Napoleone, di Georges Lefebvre

«La storiografia moderna, intesa come scienza della storia, è nata nel clima della Rivoluzione francese (che fu anche una rivoluzione culturale) e della profonda inquietudine intellettuale provocata in Europa da Napoleone e dalla sua epopea.

Non è dunque eccessivo dire che ancora oggi la storiografia risente di quell’evento epocale e di quel mito. Le idee e le emozioni degli storici partecipano sempre, nei modi più vari, della costante riflessione su un tempo che va dal 1789 al 1821.

Ne è testimonianza anche il Napoleone del grande storico Georges Lefebvre, che lo pubblicò nel 1953 a coronamento delle sue fondamentali ricerche sulla Francia rivoluzionaria. Ne è dunque il seguito, intellettualmente e storiograficamente, problematico. Di fronte all’attuale rifiorire di libri e biografie dedicati, spesso con approssimazione giornalistica, a Napoleone, l’opera di Lefebvre rimane come un classico insuperato e come un godibile libro di lettura sulla figura storica più nota e controversa dell’età moderna».

Lucio Villari

I 500 giorni più folli di Napoleone Bonaparte

Corrado Augias, la Repubblica, 8 aprile 2016

La sera d’inverno in cui Napoleone Bonaparte lascia il suo minuscolo regno all’isola d’Elba per la più ardita, e insensata, delle sue avventure, sul suo scrittoio rimane aperto un libro: Storia del regno dell’imperatore Carlo V; è l’uomo che aveva costruito un impero grande come due continenti e che, sentendosi vecchio, aveva trovato rifugio in un convento. Una frase avrebbe attirato l’attenzione di chi vi avesse gettato un’occhiata: «Discendere volontariamente dalla condizione più elevata ad una subordinata, abbandonare il possesso dell’autorità per vivere felici, sembrano sforzi troppo grandi per l’animo di un mortale». Infatti Carlo V vi riuscì, Napoleone no – anche se entrambi finirono i loro giorni in un’età precocissima: Carlo a 58 anni, il Corso a 52.

Il saggio-racconto di Luigi Mascilli Migliorini (Storia moderna all’Orientale di Napoli) analizza proprio questo arduo passaggio: in che modo e attraverso quali vicende – come sempre leggendarie – Napoleone Bonaparte scelse di terminare il suo ciclo politico e militare. Titolo: 500 giorni. Napoleone dall’Elba a Sant’Elena (Laterza).

Dopo il disastro della campagna di Russia (1812), la sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), il crollo dell’impero, Napoleone aveva tutti contro: Russia, Prussia, Austria, Svezia, Gran Bretagna. Il suo ciclo è finito; all’interno della stessa Francia s’è dissolta la compattezza che ne aveva accompagnato l’ascesa: le istituzioni si ribellano, i marescialli imperiali tradiscono, i nobili da lui creati gli volgono le spalle, perfino Gioacchino Murat passa al nemico per mantenere il regno di Napoli. Gli eserciti della coalizione invadono la Francia, il 31 marzo (1814) entrano a Parigi. Dopo un’ultima strenua (e, pare, geniale) resistenza, si ritira a Fontainebleau, chiede la pace, abdica, si congeda commosso dalla Guardia imperiale, parte in carrozza per l’esilio dell’Elba. Lungo il percorso s’imbatte in accoglienze contrastanti. C’è chi, riconosciutolo, grida Vive l’Empereur!, chi scaglia ingiurie e qualche sassata. L’ultimo tratto lo farà rivestito di un’uniforme austriaca per sfuggire alle manifestazioni più ostili. Circostanza che a noi italiani ricorda un’altra fuga dissimulata sotto un’uniforme straniera. Il 3 maggio (1814) sbarca a Portoferraio; nello stesso momento Luigi XVIII di Borbone fa il suo ingresso a Parigi, riprende possesso del trono. Appena la notizia della fuga è nota, nel continente si diffonde grande inquietudine. Le diplomazie europee si mettono al lavoro per preparare un Congresso che ristabilisca l’ordine dopo una bufera durata quasi vent’anni. I delegati si riuniranno a Vienna in autunno, la seduta inaugurale avverrà il 5 novembre.

Si può immaginare con quale animo dopo vent’anni di gloria chiusi da sconfitte, tradimenti, angustie anche private, il Grande Corso metta piede in quella caricatura di regno. La sua residenza (Palazzina dei Mulini) è poco più di un casale, la fa restaurare nel tentativo di nobilitarla. Riceve la borghesia isolana, progetta qualche modesto lavoro pubblico, studia perfino i cerimoniali di corte, su scala ovviamente minima. Offre l’apparenza di un pacato ritiro dal mondo, ma in realtà non si rassegna, progetta, riceve misteriosi emissari, smania. Solo la contessa polacca Maria Walewska, la più tenera delle sue amanti, gli darà per qualche giorno effimero conforto. Nonostante gli inglesi lo tengano d’occhio riesce a far allestire un brigantino che, scortato da una minuscola flottiglia, la sera del 26 febbraio 1815 lascia l’isola e fa vela su Golfe Juan in Provenza da dove lancia un altro dei suoi veementi proclami: «L’aquila con i colori nazionali volerà di campanile in campanile fino alle torri di Notre Dame».

A mano a mano che la minuscola armata risale il territorio, nuove truppe s’aggiungono; i reparti inviati a contrastarlo s’ammutinano per unirsi ai “ribelli”, la stessa titolazione dei giornali, sempre più calorosa con il proseguire dell’avanzata, rispecchia – apparentemente – il favore popolare. Si racconta di dame che, appena riconosciutolo, vengono meno dall’emozione. Tappe grandiose anche di 80 chilometri in un giorno lo portano velocemente a Parigi: il 20 marzo s’installa alle Tuileries. Qui comincia la parte più bella e interessante del saggio anche perché si tratta di avvenimenti meno conosciuti che l’autore indaga con gusto e competenza. Napoleone cerca di riorganizzare il “suo” Stato. L’apparente trionfo ora mostra però le sue debolezze, lo storico Edgar Quinet sintetizza: «Napoleone e la Francia si guardarono in faccia e si trovarono cambiati. Fecero fatica a riconoscersi l’un l’altro». Come chiamare Napoleone? non più imperatore non ancora re, usurpatore? Qualche che sia ora deve formare il governo, progettare una costituzione che dia legittimità alla sua inedita veste. L’eterno Fouché, uomo per tutte le stagioni, si fa sotto; vorrebbe gli Esteri, ma sono appannaggio di Talleyrand intrappolato a Vienna come rappresentante di Luigi XVIII; allora ripiega sugli Interni, cioè la polizia. Napoleone lo conosce e ne diffida ma gli consigliano di prenderlo «convinti che la sua nomina rappresenti una possibilità di controllo sul mondo legittimista». Sono giorni in cui, scrive l’autore, «un vasto suggestivo confronto di idee politiche attraversa la Francia». Benjamin Constant mette la sua sapienza politica e giuridica al servizio del Corso nel tentativo di modellargli addosso una costituzione con un ben studiato equilibrio di poteri. Gli obiettano: «È incredibile che Napoleone si limiti facendosi garante dell’equilibrio tra poteri che il costituzionalismo liberale attribuisce al sovrano».

Giuste preoccupazioni che girano però intorno al vero nocciolo del problema. D’accordo la costituzione, ma ciò che veramente egli vuole è la guerra. Scrive Migliorini: «Dopo tante catastrofi militari e i giorni oziosi all’Elba, la guerra tornava ad apparirgli la scelta naturale, quell’universo nel quale muoversi con la disinvoltura che l’aveva accompagnato fin dalla giovinezza». Il cuore politico dei cento giorni è chiuso nel periodo tra aprile e giugno del 1815. Ancora l’autore: «Le esitazioni, gli errori, le ingenuità di quelle settimane ritrovano il senso di un’esplorazione in terra incognita e la forza di una lezione di modernità politica». Anche se a Vienna si lavora alla sua fine, quando si spande la voce delle sue intenzioni, il re di Baviera, al tavolo del Congresso, si lascia andare ad un imbarazzante relâchement des entrailles. Con più sobrietà il re di Prussia a chi grida «Bisogna impiccarlo!», replica: «Certo, ma prima bisogna prenderlo».

Il culmine di questa fase, benissimo raccontata, è la radunata al Campo di Marte dove Napoleone arriva su un lussuoso equipaggio tirato da otto cavalli bianchi, salutato da salve di artiglieria. Dal cocchio scende un sovrano da operetta infagottato, riferiscono i testimoni, in una tunica di taffetà cremisi e oro, un mantello viola ricamato, pantaloni di satin bianco e scarpini anch’essi di satin. Se ne sta lì annoiato e insofferente mentre ascolta la messa, i discorsi, le celebrazioni. Infine può rivolgersi ai suoi soldati e lì, riferiscono sempre i testimoni, ritrova finalmente se stesso: li accende, li commuove, li fa suoi. Poi sarà Waterloo con la sua fatalità, gli equivoci, il cattivo tempo, la disfatta, l’esilio, la lunga agonia di Sant’Elena. Chissà se, almeno a quel punto, il convento dove s’era ritirato Carlo V gli sarà apparso come la soluzione che sarebbe stato meglio scegliere.

 

Scopri il libro:

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana, ma anche un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

Questa settimana parliamo – purtroppo – dell’ultimo naufragio nel Mediterraneo, dell’operazione “Ombre rosse”, della calendarizzazione del Ddl Zan, della “scomparsa” del salario minimo, delle opportunità offerte in “zona gialla” da un tempo libero lento e all’aria aperta.

 

Migranti. Centotrenta persone sono annegate al largo della Libia. «La tragedia poteva essere evitata», affermano le otto ong (Alarmphone, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, ResQ, Sea-Watch, Sos Méditerranée Italia) che hanno richiesto un incontro urgente con Mario Draghi. «La Ocean Viking – raccontano – ha atteso un intervento delle autorità marittime che coordinasse le operazioni, ma nonostante le autorità italiane, libiche e maltesi fossero tenute costantemente informate, questo coordinamento non c’è stato, o almeno non ha coinvolto l’unica nave di soccorso presente in quel momento». Papa Francesco ha affermato: «È il momento della vergogna».
 

 

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“Ombre rosse”. L’operazione ha portato a sette arresti in Francia: sono ex brigatisti e altri condannati per reati legati agli anni di piombo. Due degli altri tre ricercati si sono costituiti. L’operazione, ha dichiarato Emmanuel Macron, «si colloca strettamente nella logica della dottrina Mitterrand di accordare l’asilo agli ex brigatisti, eccetto ai responsabili di reati di sangue».
«Avrei voglia di essere cinico, per adeguarmi», ha commentato Adriano Sofri sul Foglio. «C’è quell’aneddoto famoso sul novembre del 1947, la destituzione del prefetto di Milano Troilo, che era stato un comandante partigiano, e la ribellione della città. Manifestanti e partigiani occuparono la Prefettura, e da lì Giancarlo Pajetta telefonò a Roma. “Compagno Togliatti – disse fieramente – abbiamo occupato la Prefettura!” “Bravo, e adesso che ve ne fate?”. Mercoledì mattina un’operazione congiunta di polizie e intelligence francesi e italiane – una retata, in ora antelucana, come da regolamento – ha portato all’arresto di “7 ex terroristi” a Parigi. Bravi! E adesso che ve ne fate?».
   

 

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Ddl Zan. Con 13 voti favorevoli e 11 contrari (dalle file del centrodestra), la Commissione Giustizia del Senato ha calendarizzato la discussione del ddl Zan – contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo: già approvato alla Camera, il disegno di legge potrà ora essere discusso e messo ai voti anche al Senato.
   

 

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→  Salario minimo. È scomparso dal Pnrr il paragrafo relativo all’introduzione del salario minimo, inizialmente previsto “a garanzia di una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e idonea ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa”. La misura era presente nelle linee guide ed era stata sollecitata dalla Commissione europea. Come Ursula von der Leyden aveva affermato a settembre, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, «per troppe persone il lavoro non è più remunerativo: il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l’imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale nel mercato unico. Per questo motivo la Commissione presenterà una proposta legislativa per sostenere gli Stati membri nella creazione di un quadro per i salari minimi. Tutti devono poter accedere a salari minimi, che sia attraverso contratti collettivi o salari minimi legali».
   

 

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→  Zona gialla. Dal 26 aprile molte regioni sono di nuovo in zona gialla: l’allentamento delle restrizioni e un clima più mite permettono di tornare a immaginare un approccio lento e gentile al territorio e al tempo libero, in fuga dalla folla e dalla città.

 

Mao Zedong, dalla Lunga Marcia all’egemonia comunista

Una ritirata a piedi fra le montagne innevate e i burrascosi fiumi cinesi, lunga oltre 10.000 chilometri con uomini poco equipaggiati, inseguiti dall’esercito del Kuomintang: al confronto della lunga marcia di Mao, la marcia di Annibale attraverso le Alpi fu solo una gita di piacere.

Dalle ore 8:00 di domenica 2 maggio sarà disponibile sulla piattaforma AuditoriumPlus una lezione fondamentale per conoscere la presa del potere del leader che ha creato la Cina contemporanea: Mao Zedong, dalla lunga marcia all’egemonia comunista, la nuova lezione di storia di Guido Samarani nel ciclo La Presa del Potere, introdotta da Paolo Di Paolo.

Alle ore 19:00 di domenica 2 maggio sarà poi possibile assistere a un dialogo in diretta fra Paolo Di Paolo e Guido Samarani e porre delle domande al relatore sui nostri canali Facebook e Youtube e su quelli dell’Auditorium, oltre che sulla pagina Facebook del Teatro Verdi di Padova.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

Per acquistare clicca su una qualsiasi lezione, scegli se acquistare l’intera stagione o una singola lezione, registrati e procedi con il pagamento.

Una volta arrivati sulla schermata di pagamento è sufficiente cliccare sul pulsante giallo “Check out with PayPal” in basso a sinistra, anche se non si ha un account PayPal. A quel punto, nella schermata successiva dovrete cliccare sul pulsante “Paga con carta” e vi verrà data la possibilità di inserire i dati della carta per il pagamento e si completerà l’acquisto

Gli abbonati alle Lezioni di Storia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma – stagione 2019-2020 possono contattare il botteghino della Fondazione Musica per Roma per ricevere informazioni relative ai voucher.

>>Qui tutto il programma.

Mariana Mazzucato racconta “Missione economia”

Smettiamo di chiederci quanti soldi abbiamo e cosa possiamo farne e iniziamo invece a domandarci di cosa abbiamo bisogno per soddisfare le nostre esigenze.

È questa la rivoluzione.

È questa la strada maestra per rispondere ai grandi problemi del nostro tempo, dal riscaldamento globale alle pandemie, dallo sviluppo sostenibile alla lotta alle disuguaglianze.

Mariana Mazzucato racconta il suo nuovo libro, Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo.

 

Scopri il libro:

 

 

Paolo Morando racconta “Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri”

“E Cefis sempre lì, ‘grande vecchio’ di tutto, snodo obbligato di ogni groviglio, dall’alto del suo quasi metro e novanta: ben lontano dalle buche in cui puntualmente finivano per inciampare tutti i suoi avversari.”

Eugenio Cefis è stato per anni uno degli uomini più potenti d’Italia. Secondo molti, il più potente: la politica al suo servizio, i rapporti con i servizi segreti, le accuse di progettare disegni eversivi, fondi neri, dossier e intercettazioni telefoniche. Un grande burattinaio della Repubblica, capace di nutrire per oltre mezzo secolo una inarrestabile leggenda nera. Ma che cosa c’è di vero?

Nel suo nuovo libro Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri, grazie a una documentazione inedita e sorprendente, Paolo Morando ce ne offre ora un profilo autentico e senza sconti.

Perché raccontare Eugenio Cefis oggi significa raccontare l’Italia come mai è stato fatto prima.

Scopri il libro:

Interregno: Cultura di massa

Ha ancora senso oggi parlare di ‘cultura di massa e controcultura’?

Quando sono nati questi due termini e cosa hanno significato nella nostra storia? Come si fa cultura oggi e come interviene il web? Ha davvero un effetto ‘democratizzante’ o piuttosto accentra il potere nelle mani di pochi grandi player e ci rende tutti schiavi di algoritmi imperscrutabili e mode spesso poco edificanti?

Parleremo di tutto questo nel prossimo incontro di INTERREGNO. Dialoghi fra generazioni.

Appuntamento mercoledì 28 aprile alle 19.00 sui nostri canali Facebook e Youtube.

Insieme alla giornalista Silvia Boccardi, che modererà l’incontro, avremo con noi lo storico Alberto Mario Banti, Ilde Forgione, creativa del team TikTok delle Gallerie degli Uffizi e Virginia W. Ricci, creative writer.

👉Alberto Mario Banti è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa. Si è occupato di Storia del Risorgimento italiano, di storia del nazionalismo europeo ottocentesco e di storia della cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il Risorgimento italiano (2020, 13a rist.); Sublime madre nostra (2021, 5a rist.); Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd (2020, 2a rist.); La democrazia dei followers. Neoliberismo e cultura di massa (2020).

👉Ilde Forgione, dottoressa di ricerca in Diritto pubblico e dell’economia e già vincitrice di concorso per il Ministero della Cultura, attualmente è assegnista di ricerca nell’Università di Modena e Reggio Emilia. In servizio presso le Gallerie degli Uffizi, è Creativa del team TikTok.​

👉 Virginia W. Ricci, ha diretto per qualche anno l’edizione italiana di Noisey, al momento è freelance e scrive principalmente per la televisione. Continua ad occuparsi di musica, sia organizzando feste che nel suo spazio bisettimanale su Radio Raheem.

Carlo Greppi racconta “25 aprile 1945”

25 aprile 1945, il destino dell’Italia è cambiato per sempre.
Colpi di scena, di mano e d’arma da fuoco: la Storia non è un romanzo ma come un romanzo la si può raccontare, soprattutto se l’intreccio tra i protagonisti avvince come avvince la libertà quando è sul punto di essere riconquistata.

Nel suo 25 aprile 1945, Carlo Greppi ricostruisce cosa avvenne a partire da tre protagonisti di quelle fatidiche ore: Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Luigi Longo.

Qui Carlo Greppi ospite di una puntata speciale di Quante Storie, Rai 3: I valori del 25 Aprile

Carlo Greppi ricostruisce il giorno della liberazione senza arretrare di un millimetro dal metodo ma utilizzando una struttura nella quale la verità storica risulta quasi maieuticamente estratta dalla narrazione dei luoghi, dei fatti, delle connessioni.
Marco Bracconi, “Robinson – la Repubblica”

Da storico e da narratore, Greppi sceglie tre vite – quelle dei partigiani Cadorna, Parri, Longo – e ce ne mostra, letteralmente, l’intreccio. Ma fa lo sforzo di riguadagnare l’ignoranza delle conclusioni, prova cioè a scrutare le scelte compiute senza sapere cosa sarebbe successo.
Paolo Di Paolo
, “L’Espresso”

Una transizione ancora da raccontare

Novecento. Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli.
Nonostante l’epica celebrativa, non fu un fenomeno concluso, ma un inconsapevole atto fondativo. Oggi, sempre più spesso, la lotta di Liberazione, e con essa l’antifascismo, vengono schiacciati sull’asse della parificazione tra «totalitarismi». Anche per questo va assunto l’oggetto di indagine come un dato problematico, tale perché rilevante nella coscienza di un’epoca trascorsa ma ancora aperto sul piano degli echi di ritorno

Claudio Vercelli, il manifesto, 10 gennaio 2020

 

Scrivere ancora una volta una storia della Resistenza parrebbe essere un’impresa tanto impegnativa quanto tardiva e, alla resa dei conti, potenzialmente infeconda. La ricerca storica ha peraltro fatto ampi passi in avanti nella ricostruzione delle tante trame di cui la lotta di Liberazione, ciò che l’ha preceduta e quanto l’ha seguita, sono intessute. Sono a disposizione di chiunque, armandosi di buona volontà, ne voglia acquisire i risultati. Se poi l’intenzione è ancora quella di riproporre un repertorio di atti e gesti, di personaggi e di eventi, secondo uno schema che incorpora in sé l’idea bislacca che la storia sia pura cronologia, a sua volta sospesa tra epica celebrativa e retorica della condanna, allora si può ben dire che il tempo sia perduto. Il tempo della ricerca, si intende. Ma anche il tempo storico, al quale ci si rivolge solo per dare ulteriore credito esclusivamente ai propri pregiudizi.

Diverso è invece il discorso se si assume l’oggetto di indagine come un dato problematico, tale proprio perché rilevante nella coscienza di un’epoca trascorsa ma ancora aperto sul piano degli echi di ritorno. La Resistenza, da questo punto di vista, non fu mera transizione. Non contraddistinse un’età conchiusa – costituendo pertanto un fenomeno circoscritto – e quindi riconducibile a poche, evidenti coordinate. Piuttosto, segnò una trasformazione i cui effetti si sarebbero misurati essenzialmente sul lungo periodo, a fatti d’armi oramai esauritisi. Fu quindi un inconsapevole atto fondativo.

TUTTA LA VICENDA resistenziale, d’altro canto, può essere ricondotta e riannodata intorno ad alcuni passaggi decisivi, sui quali si impongono le questioni relative al rapporto tra spontaneità e organizzazione e l’interrogativo cardine, mai esaurito, tra monopolio della forza (disintegrato dal fascismo medesimo all’atto del suo declino) e ricorso alla violenza, soprattutto laddove quest’ultima istituisce nuove forme di legittimità. Due elementi, questi ultimi, che attraversano l’intero Novecento, quando ci si interroghi sul ruolo tra masse e potere, ossia sull’irruzione di queste nel recinto del secondo.

Qual è pertanto il rapporto che l’azione politica deve intrattenere con la violenza nel corso della storia? In altre parole, poiché l’esercizio di potere – in qualsiasi condizione esso avvenga – si consuma sempre sotto il segno di un’asimmetria di risorse e forze, quindi con il ricorso alla coercizione, come deve essere valutata la violenza, sia di natura fisica che di altro genere, in un tale contesto conflittuale? Al netto delle condanne di principio, ispirate a una logica dell’umanitario che ha oramai pervaso ogni anfratto della politica, se non altro per segnalarcene anche in tale modo la sua decadenza, siamo spesso privi di un’idea al riguardo.

LA FORZA non è necessariamente odio. Anche se frequentemente si alimenta di esso, come carburante propulsivo. La forza – il cui monopolio è attribuito allo Stato – nel momento in cui quest’ultimo decade, si trasforma in violenza. Non per una questione di diversa intensità rispetto al suo esercizio bensì per una crisi di legittimità. La quale rimanda a chi è abilitato ad esercitarla, ovvero a risultare giustificato – a posteriori, ossia a fatti consumati – nel ricorso ad essa.

La rigenerazione di un potere, quand’esso si è esaurito e viene avvicendato da un altro, ruota intorno a questo passaggio strategico. E al consenso che i protagonisti di tale transizione riescono a costruire intorno a sé. Ovvero alla sua continuità, al suo costituirsi come il centro di una nuova narrazione dalla quale si diramano, per molteplici transiti, nuove prospettive. Anche per questa irrisolta ragione continuiamo a riflettere sul tema della Resistenza, del suo timbro, dei suoi lasciti. Poiché essa si è confrontata con il fascismo che, della ricostruzione di un potere come raffigurazione mitografica di un’identità politico-istituzionale così forte al punto da essere inscalfibile, ne aveva fatto una delle sue ragioni primarie.

LA RESISTENZA ITALIANA, come quelle europee, rompe questo meccanismo che è dichiaratamente «totalitario» poiché ambisce a racchiudere il pluralismo di società di massa all’interno di un contenitore univoco. Un nuovo libro firmato da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza (Laterza, pp. 673, euro 35), riapre aspetti della riflessione che già diversi autori, il cui magistero culturale è pienamente assodato, come Claudio Pavone e Santo Peli, avevano contribuito ad alimentare in ricchezza e varietà di interpretazioni.

Per come il voluminoso testo è articolato, per la sua interna struttura e la disposizione dei materiali, articolati in diciotto capitoli tematici, svolti comunque secondo un criterio cronologico, dall’anteguerra al dopoguerra, forse parlare di «Storie delle Resistenze italiane» sarebbe alla fine risultato più pregnante. Ma non è questo il punto.

LA SCELTA DELL’ARCO cronologico è volutamente ampia, partendo ben prima dei confronti armati che si innescarono con l’8 settembre e nei giorni successivi, per abbracciare un respiro politico che, invece, nelle stanche discussioni che da anni oramai si trascinano, si è completamente appannato. In questo, sulla scorta di molti autori che li hanno preceduti, Flores e Franzinelli si sforzano di restituire alla lotta per la Liberazione quella sua intrinseca natura di insieme complesso di fatti, eventi e attori che generarono, nel corso del tempo, nuova politica. Ovvero, il ritorno a essa dopo la lunghissima parentesi fascista

NON A CASO, l’esordio del testo è accompagnato dalla consapevolezza che ci sia qualcosa di peggio dello stallo, ovvero della permanenza di un regime svuotato dal di dentro, ed è la «falsa rivoluzione», qualcosa di sospeso tra il gattopardesco e la restaurazione permanente, fatta però passare per trasformazione radicale. Il fascismo appartiene a questa seconda categoria, almeno per come la giudicava Giaime Pintor poco prima di morire. Ma anche a molto che a esso si sarebbe avvicendato. Poiché è lo stato di necessità a generare una risposta corale e non diversamente.

Nel seguire a ruota, tra le diverse questioni all’ordine del giorno, si pongono, capitolo dopo capitolo, i nodi di quei seicento giorni. Nessuno di essi viene sciolto dagli autori poiché non è questa una storia che ci voglia restituire una facile razionalizzazione di quell’epoca.

Tra di essi i temi della creazione di una nuova classe dirigente; della necessaria riforma del vecchio Stato centralistico, dovendolo però difendere per non cadere nel caos (Vittorio Foa); la questione della lealtà e del tradimento, particolarmente avvertita tra i militari; la natura del progressivo processo di politicizzazione della Resistenza; la coesistenza competitiva di diversi centri di decisione all’interno del movimento resistenziale, tra Milano, Roma e, in un primo tempo, Bari; il problema del rapporto tra il Cln e i comunisti; i legami conflittuali tra centri politici e periferie partigiane, ossia la lotta tra coordinamento, distinte visioni dei tempi, luoghi e dei modi dell’azione nonché la sostanziale indipendenza del comando delle Brigate Garibaldi; la difficile se non impossibile dialettica tra centralismo burocratico, federalismo politico, soggettivismo operativo e la sostanziale impossibilità di coniugare queste dinamiche dopo la Liberazione; il rapporto tra giustizia e libertà; il legame conflittuale tra minoranza attiva e maggioranza inerziale, al nocciolo della «guerra civile»; l’irrisolta questione del costituirsi di una legalità nella e della organizzazione partigiana e la legittimità del ricorso alla lotta armata; lo spontaneismo operaio, lo sciopero politico e la passività dei ceti sociali medio-alti.

L’ELENCO POTREBBE proseguire. Per lo storico non è materia inedita. Per il lettore, invece, è terreno di sfida intellettuale. Soprattutto se intenda sottrarsi ai persistenti giochini tra revisionismi interessati e apologie sacerdotali, laddove in realtà i due antitetici approcci rivelano molteplici, nonché crescenti, tratti di specularità. Poiché c’è un ampio orizzonte che si apre a chi vuole e intenderà continuare a ragionare sulla Resistenza come fondamento della Repubblica.

Sempre più spesso, la lotta di Liberazione, e con essa l’antifascismo, verranno infatti schiacciati sull’asse della parificazione tra «totalitarismi». Si tratta peraltro di una componente fondamentale di quella lotta per il dominio subculturale che, dagli anni Ottanta in poi, si è aperta nel nostro Paese, proseguendo nell’oggi. Dotarsi di strumenti argomentativi sul passato è la premessa per tornare a fare della politica un’arena di significati, senza i quali a mancare sarà il tempo futuro.

 

Qui Marcello Flores e Mimmo Franzinelli ospiti di una puntata di Quante Storie, Rai 3: La Resistenza

Scopri il libro:

 

Roma nel 1944, finalmente libera ma un po’ ingrata verso i liberatori

Un saggio di Gabriele Ranzato sul rapporto tra gli Alleati e la Resistenza. Scarsa riconoscenza verso le forze che cacciarono i nazisti nel giugno 1944

Paolo Mieli, Corriere della Sera, 4 febbraio 2019

 

A ricordare l’ingresso delle truppe alleate a Roma nel giugno del 1944, nella capitale c’è soltanto una piccola targa bilingue collocata nel 1994 in un giardinetto della piccola piazza San Marco, a fianco di Palazzo Venezia, in cui è scritto: «A cinquant’anni dalla liberazione di Roma in memoria di tutti i caduti della campagna d’Italia». Ad essa — nota Gabriele Ranzato in La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944), in uscita giovedì 7 febbraio per i tipi di Laterza — è stato accostato nel 2006 un non grandissimo bassorilievo in cui si mostra una scena di fraternizzazione tra il popolo e alcuni armati che — «senza elmetti in capo né uniformi evidenti» — non sono assolutamente individuabili come soldati angloamericani. Sul fianco compare questa iscrizione: «4 giugno 1944. Liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista grazie al sacrificio e all’eroismo delle forze alleate, dei partigiani italiani e dei cittadini di Roma». Questo è tutto per quel che riguarda la gratitudine nei confronti dei soldati che vennero da Oltreoceano a liberarci da nazisti e fascisti. Non un granché.

Una spiegazione di questa assenza di gratitudine può essere ricondotta al fatto che già all’epoca sul rapporto tra angloamericani e antifascisti italiani impegnati nella Resistenza — come già ebbe a notare Rick Atkinson in Il giorno della battaglia. Gli Alleati in Italia 1943-1944 (Mondadori) — pesò una «reciproca mancanza di conoscenza». I primi «non avevano consistenti indizi dell’esistenza — non solo a Roma, ma per qualche tempo anche nel resto d’Italia — di un corposo movimento resistenziale al quale potessero attribuire un pur minimo ruolo strategico nella loro guerra; i loro tentativi di mettersi in contatto con le forze che combattevano il fascismo in questa o quella città per valersi del loro aiuto furono «limitati, improvvisati e alquanto poveri di risultati». Gli uomini della Resistenza romana per altro verso «potevano sapere molto poco circa la conduzione della campagna d’Italia da parte alleata, condizionata dalle contrastanti visioni politico-strategiche di Stati Uniti e Gran Bretagna». Inoltre la Resistenza romana, dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944), visse «con frustrazione, e anche risentimento, il mancato arrivo dell’esercito angloamericano alle porte della città». Arrivo che ci si aspettava imminente «secondo un’illusione effettivamente alimentata soprattutto dalla componente britannica degli stessi comandi alleati».

Certo, gravava su quei mesi tra l’autunno del 1943 e la tarda primavera del 1944 la gestione delle trattative armistiziali con l’appendice «tragica e perfino grottesca» della «finta disponibilità dell’Italia badogliana a dare un immediato contributo bellico agli Alleati», a cui si era aggiunto il «disonorevole» abbandono ai tedeschi della capitale. Cose che avevano reso più che evidente come l’iniziativa dell’armistizio non fosse dovuta a una «trasformazione antifascista» della classe dirigente italiana, la quale, peraltro, con il fascismo si era largamente compromessa, né ad una volontà di redimersi con un consistente impegno militare, come avrebbe imposto un vero cambiamento di fronte. Era solo, quello italiano, un modo di «sfilarsi dalla guerra, da qualsiasi guerra lasciando che il Paese fosse solo il teatro di vicende belliche in cui il compito di sconfiggere la Germania nazista fosse riservato esclusivamente o quasi agli eserciti alleati».

Ci sono poi varie indicazioni del fatto che, pur aspirando i romani ad essere liberati dall’esercito alleato, essi non lo sentivano affatto come «un esercito che stava combattendo la loro guerra». Nonostante ciò, al momento della liberazione gli abitanti della capitale mostrarono nei confronti degli angloamericani un sentimento di riconoscenza destinato a durare. Anche se questo apprezzamento «non va disgiunto da osservazioni critiche circa la loro condotta militare», soprattutto quella dei loro servizi segreti a Roma sotto l’occupazione nazista. Si può forse ritenere, sostiene Ranzato, che alle vicende di quei servizi in alcuni casi eroiche — come documentato dai ricordi dell’ufficiale americano Peter Tompkins Una spia a Roma (il Saggiatore) — «ma per lo più scombinate e talora tragicomiche» venga dato in genere uno spazio eccessivo. Ma poiché la causa della loro «inefficienza» appare essere stata l’inadeguatezza, oltre che degli agenti sul campo, soprattutto della loro centrale presso la Quinta Armata del generale Clark (e forse andrebbe ricercata «ancora più in alto»), «sarebbe stato reticente e parziale non mostrarla con tutti i dettagli offerti dalla documentazione» in cui l’autore si è via via imbattuto.

E dal momento che siamo in tema di ciò che non andò per il verso giusto, aggiungiamo che nella Roma nazista «gli antifascisti erano in pochi», che Chiesa e combattenti fedeli a Badoglio scoraggiavano eventuali attentati nel tentativo, sostenevano, di «attenuare la spietatezza dell’occupante». Con ampio riferimento al libro di Andrea Riccardi L’inverno più lungo. 1943-44 Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza), Ranzato assolve Pio XII dall’accusa di aver imposto un freno «a un popolo incline all’insurrezione». Il «freno» fu «invece» posto dal «desiderio popolare largamente diffuso di sfuggire alla guerra e di trovare avallo, espressione e riparo nel pontefice». Oltretutto tantissimi romani, «avevano sostenuto per accettazione patriottica o anche con entusiasmo la guerra predatrice dell’Italia fascista, pronti certamente ad accogliere con tripudio l’esercito italiano qualora avesse ottenuto la vittoria e imposto ai popoli sconfitti il suo dominio». Sicché «era difficile che quel popolo vedesse la necessità di riparare ad una colpa collettiva».

Nonostante ciò, soprattutto tra il dicembre del 1943 e il marzo del 1944 tedeschi e fascisti repubblicani subirono «un numero consistente di attacchi anche mortali». Compiuti «quasi esclusivamente» dai Gap comunisti, gruppi il cui nucleo «centrale» era costituito per la maggior parte «da giovani di classi medio-alte, per lo più studenti». Destinati a diventare l’asse portante del gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra. Anche se «il fatto incontrovertibile che la loro meta fosse allora un sistema politico sociale di tipo sovietico» comporta, scrive Ranzato, che «fosse più che lecito opporsi all’affermazione in Italia del loro partito».

Il contributo alla lotta armata del Partito d’Azione e dei socialisti fu, quantunque l’avessero scelta, «piuttosto limitato». Quasi del tutto «prive di riscontri» risultano essere «le imprese vantate dal movimento Bandiera Rossa», comunisti dissidenti ai quali Ranzato dedica pagine molto interessanti. L’assenza di riscontri, chiarisce lo storico, non comporta che quel movimento, «come le altre formazioni della Resistenza, e forse anche di più» non abbia avuto un alto numero di caduti; «ma non si può stabilire affatto una proporzionalità diretta tra le vittime della repressione tedesca e le azioni compiute». In ogni caso la presenza di questi partigiani nella lotta per la liberazione della capitale è da anni al centro di un interessante dibattito già documentato da Enzo Piscitelli in Storia della Resistenza romana (Laterza), Silverio Corvisieri in Bandiera Rossa nella Resistenza romana, ma anche Il re, Togliatti e il Gobbo (Odradek) e Roberto Gremmo in I partigiani di Bandiera Rossa (Edizioni Elf). Dibattito nato dalla circostanza che i combattenti di Bandiera Rossa — osteggiati dal Partito comunista italiano — avrebbero voluto privilegiare la lotta rivoluzionaria anticapitalistica rispetto alla liberazione perseguita in alleanza con forze borghesi; e, di conseguenza, presero le distanze dall’azione militare di via Rasella («L’atto terroristico non appartiene alla strategia marxista», scrisse «Direttive Rivoluzionarie», un organo del movimento); anche se poi un nutrito gruppo di loro militanti ne pagò le conseguenze trovando la morte, per mano nazista, alle Fosse Ardeatine. La discussione si incentrò soprattutto sulla loro rivendicazione a proprio merito (ma senza riscontri) di importanti episodi di lotta armata.

Il caso più eclatante si ebbe in margine alla concessione — con decreto luogotenenziale e sulla base di una lunga relazione sottoscritta addirittura dal generale badogliano Roberto Bencivenga — di una medaglia d’oro per meriti resistenziali a Vincenzo Guarniera. Il quale Guarniera fu oggetto di molte polemiche (e subì anche traversie giudiziarie) che portarono nel 1950 alla revoca della medaglia suddetta. Nelle pieghe di questo caso e di altri consimili vennero fuori margini di ambiguità sull’effettiva consistenza e portata delle azioni del Movimento comunista d’Italia, a cui si rifaceva Bandiera Rossa.

Ma se, scrive l’autore, può destare «più di una perplessità l’effettiva portata delle azioni rivendicate dal Mcd’I, non c’è dubbio che invece molti dei suoi militanti furono oggetto di una spietata repressione tedesca in seguito a numerose catture attuate grazie all’opera di provocatori e spie». Perché questo accanimento nazista contro Bandiera Rossa? È probabile, risponde lo storico, che «più che per la sua pericolosità, Bandiera Rossa sia stata scelta dai tedeschi per fare da capro espiatorio e da disincentivo all’attività resistenziale, soprattutto per la sua notevole permeabilità alle infiltrazioni e alle delazioni di cui fu facile bersaglio, in assenza di strette regole cospirative e anche di semplici misure sufficientemente cautelative».

Importanti pagine sono altresì dedicate da Ranzato al tema dell’«insurrezione mancata». Che non trova giustificazione nel fatto che le truppe alleate, sbarcate ad Anzio in gennaio, non avanzarono o non riuscirono ad avanzare immediatamente verso Roma. Tant’è che anche nei giorni conclusivi dell’occupazione tedesca, «sebbene allora quella travolgente avanzata ci fu», dai romani non venne dato «alcun contributo» alla cacciata dei nazisti da parte di una «Resistenza insorgente». Neppure la sinistra del Cln, «che nel suo insieme costituiva l’unico schieramento disponibile ad un’azione insurrezionale», aveva veramente una forza sufficiente «per scontrarsi efficacemente» con il nemico. Neanche con un nemico in ritirata come quello tedesco. La Resistenza — sostiene Ranzato — si fermò a «considerare» che i lutti e le distruzioni che quell’azione insurrezionale avrebbe potuto provocare «sarebbero stati in definitiva controproducenti per la stessa causa della Resistenza». Però poi, nel dopoguerra, ci si raccontò che la colpa degli ultimi giorni di inazione e di alcuni fallimenti resistenziali («o presunti tali») erano riconducibili a responsabilità degli Alleati. Ma non era questa la verità.

Tutto ciò fa parte di un problema più generale. Sono numerosi — scrive Ranzato — gli esempi, raccolti in diversi scritti di guerra e dopoguerra, di manifestazioni di «scontento della Resistenza italiana nei confronti degli Alleati accusati di non averla abbastanza appoggiata e rifornita», a causa di una certa ostilità verso i partigiani per via della preponderante influenza comunista all’interno del movimento resistenziale. In realtà, mette a punto Ranzato, ci sono diverse considerazioni che dovrebbero indurci a un «ridimensionamento della concretezza di quei fatti» e delle loro eventuali motivazioni. È un fatto che gli Alleati aiutarono e rifornirono generosamente la Resistenza del comunista Tito, il che rende evidente che non era la maggiore o minore presenza dei comunisti nei movimenti che si battevano contro nazisti e fascisti a far pendere un piatto o l’altro della bilancia angloamericana. Erano piuttosto le chance di successo che venivano attribuite a questo o quel gruppo resistenziale. E agli italiani — a differenza di francesi o jugoslavi — ne venivano riconosciute assai poche.

Un ultimo dettaglio: la stele di cui si è detto all’inizio, qualche tempo fa è stata rimossa per un intervento di ristrutturazione urbana e non è mai ricomparsa, nonostante quei lavori siano stati da tempo ultimati. A giudizio di Ranzato è, questa, l’ulteriore riprova di una «mancanza di riconoscenza» nei confronti degli Alleati, che ha come unica attenuante quella di non riguardare solo Roma e i romani, bensì «tutto un popolo che, per ricostruire un suo orgoglio di appartenenza nazionale dopo il disastro della guerra, ha preferito considerarsi come vinto\vincitore piuttosto che liberato». Ammesso che questa possa essere considerata un’attenuante.

 

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