Dalla soggettività al linguaggio

Stefano Petrucciani, Alias, 25 ottobre 2020

Non è facile scrivere una storia del pensiero contemporaneo; per farlo bisogna innanzitutto sciogliere una serie di nodi piuttosto aggrovigliati. Il primo è quello della periodizzazione: dove comincia la contemporaneità? Seguendo una solida tradizione (si pensi al grande classico di Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche), Lucio Cortella svolge egregiamente il compito nel suo La filosofia contemporanea. Dai paradigma soggettivista a quello linguistico, assumendo come punto di partenza la diaspora che segue alla crisi del sistema hegeliano; qui finisce irrevocabilmente la metafisica e ha inizio l’universo di pensiero nel quale ancora abitiamo. L’altra questione spinosa con la quale ci si deve misurare è quella del «canone». Come Cortella scrive proprio nella prima pagina del libro, non disponiamo ancora di standard condivisi in grado di stabilire indiscusse gerarchie tra pensatori e scuole filosofiche.

Certo, che Husserl e Heidegger, Wittgenstein e Popper facciano parte del canone è difficile da mettere in dubbio. Ma, per molti altri filosofi di media grandezza, lo storico deve assumersi la responsabilità di scegliere e selezionare, includere o escludere. È inevitabile, e in fondo il vero problema non è neanche questo.

Piuttosto, è possibile, nella proliferazione di teorie che riempiono i due secoli dell’età contemporanea, individuare una linea di tendenza, un vettore di sviluppo? E, soprattutto, come organizzare e strutturare in modo perspicuo un così vasto materiale? Uno degli aspetti più interessanti del volume di Cortella, oltre alla sua assoluta limpidezza di scrittura, condizione necessaria per chi si accinga a un’impresa di questo genere, è il modo molto netto con il quale risponde alle due domande appena evocate. Nella sua prospettiva, dichiaratamente influenzata da quella di Habermas, il cammino del pensiero post-hegeliano può essere decifrato come un processo di apprendimento.

Il vettore che orienta il pensiero contemporaneo, per Cortella, è quello che conduce, come dichiara il sottotitolo del volume, «dal paradigma soggettivista a quello linguistico». La filosofia moderna, che ha inizio con l’Ego cogito di Cartesio e, passando per l’«Io penso» di Kant, culmina nell’Idea hegeliana, è una filosofia del soggetto; dallo sfaldarsi della soggettività, viene faticosamente emergendo una nuova centralità, quella del linguaggio. Se questa è la linea di fondo, mirabile e coerente con essa è anche l’organizzazione del materiale. La trattazione è articolata in due parti: nella prima ripercorriamo la crisi della soggettività idealistica, attraverso Feuerbach e Marx, Kierkegaard e Nietzsche, lo storicismo tedesco. Nella seconda invece siamo, per riprendere un famoso titolo heideggeriano, in cammino verso il linguaggio. L’idea che guida questa seconda parte della ricostruzione, un’idea forte ma – io credo – persuasiva, è che il pensiero novecentesco si possa accorpare lungo tre grandi assi, ciascuno dei quali approda, a modo suo, alla centralità del linguaggio: la linea della fenomenologia e dell’esistenzialismo, che passando per Husserl, Heidegger e Sartre arriva all’ermeneutica di Gadamer; la linea «analitica» per la quale, a partire da Wittgenstein, il linguaggio è sempre al centro dell’interrogazione filosofica. E, per finire, quella della dialettica e della teoria critica che, passando per i grandi della Scuola di Francoforte come Horkheimer, Marcuse e Adorno, approda anch’essa, con Habermas, al primato della dimensione comunicativa. Il racconto è ben strutturato, ma soprattutto è sorretto da un’idea-forza: ogni transizione, ogni innovazione concettuale, deve essere compresa nella sua necessità. La storia della filosofia non può essere semplicemente raccontata, ma deve anche essere ripensata. Fare storiografica filosofica – questa la condivisibile tesi dell’autore – significa sempre anche pensare in prima persona.

 

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Una guerra civile? Alle radici del conflitto israelo-palestinese

Nelle ultime settimane la questione israelo-palestinese ha avuto una risonanza enorme su tutti i media, dando una nuova scottante attualità al tema.
Quali sono le sue origini e che cosa può insegnarci la Storia per fare più chiarezza?
Martedì 25 maggio, la professoressa Marcella Emiliani e il professor Claudio Vercelli ne hanno discusso in un incontro intitolato ‘Una guerra civile? Alle radici del conflitto israelo-palestinese’, moderato dal nostro editor Giovanni Carletti.

 

Scopri i libri di Marcella Emiliani e Claudio Vercelli: 

  

 

Cento poesie d’Italia. «Voci per il presente»

Luca Serianni racconta la sua antologia nata in lockdown: Donne e outsider. Irrinunciabili? Dante, Leopardi, Pascoli

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 16 novembre 2020

Per quelli che non hanno familiarità con la poesia ma ne sono incuriositi, l’effetto è la sorpresa. A quelli che invece la praticano abitualmente, il nuovo libro di Luca Seriarmi regala la stessa «felicità mentale» che anni fa diede il titolo a un saggio dantesco di Maria Corti. Dunque, tra sorpresa e felicità mentale, non si può chiedere di meglio. Il verso giusto (Laterza) è un’antologia ma senza troppe preoccupazioni didattiche, anche se si esce dalla lettura arricchiti di notizie storiche, critiche e linguistiche (ovviamente, essendo Serianni uno dei maggiori linguisti del nostro tempo). Un’antologia «idiosincratica»: da una parte non indifferente al canone, ma dall’altra obbediente al gusto personale del suo compilatore. Sicché, tra i cento (e non più di cento) testi scelti, troviamo componimenti di Petrarca e Tasso, di Ariosto e Leopardi, ma facciamo anche incontri inaspettati: con il napoletano quattrocentesco de Petruciis che scrive sonetti amorosi in carcere aspettando la decapitazione; con Camillo Scroffa che dedica i suoi versi petrarcheschi ai peli dell’amato discepolo; con il satirico barocco di area bresciana Bartolomeo Dotti che paragona l’amante all’alchimista; con il friulano Ciro di Pers che si sofferma sui propri calcoli renali. E con diversi altri nomi trascurati o quasi dalle storie letterarie. Per non dire delle presenze femminili, che qui acquistano un rilievo non occasionale. Oppure di alcune rivalutazioni sorprendenti, come quella di Carducci, la cui fama è andata via via tramontando, bollato come «poeta professore». Insomma, ce n’è da piluccare liberamente, come sembra fare il passerotto in copertina che va becchettando semini in forma di asterischi (gli stessi che nel testo segnalano in rosso i cento componimenti). Il tutto con cappelli e commenti essenziali sulle biografie, sulle idee, sul contesto e sui testi (filoni, tematiche, generi, stili, linguaggio). Ricordando che questo libro è stato il frutto del primo lockdown, trascorso nella casa di Ostia, con il suo stile verbale di rara eleganza, insieme fermo e cordiale, Serianni spiega i criteri su cui si regge la scelta. «Va detto subito che ho escluso la poesia dialettale, con l’obiettivo di illustrare la poesia scritta in italiano e non quella scritta in Italia. Ho voluto inserire alcuni testi noti o prevedibili: il Cinque Maggio naturalmente c’è, ed è una poesia che non mi lascia indifferente, ma c’è anche per la sua rappresentatività. A parte ciò, ho fatto valere il mio gusto, determinante e discutibile quanto più ci avviciniamo all’oggi». In effetti è un Novecento poco canonico, in cui accanto a Saba Ungaretti Montale, troviamo il ticinese Giovanni Orelli, Biancamaria Frabotta, la sconosciutissima Francesca Romana de’ Angelis e che si conclude con Enrico Testa… Si avverte una predilezione per lo stile semplice, la poesia «onesta» che piaceva a Saba: lo stesso Saba, Penna, Caproni… Per questo non sorprendono le assenze delle voci sperimentali e neanche quelle (più dolorose) di Pasolini, Sereni, Bertolucci, Giudici, Zanzotto, Giorgio Orelli… «Ho messo in bilancio che sarò ampiamente criticato per le scelte novecentesche», scherza Serianni. Anche le origini riservano qualche sorpresa. «Mi è sembrato utile inserire il Detto del gatto lupesco, che è ignoto ai più, per documentare la poesia giullaresca in un contesto in genere affollato di donne angelo e di amori infelici. È un componimento che al lettore moderno, disorientato di fronte alle immagini iper allegorizzanti del testo antico, dà un effetto di straniamento fin dalle battute iniziali in cui due cavalieri incontrano il giullare, travestito metà da gatto e metà da lupo, gli chiedono “ki sei tu?” e si sen tono rispondere: “Quello k’io sono, ben mi si pare”. Cioè, detto con un certo fastidio: è evidente quello che sono…».

Come si spiega la presenza insolitamente numerosa di poeti barocchi?

«II Seicento mi ha sempre incuriosito. Continuo a pensare che sul barocco poetico gravino ancora i pregiudizi di De Sanctis, spesso ripetuti stancamente nelle storie della letteratura: il cattivo gusto secentesco eccetera… È un secolo innovativo come tematiche ma all’interno di un codice tradizionale, basti pensare che il sonetto è la forma metrica ricorrente. Nei casi più felici io vedo una grande creatività linguistica e ideativa».

Un esempio?

«C’è una poesia del marchigiano Giovan Leone Sempronio, La bella zoppa, che non è necessariamente una caricatura o una di quelle prove satirico-giocose del genere di Francesco Bervi: ci si può innamorare di una donna zoppa, oppure pidocchiosa, come canta un altro poeta? La risposta è: sì, anche se con singoli difetti fisici le donne non perdono il loro fascino poetico o il loro potenziale di seduzione. Certo, è un punto di vista molto distante dal canone petrarchesco. In questa mia personale sensibilità, rientra pure un poeta secentesco, anche se non barocco, come Francesco Redi: il ditirambo Bacco in Toscano è un gioco linguistico molto brillante e vivace sul tema dell’ubriachezza».

La presenza delle voci femminili è notevole, da Gaspara Stampa a Elsa Morante. Domanda inevitabile: ci sono delle costanti riconoscibili nella poesia femminile?

«Nelle poche poetesse prenovecentesche si riconosce una maggiore varietà di affetti e di stimoli affettivi, anche se non mancano i poeti maschi, per esempio nel Settecento, che parlano di sentimenti familiari. Una novità del Cinquecento è la comparsa delle donne tra gli autori letterari: sono aristocratiche come Vittoria Colonna o cortigiane come Gaspara Stampa. La pura imitazione del modello petrarchesco presenta qualche scarto in più nella poesia femminile: Vittoria Colonna, per esempio, ha una componente religiosa molto più forte del consueto. Per quanto riguarda l’età contemporanea, invece, è più difficile individuare uno specifico femminile».

Nel Cinquecento c’è Isabella Morra, uccisa a 25 anni dai fratelli per il sospetto di una relazione con un nobile spagnolo.

«Il sonetto in cui si rivolge al fiume, tema topico già presente nella poesia latina, è molto interessante, anche perché è legato all’assenza del padre. Alla variante del tema amoroso si aggiunge anche l’annuncio finale di un possibile suicidio nelle acque del Sinni, che scorre nella sua valle in provincia di Matera. Anche qui ci sono aspetti di innovazione rispetto alla lirica maschile media dell’epoca».

Si può dire lo stesso per la poco conosciuta Faustina Maratti Zappi?

«È una poetessa che entrò giovanissima in Arcadia: Leopardi ne riconobbe “la composta vivacità e certa leggiadria”. Ho voluto che fosse presente con due sonetti. Il primo tratta la gelosia, insolito nella poesia maschile, dove è difficile che l’autore lamenti la scarsa fedeltà della donna, la quale può essere inarrivabile ma è raro che si mostri sensibile alla corte di un altro… Il secondo sonetto è invece dedicato al dolore perla morte di un figlio bambino».

È raro trovare la Morante in versi nelle antologie.

«Mi è sempre piaciuto Il mondo salvato dai ragazzini, anche se so che viene spesso deprezzato: tra l’altro il tema dell’infanzia incolpevole e soccombente è anche al centro de La Storia. Riconosco che in questo caso è scattato, più che altrove, un meccanismo di gusto personale, come per Biancamaria Frabotta, di cui ho apprezzato il motivo dell’amore coniugale, che ha certo dei precedenti, per esempio in Monti e in Saba, ma compare qui con accenti ironici e autoironici».

Nel gusto classicista dell’antologia rientra anche la simpatia per Carducci?

«Sono rimasto uno dei suoi pochi estimatori: ho inserito una odicina non molto nota, che si intitola Ave e parla della morte di un ragazzino figlio della sua amante, in cui forse c’è il suo personale lutto di padre, quello cantato in Pianto antico, nota quanto il Cinque Maggio. E in questa prospettiva si colloca anche Giacomo Zanella, una figura di classicista ottocentesco appartato e tutt’altro che attardato, un sacerdote veneto che aveva una sensibilità sociale e che tentò di conciliare scienza e fede».

Di Zanella, lei ricorda una brillante osservazione sugli italiani che hanno «speciale linguaggio poetico…: remoto mille miglia dal prosaico». Aveva ragione Zanella?

«Lo disse quando ormai non era più vero per buona parte dei suoi contemporanei, ma da buon classicista ne era convinto. In realtà, credo che negli italiani ci sia questo atteggiamento: se paragoniamo la nostra alla poesia spagnola e francese dell’Ottocento ci rendiamo conto che lì non c’è nessun linguaggio speciale. In fondo Victor Hugo diceva di voler mettere un berretto rosso al vocabolario per aprirlo a tutti i termini, alti e bassi, non alle forme grammaticali che erano già quelle del francese comune. C’è stato un ritmo di evoluzione diverso ed è vero che in Italia la poesia è spesso stata avvertita come lingua speciale».

La poesia religiosa che peso ha?

«I nomi, nell’antologia, sono due: Jacopone e il Manzoni della Pentecoste, che si ripropone di creare un classicismo alternativo a quello mitologico. Non è vero però che il Manzoni poeta sacro innova la lingua parlando la lingua di tutti, perché l’intonazione resta molto alta. La distanza tra il Manzoni prosatore e il Manzoni poeta è sempre netta».

E la poesia di intonazione civile?

«Dante è anche un poeta civile, ma sarebbe riduttivo limitarlo a questo. Ho scelto tre momenti. Intanto, La salubrità dell’aria: Parini è un poeta difficile per un lettore moderno, quindi ho scelto un’ode piuttosto nota, che propone temi di grande attualità come la “salute civile”, il bene pubblico, l’aria ammorbata di Milano, le colpe dei cittadini mossi dal “lucro”, da “lusso e avarizia”. L’altro è Manzoni, il poeta civile e patriottico. A suo tempo studiai Marzo 1821, ma ho preferito il Cinque Maggio anche se è una poesia di fondo religioso, tutta volta alla celebrazione non solo del Napoleone terreno, ma del Napoleone convertito: il poeta immagina infatti che la fede cristiana abbia consolato l’esule negli ultimi anni, risolvendo così in chiave eterna la sua vicenda terrena».

Senza dimenticare Foscolo…

«Nel pensare alla cosiddetta “religione dei sepolcri” ho richiamato il fatto che mentre scrivevo, in aprile, c’era il dramma del mancato saluto ai propri morti avvertito con una particolare violenza a causa della pandemia. Anche questo mi è sembrato un tema che ha riflessi sociali e non quelli solipsistici del poeta perso nei propri amori infelici».

Perché i poeti della domenica le ispirano un moto di simpatia?

«Sono tanti e spesso illeggibili, non certo destinati all’immortalità e neanche alla dignità artistica. Ma come cittadino sono commosso dal fatto che ci sono persone che, con i loro mezzi e con la loro ispirazione, affidano alla poesia temi a cui tengono molto. La vitalità della poesia è testimoniata anche dalla presenza di grandi intellettuali, non letterati di professione, che scrivono testi di notevole livello. Ne cito due: il fisico Sergio Doplicher e l’economista Franco Tutino… Persone che esercitano la poesia restando fuori delle combriccole chiuse alimentate da amore e odio, da invidie e meschinità: quelle ricordate da De Gregori in una nota canzone…».

Con quali criteri ha selezionato Dante?

«Ho scelto un canto canonico, il III del Paradiso, e altri che lo sono molto poco. Il XXX dell’Inferno non viene letto mai a scuola, ma è straordinario per la capacità che Dante rivela nel dialogo comico e anche per la compresenza di registri, dal basso fino alla sublime esperienza del sogno, la stessa che nel canto finale del Paradiso evoca la visione di Dio. Con l’VIII del Purgatorio, che ha un incipit famosissimo, mi interessava comunicare quanto nell’aldilà siano presenti i ricordi terreni: queste anime che dovrebbero pensare a purificarsi guardano invece con estremo interesse alle vicende terrene… Il filone della donna angelo lo trovo ripetitivo e per questo è rimasto in ombra. Ciò vale anche per Petrarca, il poeta con il numero maggiore di pezzi, otto: ma Chiare fresche e dolci acque non l’ho messo. Del resto, con Petrarca si cade sempre abbastanza bene».

Se dovesse scegliere solo tre dei cento testi dell’antologia?

«Il XXX dell’Inferno, il Canto notturno di Leopardi e Novembre di Pascoli».

 

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D. Carraro e P. Di Paolo raccontano “Quello che possiamo imparare in Africa”

Un ragazzo della provincia veneta, laureato in medicina, sceglie di diventare sacerdote, impegnandosi nelle parrocchie di periferia. Poi incontra l’Ong Medici con l’Africa Cuamm e nel 1995 fa il suo primo viaggio in Africa, nel Mozambico da poco uscito dalla guerra civile. È l’inizio di un’avventura personale che si affaccia in quella comunitaria della più grande organizzazione italiana in Africa.

In oltre 70 anni, attraverso programmi di cura e prevenzione in 41 Paesi, interventi di sviluppo dei sistemi sanitari, attività dedicate ai malati, formazione di medici, infermieri, ostetriche e altre figure professionali, il Cuamm si spende – come scrive Claudio Magris nell’introduzione a questo libro – per la crescita dell’Africa, il «parto epocale» di una nuova civiltà. In un continente in cui il 70% della popolazione ha meno di trent’anni, c’è molto da fare ma c’è anche molto da imparare. Su noi stessi, sulla precarietà dei confini che pretendiamo stabili, sul rapporto con l’ambiente, sulla connessione strettissima fra il tema della salute e quello della giustizia sociale, sulle scelte etiche e politiche attraverso cui è possibile abbattere barriere geografiche, economiche e culturali. E sulle risorse inaspettate che gli esseri umani riescono a trovare nelle situazioni più estreme.

Don Dante Carraro e Paolo Di Paolo raccontano Quello che possiamo imparare in Africa. La salute come bene comune, testimonianza di uno dei maggiori protagonisti della cooperazione sanitaria internazionale.

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#CasaLaterza: Stella Levantesi dialoga con Fabio Ciconte

Da quando negli anni ‘70 gli scienziati hanno iniziato a dare l’allarme sul cambiamento climatico, i ‘bugiardi del clima’ hanno cominciato un’autentica guerra alla verità.

Industrie fossili, politici, think tank, gruppi di pressione, piattaforme mediatiche, e falsi esperti hanno messo in atto la più grande operazione di insabbiamento della storia recente, per disinformare il pubblico e confondere il dibattito. Come e perché siamo arrivati a questo punto?

Ne abbiamo parlato con Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra!, e la giornalista Stella Levantesi, autrice del libro I bugiardi del clima in diretta per Casa Laterza.

 

 

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Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana, ma anche un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

Questa settimana parliamo di energia, di Medio Oriente, di Movimento 5 Stelle, di Cile.

 

Energia. Nel suo ultimo rapporto, l’Agenzia internazionale dell’energia invita a interrompere subito i nuovi investimenti in petrolio, gas e carbone, a partire dal blocco di ogni nuova attività estrattiva. Il direttore dell’Agenzia, Fatih Birol, ha definito la sfida colossale – “forse la più grande mai affrontata dall’umanità” – ma anche fattibile.

Come nota però Giovanna Faggionato su Domani, “il governo italiano ha invece elaborato un Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che va in tutt’altra direzione puntando molto sul gas, poco sulla mobilità elettrica” – alla vigilia, peraltro, della presidenza italo-britannica della conferenza Cop 26 sul cambiamento climatico di Glasgow, a novembre. “Per le associazioni ambientaliste come GreenPeace siamo già in ritardo e il rapporto dell’Aie arriva ben ultimo – per esempio dopo un modello elaborato dall’università di Standford – ma di certo si tratta di una smentita ufficiale e di peso della strategia italiana e di alcune delle sue aziende di punta”.

 

   

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Medio Oriente. Dopo undici giorni di conflitto, Israele e Hamas hanno accettato la proposta di tregua egiziana e dichiarato un cessate il fuoco “reciproco e simultaneo”.

→ Da non perdere.

Martedì 25 maggio alle 18.00, un dialogo tra Marcella Emiliani e Claudio Vercelli: Una guerra civile? Alle radici del conflitto israelo-palestinese.

In diretta sui nostri profili Facebook e Youtube.

 

 

     

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→ 5stelle vs Rousseau. Secondo la ricostruzione del Fatto Quotidiano, è scaduto l’ultimatum di Vito Crimi a Davide Casaleggio, presidente e fondatore dell’associazione Rousseau: il 13 maggio Crimi aveva infatti inviato una diffida “ad astenersi da qualsiasi trattamento dei dati degli iscritti, che non sia finalizzato alla consegna dei medesimi dati al Movimento entro 5 giorni”.

La richiesta di consegna dei dati, come era stato annunciato da Casaleggio, è stata respinta. “La lista degli iscritti è fondamentale per completare il processo di rifondazione del Movimento, affidato dallo stesso Beppe Grillo all’ex premier Giuseppe Conte: come ha lui stesso dichiarato più volte, la sua investitura sarà ufficiale solo dopo che la base avrà votato online”.

“È inaccettabile” si legge sul profilo Facebook del Movimento 5 Stelle, “che un soggetto privato possa tentare di ostacolare l’attività di una forza politica del Parlamento e di governo, accampando pretestuose e incomprensibili motivazioni, anche di natura economica”.

 

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Cile. Come riporta il Post, la coalizione di centrodestra guidata dal presidente Piñera “ha preso una grossa batosta alle megaelezioni del fine settimana, considerate le più importanti tenute nel paese dalla fine della dittatura militare, nel 1990”. Si votava, in particolare, “per decidere i 155 membri dell’Assemblea costituente, l’organo che avrà il compito di scrivere la Costituzione che sostituirà quella in vigore redatta durante il regime militare di Augusto Pinochet”.

I lavori inizieranno il mese prossimo: si discuterà, tra l’altro, della forma di governo del paese, di questioni quali la decentralizzazione, i diritti economici e sociali, “i diritti delle popolazioni indigene, nemmeno citate nell’attuale Costituzione, e in particolare del delicato rapporto tra i mapuche e il governo centrale”.

Ciò che emergerà dai lavori dell’Assemblea sarà importante anche perché si tratterà della prima Costituzione “al mondo scritta da un organo formato per metà da donne. Per questo molti credono che toccherà temi rimasti ai margini finora, come la parità di salario e l’accesso paritario tra donne e uomini a posizioni di potere”.

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Date da ricordare:

17 maggio. Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia: la data è stata scelta per ricordare il 17 maggio 1990, quando l’Oms cancellò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.

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20 maggio. Cinquantuno anni fa entrava in vigore la legge n. 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori.

[Proposta di lettura] Lavoro

    

Marta Fana

Non è lavoro, è sfruttamento

Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti. La modernità paga a cottimo. Così dilaga il lavoro povero, spesso gratuito, e la totale assenza di stabilità lavorativa.

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Antonio Aloisi – Valerio De Stefano

Il tuo capo è un algoritmo

Automazione, algoritmi, piattaforme, smart working: il mondo del lavoro sta vivendo una vera e propria rivoluzione. La paura è che crolli il numero degli occupati e che il lavoro umano venga riconosciuto e apprezzato sempre meno. Si teme la capacità di controllo dei software di intelligenza artificiale. Ma non esistono tecnologie buone e tecnologie cattive; esistono usi distorti e usi consapevoli delle invenzioni e delle innovazioni.

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Marianna Filandri

Lavorare non basta

Il tasso di occupazione è considerato un indicatore fondamentale dello sviluppo di un paese: peccato che sia sempre più elevato anche in Europa il numero di lavoratori poveri. La costruzione delle identità personali e collettive è ancora legata al proprio ruolo professionale. Peccato che i ruoli professionali siano sempre più precari e frammentati. Insomma, il lavoro non basta più: sono necessarie urgenti misure che restituiscano stabilità economica e, con questa, fiducia nel futuro.

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Valentina Furlanetto

Noi schiavisti

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Soprattutto sul lavoro dei para-schiavi, uomini e donne senza diritti che mandano avanti gran parte della nostra economia: gli spaccapietre cinesi, i braccianti macedoni, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh. Da una parte la necessità delle aziende di competere a livello globale sui mercati, dall’altra la rivoluzione digitale, da un’altra ancora la possibilità di usufruire di servizi e merci a prezzi bassi ci portano a nuove forme di schiavismo, più sottili, più opache, talvolta legalizzate.

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Savino Balzano

Contro lo smart working

Lo smart working nasconde molte insidie per il lavoratore. Senza una precisa individuazione dei tempi di lavoro, come si conteggeranno e retribuiranno? Come si tuteleranno diritti alla salute e alla sicurezza? Non si rischia di compromettere la possibilità dei lavoratori di essere comunità?

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Luciano Gallino

Il lavoro non è una merce

Dire che la politica ha drammaticamente sottovalutato la condizione del lavoro flessibile significa tenersi moto al di sotto delle righe.

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Manfredi Alberti

Senza lavoro

Al momento dell’Unità il lavoro era molto spesso un’esperienza discontinua. Ci si adattava trovando fonti alternative di sostentamento, esercitando diverse attività o spostandosi alla ricerca di un’occupazione. A fine Ottocento nasce una nuova consapevolezza: la mancanza di lavoro è una forma di ingiustizia contro cui occorre lottare. Chi non ha lavoro, e non per sua volontà, non tollera più di essere additato come ozioso o vagabondo. Più tardi il fascismo favorirà il mantenimento di bassi salari e la lotta alla disoccupazione diventerà poco più che uno slogan propagandistico. Sarà solo dopo il disastro della seconda guerra mondiale, in un’Italia con milioni di disoccupati, che l’intero ordinamento giuridico del paese verrà rifondato sul principio del diritto al lavoro, in vista dell’obiettivo quasi sempre disatteso della piena occupazione.
Il libro incrocia dati economici, sociali, politici e culturali, proponendo un’analisi originale e completa del fenomeno che da sempre rappresenta una piaga per il nostro paese.

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Luciano Gallino

Vite rinviate

Il lavoro flessibile produce occupazione: è la promessa miracolosa che ha legittimato il progressivo smantellamento delle tutele del lavoro. La realtà è diversa, molto diversa.

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Dentro la fiera delle falsità sui danni al clima

I primi a vedere il pericolo del riscaldamento globale furono coloro che poi hanno fatto di tutto per negarlo

Roberto Saviano | Corriere della Sera | 18 maggio 2021

Si può negare tutto, si può negare anche qualcosa di evidente e di dimostrato, lo sappiamo. Si può negare l’evidenza di una pandemia, si possono negare le prove inconfutabili dell’esistenza delle mafie, si può persino arrivare a negare lo sterminio di milioni di persone.

Se così non fosse, le teorie del complotto non avrebbero un così grande spazio. Tutto può essere negato, ma si può fare in maniera credibile? Si può negare la realtà con successo? I bugiardi del clima di Stella Levantesi, in uscita il 20 maggio per Laterza, dimostra che non solo si può fare con successo, ma che negare una realtà in maniera sistematica e attiva non è più solo un atto di negazione, ma di negazionismo. Non si tratta solo del rifiuto di accettare, «il negazionismo è strategico, è intenzionale, è pubblico». Levantesi costruisce un percorso che illustra una delle più grandi manovre di occultamento della storia, quella che i negazionisti del cambiamento climatico hanno messo in atto per nascondere il legame tra loro stessi e il riscaldamento globale ed evitare ad ogni costo politiche ambientali. Attenzione, non solo hanno nascosto il legame, ma hanno nascosto il legame che loro stessi, per primi, avevano individuato. Sapete chi per primo ha ricercato e ottenuto risultati che davano l’allarme sull’uso dei carburanti fossili? La più grande compagnia petrolifera mondiale, la Exxon. Già negli anni Ottanta la ricerca interna all’azienda aveva osservato la necessità di «una grande riduzione della combustione dei carburanti fossili» perché «ci sono alcuni eventi potenzialmente catastrofici che devono essere considerati». Queste sono parole dei loro scienziati, tratte dalle analisi da loro sostenute. La ricerca della ExxonMobil era all’avanguardia, fu proprio questa azienda tra le prime ad avere le prove inconfutabili dell’esistenza del riscaldamento globale e, perciò, non si può «appellare all’ignoranza» quando spende decine di milioni di dollari per finanziare politici, campagne e lobby al fine di ostacolare un’azione di protezione ambientale.

Ne I bugiardi del clima scopriamo — attraverso indagini già verificate e una corposa documentazione — come le aziende di petrolio, gas e carbone hanno osservato per prime che la loro attività, bruciare combustibili fossili, causava un aumento delle emissioni e quindi un aumento della temperatura. L’abilità dei negazionisti è stata quella di trasformare un tema scientifico in uno politico, spiega Stella Levantesi: «“Rendere la scienza più politica” è esattamente ciò che i negazionisti vogliono», perché solo così il tema del cambiamento climatico può essere messo in discussione, solo così un fenomeno scientifico può diventare strumento di propaganda e manipolazione. È stato sufficiente rendere i dati discutibili, interpretabili sul piano politico.

Bisogna fare chiarezza su un punto: la negazione è diversa dal negazionismo. La negazione — è assai bene spiegato nel libro — è un processo di rifiuto, la volontà di allontanare, cancellare, un dato vero che non si riesce e non si vuole accettare. Il negazionismo non è semplicemente il rifiuto della realtà, ma anzi ne costruisce una alternativa. Alla radice, la negazione e il negazionismo «si sono sviluppati per usare il linguaggio con il fine di ingannare gli altri e sé stessi». Ma la differenza più grande consiste nel fatto che il negazionismo è una questione pubblica. Il negazionismo non è un meccanismo «passivo», è una decisione strategica volontaria, fatta di tattiche, manipolazione e politica.

Oggi il tema del clima ha molto poco a che fare con la scienza e molto più con la politica, e questo è il risultato della «campagna di disinformazione». I bugiardi del clima sono riusciti nell’impresa apparentemente impossibile di ostacolare la regolamentazione del settore fossile e continuare a guadagnare con la loro attività. Per questo, anche se conosciamo cause e conseguenze del riscaldamento globale da più di cinquant’anni, siamo molto indietro con l’azione per il clima.

Finanziamenti e propaganda sono stati fondamentali. I negazionisti hanno ingaggiato «i maestri della manipolazione», esperti in comunicazione che hanno saputo fare dell’inganno la propria forza. Il negazionismo climatico non è una «corrente di pensiero», scrive Levantesi, «è un vero e proprio sistema organizzato, un’architettura sorretta da solidi pilastri strategici, sostenuta da un’efficace comunicazione e costruita sulle fondamenta di potere e denaro». Una delle cose in cui il libro riesce bene è disarticolare questo sistema organizzato, mostrarlo con chiarezza. I capitoli sono un reportage dentro un ginepraio fittissimo di storie che raccontano tutto quello che non sappiamo su come le industrie di gas, petrolio e carbone, insieme ai loro alleati della «macchina del negazionismo», ci hanno ingannati.

Persino la psicologia dei negazionisti diventa oggetto di analisi, chiave di comprensione. Perché i negazionisti fanno ciò che fanno? La risposta non ha soltanto motivazioni economiche, ma anche psicologiche e sociologiche. Ha a che fare con i valori, l’identità, il tenore dell’uomo bianco al potere di perdere tutto. Proprio perché in questo campo la dinamica psicologica è la più insidiosa e perché «la macchina» è così radicata, il negazionismo è difficile da contrastare.

Come si combatte questo fenomeno? I fatti non bastano, bisogna comprendere i processi e imparare a riconoscere le strategie. I bugiardi del clima è uno strumento fondamentale perché scende in profondità nell’inganno negazionista, e non teme l’estrema scomodità del tema, anzi la accoglie. Stella Levantesi ha l’obiettivo di dare strumenti al lettore, i più argomentati ed efficienti possibili. Questo testo è pieno di vicende inaspettate, tutte emerse nel dibattito degli ultimi vent’anni e raramente raccolte in un quadro d’insieme. I bugiardi del clima racconta che secondo un documento del 1998 di uno dei protagonisti della «macchina negazionista», l’American Petroleum Institute, la «vittoria» (dei negazionisti) sarebbe stata raggiunta solo nel momento in cui «coloro che promuovono il Trattato di Kyoto sulla base della scienza esistente sembrano aver perso di vista la realtà». Questo è un passaggio cruciale, la manipolazione dei bugiardi del clima si spinge fino a capovolgere i fatti, per cui chi aveva compreso che il riscaldamento globale era reale e causato dall’uomo diventa, invece, qualcuno che ha «perso di vista la realtà».

Il libro aspira a mappare il negazionismo del cambiamento climatico per comprendere come siamo arrivati fino a qui, e come poter andare avanti senza continuare a commettere sempre gli stessi errori. I bugiardi del clima sembra in parte un thriller, ma non lo è — è un’inchiesta sulla realtà. Stella Levantesi ha uno stile chiaro, governato dall’unica necessità di verificare pagina dopo pagina la sua argomentazione, per questo la narrazione non ammicca mai alla polemica politica. Lo sguardo dell’autrice è fisso sui dati scientifici, sul comportamento delle grandi compagnie. Lo stile è tutto dentro lo spazio del saggio di inchiesta storica che va a ricostruire con due strumenti metodici l’assalto delle compagnie alla scienza: un linguaggio rigoroso che in alcuni punti chiede al lettore la rilettura di alcuni passaggi e dall’altro una forte bibliografia che permette di avere tutto il materiale a disposizione per valutare il percorso fatto ed accedere alla riflessione del libro.

I bugiardi del clima è un testo che ha la capacità di leggere e scoprire le relazioni e le interconnessioni, il peso della responsabilità individuale rispetto a quella delle aziende, il dualismo insito nella nostra società, la separazione tra uomo e natura, i fallimenti del capitalismo, il ruolo della letteratura nella crisi climatica. È una bussola in una realtà dove tutto è messo in dubbio, dove manca la fiducia, dove il confine tra fatto e invenzione è sbiadito e confuso e dove si fa fatica a distinguere la verità dalla menzogna.

Pensare che ci sia un dibattito sul clima è un errore, ce l’hanno fatto credere i negazionisti che, con successo e per decenni, hanno continuato a «minare le fondamenta» della scienza del clima, a manipolare i dati, a confondere l’opinione pubblica e finanziare campagne politiche. Ma smascherare i bugiardi del clima, comprenderne il percorso, imparare a riconoscerne i meccanismi, significa proprio sottrarsi a questo inganno.

 

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La democrazia è un gioco di correnti (la “fredda” del diritto, la “calda” della politica)

Le responsabilità di populismi e sovranismi, la nascita insidiosa di nuovi poteri privati e “selvaggi”: una teoria del garantismo costituzionale per affrontare la crisi dei modelli di “governo popolare”

Luigi Manconi e Federica Resta | TuttoLibri | 27 marzo 2021

«Prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza»: quest’affermazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione delle Dichiarazioni programmatiche alle Camere, contiene un interrogativo di fondo. Che tipo di democrazia presuppone oggi quest’idea di cittadinanza come dovere oltre che come diritto? È una domanda che sta a fondamento del rapporto tra democrazia e diritto e diritti, reso se possibile ancor più complesso nel contesto attuale. L’esperienza della pandemia, che non sembra destinata a esaurirsi in breve, ha rappresentato – come ogni altra emergenza – un banco di prova importante per lo Stato di diritto, chiamato a tracciare un confine, sempre mobile e incerto, tra regola e necessità. Superato tale confine, la deroga degenera in legittimazione dello Stato di prevenzione. E questo equilibrio è tanto più difficile in un ordinamento come il nostro che – diversamente da altri, come ha sottolineato l’allora Presidente della Consulta Marta Cartabia – non riconosce all’emergenza la natura di autonoma fonte del diritto. Ciò che la nostra Costituzione prevede (o meglio: consente) è, piuttosto, uno stato eccezionale, dovuto a circostanze eccezionali, non certo sciolto da un quadro di norme, vincoli e limiti.

Ma la tenuta della democrazia oggi è insidiata, anche e in senso più generale, dall’emersione ai nuovi poteri privati e micro-sovranità e dalla conseguente rifeudalizzazione di molti rapporti sociali. Pensiamo, in primo luogo, al capitalismo delle piattaforme, resesi sempre più arbitre di libertà fondamentali, al punto di aver autonomamente tracciato (è il caso di Facebook e Twitter, con il blocco dell’account di Donald Trump) il confine tra potere di esternazione del Presidente degli Stati Uniti e discorsi illeciti. E questo in un ordinamento, quale quello statunitense, in cui è prevalsa sempre (fin al sommo vertice della Corte suprema) la convinzione che le idee storte si raddrizzino con buoni argomenti e non con la censura e, tanto meno, con il bastone. Il percorso carsico di populismi e sovranismi che emergono e si inabissano ciclicamente è poi, al tempo stesso, causa e conseguenza di questa crisi della democrazia che, tuttavia, sarebbe errato pensare come irreversibile. E ciò nonostante che quella stessa crisi si manifesti conclamata e profonda persino nei paesi in cui il modello democratico risultava talmente solido da apparire immune da qualsivoglia degenerazione. E, in effetti, l’assalto a Capitol Hill dimostra in maniera emblematica tanto questa crisi quanto la capacità di reazione di una democrazia matura.

Proprio su questo nodo ammonisce Luigi Ferrajoli, che con La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, anzitutto individua con puntualità proprio le molteplici cause della crisi del modello democratico. Le principali di esse sono riconducibili allo sviluppo di «poteri selvaggi», come indicava il titolo di un altro libro di Ferrajoli.

Questi ultimi sono alimentati, per un verso, da una idea elementare e populista della democrazia come tirannia della maggioranza (anziché come, diremmo noi, governo del limite e delle garanzie); e, per l’altro, da una concezione liberista e altrettanto elementare del mercato. Questo binomio sembra stringere e soffocare, come una tenaglia, le dinamiche fisiologiche dello Stato di diritto, alterandone i meccanismi decisionali, eludendone le garanzie, distorcendone il sistema di valori. E questo non solo sul piano nazionale, quello dei singoli stati, ma anche su quello globale.

Ma Ferrajoli traccia anche le linee di una possibile, anzi doverosa, inversione di rotta. A partire dalla valorizzazione di quella sfera dell’indisponibile costituita dalla garanzia dei diritti fondamentali e della pace, verso un garantismo costituzionale «allargato ai poteri extra e sovra-statali». La prospettiva è quella di un «costituzionalismo dei mercati e un costituzionalismo planetario». Ed è proprio la dimensione propositiva e progettuale il merito maggiore di questo libro, che unisce al rigore dell’analisi giuridica e teorica la spinta propulsiva della passione civile e politica, che rende fertile la prima e la indirizza verso un obiettivo di lungo periodo ma, non per questo, meno urgente. Ovvero l’espansione ultrastatuale del costituzionalismo democratico per garantire globalmente l’effettività dei diritti, altrimenti soltanto proclamati come fondamentali dalle carte internazionali.

Così, anche grazie a una certa nuova consapevolezza maturata con la pandemia, dell’interdipendenza di tutti i popoli della Terra, «idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani», la politica potrà rifondarsi come politica interna del mondo: a dimostrazione di come siano reciprocamente funzionali non soltanto la democrazia e i diritti ma, anche, la politica (planetaria) e il diritto. Già si poteva osservare a proposito di Principia Iuris (Laterza 2007), anch’esso di Luigi Ferrajoli, che gli esempi della guerra, dell’emergenza, del corpo e della sovranità su di sé, dimostrano come il governo della vita non sia affidato né soltanto alla «corrente fredda» del diritto, né solo a quella «calda» della politica.

L’equilibrio su cui si regge la democrazia, a livello sia del singolo Stato che globale, si fonda su un gioco di continui rimandi tra l’una e l’altra corrente, perché i diritti fondamentali (tanto quelli sociali quanto quelli di libertà) siano resi effettivi. Del resto, ricorda Ferrajoli, «la democrazia non è soltanto una costruzione giuridica. È soprattutto una costruzione sociale e politica» e si articola nelle dimensioni politica, civile, liberale, sociale corrispondenti ad altrettante categorie di diritti costituzionalmente garantiti.

Il libro, di tale costruzione come è oggi e di come debba divenire, offre un’analisi lucida e a spettro amplissimo. Una diagnosi severa eppure appassionata che conferma, ancora una volta, come la debolezza, ma al tempo stesso la vitalità della democrazia – come scrisse Ahron Barak – sia il suo dover lottare, sempre, con una mano dietro la schiena. Infine, si sbaglierebbe a guardare a questo libro quasi fosse un testo, come usa dire, utopico. Con ciò che di astratto e velleitario il termine porta con sé. È un errore. Scriveva il grande matematico Bruno De Finetti: «Occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia». L’affermazione può essere intesa e come critica dell’angustia di molti approcci politico-teorici e come allusione al ruolo necessariamente profetico di chi parla avanti o parla prima o parla per conto nostro. L’utopia può essere certo una fuga verso l’irrazionale, ma può avere anche la forza di un giocare di anticipo lungimirante e concretissimo.

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Brevetti sui vaccini: le (tante) ragioni di Biden

La pandemia ci costringe a riconsiderare la relazione fra ricerca pubblica e privata. Il tema che pone è se l’unica posizione negoziale dei governi nei prossimi venti anni sulle tecnologie che stanno alla base dei vaccini, create con il concorso stesso dei governi, sia solo quella di firmare uno dopo l’altro contratti di acquisto

Massimo Florio | Corriere della Sera | 18 maggio 2021

 

La mossa a sorpresa del Presidente Biden sul possibile sostegno alla sospensione dei brevetti sui vaccini Covid-19, ha avuto vasta eco. Molti, a cominciare dalle imprese farmaceutiche, si sono precipitati a dire che in questo modo si uccidono gli stimoli all’innovazione, non si aumentano la disponibilità di dosi, si crea confusione sul mercato azionario, si dovrebbero piuttosto sbloccare le esportazioni, si sta facendo una mossa geopolitica, ed altro ancora. In un libro in corso di pubblicazione per Laterza (“La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli”) sostengo che la pandemia ci costringe a riconsiderare la relazione fra ricerca pubblica e privata.

Converrebbe riflettere su cinque fatti.

1) In primo luogo Biden sa che alcuni brevetti relativi a vaccini a mRNA sono crucialmente collegati a due fondamentali scoperte sostenute dalla ricerca pubblica: il concetto di modifica del mRNA (presso l’ Università della Pennsylvania, da parte di Weissman e Karikò) e soprattutto la tecnologia di trattamento delle proteine virali «spike» da parte di Graham ed altri, presso National Institutes of Health, in particolare presso il NIAID, l’istituto diretto da Fauci ( si veda Prefusion Coronavirus Spike Proteins and Their Use, U.S. Pat: 10,960,070 issued 2021-03-30). NIH, in un comunicato ufficiale, ha dichiarato che «scienziati del NIAID hanno creato proteine spike stabilizzate per lo sviluppo di vaccini contro i coronavirus, incluso SARS COV-2… », di avere depositato brevetti a riguardo «per proteggere i diritti del governo su queste invenzioni» e di avere adottato un approccio di licenza non-esclusiva a favore di diverse società private, fra cui Moderna (NIH Statement to Axios). A quanto risulta, anche Biontech, ed altri hanno ottenuto questa licenza (le condizioni non sono note). Come spesso accade, le conoscenze e le innovazioni e la proprietà intellettuale sono concatenate.

2) Secondo il Bayh-Dole Act (la legge che regola la materia dei brevetti ottenuti con il concorso del governo federale USA), se il prezzo del farmaco ed altre condizioni non sono «ragionevoli», il governo potrebbe recuperare i propri diritti ed entrare direttamente in campo (clausola di «march-in») con proprie iniziative. Questa opzione, non menzionata da Biden, ma ben nota agli addetti ai lavori, sarebbe molto più radicale della temporanea sospensione dei brevetti. Discussioni a riguardo sono state rese note anche dal New York Times (21 Marzo 2021 e 7 Maggio 2021) e confermate da altre fonti autorevoli.

3) In terzo luogo, nel caso di Moderna, lo sviluppo a valle della ricerca è stato finanziato da un’altra agenzia federale (BARDA, Biomedical Advanced Research and Development Authority) con un miliardo di dollari, che ha largamente coperto i costi. Non a caso per Moderna ci si riferisce spesso come ad un vaccino co-sviluppato con NIH, cioè con il settore pubblico. Ma anche altri vaccini non sarebbero stati possibili senza l’intervento senza precedenti per scala e velocità delle infrastrutture pubbliche di ricerca e senza forse dieci miliardi di dollari che hanno sborsato.

4) Inoltre il de-risking a favore dei privati inoltre è stato decisivo, con acquisti pubblici, anche prima delle autorizzazioni, per miliardi di dollari (per Moderna e Pfizer con larghi margini di profitto, che si sono ampiamenti riflessi nel valore delle azioni).

5) Infine, i tempi di autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (ed altre agenzie del farmaco) a causa dell’emergenza sono stati inferiori ad un anno. Poiché i brevetti durano venti anni, questo lascerebbe forse per 19 anni, quasi una intera generazione, il pianeta a dipendere dal monopolio legale su vaccini di alcune imprese private. La tecnologia legalmente protetta da questi brevetti (e da altri basati su approcci più convenzionali, ma pure sostenuti quasi integralmente da fondi pubblici, come nel caso del vettore virale di Oxford AstraZeneca) servirà con ogni probabilità anche per campagne future in presenza di varianti, il cui emergere è a sua volta favorito dalla lentezza estrema con cui le vaccinazioni procedono nei paesi in via di sviluppo, come denunciato dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità. Si sta quindi parlando di qualcosa di fondamentale per molti anni.

Biden ha ogni ragione a sollevare il tema della proprietà intellettuale. Per quanto le soluzioni pratiche e legali nel breve periodo possano essere varie, la sua amministrazione, con A. Fauci, l’uomo chiave della strategia sui vaccini come consulente, ed Eric Lander di MIT (uno dei più celebri genetisti del mondo) a capo dell’Office of Science del governo federale, dispone di poderose infrastrutture pubbliche in campo biomedico come NIH e BARDA. Queste operano su una scala che neppure ci sogniamo in Europa (il bilancio annuale di NIH vale 40 volte quello del CERN per avere un metro). Biden quindi non ha certo bisogno di farsi spiegare dall‘amministratore delegato di Pfizer e dagli uffici stampa del settore che produrre un vaccino è complesso, sia per le materie prime, che per le macchine, che per le professionalità. Il tema che pone è se l’unica posizione negoziale dei governi nei prossimi venti anni sulle tecnologie che stanno alla base dei vaccini, create con il concorso stesso dei governi, sia solo quella di firmare uno dopo l’altro contratti di acquisto con un oligopolio, che per prezzi, tempi di consegna, controllo della catena del valore avrebbe un potere enorme, senza peraltro essere in grado di garantire la vaccinazione del pianeta intero. Più generale, dal mio punto di vista, viene sollevato il tema della privatizzazione della conoscenza che a monte nasce come bene pubblico e a valle si incorpora nei valori azionari (il tema del mio libro).

Biden ha spiazzato tutti perché il governo degli USA sa di avere delle leve strategiche e conta di usarle sia per sedersi al tavolo del WTO (dove formalmente si potrebbero sospendere i brevetti con una procedura molto complessa) che per negoziare in altre sedi da posizioni di forza. La lezioncina scolastica sul ruolo dei brevetti per stimolare l’innovazione, ripetuta da tanti, ce la possiamo risparmiare se quei brevetti si basano anche su altri brevetti che vengono dalla ricerca pubblica, se la ricerca privata è stata cofinanziata dai contribuenti, se il rischio di impresa è stato spostato sui governi, se le autorizzazioni dalle agenzie pubbliche sono state concesse a tempi record in emergenza, se non si riesce a battere sul tempo e su scala planetaria le mutazioni. Non è «business as usual» e le società farmaceutiche farebbero meglio ad assumere consulenti alle relazioni esterne che suggeriscano loro di dire: «Signor Presidente, parliamone».

 

Massimo Florio è professore di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di economia del benessere applicata, analisi costi-benefici, privatizzazioni e impresa pubblica, infrastrutture di ricerca, politiche regionali e industriali dell’Unione Europea. Tra i suoi libri, Investing in Science. Social Cost-Benefit Analysis of Research Infrastructures (MIT Press 2019). In autunno per i tipi di Laterza uscirà La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli.