibaldi discuteranno delle specificità del lavoro nel settore pubblico alla luce di comparazioni internazionali. Mentre Alessandro Pajno ci racconterà, alla luce della sua esperienza di servitore dello Stato, come sono le carriere ai vertici dello Stato e attraverso quali buone pratiche la pubblica amministrazione possa riconquistare la fiducia da parte dei cittadini.

Nutrita, come sempre, la presenza istituzionale. Per il momento, ma non si escludono ulteriori presenze, hanno confermato la loro partecipazione: il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, i ministri Renato Brunetta, Roberto Cingolani, Vittorio Colao, Massimo Garavaglia, Mariastella Gelmini, Giancarlo Giorgetti ed Enrico Giovannini. Presenti anche Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e naturalmente il governatore della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti e il sindaco di Trento, Franco Ianeselli.

Fra i format più attesi del Festival quello dei “Forum”. Il primo sarà dedicato alla scuola e agli effetti delle chiusure e della dad sull’apprendimento degli studenti. Fra i relatori Elia Bombardelli, giovane docente di matematica e fisica che impartisce lezioni su YouTube. Il secondo appuntamento sarà invece dedicato al tema dei nuovi modelli di assistenza sanitaria, tra i relatori Ilaria Capua e Walter Ricciardi. Nel successivo Forum si parlerà di Terzo settore con, fra gli altri, Carlo Borgomeo della Fondazione “Con il Sud”. Il tema della sicurezza in economia sarà, invece, al centro di un confronto a cui interverrà l’economista Alessia Amighini, insieme ad altri esperti. Negli altri Forum si parlerà di nuove povertà e reti sociali, del rapporto fra Regioni e Stato centrale, di politiche ambientali e giustizia sociale, del rapporto fra imprese e Stato dopo la pandemia e della nostra nuova vita in digitale, con Elena Capparelli, direttrice di RaiPlay e Digital.

Imprescindibile, come sempre, l’appuntamento “Incontro con l’autore” curato da Tonia Mastrobuoni  dove si discuterà dei temi del Festival, partendo dalle novità editoriali più interessanti. Tra gli ospiti Minouche Shafik, direttrice della London School of Economics and Political Sciences, Bruna Bagnato, Marco Bentivogli, Magda Bianco, Francesco Billari, Andrea Capussela, Simona Colarizi, Enzo Cipolletta, Chiara Cordelli, Franco Debenedetti, Ferrucio de Bortoli, Andrea Fracasso, Chiara Mio, Paolo Morando, Nicoletta Parisi, Irene Tinagli, Giulio Sapelli.

Significativa anche la presenza di vertici aziendali quali, tra gli altri, Valentina Bosetti (Presidente di Terna), Alessandro Profumo (Amministratore delegato di Leonardo) e Salvatore Rossi (Presidente di TIM).

 

La squadra del Festival

Il Festival dell’Economia di Trento è promosso dalla Provincia autonoma di Trento, dal Comune di Trento e dall’Università degli Studi di Trento. Progettato dagli Editori Laterza.

Partner

Intesa Sanpaolo

Top Sponsor

TIM

Main Sponsor

Fidelity International

Hydro Dolomiti Energia

Leonardo

Sponsor

Autostrada del Brennero

EF Solare Italia

Fondirigenti

Grant Thornton

LeasePlan

Mezzacorona – Rotari

Media partner

Rai Radio 1

Rai Radio 3

Rai News 24

 

Tutte le info su

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I social del Festival:

Facebook: @festivaleconomiatrento

Twitter: @economicsfest

Instagram: @festivaleconomia