La democrazia è un gioco di correnti (la “fredda” del diritto, la “calda” della politica)

Le responsabilità di populismi e sovranismi, la nascita insidiosa di nuovi poteri privati e “selvaggi”: una teoria del garantismo costituzionale per affrontare la crisi dei modelli di “governo popolare”

Luigi Manconi e Federica Resta | TuttoLibri | 27 marzo 2021

«Prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza»: quest’affermazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione delle Dichiarazioni programmatiche alle Camere, contiene un interrogativo di fondo. Che tipo di democrazia presuppone oggi quest’idea di cittadinanza come dovere oltre che come diritto? È una domanda che sta a fondamento del rapporto tra democrazia e diritto e diritti, reso se possibile ancor più complesso nel contesto attuale. L’esperienza della pandemia, che non sembra destinata a esaurirsi in breve, ha rappresentato – come ogni altra emergenza – un banco di prova importante per lo Stato di diritto, chiamato a tracciare un confine, sempre mobile e incerto, tra regola e necessità. Superato tale confine, la deroga degenera in legittimazione dello Stato di prevenzione. E questo equilibrio è tanto più difficile in un ordinamento come il nostro che – diversamente da altri, come ha sottolineato l’allora Presidente della Consulta Marta Cartabia – non riconosce all’emergenza la natura di autonoma fonte del diritto. Ciò che la nostra Costituzione prevede (o meglio: consente) è, piuttosto, uno stato eccezionale, dovuto a circostanze eccezionali, non certo sciolto da un quadro di norme, vincoli e limiti.

Ma la tenuta della democrazia oggi è insidiata, anche e in senso più generale, dall’emersione ai nuovi poteri privati e micro-sovranità e dalla conseguente rifeudalizzazione di molti rapporti sociali. Pensiamo, in primo luogo, al capitalismo delle piattaforme, resesi sempre più arbitre di libertà fondamentali, al punto di aver autonomamente tracciato (è il caso di Facebook e Twitter, con il blocco dell’account di Donald Trump) il confine tra potere di esternazione del Presidente degli Stati Uniti e discorsi illeciti. E questo in un ordinamento, quale quello statunitense, in cui è prevalsa sempre (fin al sommo vertice della Corte suprema) la convinzione che le idee storte si raddrizzino con buoni argomenti e non con la censura e, tanto meno, con il bastone. Il percorso carsico di populismi e sovranismi che emergono e si inabissano ciclicamente è poi, al tempo stesso, causa e conseguenza di questa crisi della democrazia che, tuttavia, sarebbe errato pensare come irreversibile. E ciò nonostante che quella stessa crisi si manifesti conclamata e profonda persino nei paesi in cui il modello democratico risultava talmente solido da apparire immune da qualsivoglia degenerazione. E, in effetti, l’assalto a Capitol Hill dimostra in maniera emblematica tanto questa crisi quanto la capacità di reazione di una democrazia matura.

Proprio su questo nodo ammonisce Luigi Ferrajoli, che con La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, anzitutto individua con puntualità proprio le molteplici cause della crisi del modello democratico. Le principali di esse sono riconducibili allo sviluppo di «poteri selvaggi», come indicava il titolo di un altro libro di Ferrajoli.

Questi ultimi sono alimentati, per un verso, da una idea elementare e populista della democrazia come tirannia della maggioranza (anziché come, diremmo noi, governo del limite e delle garanzie); e, per l’altro, da una concezione liberista e altrettanto elementare del mercato. Questo binomio sembra stringere e soffocare, come una tenaglia, le dinamiche fisiologiche dello Stato di diritto, alterandone i meccanismi decisionali, eludendone le garanzie, distorcendone il sistema di valori. E questo non solo sul piano nazionale, quello dei singoli stati, ma anche su quello globale.

Ma Ferrajoli traccia anche le linee di una possibile, anzi doverosa, inversione di rotta. A partire dalla valorizzazione di quella sfera dell’indisponibile costituita dalla garanzia dei diritti fondamentali e della pace, verso un garantismo costituzionale «allargato ai poteri extra e sovra-statali». La prospettiva è quella di un «costituzionalismo dei mercati e un costituzionalismo planetario». Ed è proprio la dimensione propositiva e progettuale il merito maggiore di questo libro, che unisce al rigore dell’analisi giuridica e teorica la spinta propulsiva della passione civile e politica, che rende fertile la prima e la indirizza verso un obiettivo di lungo periodo ma, non per questo, meno urgente. Ovvero l’espansione ultrastatuale del costituzionalismo democratico per garantire globalmente l’effettività dei diritti, altrimenti soltanto proclamati come fondamentali dalle carte internazionali.

Così, anche grazie a una certa nuova consapevolezza maturata con la pandemia, dell’interdipendenza di tutti i popoli della Terra, «idonea a generare una solidarietà senza precedenti tra tutti gli esseri umani», la politica potrà rifondarsi come politica interna del mondo: a dimostrazione di come siano reciprocamente funzionali non soltanto la democrazia e i diritti ma, anche, la politica (planetaria) e il diritto. Già si poteva osservare a proposito di Principia Iuris (Laterza 2007), anch’esso di Luigi Ferrajoli, che gli esempi della guerra, dell’emergenza, del corpo e della sovranità su di sé, dimostrano come il governo della vita non sia affidato né soltanto alla «corrente fredda» del diritto, né solo a quella «calda» della politica.

L’equilibrio su cui si regge la democrazia, a livello sia del singolo Stato che globale, si fonda su un gioco di continui rimandi tra l’una e l’altra corrente, perché i diritti fondamentali (tanto quelli sociali quanto quelli di libertà) siano resi effettivi. Del resto, ricorda Ferrajoli, «la democrazia non è soltanto una costruzione giuridica. È soprattutto una costruzione sociale e politica» e si articola nelle dimensioni politica, civile, liberale, sociale corrispondenti ad altrettante categorie di diritti costituzionalmente garantiti.

Il libro, di tale costruzione come è oggi e di come debba divenire, offre un’analisi lucida e a spettro amplissimo. Una diagnosi severa eppure appassionata che conferma, ancora una volta, come la debolezza, ma al tempo stesso la vitalità della democrazia – come scrisse Ahron Barak – sia il suo dover lottare, sempre, con una mano dietro la schiena. Infine, si sbaglierebbe a guardare a questo libro quasi fosse un testo, come usa dire, utopico. Con ciò che di astratto e velleitario il termine porta con sé. È un errore. Scriveva il grande matematico Bruno De Finetti: «Occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia». L’affermazione può essere intesa e come critica dell’angustia di molti approcci politico-teorici e come allusione al ruolo necessariamente profetico di chi parla avanti o parla prima o parla per conto nostro. L’utopia può essere certo una fuga verso l’irrazionale, ma può avere anche la forza di un giocare di anticipo lungimirante e concretissimo.

Scopri il libro:

 

Brevetti sui vaccini: le (tante) ragioni di Biden

La pandemia ci costringe a riconsiderare la relazione fra ricerca pubblica e privata. Il tema che pone è se l’unica posizione negoziale dei governi nei prossimi venti anni sulle tecnologie che stanno alla base dei vaccini, create con il concorso stesso dei governi, sia solo quella di firmare uno dopo l’altro contratti di acquisto

Massimo Florio | Corriere della Sera | 18 maggio 2021

 

La mossa a sorpresa del Presidente Biden sul possibile sostegno alla sospensione dei brevetti sui vaccini Covid-19, ha avuto vasta eco. Molti, a cominciare dalle imprese farmaceutiche, si sono precipitati a dire che in questo modo si uccidono gli stimoli all’innovazione, non si aumentano la disponibilità di dosi, si crea confusione sul mercato azionario, si dovrebbero piuttosto sbloccare le esportazioni, si sta facendo una mossa geopolitica, ed altro ancora. In un libro in corso di pubblicazione per Laterza (“La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli”) sostengo che la pandemia ci costringe a riconsiderare la relazione fra ricerca pubblica e privata.

Converrebbe riflettere su cinque fatti.

1) In primo luogo Biden sa che alcuni brevetti relativi a vaccini a mRNA sono crucialmente collegati a due fondamentali scoperte sostenute dalla ricerca pubblica: il concetto di modifica del mRNA (presso l’ Università della Pennsylvania, da parte di Weissman e Karikò) e soprattutto la tecnologia di trattamento delle proteine virali «spike» da parte di Graham ed altri, presso National Institutes of Health, in particolare presso il NIAID, l’istituto diretto da Fauci ( si veda Prefusion Coronavirus Spike Proteins and Their Use, U.S. Pat: 10,960,070 issued 2021-03-30). NIH, in un comunicato ufficiale, ha dichiarato che «scienziati del NIAID hanno creato proteine spike stabilizzate per lo sviluppo di vaccini contro i coronavirus, incluso SARS COV-2… », di avere depositato brevetti a riguardo «per proteggere i diritti del governo su queste invenzioni» e di avere adottato un approccio di licenza non-esclusiva a favore di diverse società private, fra cui Moderna (NIH Statement to Axios). A quanto risulta, anche Biontech, ed altri hanno ottenuto questa licenza (le condizioni non sono note). Come spesso accade, le conoscenze e le innovazioni e la proprietà intellettuale sono concatenate.

2) Secondo il Bayh-Dole Act (la legge che regola la materia dei brevetti ottenuti con il concorso del governo federale USA), se il prezzo del farmaco ed altre condizioni non sono «ragionevoli», il governo potrebbe recuperare i propri diritti ed entrare direttamente in campo (clausola di «march-in») con proprie iniziative. Questa opzione, non menzionata da Biden, ma ben nota agli addetti ai lavori, sarebbe molto più radicale della temporanea sospensione dei brevetti. Discussioni a riguardo sono state rese note anche dal New York Times (21 Marzo 2021 e 7 Maggio 2021) e confermate da altre fonti autorevoli.

3) In terzo luogo, nel caso di Moderna, lo sviluppo a valle della ricerca è stato finanziato da un’altra agenzia federale (BARDA, Biomedical Advanced Research and Development Authority) con un miliardo di dollari, che ha largamente coperto i costi. Non a caso per Moderna ci si riferisce spesso come ad un vaccino co-sviluppato con NIH, cioè con il settore pubblico. Ma anche altri vaccini non sarebbero stati possibili senza l’intervento senza precedenti per scala e velocità delle infrastrutture pubbliche di ricerca e senza forse dieci miliardi di dollari che hanno sborsato.

4) Inoltre il de-risking a favore dei privati inoltre è stato decisivo, con acquisti pubblici, anche prima delle autorizzazioni, per miliardi di dollari (per Moderna e Pfizer con larghi margini di profitto, che si sono ampiamenti riflessi nel valore delle azioni).

5) Infine, i tempi di autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (ed altre agenzie del farmaco) a causa dell’emergenza sono stati inferiori ad un anno. Poiché i brevetti durano venti anni, questo lascerebbe forse per 19 anni, quasi una intera generazione, il pianeta a dipendere dal monopolio legale su vaccini di alcune imprese private. La tecnologia legalmente protetta da questi brevetti (e da altri basati su approcci più convenzionali, ma pure sostenuti quasi integralmente da fondi pubblici, come nel caso del vettore virale di Oxford AstraZeneca) servirà con ogni probabilità anche per campagne future in presenza di varianti, il cui emergere è a sua volta favorito dalla lentezza estrema con cui le vaccinazioni procedono nei paesi in via di sviluppo, come denunciato dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità. Si sta quindi parlando di qualcosa di fondamentale per molti anni.

Biden ha ogni ragione a sollevare il tema della proprietà intellettuale. Per quanto le soluzioni pratiche e legali nel breve periodo possano essere varie, la sua amministrazione, con A. Fauci, l’uomo chiave della strategia sui vaccini come consulente, ed Eric Lander di MIT (uno dei più celebri genetisti del mondo) a capo dell’Office of Science del governo federale, dispone di poderose infrastrutture pubbliche in campo biomedico come NIH e BARDA. Queste operano su una scala che neppure ci sogniamo in Europa (il bilancio annuale di NIH vale 40 volte quello del CERN per avere un metro). Biden quindi non ha certo bisogno di farsi spiegare dall‘amministratore delegato di Pfizer e dagli uffici stampa del settore che produrre un vaccino è complesso, sia per le materie prime, che per le macchine, che per le professionalità. Il tema che pone è se l’unica posizione negoziale dei governi nei prossimi venti anni sulle tecnologie che stanno alla base dei vaccini, create con il concorso stesso dei governi, sia solo quella di firmare uno dopo l’altro contratti di acquisto con un oligopolio, che per prezzi, tempi di consegna, controllo della catena del valore avrebbe un potere enorme, senza peraltro essere in grado di garantire la vaccinazione del pianeta intero. Più generale, dal mio punto di vista, viene sollevato il tema della privatizzazione della conoscenza che a monte nasce come bene pubblico e a valle si incorpora nei valori azionari (il tema del mio libro).

Biden ha spiazzato tutti perché il governo degli USA sa di avere delle leve strategiche e conta di usarle sia per sedersi al tavolo del WTO (dove formalmente si potrebbero sospendere i brevetti con una procedura molto complessa) che per negoziare in altre sedi da posizioni di forza. La lezioncina scolastica sul ruolo dei brevetti per stimolare l’innovazione, ripetuta da tanti, ce la possiamo risparmiare se quei brevetti si basano anche su altri brevetti che vengono dalla ricerca pubblica, se la ricerca privata è stata cofinanziata dai contribuenti, se il rischio di impresa è stato spostato sui governi, se le autorizzazioni dalle agenzie pubbliche sono state concesse a tempi record in emergenza, se non si riesce a battere sul tempo e su scala planetaria le mutazioni. Non è «business as usual» e le società farmaceutiche farebbero meglio ad assumere consulenti alle relazioni esterne che suggeriscano loro di dire: «Signor Presidente, parliamone».

 

Massimo Florio è professore di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di economia del benessere applicata, analisi costi-benefici, privatizzazioni e impresa pubblica, infrastrutture di ricerca, politiche regionali e industriali dell’Unione Europea. Tra i suoi libri, Investing in Science. Social Cost-Benefit Analysis of Research Infrastructures (MIT Press 2019). In autunno per i tipi di Laterza uscirà La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli.

Fidel Castro e la rivoluzione cubana

“Bisogna prendere il potere, tutto il potere, poi si fa la rivoluzione.”

All’alba del 2 dicembre 1956 Fidel Castro, Ernesto Che Guevara e un drappello di giovani ‘barbudos’ sbarca sulle coste di Cuba. È l’inizio di un’avventura che gli stessi ribelli trasformeranno in leggenda. Come riuscirono Fidel Castro e i suoi a rovesciare il dittatore Fulgencio Batista, e quali eventi prepararono la loro vittoria?

Lo storico Loris Zanatta in dialogo con lo scrittore Paolo Di Paolo, a partire da Fidel Castro e la rivoluzione cubana, l’ultima lezione di storia del ciclo La Presa del Potere.

 

 

Scopri i libri di Loris Zanatta:

   

 

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana, ma anche un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

Questa settimana parliamo di Medio Oriente, della proposta dell’Unione Europea di redistribuzione dei migranti e della missione statunitense in Afghanistan.

 

Medio Oriente. Come ricostruisce il Post, dopo giorni di bombardamenti aerei, nella serata di giovedì 13 l’esercito israeliano “ha annunciato di avere iniziato ad attaccare i gruppi armati palestinesi della Striscia di Gaza anche via terra”. L’ipotesi dell’invasione è stata successivamente smentita, ma si tratta di un’opzione che il governo israeliano non ha ancora scartato.

La situazione è resa ancora più complicata dalle tensioni che stanno scuotendo diverse città. Sempre secondo il Post, “uno degli episodi più violenti è avvenuto a Bat Yam, un quartiere costiero nel sud di Tel Aviv, dove decine di estremisti ebrei hanno preso a pugni e a calci un uomo che avevano identificato come arabo, e hanno continuato a picchiarlo anche quando l’uomo è rimasto inerme a terra […] Poco prima decine di attivisti di estrema destra avevano attaccato diversi negozi di proprietà di arabi israeliani, rompendo le vetrine, lanciando oggetti e scandendo slogan razzisti. […] Ad Acri, una città costiera nel nord di Israele famosa soprattutto per la sua fortezza Crociata, un gruppo di arabi israeliani ha picchiato un uomo ebreo di una trentina d’anni usando bastoni e pietre, lasciandolo in condizioni critiche. Prima dell’assalto, la polizia aveva ordinato ai proprietari arabi dei negozi della città di chiudere in anticipo le loro attività per il rischio dell’arrivo di gruppi violenti di estrema destra.”

Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese

Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991

Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1991 a oggi

Lewis, La costruzione del Medio Oriente

       

 

Migranti e Europa. “Arriva dall’Austria il primo no alla proposta dell’Unione Europea di redistribuire tra tutti gli Stati membri i migranti sbarcati a Lampedusa negli ultimi giorni” riporta Claudio Del Frate sul Corriere della Sera. “«Manteniamo una posizione molto chiara – ha detto la ministra austriaca Edstadler –: una redistribuzione dei migranti arrivati a Lampedusa non è la soluzione. Occorre che la Ue aiuti direttamente i Paesi africani». Freddezza su una condivisione degli sforzi è arrivata anche da altri governi. «Temiamo di dover fronteggiare un gran numero di arrivi dalla rotta balcanica» ha detto ad esempio il ministro degli interni tedesco Horst Seehofer”.

Somma, Quando l’Europa tradì se stessa

Zielonka, Disintegrazione

 

 

Ritiro truppe Afghanistan. Completato il ritiro delle truppe statunitensi da Kandahar, la seconda più grande base militare USA più grande del Paese. Si prevede che il ritiro di tutte le truppe avrà luogo simbolicamente entro l’11 settembre 2021.

Bergamini, Storia degli Stati Uniti

Caracciolo, America vs America

   

Fidel Castro e la rivoluzione cubana

Il primo gennaio 1959 il dittatore Fulgencio Batista viene costretto a fuggire da Cuba dalle forze rivoluzionarie di Fidel Castro, che marceranno vittoriose sull’Avana pochi giorni dopo.

Sbarchi e assalti all’alba, guerriglia diffusa ovunque, milizie popolari: domenica 16 maggio sarà Loris Zanatta a chiudere il ciclo La presa del potere con Fidel Castro e la rivoluzione cubana, dal Teatro Storchi di Modena, introdotta, come sempre, da Paolo Di Paolo dall’Auditorium di Roma.

La lezione sarà disponibile dalle ore 8:00 di domenica sulla piattaforma AuditoriumPlus, mentre alle ore 19:00 potrete partecipare a un dialogo in diretta fra Loris Zanatta e Paolo Di Paolo sulle nostre pagine Facebook, e su quella dell’Auditorium, di ERT Fondazione e del Teatro Storchi. La diretta sarà disponibile anche sul nostro canale YouTube e su quello dell’Auditorium.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

Per acquistare clicca su una qualsiasi lezione, scegli se acquistare l’intera stagione o una singola lezione, registrati e procedi con il pagamento.

Una volta arrivati sulla schermata di pagamento è sufficiente cliccare sul pulsante giallo “Check out with PayPal” in basso a sinistra, anche se non si ha un account PayPal. A quel punto, nella schermata successiva dovrete cliccare sul pulsante “Paga con carta” e vi verrà data la possibilità di inserire i dati della carta per il pagamento e si completerà l’acquisto

Gli abbonati alle Lezioni di Storia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma – stagione 2019-2020 possono contattare il botteghino della Fondazione Musica per Roma per ricevere informazioni relative ai voucher.

>>Qui tutto il programma.

La storia della storia: le svolte della ricerca

Matteo Al Kalak | Avvenire | 9 aprile 2021

La storia è costituita da fatti, si costruisce sul campo, mette insieme prove e ripercorre il passato. Vero. Ma anche falso. Nel sentire comune fare storia coincide con il paziente lavoro di ricucitura di frammenti, più o meno parlanti, di episodi sepolti dal tempo, fatti riemergere come un reperto archeologico dalle nebbie di epoche tramontate. Se questa visione contiene ingredienti di verità, dimentica spesso di riflettere su un dato: nessuna ricostruzione storica è neutra e non c’è storico che racconti una storia oggettiva, univoca e incontrovertibile. Ogni esperto del passato è infatti influenzato, consapevolmente o meno, dalla sua formazione, dal contesto sociale e culturale in cui opera; è condizionato dai suoi giudizi, pregiudizi e, soprattutto, guidato da domande, interessi specifici e curiosità che muovono le sue ricerche e — punto più importante ancora — le sue risposte.

Come si può dunque “smascherare” lo storico, facendolo uscire dal guscio di presunta oggettività in cui I risultati del suo lavoro sembrano porlo? Un’intelligente lettura per risolvere questi quesiti viene dal libro di Carlotta Sorba e Federico Mazzini sui presupposti teorici e metodologici del fare storia (La svolta culturale. Come è cambiata la pratica storiografica). Sebbene possa sembrare un argomento specialistico, il testo si dimostra in realtà capace di parlare a un pubblico ampio, con un linguaggio chiaro e accessibile, che consente di cogliere un dato cruciale: il mestiere dello storico — per rievocare un’immagine di Marc Bloch — non può prescindere dalla riflessione teorica. La storia non è semplice lavoro sul campo (archivio, biblioteca, scavo archeologico, museo o ogni altro deposito di testimonianze sul passato), ma una fatica costantemente coniugata con uno sforzo di analisi e autoanalisi sui presupposti da cui ogni storico è mosso.

Sorba e Mazzini, riportando brani delle opere di volta in volta citate, accompagnano il lettore in un secolo di svolte e cambiamenti (i turns, secondo la definizione inglese che spesso compare, accompagnata da questo o quell’aggettivo: cultural turn, linguistic turn, archival turn e così via). Assumendo questi tornanti come pilastri, gli autori avviano il loro percorso dalla nascita della storia culturale, una storia sempre più interessata alla comprensione totale degli uomini e dei contesti, capace non solo di dire cosa accadde, ma anche di sondare cosa si credette, si pensò e si percepì.

Ad aprire questo itinerario è la scuola francese delle Annales che, ormai un secolo fa, pose al centro dell’indagine la mentalità e i sentimenti delle comunità e degli individui intesi come motori dell’azione collettiva. L’importanza della dimensione culturale divenne ancora più evidente quando un pensatore come Hayden White, scatenando dibattiti e polemiche inesaurite, sostenne che la storia non era che un insieme di fatti privi di connessioni, se non quelle create da un narratore — lo storico, appunto. Mentre la storia veniva ridotta all’arte di raccontare i fatti e tesserli in una trama convincente, altri scoprivano la necessità di tenere assieme antropologia e sapere storico o, ancora, percorrevano traiettorie originali, come quelle di Michel Foucault, concentrato sulla genesi delle pratiche connesse al potere, alla malattia e a ogni forma di anormalità (come la definì egli stesso). In un panorama vivace e aperto alla sperimentazione, la storiografia italiana puntò sull’indagine di contesti circoscritti, utilizzati come chiave per comprendere fenomeni di ampia portata (la cosiddetta microstoria che riduceva la scala di osservazione, ma non l’ambizione di dare spiegazioni generali).

Il volume prosegue esplorando nomi, autori e proposte in un viaggio appassionante che giunge sino a noi. Al termine, gli autori enumerano alcune delle sfide che restano aperte nella pratica degli storici, dalle frontiere del digitale al rapporto tra storia e finzione nella cultura di massa, dove ai romanzi ottocenteschi e agli sceneggiati novecenteschi si sono sostituiti serie tv, videogame, realtà virtuali e app.

Una conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che il passato è esso stesso attore e motore del nostro presente, in un dialogo tra dimensioni temporali che sono parte della vita individuale e collettiva più di quanto si tenda a pensare.

 

Scopri i libri:

   

 

Licenziare gli eroi

Gli spaccapietre cinesi, i braccianti macedoni, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh: attraverso le storie e le testimonianze di questi lavoratori emerge un paese che utilizza gli schiavi perché servono a tutti. Nessuno può chiamarsi fuori: né la politica, né i grandi sindacati, né le istituzioni, né i cittadini consumatori, né le aziende. Siamo tutti ingranaggi di questo meccanismo che sembra stare bene a tutti, ma mette tutti in pericolo.

>> Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, di Valentina Furlanetto, è un libro inchiesta durissimo. A seguire la storia di Cheickna Hamala Diop, una di quelle persone che, durante il lockdown, gli italiani chiamavano “eroi”. E poi?

 

Ci sono giornate che non si possono dimenticare. Il 7 maggio 2020 è stata una di quelle per Cheickna Hamala Diop, 26 anni, proveniente dal Mali, arrivato in Italia quando ne aveva dieci. “Quel giorno ci hanno licenziato su due piedi, a me e ad altri lavoratori.  Eppure dicevano che il nostro lavoro era prezioso, le famiglie degli ospiti erano contente.  D’altra parte questo non è un lavoro che uno fa se non ha passione, perché può essere faticoso e può non piacere. A me piaceva, lo facevo volentieri. Ma è andata così.”

Hamala sospira, guarda fuori, chissà a cosa pensa, forse ai suoi pazienti, forse a quando era bambino e correva a Bamako, in Mali, forse al giorno in cui è arrivato in Italia, forse al basket, che è la sua passione. Hamala non fa una professione qualsiasi, è un operatore socio sanitario, un Oss, una figura professionale che talvolta viene scambiata per un infermiere. Non lo è, ma è altrettanto importante negli ospedali e nelle case di cura perché si occupa di fornire assistenza a pazienti parzialmente o totalmente non autosufficienti sul piano fisico e psichico. È un lavoro faticoso, fisicamente e psicologicamente. È un lavoro prezioso. L’Oss è quella persona che aiuta anziani, disabili e malati a lavarsi, a vestirsi, a mangiare, a spostarsi dal letto alla sedia a rotelle, a girarsi perché non si formino le piaghe, parla con loro, li conforta, organizza attività di gruppo.

È una di quelle persone che, assieme a medici e infermieri, durante il lockdown gli italiani chiamavano “eroi”.

Da marzo a maggio 2020, durante il primo blocco, Hamala Diop oltre ai normali compiti, si è occupato anche di pazienti Covid. A qualcuno ha tenuto la mano nelle ore più difficili, a molti ha parlato per infondere coraggio, molti li ha lavati e vestiti. Prima di essere licenziato, quella mattina del 7 maggio, lavorava all’Istituto Palazzolo Don Gnocchi, una fondazione che gestisce diverse Rsa, residenze per anziani, a Milano. Hamala è stato licenziato perché ha denunciato pubblicamente le condizioni di lavoro ad altissimo rischio durante la pandemia, ad esempio il fatto che i lavoratori non potevano usare le mascherine e che non erano stati avvisati che c’erano dei casi di Covid all’interno della struttura. Al Don Gnocchi, una fondazione molto stimata nel capoluogo lombardo, nel periodo in cui lavorava Hamala ci sono stati 140 morti da Covid-19 e tutti i lavoratori che sono stati licenziati si sono contagiati.  Anche Diop si è ammalato a marzo ed è stato male per cinquanta giorni, era ancora ammalato il 7 maggio quando è stato raggiunto dalla “dichiarazione di non gradimento dell’azienda nei suoi confronti”, da un sommario procedimento disciplinare e dal licenziamento.

“Le negligenze che avevo denunciato erano tante – racconta Hamala – la più clamorosa era il divieto di usare le mascherine.  Anche se ce le portavamo noi da casa ci veniva chiesto di non usarle per non spaventare i pazienti”. È per queste denunce che Hamala e altri Oss che lavoravano nell’istituto sono stati mandati via. “Ho scoperto di aver perso il lavoro da una lettera”, racconta Hamala. “Nessuno me lo ha detto di persona, nessuno mi ha parlato, né quando mi sono ammalato né quando sono stato licenziato. Io sono l’unico che ha fatto questa fine fra i contratti a tempo indeterminato. Ad altri quattro colleghi che hanno denunciato come me, ma erano a tempo determinato hanno semplicemente risolto il contratto.  Altri ancora sono stati spostati.”

Ma facciamo un salto indietro nel tempo, torniamo a marzo 2020, all’inizio della pandemia in Italia. Il 14 marzo 2020 Hamala accende il telefono e sul gruppo Whatsapp che condivide con i colleghi scopre di essere entrato in contatto con dei positivi. La comunicazione che viene data loro il 14 marzo però è datata 10 marzo, quindi sono passati quattro giorni da quando l’azienda ha saputo che ci sono dei pazienti che hanno contratto il virus. “Noi usavamo le mascherine anche prima della pandemia, ad esempio quando dovevamo igienizzare le stanze. Ma da febbraio 2020 ci è stato detto che non dovevamo più utilizzarle. I capi dicevano che eravamo al sicuro e non ce n’era bisogno. Un giorno, a febbraio, doveva venire al Don Gnocchi un membro della dirigenza e quindi, prima che arrivasse, abbiamo dovuto togliere le mascherine, le abbiamo dovute mettere in tasca. Non abbiamo più potuto metterle fino a marzo, quando la cooperativa, il 14, ci ha fornito i dispositivi di sicurezza. Ma a quel punto i casi di positività all’interno della casa di cura c’erano già da un pezzo. Il 17 marzo ho fatto il tampone e il 20 marzo ho scoperto di essere stato contagiato.  Anche la fila per il tampone era gerarchica: prima i medici, poi gli infermieri, infine noi Oss.  Anche chi aveva fatto la notte, come un mio collega, doveva aspettare che prima venisse fatto il tampone ai medici.”

In una e-mail del 9 marzo i dirigenti del Don Gnocchi, i cui vertici vengono indagati a fine marzo 2020 per omicidio colposo e strage colposa per la morte di molti anziani e il contagio di molti operatori, parlano di “favorire la messa in ferie del personale che attualmente, e in vista delle intuite evoluzioni, possa non essere immediatamente utile, soprattutto se poco collaborante, VEDI AD ES. LA PRETESA DI ESSERE DOTATI DEI DPI ANCHE NEI CASI NON PREVISTI” (in maiuscolo nel testo originale).  L’e-mail è spedita dal direttore del personale Enrico Mambretti a una ventina di dirigenti, alla presidenza (don Vincenzo Barbante) e alla direzione generale (Francesco Converti) e ha come oggetto le linee di comportamento per la gestione e le presenze dei collaboratori in base al Dpcm pubblicato il giorno precedente, domenica 8 marzo.

Mambretti consiglia di mettere “il personale che tende a polemizzare o a volere i Dpi in ferie come sopra”. In pratica, chi chiedeva di lavorare con i dispositivi di protezione individuale veniva tenuto a casa. Chi era dipendente diretto della Fondazione stava in ferie, chi invece lavorava al Don Gnocchi, ma era in realtà dipendente di una cooperativa, veniva semplicemente lasciato a casa, in pratica licenziato. Ed è il caso di Hamala. […]

Rosa Melgarejo è un’infermiera di origini peruviane ed è la presidente dell’associazione Infermieri del mondo, che si batte per il riconoscimento dei diritti degli infermieri di origini straniere in Italia. “Una nostra collega quando ha chiesto le mascherine gliele davano solo per pochi giorni.  Questo è assurdo. Ma è stata una situazione che ha riguardato italiani come stranieri. Invece gli infermieri stranieri sono discriminati seriamente nei contratti. Perché se un infermiere non ha la cittadinanza italiana anche se ha studiato in Italia ed è iscritto all’albo non può partecipare ai concorsi e non può lavorare presso le strutture pubbliche. Questa è una discriminazione che non esiste negli altri paesi europei. Queste persone quindi vanno a lavorare nelle Rsa oppure nelle cooperative. E si sa come lavorano le cooperative.  Parliamoci chiaramente: questi infermieri sono mal pagati, spesso il 30% in meno. Uno degli scopi della mia associazione è di evitare che esistano infermieri di serie A e infermieri di serie B.” Eccolo servito il paradosso: da inizio emergenza per il Covid-19 le Regioni lamentano la carenza di personale sanitario, ma non fanno nulla per utilizzare gli stranieri in Italia, che spesso hanno studiato qui e sono iscritti all’albo professionale.  Piuttosto li vanno ad assumere dall’estero. Solo in Piemonte e nella città di Perugia nell’autunno 2020 le aziende ospedaliere hanno incluso nei loro bandi i medici stranieri residenti.  Oggi in Italia ci sono 77 mila professionisti della sanità stranieri, tra questi 22 mila medici e 38 mila infermieri e poi Oss, fisioterapisti e farmacisti.

Anche in questo caso la pandemia ha solo scoperchiato un pentolone che ribolle da anni, un pentolone fatto di ingiustizia e para-schiavitù. Come spiega Hamala Diop, per gli infermieri impiegati nel Sistema sanitario nazionale con il rinnovo del contratto nel 2018 (quello del triennio 2016-2018) la retribuzione mensile (lorda) è pari a circa 1.922 euro mensili. Per un infermiere assunto da una Onlus o cooperativa si parte da un minimo retributivo di 1.000 euro mensili. I problemi emersi durante il lockdown, ancora una volta, sono solo la punta di un iceberg, immenso, profondo, radicato nella realtà lavorativa italiana. La maggioranza di queste storie non emerge affatto perché le persone hanno paura di denunciare perché temono di perdere il lavoro, perché sono minacciate dai loro capi, perché non hanno diritti.

 

Scopri il libro:

Non solo libri: così festeggiamo 120 anni di storia

L’eredità e la lezione di Vito. L’importanza delle donne della famiglia. Un futuro tutto al femminile. I due cugini al timone della casa editrice si confrontano su come innovare, tra social e festival, restando se stessi.

Simonetta Fiori, la Repubblica, 9 maggio 2021

Il compleanno di una casa editrice è sempre un’occasione di bilancio. Se è un marchio di famiglia, la storia culturale acquista una temperatura emotiva che scaturisce dalle relazioni personali dei protagonisti. L’avventura civile e intellettuale di casa Laterza è racchiusa in un volumone giallo di millecinquecento pagine, il Catalogo Storico, che esce per un duplice anniversario: i centovent’anni della casa editrice, fondata il 10 maggio del 1901 dal ventottenne Giovanni Laterza; e il ventennale della scomparsa di Vito Laterza, coraggioso traghettatore dell’azienda editoriale dalle secche dell’egemonia crociana agli avamposti culturali della seconda metà del Novecento. Collegati su Zoom ci sono i suoi due successori, il figlio Giuseppe che è il presidente e il nipote Alessandro, amministratore delegato: diversissimi per temperamento e formazione, ci raccontano la loro singolare diarchia. E la passione per un mestiere che nasce da una «follia erasmiana».

Giuseppe Laterza: «Tenere in mano il Catalogo ti dà una sensazione molto bella. Tu sei il ramo, ma appartieni a una quercia secolare: la linfa è la stessa. Questo ti dà forza, offrendoti la traccia nelle scelte difficili di ogni giorno».

Alessandro Laterza: «Io sento forte la responsabilità. E vedo il Catalogo come un punto di partenza per il futuro».

GL: «Avere una quercia alle spalle ti carica di un grande peso. Non vorresti mai essere l’erede che chiude una storia centenaria. Il momento più buio è stato dopo la grande crisi finanziaria del 2008, che è rimbalzata sui libri più tardi: c’è stato da tremare. Ma là s’è rivelata fondamentale l’intuizione che aveva avuto mio padre negli anni Sessanta: in una produzione saggistica dagli esiti altalenanti era necessario avere uno stabilizzatore come la scolastica. Ed è stato questo settore, curato da Alessandro, a salvarci».

AL: «Vito è stato un formidabile innovatore. Aveva intuito, giovanissimo, che quella crociana era un’egemonia declinante, condannata a non riprodursi nel tempo. E cominciò a esplorare nuovi territori disciplinari come la linguistica o l’urbanistica, oltre a lanciare i Libri del Tempo, il laboratorio della cultura riformista liberaldemocratica. Alcune iniziative furono un fallimento totale sul piano economico, ma diedero identità alla casa editrice».

GL: «Una delle sue lezioni è che non ci si deve preoccupare troppo se qualche libro va male: l’importante è che sia un buon libro. Questo non significa che non fosse attento ai conti. Era innanzitutto un imprenditore. Una delle grandi critiche rivolte a Giulio Einaudi è che non leggesse i bilanci. Lo ricordo a Bari immerso in sterminate discussioni con l’amministratore di Barletta, un bravissimo contabile che parlava in dialetto pugliese stretto. Questo in fondo ci ha insegnato: che il grande editore non è quello che insegue meravigliosi progetti e poi lascia ad altri il volgare mestiere. Un grande editore è quello che dà continuità economica all’azienda. Se non sei solido economicamente, non hai autonomia culturale».

AL: «Insieme a mio padre Paolo, un avvocato che era presidente della casa editrice, Vito si batté moltissimo per difendere l’indipendenza dell’azienda dal tentativo annessionistico d’un grande gruppo. Alla fine del 1989, una parte della famiglia Laterza cedette le sue quote alla Rizzoli».

GL: «Da quel drammatico consiglio d’amministrazione uscì sorridente: “Finalmente ce ne siamo liberati”. Sapeva che poteva riprendere in mano le sorti della casa editrice. E si sentiva finalmente libero da quei famigliari che consideravano il catalogo una sorta di giacimento petrolifero da sfruttare. Mi ricordo la prima volta che misi piede in casa editrice. “Vedi quel bellissimo colophon? Se non lo metti ogni giorno a valore, anche rischiando, entro pochi anni è destinato a scomparire”».

AL: «Vito ci ha insegnato il mestiere senza troppi discorsi, ma coinvolgendoci nella pratica: prima in redazione, poi Pepe all’ufficio stampa e io all’ufficio tecnico, senza mai sovrapporci. E senza mai farci sentire il peso dell’errore. Ho conservato il pacchetto di sigarette Nazionali Super senza filtro che mi regalò. Ne fumo una all’anno, se abbiamo chiuso bene il bilancio».

GL: «A volte penso che tu gli assomigli più di me. Il fumo è un tratto che condividete».

AL: «Posso dire una cosa senza offendere Vito? Nelle relazioni con gli autori tu sei molto più bravo di lui. Perché hai ereditato il lato fantasioso dei Chiarini, la famiglia di tua mamma».

GL: «Mia madre Antonella ha svolto un ruolo molto importante. È stata lei a creare intorno a mio padre e alla casa editrice una rete di amicizie vere. Le feste natalizie con Tullio De Mauro vestito da Befana, gli scherzi al telefono con Lucio Colletti, i giochi con Antonio Cederna che poi a tavola urlava contro la speculazione edilizia. Il lavoro intellettuale era profondamente intrecciato al rapporto personale. Devo dire che lo stesso ruolo esercita accanto a me mia moglie Karina. Mia madre aveva una sensibilità artistica che ha reso più libero mio padre, sciogliendone alcune rigidità: lui proveniva da una famiglia meridionale molto tradizionale. E io sento di avere una vocazione spettacolare che è sicuramente materna. Mio padre chiamava la presentazione del libro lo “sciacquetto”… non ne era entusiasta insomma».

AL: «Tutte le donne di casa Laterza sono state importanti. Secondo stili molto diversi, classico e barricadero, mia madre Giovanna e mia sorella Maria hanno animato e diretto la libreria di Bari, una bandiera della casa editrice piantata nella città. Pur essendo una casa editrice internazionale, l’unica che sotto la guida di Duby e Le Goff abbia realizzato un progetto storico europeo insieme a un gruppo di altri publisher, la Laterza continua ad avere un radicamento meridionale».

GL: «Mi ricordo quando mio padre insisteva con Alessandro perché entrasse in casa editrice. Tu eri un bravo classicista, dal futuro brillante. E lui ti disse: un editore riesce a essere culturalmente più incisivo d’un pur bravissimo studioso. Oggi capisco le ragioni della sua insistenza, che allora mi sfuggivano: i Laterza avevano avuto sempre un solo erede».

AL: «C’è tra noi un gioco delle parti. Tu sei un instancabile inventore di progetti e io sono quello che dice: fermati!».

GL: «Diciamo che io sono più proiettato sulla spesa, tu sui costi. Alessandro ha la caratteristica tipica della formichina pugliese: ogni euro speso va ben soppesato. Anche qui mi ricordi molto mio padre. Ma pur essendo diversi inseguiamo un’unica finalità: conservare la solidità di un’impresa di cultura che si pone tra i  suoi compiti la formazione critica della classe dirigente. Né io né Alessandro facciamo questo lavoro per ampliare le dimensioni dell’azienda o per aumentare i profitti: non è il nostro obiettivo. E la nostra diarchia è una rottura rispetto alla tradizione monocratica delle aziende».

AL: «Siamo riusciti ad arrivare al 2021, e non era affatto scontato. Il nostro merito – qui il contributo di Pepe è decisivo – è stato tenere fede al mestiere di editore producendo e diffondendo contenuti di qualità secondo modalità molto diverse. Non ci siamo tirati indietro di fronte ai collaterali, i libri venduti con i giornali. E non abbiamo avuto paura di sfidare il web, mescolando linguaggi differenti. Siamo sempre noi quando facciamo i festival – il primo è stato quello dell’economia di Trento, poi sono arrivate le Lezioni di storia e tanti altri – o promuoviamo gli ebook. Ci ha aiutato la dimensione agile della casa editrice, dove è possibile decidere in fretta».

GL: «Ora tocca alla quinta generazione, che è già al lavoro. Mia figlia Antonia si occupa dei social: quest’anno, anche in conseguenza della pandemia, abbiamo raddoppiato i nostri follower e inventato nuove rubriche. Bianca, figlia di Alessandro, cura la grafica e le copertine. Di recente ha seguito alcuni graphic novel di successo. Oggi una grande carica ci viene da loro. Sono due trentenni in una redazione composta largamente da loro coetanei. È questo motivo di grande orgoglio».

AL: «Una volta Vito disse che fare l’editore significa essere dei pazzi erasmiani. La follia erasmiana non è una forma di demenza ma di coraggio. Con il gusto della sfida. E noi continuiamo a credere in questa meravigliosa pazzia».

 

Scopri il Catalogo storico:

Gamal Abdel Nasser e il colpo di Stato modello

“È stato il leader più amato, più idolatrato di tutto il Medio Oriente per circa un decennio. Parliamo di Gamal Abdel Nasser.”

Nel 1952 in Egitto ha luogo un colpo di stato militare destinato a essere imitato per i decenni successivi.

Re esiliati, militari al governo, conflitti internazionali: come conquistò il potere Nasser, e che cosa ne fece?

Dalle ore 8:00 di domenica 9 maggio sarà disponibile sulla piattaforma AuditoriumPlus Gamal Abdel Nasser e il colpo di Stato modello, la nuova lezione di storia del ciclo La presa del potere a cura della storica Marcella Emiliani, introdotta da Paolo Di Paolo.

Alle ore 18:00 di domenica 9 maggio sarà poi possibile assistere a un dialogo in diretta fra Paolo Di Paolo e Marcella Emiliani e porre delle domande all’autrice sui nostri canali Facebook e Youtube e su quelli dell’Auditorium, oltre che sulla pagina Facebook del Teatro Arena del Sole di Bologna e di ERT Fondazione.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

Per acquistare clicca su una qualsiasi lezione, scegli se acquistare l’intera stagione o una singola lezione, registrati e procedi con il pagamento.

Una volta arrivati sulla schermata di pagamento è sufficiente cliccare sul pulsante giallo “Check out with PayPal” in basso a sinistra, anche se non si ha un account PayPal. A quel punto, nella schermata successiva dovrete cliccare sul pulsante “Paga con carta” e vi verrà data la possibilità di inserire i dati della carta per il pagamento e si completerà l’acquisto

Gli abbonati alle Lezioni di Storia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma – stagione 2019-2020 possono contattare il botteghino della Fondazione Musica per Roma per ricevere informazioni relative ai voucher.

>>Qui tutto il programma.

 

Si può vivere senza lavorare?

Si può vivere senza lavorare? Certo che sì, stando al filosofo Maurizio Ferraris nel suo nuovo libro, Documanità. Filosofia del mondo nuovo.
Resta però da capire come: dovremo diventare uguali all’aristocrazia europea? Oppure ci toccherà vivere di espedienti, in povertà? Niente di tutto questo: il nostro incessante lavoro involontario di produzione di dati sul web forse contiene la chiave per accedere a un futuro liberato da ogni fatica.

 

Scopri il libro: