Roma nel 1944, finalmente libera ma un po’ ingrata verso i liberatori

Un saggio di Gabriele Ranzato sul rapporto tra gli Alleati e la Resistenza. Scarsa riconoscenza verso le forze che cacciarono i nazisti nel giugno 1944

Paolo Mieli, Corriere della Sera, 4 febbraio 2019

 

A ricordare l’ingresso delle truppe alleate a Roma nel giugno del 1944, nella capitale c’è soltanto una piccola targa bilingue collocata nel 1994 in un giardinetto della piccola piazza San Marco, a fianco di Palazzo Venezia, in cui è scritto: «A cinquant’anni dalla liberazione di Roma in memoria di tutti i caduti della campagna d’Italia». Ad essa — nota Gabriele Ranzato in La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944), in uscita giovedì 7 febbraio per i tipi di Laterza — è stato accostato nel 2006 un non grandissimo bassorilievo in cui si mostra una scena di fraternizzazione tra il popolo e alcuni armati che — «senza elmetti in capo né uniformi evidenti» — non sono assolutamente individuabili come soldati angloamericani. Sul fianco compare questa iscrizione: «4 giugno 1944. Liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista grazie al sacrificio e all’eroismo delle forze alleate, dei partigiani italiani e dei cittadini di Roma». Questo è tutto per quel che riguarda la gratitudine nei confronti dei soldati che vennero da Oltreoceano a liberarci da nazisti e fascisti. Non un granché.

Una spiegazione di questa assenza di gratitudine può essere ricondotta al fatto che già all’epoca sul rapporto tra angloamericani e antifascisti italiani impegnati nella Resistenza — come già ebbe a notare Rick Atkinson in Il giorno della battaglia. Gli Alleati in Italia 1943-1944 (Mondadori) — pesò una «reciproca mancanza di conoscenza». I primi «non avevano consistenti indizi dell’esistenza — non solo a Roma, ma per qualche tempo anche nel resto d’Italia — di un corposo movimento resistenziale al quale potessero attribuire un pur minimo ruolo strategico nella loro guerra; i loro tentativi di mettersi in contatto con le forze che combattevano il fascismo in questa o quella città per valersi del loro aiuto furono «limitati, improvvisati e alquanto poveri di risultati». Gli uomini della Resistenza romana per altro verso «potevano sapere molto poco circa la conduzione della campagna d’Italia da parte alleata, condizionata dalle contrastanti visioni politico-strategiche di Stati Uniti e Gran Bretagna». Inoltre la Resistenza romana, dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944), visse «con frustrazione, e anche risentimento, il mancato arrivo dell’esercito angloamericano alle porte della città». Arrivo che ci si aspettava imminente «secondo un’illusione effettivamente alimentata soprattutto dalla componente britannica degli stessi comandi alleati».

Certo, gravava su quei mesi tra l’autunno del 1943 e la tarda primavera del 1944 la gestione delle trattative armistiziali con l’appendice «tragica e perfino grottesca» della «finta disponibilità dell’Italia badogliana a dare un immediato contributo bellico agli Alleati», a cui si era aggiunto il «disonorevole» abbandono ai tedeschi della capitale. Cose che avevano reso più che evidente come l’iniziativa dell’armistizio non fosse dovuta a una «trasformazione antifascista» della classe dirigente italiana, la quale, peraltro, con il fascismo si era largamente compromessa, né ad una volontà di redimersi con un consistente impegno militare, come avrebbe imposto un vero cambiamento di fronte. Era solo, quello italiano, un modo di «sfilarsi dalla guerra, da qualsiasi guerra lasciando che il Paese fosse solo il teatro di vicende belliche in cui il compito di sconfiggere la Germania nazista fosse riservato esclusivamente o quasi agli eserciti alleati».

Ci sono poi varie indicazioni del fatto che, pur aspirando i romani ad essere liberati dall’esercito alleato, essi non lo sentivano affatto come «un esercito che stava combattendo la loro guerra». Nonostante ciò, al momento della liberazione gli abitanti della capitale mostrarono nei confronti degli angloamericani un sentimento di riconoscenza destinato a durare. Anche se questo apprezzamento «non va disgiunto da osservazioni critiche circa la loro condotta militare», soprattutto quella dei loro servizi segreti a Roma sotto l’occupazione nazista. Si può forse ritenere, sostiene Ranzato, che alle vicende di quei servizi in alcuni casi eroiche — come documentato dai ricordi dell’ufficiale americano Peter Tompkins Una spia a Roma (il Saggiatore) — «ma per lo più scombinate e talora tragicomiche» venga dato in genere uno spazio eccessivo. Ma poiché la causa della loro «inefficienza» appare essere stata l’inadeguatezza, oltre che degli agenti sul campo, soprattutto della loro centrale presso la Quinta Armata del generale Clark (e forse andrebbe ricercata «ancora più in alto»), «sarebbe stato reticente e parziale non mostrarla con tutti i dettagli offerti dalla documentazione» in cui l’autore si è via via imbattuto.

E dal momento che siamo in tema di ciò che non andò per il verso giusto, aggiungiamo che nella Roma nazista «gli antifascisti erano in pochi», che Chiesa e combattenti fedeli a Badoglio scoraggiavano eventuali attentati nel tentativo, sostenevano, di «attenuare la spietatezza dell’occupante». Con ampio riferimento al libro di Andrea Riccardi L’inverno più lungo. 1943-44 Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza), Ranzato assolve Pio XII dall’accusa di aver imposto un freno «a un popolo incline all’insurrezione». Il «freno» fu «invece» posto dal «desiderio popolare largamente diffuso di sfuggire alla guerra e di trovare avallo, espressione e riparo nel pontefice». Oltretutto tantissimi romani, «avevano sostenuto per accettazione patriottica o anche con entusiasmo la guerra predatrice dell’Italia fascista, pronti certamente ad accogliere con tripudio l’esercito italiano qualora avesse ottenuto la vittoria e imposto ai popoli sconfitti il suo dominio». Sicché «era difficile che quel popolo vedesse la necessità di riparare ad una colpa collettiva».

Nonostante ciò, soprattutto tra il dicembre del 1943 e il marzo del 1944 tedeschi e fascisti repubblicani subirono «un numero consistente di attacchi anche mortali». Compiuti «quasi esclusivamente» dai Gap comunisti, gruppi il cui nucleo «centrale» era costituito per la maggior parte «da giovani di classi medio-alte, per lo più studenti». Destinati a diventare l’asse portante del gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra. Anche se «il fatto incontrovertibile che la loro meta fosse allora un sistema politico sociale di tipo sovietico» comporta, scrive Ranzato, che «fosse più che lecito opporsi all’affermazione in Italia del loro partito».

Il contributo alla lotta armata del Partito d’Azione e dei socialisti fu, quantunque l’avessero scelta, «piuttosto limitato». Quasi del tutto «prive di riscontri» risultano essere «le imprese vantate dal movimento Bandiera Rossa», comunisti dissidenti ai quali Ranzato dedica pagine molto interessanti. L’assenza di riscontri, chiarisce lo storico, non comporta che quel movimento, «come le altre formazioni della Resistenza, e forse anche di più» non abbia avuto un alto numero di caduti; «ma non si può stabilire affatto una proporzionalità diretta tra le vittime della repressione tedesca e le azioni compiute». In ogni caso la presenza di questi partigiani nella lotta per la liberazione della capitale è da anni al centro di un interessante dibattito già documentato da Enzo Piscitelli in Storia della Resistenza romana (Laterza), Silverio Corvisieri in Bandiera Rossa nella Resistenza romana, ma anche Il re, Togliatti e il Gobbo (Odradek) e Roberto Gremmo in I partigiani di Bandiera Rossa (Edizioni Elf). Dibattito nato dalla circostanza che i combattenti di Bandiera Rossa — osteggiati dal Partito comunista italiano — avrebbero voluto privilegiare la lotta rivoluzionaria anticapitalistica rispetto alla liberazione perseguita in alleanza con forze borghesi; e, di conseguenza, presero le distanze dall’azione militare di via Rasella («L’atto terroristico non appartiene alla strategia marxista», scrisse «Direttive Rivoluzionarie», un organo del movimento); anche se poi un nutrito gruppo di loro militanti ne pagò le conseguenze trovando la morte, per mano nazista, alle Fosse Ardeatine. La discussione si incentrò soprattutto sulla loro rivendicazione a proprio merito (ma senza riscontri) di importanti episodi di lotta armata.

Il caso più eclatante si ebbe in margine alla concessione — con decreto luogotenenziale e sulla base di una lunga relazione sottoscritta addirittura dal generale badogliano Roberto Bencivenga — di una medaglia d’oro per meriti resistenziali a Vincenzo Guarniera. Il quale Guarniera fu oggetto di molte polemiche (e subì anche traversie giudiziarie) che portarono nel 1950 alla revoca della medaglia suddetta. Nelle pieghe di questo caso e di altri consimili vennero fuori margini di ambiguità sull’effettiva consistenza e portata delle azioni del Movimento comunista d’Italia, a cui si rifaceva Bandiera Rossa.

Ma se, scrive l’autore, può destare «più di una perplessità l’effettiva portata delle azioni rivendicate dal Mcd’I, non c’è dubbio che invece molti dei suoi militanti furono oggetto di una spietata repressione tedesca in seguito a numerose catture attuate grazie all’opera di provocatori e spie». Perché questo accanimento nazista contro Bandiera Rossa? È probabile, risponde lo storico, che «più che per la sua pericolosità, Bandiera Rossa sia stata scelta dai tedeschi per fare da capro espiatorio e da disincentivo all’attività resistenziale, soprattutto per la sua notevole permeabilità alle infiltrazioni e alle delazioni di cui fu facile bersaglio, in assenza di strette regole cospirative e anche di semplici misure sufficientemente cautelative».

Importanti pagine sono altresì dedicate da Ranzato al tema dell’«insurrezione mancata». Che non trova giustificazione nel fatto che le truppe alleate, sbarcate ad Anzio in gennaio, non avanzarono o non riuscirono ad avanzare immediatamente verso Roma. Tant’è che anche nei giorni conclusivi dell’occupazione tedesca, «sebbene allora quella travolgente avanzata ci fu», dai romani non venne dato «alcun contributo» alla cacciata dei nazisti da parte di una «Resistenza insorgente». Neppure la sinistra del Cln, «che nel suo insieme costituiva l’unico schieramento disponibile ad un’azione insurrezionale», aveva veramente una forza sufficiente «per scontrarsi efficacemente» con il nemico. Neanche con un nemico in ritirata come quello tedesco. La Resistenza — sostiene Ranzato — si fermò a «considerare» che i lutti e le distruzioni che quell’azione insurrezionale avrebbe potuto provocare «sarebbero stati in definitiva controproducenti per la stessa causa della Resistenza». Però poi, nel dopoguerra, ci si raccontò che la colpa degli ultimi giorni di inazione e di alcuni fallimenti resistenziali («o presunti tali») erano riconducibili a responsabilità degli Alleati. Ma non era questa la verità.

Tutto ciò fa parte di un problema più generale. Sono numerosi — scrive Ranzato — gli esempi, raccolti in diversi scritti di guerra e dopoguerra, di manifestazioni di «scontento della Resistenza italiana nei confronti degli Alleati accusati di non averla abbastanza appoggiata e rifornita», a causa di una certa ostilità verso i partigiani per via della preponderante influenza comunista all’interno del movimento resistenziale. In realtà, mette a punto Ranzato, ci sono diverse considerazioni che dovrebbero indurci a un «ridimensionamento della concretezza di quei fatti» e delle loro eventuali motivazioni. È un fatto che gli Alleati aiutarono e rifornirono generosamente la Resistenza del comunista Tito, il che rende evidente che non era la maggiore o minore presenza dei comunisti nei movimenti che si battevano contro nazisti e fascisti a far pendere un piatto o l’altro della bilancia angloamericana. Erano piuttosto le chance di successo che venivano attribuite a questo o quel gruppo resistenziale. E agli italiani — a differenza di francesi o jugoslavi — ne venivano riconosciute assai poche.

Un ultimo dettaglio: la stele di cui si è detto all’inizio, qualche tempo fa è stata rimossa per un intervento di ristrutturazione urbana e non è mai ricomparsa, nonostante quei lavori siano stati da tempo ultimati. A giudizio di Ranzato è, questa, l’ulteriore riprova di una «mancanza di riconoscenza» nei confronti degli Alleati, che ha come unica attenuante quella di non riguardare solo Roma e i romani, bensì «tutto un popolo che, per ricostruire un suo orgoglio di appartenenza nazionale dopo il disastro della guerra, ha preferito considerarsi come vinto\vincitore piuttosto che liberato». Ammesso che questa possa essere considerata un’attenuante.

 

Scopri il libro:

 

La Repubblica Romana, sogno e realtà

Insurrezioni popolari, re terrorizzati, nuove visioni politiche: lo storico Alberto Mario Banti ci trasporterà in una delle fasi più convulse del Risorgimento in ‘La Repubblica Romana, sogno e realtà’, la nuova lezione di storia del ciclo ‘La Presa del Potere’.

Roma, 9 febbraio 1849: nasce una repubblica democratica nel cuore del mondo cattolico, dopo la fuga del sovrano della città, il Papa. Quali passioni guidarono questa presa del potere, e chi furono i protagonisti di questo innovativo esperimento democratico?

Per approfondire un momento centrale della storia politica italiana e per guardare con occhi nuovi la vicenda risorgimentale, la nuova lezione di storia sarà disponibile a partire dalle ore 8:00 di domenica 25 aprile sulla piattaforma AuditoriumPlus.

La lezione, come sempre, sarà introdotta da Paolo Di Paolo dall’Auditorium di Roma, e alle ore 19 potrete collegarvi per dialogare in diretta con Paolo Di Paolo e Alberto Mario Banti sulla nostra pagina Facebook, oppure su quella dell’Auditorium, del Teatro Verdi di Firenze o di Lezioni di Storia Laterza. Potrete trovare il dialogo anche su YouTube, sul nostro canale e su quello di AuditoriumTV.

 

Info e costi

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I misteri di Eugenio Cefis

Raccontare la sua storia per ripercorrere gli anni di un’Italia losca, fatta di intrighi politici e finanziari.
Mattei, De Mauro, Pasolini, persino la morte di Rino Gaetano. Un libro sulla sua leggenda nera

Adriano Sofri, il Foglio, 15 aprile 2021

Esce oggi un libro seducente (perché sedotto, anche) di Paolo Morando, “Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri”, Laterza. Eugenio Cefis: chi era costui? Succede che di un personaggio dalla reputazione enorme si sappia meno che di un carneade. Cefis, nato nel 1921, militare e partigiano nell’Ossola, dopo la morte di Enrico Mattei (1962) fu il padrone dell’Eni e poi, dal 1971, della Montedison, cioè della chimica (e buona parte della finanza) italiana; fino al 1977, quando improvvisamente decise di lasciare rango e Italia alla volta della Svizzera e del Canada. Morì nel 2004. Ebbe costantemente attorno a sé un’aura di sospetto, rafforzata dalla riluttanza alle apparizioni pubbliche e dalla spregiudicatezza nel maneggiare i giornali e nel comprare gli avversari. Quest’aria losca diventò via via, lui vivo e ancora di più dopo, una ineguagliata leggenda nera. Gli si attribuì, per restare ai sommi capi, la regia dell’omicidio di Mattei (morto in un incidente del suo aereo privato, in realtà un attentato), la fondazione della loggia P2, il patrocinio di colpi di stato, la scomparsa di Mauro De Mauro, che indagava sulla morte di Mattei, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (e, qualcuno aggiungerebbe, di Rino Gaetano). Una simile trama passò attraverso tappe numerose: pamphlet anonimi o pseudonimi, campagne di stampa, carte giudiziarie, vociferazioni più o meno informate.

Cefis sta al centro di un libro influente come quello di Scalfari e Turani, “Razza padrona. Storia della borghesia di stato” (1974) e soprattutto del romanzo che Pasolini stava scrivendo quando nel 1975 fu ucciso, e pubblicato postumo nel 1992, “Petrolio”. Tremende una per una, le imputazioni sono state cucite insieme fino a fare di Cefis il principale burattinaio di un’epoca piena di concorrenti, dai politici come Andreotti ai finanzieri mafiosi come Sindona ai venerabili maestri come Licio Gelli. Una spettacolosa trama, da Guido Pasolini, partigiano osovano ucciso diciannovenne da partigiani garibaldini nel 1945, a Pier Paolo fratello maggiore, è raccolta in uno zibaldone di 720 pagine, fresco di stampa, “Malastoria. L’Italia ai tempi di Cefis e Pasolini”, di cui è autore Giovanni Giovannetti, gran fotoreporter e poi editore con la sua Effigie. Morando se n’è valso come di un punto d’arrivo della “vertiginosa ‘pasolineide’ scatenata ormai da una quindicina d’anni”. La parte iniziale del suo libro la riepiloga, evitando intanto i giudizi, e scegliendo passaggi che lasciano il lettore a bocca aperta. Me, per esempio, nel capitolo in cui si illustra “E Berta filava”: “E filava con Mario e filava con Gino e nasceva il bambino che non era di Mario e non era di Gino”. Uno svelatore ha sostenuto che Mario era il segretario del Psdi (il partito socialdemocratico) Mario Tanassi, e Gino il ministro democristiano Luigi Gui, associati nello scandalo Lockheed, 1976. E il fondatore della industria aeronautica Lockheed si chiamava Robert – Bert, Berta… Il mio scetticismo – di principio, dunque infondato – si esacerba di fronte alla riduzione del bel dadaismo di Rino Gaetano a un messaggio cifrato, soprattutto in quel capolavoro di “Spendi spandi effendi”. È la parte in cui meglio si accerta come, allo sguardo del paranoico, o del geloso, ogni dettaglio valga a confermare ed esaltare il sospetto.

Morando, come ho detto, riepiloga e non interviene se non qualche volta, a correggere sovrainterpretazioni palesi. Sul ruolo di Cefis sottotenente ventunenne nella Slovenia occupata del 1941, e teatro di efferatezze degli alti gradi fascisti. O sul ruolo di comandante partigiano bianco in Valdossola, tanto più che Cefis di quella stagione cruciale fu sempre incline a parlare senza riserve.

Morando ha interpellato fra gli altri il già generale Gianadelio Maletti, già capo del Reparto D del Servizio informazioni difesa, i cui interventi dal Sudafrica si moltiplicano mentre si avvia a compiere, a settembre, 100 anni. Maletti era stato compagno di corso, di un anno più anziano, di Cefis all’Accademia di Modena. Nega che Cefis avesse mire politiche, mirava piuttosto a che la politica lo lasciasse lavorare in pace: opinione ricorrente. Cefis aveva legami politici, il più stretto con Fanfani, di cui caldeggiò – molto concretamente – la corsa alla presidenza della Repubblica nel 1971, mancata. Ci fu allora un’alleanza fra il Psi di Francesco De Martino e Giacomo Mancini e Lotta Continua, autrice di una campagna contro il “Fanfascismo”; vedevamo in Fanfani temperamento e aspirazioni autoritarie, i franchi tiratori De non mancarono, De Martino, candidato unitario delle sinistre, raccoglieva più voti e per batterlo si elesse Giovanni Leone, al ventitreesimo scrutinio.

L’ “ossessione” di Pasolini impegnato nella scrittura di “Petrolio” (anche il titolo era ancora dubbio)  ebbe un singolare tramite nello psicoanalista e militante Elvio Fachinelli, e la rivista sua e di Lea Melandri, “L’erba voglio”. Nel febbraio 1972 Cefis pronunciò uno dei suoi rari discorsi pubblici all’Accademia modenese. “L’erba voglio” lo pubblicò, ampiamente postillato, dandogli un titolo fortemente allarmato: “La mia Patria si chiama Multinazionale” (nella pubblicazione precedente, sulla rivista economica Successo, i redattori avevano intitolato “L’impresa ecumenica”. Il titolo autentico, di Cefis o più probabilmente dei suoi ghost writer, era: “Le imprese multinazionali: prospettive di un’economia senza confini”, e così disarmato sarebbe uscito, un anno dopo, sul Manifesto). Nella ricostruzione dell’episodio Morando segna un ottimo punto: raccomando di leggerlo attentamente. Alla nostra distanza, le previsioni di Cefis erano semplicemente fondate: l’erosione dei poteri degli stati nazionali a vantaggio delle compagnie multinazionali. E l’oratore formulava una previsione, non la auspicava. Nel clima di allora, bombe esplodevano e spade tintinnavano davvero, lo si lesse come una dichiarazione di guerra, la sfida di un internazionalismo proprietario cui rispondere con un riflesso nazionale. D’altra parte era contro quell’orizzonte, mutato in feticcio, “Lo SIM”, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, che le Brigate Rosse alzavano i loro tiri. Come che sia, Fachinelli inviò a Pasolini il testo di Cefis e lo invitò a scriverne. L’invito si ripeté in occasioni analoghe, e i due si incontrarono anche in una Festa dell’Unità, ma Pasolini non rispose mai, e alla fine il mitissimo Fachinelli gli chiese seccamente di rimandargli almeno indietro i testi. Che Pasolini però avrebbe incluso con risalto nella sua compilazione, in cui Cefis era trasparentemente presente sotto il nome di Troya. In quella Festa, nel 1974, Pasolini disse che nel discorso di Cefis agli allievi di Modena c’era “una nozione di sviluppo come potere multinazionale… fondato fra l’altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale; ma in realtà si sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa”. Si ha ora una curiosa sensazione: che Pasolini ricavasse dalla lettura di Cefis la precipitazione del giudizio sulla mutazione antropologica degli italiani, e che a sua volta Cefis attingesse al Pasolini del Corriere, come in un successivo discorso: “Oggi dobbiamo rilevare con amarezza che il qualunquismo non solo sopravvive ma viene sfruttato da forze notevoli che puntano ancora, come dimostrano le bombe, al ritorno della Guerra Fredda. Quelli delle bombe non mirano tanto a far tornare il fascismo, che è cosa davvero impossibile…  A mio parere il malessere che si avverte è la naturale e logica conseguenza della fase di rapido e diffuso cambiamento che hanno conosciuto i costumi e la vita del nostro popolo”. Pasolini comunque aveva scelto il suo avversario. 1° febbraio 1975: “Io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”.

L’ossessione di Cefis, la più forte se non l’unica, e la miglior spiegazione della sua dimissione pubblica, era di scampare alle vendette politiche e alle rese dei conti e alle imboscate giudiziarie. “Un salvacondotto tombale che alla fine sembra aver ottenuto, visto che uscirà sempre pulito dalle numerose grane giudiziarie intentategli per le vicende più disparate”: compresi i processi per i disastri e i veleni e le morti sul lavoro, da Stava a Scarlino, da Bormida al Petrolchimico di Marghera. E l’ennesima accusa, di aver inventato la corruzione politica, di aver precorso Tangentopoli: “Nessuno poteva stare in posti come il suo se non accettava di finanziare i partiti, diceva Cefis” – così ricorda uno stretto collaboratore. Craxi avrebbe invertito la sintassi: “Se non accettava di farsi finanziare”.

A un altro passo vorrei accennare, quello sulla cospirazione del “5×5”, la Fondazione Agnelli, le tentazioni di Umberto, il gruppo di cattolici già comunisti come Felice Balbo e Baldo Scassellati. È un’altra storia in cui ebbero parte il quotidiano di Lotta Continua e il Bollettino di Controinformazione Democratica, animato da Piero Scaramucci, oltre che il Panorama di Lamberto Sechi. Penso che cattive intenzioni e velleità manesche ci furono e che furono sopravvalutate. Qualcuno, nel mondo della finanza, sostenne che Cefis avesse lasciato potere e Italia nel 1977 perché stavano per arrestare

sia lui che Fanfani, e un bel po’ di generali, per una congiura sventata da Gianni Agnelli, il nemico di Cefis. Era un’eco ridicola della storia del “5×5”, postdatata di sei anni e senza appiglio nei fatti.

Sono molti i capitoli di questa biografia che non cito, e molti i colpi di scena: per lo più colpi di scena che attutiscono, senza silenziarlo, il clamore. Tranne in un caso, il capitolo-appendice intitolato “Molto più di un epilogo”. Qui Morando prende bruscamente un’altra direzione, quella della morte di Mattei, come se si fosse convinto di aver ammucchiato abbastanza legna per far fuoco, comprese le 2.200 preziose pagine della sentenza stesa nel 2012 dal giudice Angelo Pellino per il sequestro e l’uccisione di Mauro De Mauro (che del resto aveva mandato assolto Totò Riina). Elencate le ipotesi, Morando ne sceglie nettamente una e la motiva: non solo che fu un attentato, ma chi lo commise.

E siccome sa che almeno nei buoni libri bisogna concedersi il beneficio del dubbio, chiude così: “Bisognerebbe farci un film”.

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Dello stesso autore:

Documanità: un podcast di Maurizio Ferraris

1. Le macchine prenderanno il potere?

Questa domanda è stata pronunciata spesso nella storia umana, a volte con angoscia, altre con speranza: essa contiene sia il sogno di un mondo libero dal lavoro, sia l’incubo di una dittatura delle macchine.

Oggi però le nuove frontiere dell’automazione ci interpellano con una nuova tensione: saremo sostituiti?

Maurizio Ferraris è qui per rassicurarci: la domanda è mal posta e la risposta può darci molta serenità.

Potete ascoltarla qui e su Spreaker, nel primo episodio di un podcast a partire da Documanità. Filosofia del mondo nuovo, il nuovo libro di Maurizio Ferraris.

 

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2. La tecnica ci aliena o ci rivela?

Se siete stanchi di sentirvi dire che gli smartphone ci schiavizzano o che la televisione ci rende stupidi, questo episodio può venirvi in soccorso.
Secondo voi, la tecnica ci aliena, rendendoci tristi e abbruttendoci, oppure ci rivela semplicemente per quel che siamo? L’uomo può esistere senza “tecnica” o sarebbe semplicemente un animale?

Potete ascoltare la risposta di Maurizio Ferraris qui e su Spreaker, nel secondo episodio di un podcast a partire da Documanità. Filosofia del mondo nuovo.

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3. Quando inizia l’età della tecnica?

Quando inizia l’età della tecnica? Molto prima di quanto pensate… Potremmo credere che l’inizio coincida con la rivoluzione industriale oppure con l’invenzione delle tecnologie digitali. Purtroppo siamo fuori strada, ma non temete: Maurizio Ferraris è qua per farci ragionare insieme a lui.

Potete ascoltarlo qui e su Spreaker, nel terzo episodio di un podcast a partire da Documanità. Filosofia del mondo nuovo.

La rivoluzione giacobina

In questo nuovo trailer, Luciano Canfora riassume in poche, folgoranti frasi il momento più radicale dell’intera Rivoluzione Francese, una rivoluzione dentro una rivoluzione: la sanguinosa presa del potere dei Giacobini e l’immensa crisi in cui una Francia già devastata da una guerra fu gettata.

Il 2 giugno 1793, dopo tre giorni di assedio del parlamento da parte dei dimostranti, i deputati girondini vengono arrestati. Inizia così la dittatura giacobina, che salva la Francia dall’aggressione esterna e instaura il Grande Terrore a colpi di ghigliottina.

Per conoscere i destini dei protagonisti di questa vicenda esplosiva e determinante per la storia politica europea, vi invitiamo a guardare La rivoluzione giacobina, la nuova lezione di storia del ciclo La presa del potere, disponibile dalle ore 8:00 di domenica 18 aprile sulla piattaforma AuditoriumPlus.

La lezione, come sempre, sarà introdotta da Paolo Di Paolo dall’Auditorium di Roma, e alle ore 19 potrete collegarvi per dialogare in diretta con Paolo Di Paolo e Luciano Canfora sulla nostra pagina Facebook, oppure su quella dell’Auditorium, del Teatro Petruzzelli di Bari o di Lezioni di Storia Laterza. Potrete trovare il dialogo anche su YouTube, sul nostro canale e su quello di AuditoriumTV.

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

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“Targa Florio”: un’audio-pillola

«La corsa voluta da Vincenzo Florio fu disputata tra il mare e le montagne, tra l’azzurro del Tirreno e il bianco candido dell’alta quota, dove col primo caldo si spalava la neve per farne commercio del refrigerio. Neve portata dai carretti, dentro sacchi isolanti di iuta e paglia, e consegnata nei palazzi dei signori. Quel battesimo dei motori diede ai muli un giorno di respiro e le strade accolsero cavalli vapore nascosti sotto i cofani delle dieci automobili arrivate in Sicilia dopo aver attraversato mari e monti.»

La Sicilia meno nota, quella lontana dalle coste più affollate e dalle celebri città barocche, è l’imprevisto palcoscenico di una vera e propria epopea. Protagonista: la gara automobilistica più antica al mondo.

Un estratto di Targa Florio di Francesco Terracina è ora su IBS.it in forma di audio-pillola, grazie all’iniziativa Voce ai libri. Parole d’autore per voci di talento e alla voce di Giorgia Greco, studentessa dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico di Siracusa.

 

 

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In missione sulla Terra

Mariana Mazzucato racconta il successo del progetto pubblico Apollo per raggiungere la Luna. Ora, dice, è il momento di replicarlo quaggiù

Francesco Manacorda, la Repubblica, 15 aprile 2021

Mariana Mazzucato non è studiosa che può lasciare indifferenti. Economista, fautrice da tempo della valorizzazione del ruolo dello Stato nell’economia è un’accademica di successo, ma an­che una polemista “larger than life”, mediaticamente molto efficace e sempre pronta ad affrontare dibatti­ti aspri con la scuola liberista che tanto peso ha avuto in questi anni nella sua disciplina.

La categoria di chi la apprezza, è oggi assai vasta e comprende, per dirla alla Jovanotti (anche lui, c’è da scommetterci, suo estimatore) «una grande chiesa, che va da Che Gueva­ra», non a Madre Teresa, ma a Papa Francesco sì, visto che il Pontefice l’ha più volte citata e le ha dato an­che un molo in una commissione di studi vaticana. Paiono stimarla pure i leader politici di mezzo mondo (dal Sud Africa all’Italia del governo Conte) che si sono avvalsi delle sue consulenze. Nutrito anche il partito di chi contesta le sue tesi, non solo tra le file della destra classica. Ma in ogni caso vale sempre la pena di ascoltarla e leggerla anche se non si è in accordo con lei: sia per l’incisivi­tà delle sue argomentazioni sia per la passione civile che le anima.

E questo il caso anche del suo ultimo libro Missione economia, che si presenta fin dal titolo come una pratica eppure ambiziosa “guida per cambiare il capitalismo”, pubblicato in Gran Bretagna a inizio anno e che arriva adesso in Italia per Laterza.

Il capitalismo è in crisi — ci spiega Mazzucato — e dopo la crisi finanziaria del 2008, anche le catastrofi ambientali e, ultima, la pandemia in corso mostrano una situazione in cui si è lasciato e si lascia amplissimo spazio all’iniziativa privata, mentre ci si appella allo Stato solo quando c’è da raccogliere i cocci. Ma anche gli Stati sono in crisi d’identità, e visto che «nelle crisi l’intervento del governo è efficace solo se lo Stato ha corrispondente capacità di agire» è necessario non solo ripensare il capitalismo attuale, ma anche «trasformare lo Stato dall’interno e di rafforzare i suoi sistemi in materia di salute, istruzione, trasporti e ambiente, imprimendo al contempo una nuova direzione all’economia». Si tratta, in particolare, di creare un’economia «orientata allo scopo», nella quale i governi tracciano obiettivi e percorsi e agiscono anche come «investitori di prima istanza» in aree che magari non offrono ritorni economici immediati, ma che «guidano la produttività a lungo termine», spiega Mazzucato, ricordandoci ancora che senza investimenti pubblici oggi non esisterebbero né Internet né la Tesla.

Per illustrare come si muove uno Stato quando ha un obiettivo da raggiungere, l’autrice analizza in dettaglio il programma spaziale Usa Apollo annunciato nel 1962 dall’amministrazione Kennedy e culminato nel 1969 con il primo uomo in grado di arrivare sulla Luna e di fare ritorno a terra. È forse la parte più affascinante del libro, dove i dettagli organizzativi si mescolano a quelli tecnici, le tragedie umane — la morte di tre astronauti in una simulazione sull’Apollo 1— si uniscono all’entusiasmo pionieristico dei giovani Stati Uniti — l’età media nella sala di controllo delle missioni era di 26 anni — nella corsa allo spazio. Il risultato di quella scommessa non è solo la supremazia americana nel cosmo, ma anche le «venti cose che non avremmo avuto senza i viaggi spaziali», dalla fotocamera nei telefonini alla Tac, dal latte in polvere alle scarpe da corsa, oggi ubique nelle nostre vite. Dunque, è la tesi, se lo Stato si dà obiettivi prioritari e decide di raggiungerli, questo provoca effetti benefici in termini di innovazione e sviluppo su tutto il sistema attraverso l’interazione tra il settore pubblico e le imprese private e con il necessario coinvolgimento dei cittadini. Certo, Mazzucato avverte che le missioni tecnologiche sono assai più circoscritte di quelle economiche e sociali e anche per questo più facili da compiere. Ma indica comunque alcune missioni “terrestri”, per i governi in questa nuova epoca: creare un New Deal “verde”, innovare per garantire alla platea più vasta possibile l’accesso alle cure mediche; ridurre il divario digitale.

Orientare l’economia verso missioni crea anche un cambio di paradigma: «Far funzionare l’economia per gli obiettivi della società, anziché mettere la società al servizio dell’economia, impone un ripensamento nel modo di intendere i bilanci — scrive Mazzucato. Dobbiamo iniziare domandandoci “che cosa bisogna fare?” e poi pensare a come pagare gli interventi necessari». Una rivoluzione copernicana per la “vecchia” Europa del Patto di stabilità e di crescita e per Paesi come l’Italia, gravati da un forte debito pubblico e quindi perennemente — o quasi, come si vede oggi con la crisi innescata dal Covid — costretti a rispettare severi vincoli di bilancio.

Missione economia arriva in un momento assai propizio per il dibattito sul ruolo dello Stato e delle organizzazioni sovrannazionali nel risollevare l’economia. La pandemia, le difficoltà di approvvigionamento di vaccini, gli extraprofitti che alcuni settori stanno realizzando in una fase durissima per la maggioranza della popolazione, spingono a superare molti tabù e a spingere la visione di chi vede più vantaggi che svantaggi in un settore pubblico che indirizzi e accompagni gli attori di mercato. Del resto il piano Biden da 3 mila miliardi di dollari per ridare vigore all’economia Usa o il Recovery Plan europeo sono proprio casi di interventi pubblici da manuale. Interventi ex post, che avvengono appunto per «raccogliere i cocci» di una crisi dominata dal mercato, ma che almeno nella versione europea — dove il Recovery si lega a investimenti in aree ben precise come la transizione ambientale ed energetica — puntano a trasformare il ruolo del pubblico in motore di innovazione.

C’è da aspettarsi che Missione economia, con le sue ricette forti e la sua galleria di orrori di mercato, susciterà dibattito. È accaduto nel mondo anglosassone e anche in Italia non mancherà chi classifica quelle di Mazzucato come utopie irraggiungibili. Utopie forse, ma nel caso utopie necessarie.

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«Oggi non annuncio proprio nulla»

«Oggi non vi parlerò di nessuna nuova legge, nessun nuovo decreto, nessuna nuova riforma».

«Scusi, ma allora per quale ragione ci ha chiamati, e per giunta quasi all’alba?» chiese una giovane giornalista in prima fila. «Ci viene il sospetto che l’interminabile Consiglio dei ministri di ieri non abbia concluso nulla. Ci dica la verità, presidente». Ripetuti e insistiti cenni di assenso arrivarono dai colleghi.

«Sulla riunione di ieri vi dirò più tardi, abbiamo tutto il tempo» rispose il premier cercando di evitare una polemica che avrebbe complicato un discorso già prevedibilmente complesso. «Qui e ora vi ho chiamati per cercare di dire la verità agli italiani, che dopo i sacrifici e i lutti di questi due anni non si meritano certo di essere tenuti all’oscuro…».

«All’oscuro di che, presidente?» lo interruppe uno dei presenti.

«Che cosa ci avete nascosto? Qualche nuovo dato negativo sull’economia? Sul debito pubblico, che già è salito fin quasi al 170%? Sulla ripresa del Pil che non riesce a tornare ai livelli pre-pandemici?».

«Forse mi sono espresso male. Non c’è nessun nuovo dato segreto. C’è una verità profonda da spiegare con tutta la calma necessaria, e spero che voi mi aiuterete in questa impresa titanica. Oggi non annuncerò nessuna decisione per un semplice motivo. Ho prima il dovere di spiegare perché sono puntualmente naufragate tutte le riforme, le leggi, i progetti, le opere pubbliche approvate finora da tutti i governi che si sono succeduti. Nessuno escluso. Rispondetemi: quante volte si è deciso di semplificare gli adempimenti burocratici? Quante volte è stata decisa una corsia veloce per le opere pubbliche con i consueti sblocca-cantieri, e si è annunciato un uso meno scandalosamente inefficiente dei fondi strutturali europei? Quante volte si sono persi anni o decenni prima di ricostruire almeno parzialmente i paesi distrutti dai terremoti, e ancora più spesso non si sono neppure ricostruiti? Quante volte si sono disposti mega-progetti di sistemazione idrogeologica del territorio per poi assistere ogni anno, e non solo in autunno, a inondazioni e frane devastanti? Quante volte si è cercato di avvicinare l’offerta e la domanda di lavoro senza alcun risultato, e si è promesso di avviare una seria formazione professionale creando invece solo innumerevoli carrozzoni? Quante volte si è deciso di valutare l’operato degli amministratori pubblici, regolando in base a questa valutazione premi e penalità? Qualsiasi riforma, qualsiasi legge, qualsiasi decisione politica, qualsiasi opera, nel momento stesso in cui viene approvata, deliberata, avviata, finisce immediatamente in un ignobile pantano. Vi finisce per l’incapacità della politica, che non sa né legiferare né programmare, e dell’amministrazione, che non sa più gestire la cosa pubblica, priva com’è delle competenze necessarie. Ma vi finisce anche per l’irrompere sulla scena di un profluvio di veti, ricorsi, pareri più o meno vincolanti, minacce più o meno velate, commissioni e sottocommissioni, con il loro corredo di tavoli, task force, cabine di regia e altre amenità che fanno felici i titolisti dei vostri quotidiani e delle vostre tv. E alla fine, tutto si sfilaccia in un delirio di decreti di attuazione, regolamenti, linee guida e interpretazioni. Insomma, un’enorme tenaglia blocca la capacità decisionale della pubblica amministrazione. E così lo Stato smette di funzionare».

«Beh, ma che c’è di nuovo in questa sua analisi?» replicò qualcuno dal fondo della sala. «Lo sappiamo tutti da decenni come vanno le cose in Italia: è la burocrazia, dovreste essere voi i primi a saperlo…».

«No! Qui vi volevo. No!… non mi parlate più di burocrazia. Anzi, vi ordino: cancellate questa parola dal vocabolario. Il male di questo nostro paese è ben più profondo».

La violenta reazione del presidente colse di sorpresa l’intera platea, la quale dava invece per scontato come il problema numero uno in Italia fosse esattamente quello. E del resto, proprio dalla protesta spontanea dei cittadini comuni, sempre più vessati e umiliati dalla burocrazia, erano nate negli ultimi tempi alcune iniziative che avevano suscitato non poco scalpore.

Una di queste era portata avanti dai Citizen Angels, vere e proprie ronde cittadine in divisa, che controllavano preferibilmente gli sportelli di Inps, Agenzia delle Entrate e Poste. Vi aderiva un campionario di varia umanità con tanto tempo libero da riempire: ragazzotti ventenni che si erano ormai sfilati dalle liste di disoccupazione, quarantenni ancora in bilico tra un lavoretto precario e l’altro, ultrasessantenni che l’esigua pensione e la frustrazione per una vita vissuta non come avrebbero voluto avevano reso particolarmente rancorosi. Tutti, insomma, con un buon motivo per avercela con lo Stato, e tutti fieri adesso dei loro berretti paramilitari e soprattutto dei giubbotti di un abbagliante blu elettrico che, oltre alla sigla della loro associazione, esibivano sulla schiena uno strano disegno: un pugno immortalato nel momento in cui fracassa uno sportello pubblico, il classico sportello con il buco circolare in mezzo per il dialogo (si fa per dire) tra il cittadino e l’impiegato. I Citizen Angels si appostavano vicino alla persona che dopo la sua brava fila era finalmente arrivata alla meta e controllavano che l’impiegato non le imponesse obblighi assurdi, come marche da bollo supplementari da pagare o pratiche che avrebbe dovuto svolgere preventivamente presso altri sportelli oppure online. Pronti a reagire se, di fronte alle obiezioni del cittadino, il dipendente pubblico se ne fosse uscito con frasi del tipo «non è di mia competenza», o «noi stiamo lavorando e non abbiamo tempo da perdere». Oltre a questo, essi sorvegliavano che venisse mostrato, sempre da parte dello sportellista, un grado accettabile di educazione e di cortesia. Inutile dire che nove volte su dieci questa forma di controllo popolare finiva per sfociare in risse furibonde e relative denunce. Non c’era nulla, infatti, che il dipendente pubblico potesse fare per alleggerire il carico degli adempimenti previsti. Se non era la legge, era il regolamento a imporli. Quanto alla cortesia, merce sicuramente rara dietro quel vetro respingente, i Citizen Angels finivano spesso per censurare (passando rapidamente dalle parole alle mani) non solo i casi di evidente maleducazione, ma anche quelli in cui il dipendente pubblico non salutava, non alzava gli occhi, non sorrideva.

Al premier era stato consegnato da tempo un voluminoso dossier con tutte le imprese controproducenti di queste ronde cittadine. Problema di ordine pubblico che sarebbe stato presto superato, pensava. Sapeva che non era questo il punto, e non lo era neppure la pretesa di una generica semplificazione sburocratizzante. Quel che cercava ora di dimostrare di fronte ai giornalisti era ben altro.

«Se il problema lo riducete alla burocrazia, alla ostinata resistenza passiva di qualche dirigente ad ogni forma di facilitazione, se lo attribuite al presunto sabotaggio di una sorda casta di super-travet, allora significa che non avete capito nulla di questo nostro maledetto e benedetto paese. Quel che paralizza l’Italia è qualcosa di molto più grave e profondo. Non qualche laccio e lacciuolo che impedisce di rinnovare la vostra carta di identità o di creare il vostro Spid, per altro complicatissimo da ottenere. Non qualche procedura astrusa. Non qualche colpevole inerzia. La malattia – chiamatela pure virus – non ha un volto preciso, o ne ha così tanti che è impossibile addossare colpe specifiche. Questo virus funziona come una grande rete anonima, sia esterna sia interna all’amministrazione, che spinge ognuno di noi a fare l’esatto contrario di ciò che dovrebbe suggerirci la razionalità. Il risultato è una specie di auto-golpe. Purtroppo non è il colpo di Stato di qualche imbecille da rinchiudere per un bel po’ di tempo nelle patrie galere: è un golpe senza autore e senza volto, maturato anno dopo anno, decennio dopo decennio, che alla fine è esploso nel silenzio e nell’impotenza generale. Il risultato, però, è lo stesso. Guardatemi, guardate il mio governo, guardate anche tutti i governi che si sono succeduti: possiamo fare leggi su leggi, decreti su decreti, ma giriamo a vuoto, come criceti nella ruota di una gabbietta. Peggio: siamo anime morte, come tutti voi, imprigionate insieme nella triste villa di Calle de la Providencia».

Tra i presenti, pochi azzardarono un sorrisetto di intesa, come se avessero capito cosa fosse e dove stesse questa misteriosa Calle de la Providencia, mentre i più restarono impassibili. Alcuni provarono subito a cercarla su Google Maps. Ce n’erano un paio in Spagna e una a Città del Messico. Solo più tardi qualcuno si ricordò che era il nome, simbolicamente scelto da Buñuel, della strada che faceva da ambientazione al suo film.

«Dite agli italiani» continuò il premier «che siamo bloccati non per la resistenza di qualcuno o di qualcosa, ma perché, per un groviglio inaudito di nodi irrisolti, lo Stato ha smesso di funzionare e in molti campi non ha mai cominciato a farlo. […] Ora, se c’è una cosa che non possiamo permetterci, soprattutto adesso, è proprio uno Stato paralizzato. Ecco, ora potete comprendere finalmente il perché di Buñuel, il senso di quegli invitati costretti da una forza misteriosa a restare nella casa di chi li ha ospitati, impossibilitati a varcare il portone. Atroce mistero. Qualcuno vi muore dentro, qualcun altro impazzisce. È come se una specie di angelo sterminatore impedisse ai programmi governativi, alle leggi, alle opere pubbliche – proprio come accade ai protagonisti del film – di uscire dalla porta della politica e di diffondersi nella società, modificando comportamenti, trasformando convenienze, offrendo servizi e infrastrutture decenti. Ebbene, far funzionare lo Stato è impossibile senza guardare in faccia questo angelo sterminatore. Ma per capire il suo mistero, qualche domanda che vada un po’ più in profondità di una generica richiesta di semplificazioni dobbiamo cominciare a porcela».

 

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[Proposte di lettura] Chiesa

Andrea Riccardi

La Chiesa brucia

Crisi e futuro del cristianesimo

Oggi per la Chiesa la situazione è molto difficile. Si tratta di una delle tante crisi che il cristianesimo ha vissuto o di un definitivo declino? È un interrogativo che inquieta anche chi guarda al cristianesimo dall’esterno. Ma crisi non vuol dire necessariamente fine. Può essere un’opportunità per aprirsi al futuro, sapendo che il grande rischio è accontentarsi di sopravvivere, rimpiangendo un passato migliore. La soluzione è vivere nella crisi. La Chiesa oggi è chiamata a una condizione di lotta, questa volta non contro nemici esterni ma contro l’indifferenza e il discredito.

Da un grande storico della Chiesa e del mondo religioso, protagonista della vita pubblica italiana, l’impressionante radiografia della crisi del mondo cristiano e l’analisi del dibattito e delle diverse idee su come uscirne.

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Francesco Benigno – Vincenzo Lavenia

Peccato o crimine

La Chiesa di fronte alla pedofilia

Lo scandalo della pedofilia rappresenta una delle più gravi crisi che la Chiesa si sia trovata ad affrontare da alcuni secoli. Ma da cosa nasce un terremoto che non accenna tutt’oggi ad avere fine? Come mai la Chiesa fatica a far fronte a un fenomeno che le ha causato discredito, disaffezione e un’acuta crisi spirituale? Una ricostruzione originale e spiazzante di due grandi storici.

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Marco Politi

Francesco

La peste, la rinascita

Il racconto di un momento epocale per la Chiesa nell’analisi di uno dei vaticanisti più autorevoli e stimati.

Il 27 marzo dell’anno 2020 Jorge Mario Bergoglio si affaccia solitario sul sagrato abbandonato della basilica di San Pietro. Il vecchio pontefice avanza zoppicando. Da quasi tre settimane la Chiesa sembra aver cessato di esistere. Templi praticamente chiusi, fedeli spariti. Non si celebrano messe, non si festeggiano battesimi, niente matrimoni, niente funerali. Spiccano i camici, non le stole. Mai nella storia la Chiesa aveva disertato il dolore degli uomini. Con il suo gesto straordinario Francesco riempie questa assenza. E pensa soprattutto al dopo: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla».

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Alessandro Barbero

Le parole del papa

Da Gregorio VII a Francesco

«Le parole usate dai papi sono importanti; tanto più in quanto il loro modo di parlare non è sempre lo stesso. Il linguaggio con cui il pastore della Chiesa di Roma si rivolge all’umanità nei momenti difficili è sempre stato espressione non solo della sua personalità individuale, ma del posto che la parola della Chiesa occupava nel mondo in quella data epoca; ed è un indizio estremamente rivelatore delle diverse modalità, e della diversa autorevolezza con cui di volta in volta i papi si sono proposti come leader mondiali.
In queste pagine faremo un viaggio attraverso le parole usate dai papi nei secoli. Ovviamente la Chiesa esiste da duemila anni e nel corso di questi due millenni ha prodotto innumerevoli parole; non si tratta di renderne conto in modo esaustivo o anche solo sistematico, ma piuttosto di proporre uno dei tanti viaggi possibili, cominciando dal Medioevo per arrivare fino alla soglia della nostra epoca.»

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Il cristianesimo al tempo di papa Francesco

a cura di Andrea Riccardi

È aperta la domanda su quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo. Secondo i critici il suo pontificato rappresenta una parentesi. Certo è che non sarà facile ritornare al passato. Interrogarsi oggi sul presente e sul futuro del cattolicesimo vuol dire ampliare lo sguardo oltre il Vaticano, oltre l’Italia, oltre l’Europa, in una prospettiva geopolitica globale.

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Interregno: Sanità

Quanti passi avanti ha fatto la sanità rispetto a 50 anni fa, in Italia?

Nel prossimo incontro di INTERREGNO parleremo insieme a Chiara Cadeddu, Giuseppe Remuzzi e Mattia Quargnolo di un tema molto divisivo e di cui siamo tutti ormai costantemente informati: la sanità. Ma lo faremo in un modo diverso, partendo dalla prospettiva generazionale e interrogandoci su cosa è stato fatto, quali opportunità sono andate perse e cosa rimane da fare alle generazioni future.

Parleremo naturalmente della pandemia e dei vaccini e di come sono stati e sono gestiti in Italia e nel resto del mondo ma affronteremo anche, più in generale, il nostro sistema sanitario, fra privato e pubblico, per capire quanto già è stato fatto per renderlo più equo e quanto ancora va fatto per sanare le differenze di genere e quelle geografiche, per cominciare. Parleremo di cos’è la salute ‘globale’ e perché interessa gli italiani, di quali sono le sfide, prima fra tutte il clima, che devono affrontare le generazioni dei più giovani oggi, e quelle future.

Appuntamento mercoledì 14 aprile alle 19.00 sui nostri canali Facebook e Youtube.

Insieme alla giornalista Silvia Boccardi, che modererà l’incontro, avremo con noi:

Chiara Cadeddu, medico specialista in Igiene e Medicina Preventiva, attualmente ricercatore presso la Sezione di Igiene del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Ha lavorato presso l’Istituto Superiore di Sanità fino al 2020 e presso l’IRCSS IFO Regina Elena fino al 2016. È autrice di oltre 100 pubblicazioni scientifiche e oltre 100 abstract presentati a convegni.

Giuseppe Remuzzi, medico chirurgo, specializzato in ematologia e nefrologia, è Direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. È autore di più di 1440 pubblicazioni su riviste internazionali e di 16 libri, ed è editorialista del «Corriere della Sera».

Mattia Quargnolo è un medico specializzando in Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Bologna. Nel 2020 ha partecipato ad attività di Sanità Pubblica in Uganda con la Ong “Medici con l’Africa – CUAMM”. Attualmente coordina il tracciamento dei casi di Covid-19 presso l’AUSL di Bologna.