«Oggi non annuncio proprio nulla»

«Oggi non vi parlerò di nessuna nuova legge, nessun nuovo decreto, nessuna nuova riforma».

«Scusi, ma allora per quale ragione ci ha chiamati, e per giunta quasi all’alba?» chiese una giovane giornalista in prima fila. «Ci viene il sospetto che l’interminabile Consiglio dei ministri di ieri non abbia concluso nulla. Ci dica la verità, presidente». Ripetuti e insistiti cenni di assenso arrivarono dai colleghi.

«Sulla riunione di ieri vi dirò più tardi, abbiamo tutto il tempo» rispose il premier cercando di evitare una polemica che avrebbe complicato un discorso già prevedibilmente complesso. «Qui e ora vi ho chiamati per cercare di dire la verità agli italiani, che dopo i sacrifici e i lutti di questi due anni non si meritano certo di essere tenuti all’oscuro…».

«All’oscuro di che, presidente?» lo interruppe uno dei presenti.

«Che cosa ci avete nascosto? Qualche nuovo dato negativo sull’economia? Sul debito pubblico, che già è salito fin quasi al 170%? Sulla ripresa del Pil che non riesce a tornare ai livelli pre-pandemici?».

«Forse mi sono espresso male. Non c’è nessun nuovo dato segreto. C’è una verità profonda da spiegare con tutta la calma necessaria, e spero che voi mi aiuterete in questa impresa titanica. Oggi non annuncerò nessuna decisione per un semplice motivo. Ho prima il dovere di spiegare perché sono puntualmente naufragate tutte le riforme, le leggi, i progetti, le opere pubbliche approvate finora da tutti i governi che si sono succeduti. Nessuno escluso. Rispondetemi: quante volte si è deciso di semplificare gli adempimenti burocratici? Quante volte è stata decisa una corsia veloce per le opere pubbliche con i consueti sblocca-cantieri, e si è annunciato un uso meno scandalosamente inefficiente dei fondi strutturali europei? Quante volte si sono persi anni o decenni prima di ricostruire almeno parzialmente i paesi distrutti dai terremoti, e ancora più spesso non si sono neppure ricostruiti? Quante volte si sono disposti mega-progetti di sistemazione idrogeologica del territorio per poi assistere ogni anno, e non solo in autunno, a inondazioni e frane devastanti? Quante volte si è cercato di avvicinare l’offerta e la domanda di lavoro senza alcun risultato, e si è promesso di avviare una seria formazione professionale creando invece solo innumerevoli carrozzoni? Quante volte si è deciso di valutare l’operato degli amministratori pubblici, regolando in base a questa valutazione premi e penalità? Qualsiasi riforma, qualsiasi legge, qualsiasi decisione politica, qualsiasi opera, nel momento stesso in cui viene approvata, deliberata, avviata, finisce immediatamente in un ignobile pantano. Vi finisce per l’incapacità della politica, che non sa né legiferare né programmare, e dell’amministrazione, che non sa più gestire la cosa pubblica, priva com’è delle competenze necessarie. Ma vi finisce anche per l’irrompere sulla scena di un profluvio di veti, ricorsi, pareri più o meno vincolanti, minacce più o meno velate, commissioni e sottocommissioni, con il loro corredo di tavoli, task force, cabine di regia e altre amenità che fanno felici i titolisti dei vostri quotidiani e delle vostre tv. E alla fine, tutto si sfilaccia in un delirio di decreti di attuazione, regolamenti, linee guida e interpretazioni. Insomma, un’enorme tenaglia blocca la capacità decisionale della pubblica amministrazione. E così lo Stato smette di funzionare».

«Beh, ma che c’è di nuovo in questa sua analisi?» replicò qualcuno dal fondo della sala. «Lo sappiamo tutti da decenni come vanno le cose in Italia: è la burocrazia, dovreste essere voi i primi a saperlo…».

«No! Qui vi volevo. No!… non mi parlate più di burocrazia. Anzi, vi ordino: cancellate questa parola dal vocabolario. Il male di questo nostro paese è ben più profondo».

La violenta reazione del presidente colse di sorpresa l’intera platea, la quale dava invece per scontato come il problema numero uno in Italia fosse esattamente quello. E del resto, proprio dalla protesta spontanea dei cittadini comuni, sempre più vessati e umiliati dalla burocrazia, erano nate negli ultimi tempi alcune iniziative che avevano suscitato non poco scalpore.

Una di queste era portata avanti dai Citizen Angels, vere e proprie ronde cittadine in divisa, che controllavano preferibilmente gli sportelli di Inps, Agenzia delle Entrate e Poste. Vi aderiva un campionario di varia umanità con tanto tempo libero da riempire: ragazzotti ventenni che si erano ormai sfilati dalle liste di disoccupazione, quarantenni ancora in bilico tra un lavoretto precario e l’altro, ultrasessantenni che l’esigua pensione e la frustrazione per una vita vissuta non come avrebbero voluto avevano reso particolarmente rancorosi. Tutti, insomma, con un buon motivo per avercela con lo Stato, e tutti fieri adesso dei loro berretti paramilitari e soprattutto dei giubbotti di un abbagliante blu elettrico che, oltre alla sigla della loro associazione, esibivano sulla schiena uno strano disegno: un pugno immortalato nel momento in cui fracassa uno sportello pubblico, il classico sportello con il buco circolare in mezzo per il dialogo (si fa per dire) tra il cittadino e l’impiegato. I Citizen Angels si appostavano vicino alla persona che dopo la sua brava fila era finalmente arrivata alla meta e controllavano che l’impiegato non le imponesse obblighi assurdi, come marche da bollo supplementari da pagare o pratiche che avrebbe dovuto svolgere preventivamente presso altri sportelli oppure online. Pronti a reagire se, di fronte alle obiezioni del cittadino, il dipendente pubblico se ne fosse uscito con frasi del tipo «non è di mia competenza», o «noi stiamo lavorando e non abbiamo tempo da perdere». Oltre a questo, essi sorvegliavano che venisse mostrato, sempre da parte dello sportellista, un grado accettabile di educazione e di cortesia. Inutile dire che nove volte su dieci questa forma di controllo popolare finiva per sfociare in risse furibonde e relative denunce. Non c’era nulla, infatti, che il dipendente pubblico potesse fare per alleggerire il carico degli adempimenti previsti. Se non era la legge, era il regolamento a imporli. Quanto alla cortesia, merce sicuramente rara dietro quel vetro respingente, i Citizen Angels finivano spesso per censurare (passando rapidamente dalle parole alle mani) non solo i casi di evidente maleducazione, ma anche quelli in cui il dipendente pubblico non salutava, non alzava gli occhi, non sorrideva.

Al premier era stato consegnato da tempo un voluminoso dossier con tutte le imprese controproducenti di queste ronde cittadine. Problema di ordine pubblico che sarebbe stato presto superato, pensava. Sapeva che non era questo il punto, e non lo era neppure la pretesa di una generica semplificazione sburocratizzante. Quel che cercava ora di dimostrare di fronte ai giornalisti era ben altro.

«Se il problema lo riducete alla burocrazia, alla ostinata resistenza passiva di qualche dirigente ad ogni forma di facilitazione, se lo attribuite al presunto sabotaggio di una sorda casta di super-travet, allora significa che non avete capito nulla di questo nostro maledetto e benedetto paese. Quel che paralizza l’Italia è qualcosa di molto più grave e profondo. Non qualche laccio e lacciuolo che impedisce di rinnovare la vostra carta di identità o di creare il vostro Spid, per altro complicatissimo da ottenere. Non qualche procedura astrusa. Non qualche colpevole inerzia. La malattia – chiamatela pure virus – non ha un volto preciso, o ne ha così tanti che è impossibile addossare colpe specifiche. Questo virus funziona come una grande rete anonima, sia esterna sia interna all’amministrazione, che spinge ognuno di noi a fare l’esatto contrario di ciò che dovrebbe suggerirci la razionalità. Il risultato è una specie di auto-golpe. Purtroppo non è il colpo di Stato di qualche imbecille da rinchiudere per un bel po’ di tempo nelle patrie galere: è un golpe senza autore e senza volto, maturato anno dopo anno, decennio dopo decennio, che alla fine è esploso nel silenzio e nell’impotenza generale. Il risultato, però, è lo stesso. Guardatemi, guardate il mio governo, guardate anche tutti i governi che si sono succeduti: possiamo fare leggi su leggi, decreti su decreti, ma giriamo a vuoto, come criceti nella ruota di una gabbietta. Peggio: siamo anime morte, come tutti voi, imprigionate insieme nella triste villa di Calle de la Providencia».

Tra i presenti, pochi azzardarono un sorrisetto di intesa, come se avessero capito cosa fosse e dove stesse questa misteriosa Calle de la Providencia, mentre i più restarono impassibili. Alcuni provarono subito a cercarla su Google Maps. Ce n’erano un paio in Spagna e una a Città del Messico. Solo più tardi qualcuno si ricordò che era il nome, simbolicamente scelto da Buñuel, della strada che faceva da ambientazione al suo film.

«Dite agli italiani» continuò il premier «che siamo bloccati non per la resistenza di qualcuno o di qualcosa, ma perché, per un groviglio inaudito di nodi irrisolti, lo Stato ha smesso di funzionare e in molti campi non ha mai cominciato a farlo. […] Ora, se c’è una cosa che non possiamo permetterci, soprattutto adesso, è proprio uno Stato paralizzato. Ecco, ora potete comprendere finalmente il perché di Buñuel, il senso di quegli invitati costretti da una forza misteriosa a restare nella casa di chi li ha ospitati, impossibilitati a varcare il portone. Atroce mistero. Qualcuno vi muore dentro, qualcun altro impazzisce. È come se una specie di angelo sterminatore impedisse ai programmi governativi, alle leggi, alle opere pubbliche – proprio come accade ai protagonisti del film – di uscire dalla porta della politica e di diffondersi nella società, modificando comportamenti, trasformando convenienze, offrendo servizi e infrastrutture decenti. Ebbene, far funzionare lo Stato è impossibile senza guardare in faccia questo angelo sterminatore. Ma per capire il suo mistero, qualche domanda che vada un po’ più in profondità di una generica richiesta di semplificazioni dobbiamo cominciare a porcela».

 

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[Proposte di lettura] Chiesa

Andrea Riccardi

La Chiesa brucia

Crisi e futuro del cristianesimo

Oggi per la Chiesa la situazione è molto difficile. Si tratta di una delle tante crisi che il cristianesimo ha vissuto o di un definitivo declino? È un interrogativo che inquieta anche chi guarda al cristianesimo dall’esterno. Ma crisi non vuol dire necessariamente fine. Può essere un’opportunità per aprirsi al futuro, sapendo che il grande rischio è accontentarsi di sopravvivere, rimpiangendo un passato migliore. La soluzione è vivere nella crisi. La Chiesa oggi è chiamata a una condizione di lotta, questa volta non contro nemici esterni ma contro l’indifferenza e il discredito.

Da un grande storico della Chiesa e del mondo religioso, protagonista della vita pubblica italiana, l’impressionante radiografia della crisi del mondo cristiano e l’analisi del dibattito e delle diverse idee su come uscirne.

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Francesco Benigno – Vincenzo Lavenia

Peccato o crimine

La Chiesa di fronte alla pedofilia

Lo scandalo della pedofilia rappresenta una delle più gravi crisi che la Chiesa si sia trovata ad affrontare da alcuni secoli. Ma da cosa nasce un terremoto che non accenna tutt’oggi ad avere fine? Come mai la Chiesa fatica a far fronte a un fenomeno che le ha causato discredito, disaffezione e un’acuta crisi spirituale? Una ricostruzione originale e spiazzante di due grandi storici.

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Marco Politi

Francesco

La peste, la rinascita

Il racconto di un momento epocale per la Chiesa nell’analisi di uno dei vaticanisti più autorevoli e stimati.

Il 27 marzo dell’anno 2020 Jorge Mario Bergoglio si affaccia solitario sul sagrato abbandonato della basilica di San Pietro. Il vecchio pontefice avanza zoppicando. Da quasi tre settimane la Chiesa sembra aver cessato di esistere. Templi praticamente chiusi, fedeli spariti. Non si celebrano messe, non si festeggiano battesimi, niente matrimoni, niente funerali. Spiccano i camici, non le stole. Mai nella storia la Chiesa aveva disertato il dolore degli uomini. Con il suo gesto straordinario Francesco riempie questa assenza. E pensa soprattutto al dopo: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla».

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Alessandro Barbero

Le parole del papa

Da Gregorio VII a Francesco

«Le parole usate dai papi sono importanti; tanto più in quanto il loro modo di parlare non è sempre lo stesso. Il linguaggio con cui il pastore della Chiesa di Roma si rivolge all’umanità nei momenti difficili è sempre stato espressione non solo della sua personalità individuale, ma del posto che la parola della Chiesa occupava nel mondo in quella data epoca; ed è un indizio estremamente rivelatore delle diverse modalità, e della diversa autorevolezza con cui di volta in volta i papi si sono proposti come leader mondiali.
In queste pagine faremo un viaggio attraverso le parole usate dai papi nei secoli. Ovviamente la Chiesa esiste da duemila anni e nel corso di questi due millenni ha prodotto innumerevoli parole; non si tratta di renderne conto in modo esaustivo o anche solo sistematico, ma piuttosto di proporre uno dei tanti viaggi possibili, cominciando dal Medioevo per arrivare fino alla soglia della nostra epoca.»

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Il cristianesimo al tempo di papa Francesco

a cura di Andrea Riccardi

È aperta la domanda su quanto il tempo di papa Francesco inciderà nella storia di lungo periodo del cattolicesimo. Secondo i critici il suo pontificato rappresenta una parentesi. Certo è che non sarà facile ritornare al passato. Interrogarsi oggi sul presente e sul futuro del cattolicesimo vuol dire ampliare lo sguardo oltre il Vaticano, oltre l’Italia, oltre l’Europa, in una prospettiva geopolitica globale.

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Interregno: Sanità

Quanti passi avanti ha fatto la sanità rispetto a 50 anni fa, in Italia?

Nel prossimo incontro di INTERREGNO parleremo insieme a Chiara Cadeddu, Giuseppe Remuzzi e Mattia Quargnolo di un tema molto divisivo e di cui siamo tutti ormai costantemente informati: la sanità. Ma lo faremo in un modo diverso, partendo dalla prospettiva generazionale e interrogandoci su cosa è stato fatto, quali opportunità sono andate perse e cosa rimane da fare alle generazioni future.

Parleremo naturalmente della pandemia e dei vaccini e di come sono stati e sono gestiti in Italia e nel resto del mondo ma affronteremo anche, più in generale, il nostro sistema sanitario, fra privato e pubblico, per capire quanto già è stato fatto per renderlo più equo e quanto ancora va fatto per sanare le differenze di genere e quelle geografiche, per cominciare. Parleremo di cos’è la salute ‘globale’ e perché interessa gli italiani, di quali sono le sfide, prima fra tutte il clima, che devono affrontare le generazioni dei più giovani oggi, e quelle future.

Appuntamento mercoledì 14 aprile alle 19.00 sui nostri canali Facebook e Youtube.

Insieme alla giornalista Silvia Boccardi, che modererà l’incontro, avremo con noi:

Chiara Cadeddu, medico specialista in Igiene e Medicina Preventiva, attualmente ricercatore presso la Sezione di Igiene del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Ha lavorato presso l’Istituto Superiore di Sanità fino al 2020 e presso l’IRCSS IFO Regina Elena fino al 2016. È autrice di oltre 100 pubblicazioni scientifiche e oltre 100 abstract presentati a convegni.

Giuseppe Remuzzi, medico chirurgo, specializzato in ematologia e nefrologia, è Direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. È autore di più di 1440 pubblicazioni su riviste internazionali e di 16 libri, ed è editorialista del «Corriere della Sera».

Mattia Quargnolo è un medico specializzando in Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Bologna. Nel 2020 ha partecipato ad attività di Sanità Pubblica in Uganda con la Ong “Medici con l’Africa – CUAMM”. Attualmente coordina il tracciamento dei casi di Covid-19 presso l’AUSL di Bologna.

 

Cortés contro Montezuma

Nel 1519, il conquistatore Hernan Cortés sbarca sulle coste messicane e compie un gesto folle: brucia – o fa affondare – le navi con cui lui e i suoi uomini hanno attraversato con fatica l’intero Atlantico. Cortés si gioca tutto.

In che modo un’impresa disperata – poche centinaia di uomini contro un intero impero – si è trasformata in un’offensiva violentissima capace di cambiare per sempre la storia del mondo e di distruggere tradizioni e memorie antichissime?

Per conoscere la risposta, a partire da domenica 11 aprile alle ore 8:00 e fino al 30 giugno, potrete guardare su AuditoriumPlus Cortés contro Montezuma, la nuova lezione di storia dello storico Luigi Mascilli Migliorini nel ciclo ‘La presa del potere’, dal Teatro Bellini di Napoli.

La lezione, come sempre, sarà introdotta da Paolo Di Paolo dall’Auditorium di Roma, e alle ore 19 potrete collegarvi per dialogare in diretta con Paolo Di Paolo e Luigi Mascilli Migliorini sulla nostra pagina Facebook, oppure su quella dell’Auditorium, del Teatro Bellini di Napoli o di Lezioni di Storia Laterza. Potrete trovare il dialogo anche su YouTube, sul nostro canale e su quello di AuditoriumTV.

 

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

Per acquistare clicca su una qualsiasi lezione, scegli se acquistare l’intera stagione o una singola lezione, registrati e procedi con il pagamento.

Una volta arrivati sulla schermata di pagamento è sufficiente cliccare sul pulsante giallo “Check out with PayPal” in basso a sinistra, anche se non si ha un account PayPal. A quel punto, nella schermata successiva dovrete cliccare sul pulsante “Paga con carta” e vi verrà data la possibilità di inserire i dati della carta per il pagamento e si completerà l’acquisto

Gli abbonati alle Lezioni di Storia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma – stagione 2019-2020 possono contattare il botteghino della Fondazione Musica per Roma per ricevere informazioni relative ai voucher.

>>Qui tutto il programma.

Lezioni di Storia | Alla scoperta del Potere: un nuovo trailer

Barbero, Pepe, Carandini, Vanoli, Migliorini, Canfora, Banti, Samarani, Emiliani, Zanatta…

sono gli storici che ci guidano in questo viaggio attraverso i secoli e i continenti, alla scoperta del potere, da Zeus a Mao Zedong, da Agrippina ai Guelfi e i Ghibellini, da Maometto II a Nasser, da Mazzini ai giacobini, fino a Fidel Castro.

Abbiamo fatto molta strada e siamo quasi a metà delle lezioni del ciclo La Presa del Potere.

Quali nuove, antiche storie ci aspettano? Eccone alcuni lampi e uno ‘sneak peek’ delle prossime lezioni.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

Per acquistare clicca su una qualsiasi lezione, scegli se acquistare l’intera stagione o una singola lezione, registrati e procedi con il pagamento.

Una volta arrivati sulla schermata di pagamento è sufficiente cliccare sul pulsante giallo “Check out with PayPal” in basso a sinistra, anche se non si ha un account PayPal. A quel punto, nella schermata successiva dovrete cliccare sul pulsante “Paga con carta” e vi verrà data la possibilità di inserire i dati della carta per il pagamento e si completerà l’acquisto.

>> Qui tutto il programma.

 

 

«Dal buio alla luce»: modo minore e modo Maggiore

Un estratto da “La musica della luce”, di Giovanni Bietti

 

C’è un altro aspetto importante dello sguardo illuminista di Haydn, Mozart e Beethoven che vale la pena di prendere in esame a questo punto: l’idea di dar vita attraverso i suoni alla metafora più rappresentativa dei Lumi, il passaggio dal buio alla luce.

La forma-sonata può essere interpretata dall’ascoltatore come una conciliazione dei contrasti e delle  divergenze, come immagine di una società armonica ed equilibrata. L’uso di diversi stili musicali all’interno di uno stesso brano può comunicare il senso di égalité e di fraternité, la volontà di far parlare tra loro tutti gli uomini e tutte le classi sociali.

Ma per rappresentare il confronto tra il buio e la luce, tra le tenebre dell’ignoranza e dell’oppressione e la luce della conoscenza e della libertà, i tre grandi viennesi utilizzano un’altra strategia musicale, che si affianca a quelle appena menzionate e le rafforza: il contrasto tra il modo minore e il modo Maggiore, una delle caratteristiche fondamentali del sistema tonale classico.

Non è facile spiegare in modo chiaro e comprensibile, a un lettore non esperto, cosa sia la tonalità occidentale. Basterà dire che è il sistema di organizzazione dei suoni all’interno di una composizione, il modo in cui le note, gli accordi, le melodie, i temi, i motivi vengono posti in relazione tra loro. Un brano musicale del periodo qui preso in esame, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, è sempre scritto in una precisa tonalità (è in Do Maggiore, in re minore, in Fa diesis Maggiore, in si bemolle minore e così via): tale tonalità è il «centro» del pezzo, il ristretto gruppo di suoni (la scala, per usare una definizione più tecnica) intorno ai quali ruota l’intera costruzione musicale. I diversi materiali musicali possono allontanarsi dal centro o avvicinarsi, dandoci quindi all’ascolto la sensazione della maggiore tensione o del rilassamento. Invariabilmente, comunque, un brano del cosiddetto periodo classico comincia e finisce nella stessa tonalità, tornando verso il centro. Ogni singola tonalità, a sua volta, può essere declinata in due diversi «modi»: Maggiore e minore. Le note di riferimento della scala, quelle più importanti dal punto di vista strutturale, sono identiche nei due modi (per esempio la nota do, la nota fa e la nota sol sono comuni a Do Maggiore e a do minore), mentre altre note cambiano. Ed è proprio attraverso queste note cangianti che possiamo definire se la tonalità sia Maggiore o minore: in Do Maggiore si utilizza la nota mi, in do minore la nota mi bemolle. Inutile approfondire il discorso dal punto di vista tecnico, molto complesso; ciò che qui ci interessa maggiormente è infatti l’effetto sonoro ed espressivo che i due modi, Maggiore e minore, rendono all’ascolto. Studiosi e commentatori hanno costruito un ampio vocabolario di metafore per descrivere l’effetto dei due modi nel periodo classico: il modo minore viene utilizzato per esprimere atmosfere drammatiche, malinconiche, scure, il Maggiore per atmosfere trionfali, serene, luminose.

Sarebbe troppo azzardato considerare queste metafore come una regola assoluta; ma comunque quando un compositore, alla fine del Settecento, voleva rappresentare musicalmente uno stato d’animo doloroso, triste, malinconico, tendeva in genere a utilizzare il modo minore (basta citare tre Arie mozartiane: «L’ho perduta… me meschina» di Barbarina nel quarto atto delle Nozze di Figaro; «Tradito, schernito» di Ferrando nel secondo atto di Così fan tutte; e l’Aria di Pamina nel secondo atto del Flauto magico). E al contrario, uno stato d’animo gioioso (la prima Aria di Papageno nel Flauto magico), risoluto («Vedrò, mentr’io sospiro» del Conte nelle Nozze), malizioso o burlesco («Madamina, il catalogo è questo» di Leporello nel Don Giovanni) era quasi immancabilmente reso attraverso l’uso del modo Maggiore.

Non a caso ho citato esempi tratti solo dalla musica operistica. Non c’è dubbio infatti che la progressiva definizione, che si sviluppa nel corso dell’intero XVIII secolo, del carattere contrastante di modo minore e modo Maggiore avvenga prima di tutto nella musica vocale, sfruttando le specifiche emozioni, i sentimenti ben definiti espressi dal testo. Questo avviene soprattutto nell’opera, ma se ne trovano tracce evidenti anche nella musica sacra: a metà secolo, nel Credo della sua grande Messa in si minore, Bach contrappone il Crucifixus, scritto in un «doloroso» mi minore, e l’Et resurrexit, nel «trionfante» Re Maggiore. Man mano che la dicotomia tra i due modi, il loro diverso significato espressivo, si precisava, essa veniva accolta anche nelle composizioni strumentali.

Non c’era più bisogno del testo per comprendere il tono triste o malinconico di un brano in modo minore, e il carattere allegro o risoluto di una composizione in Maggiore.

L’ascoltatore di fine Settecento era quindi abituato ad associare suggestioni ben precise al modo minore e al modo Maggiore: l’apparizione improvvisa di una sezione in minore nel corso di un brano in Maggiore, per esempio, doveva senz’altro dare l’impressione di un aumento della tensione drammatica, di un oscurarsi del tessuto musicale (come se il cielo si fosse improvvisamente rannuvolato). Mentre il passaggio dal minore al Maggiore dava la sensazione opposta, era un rasserenamento, una risoluzione improvvisa delle tensioni e dei contrasti. L’accostamento del minore al buio e del Maggiore alla luce si presentava quasi spontaneamente alla mente dell’ascoltatore; e in effetti molte composizioni di questo periodo che cominciano in modo minore ma proseguono in Maggiore, con un totale rovesciamento del carattere espressivo, furono immediatamente descritte fin dalla prima apparizione come un graduale «passaggio dal buio alla luce», ossia come un’esplicita resa musicale della metafora illuminista.

La traccia audio propone due composizioni pianistiche basate sul contrasto minore/Maggiore, per far immediatamente percepire al lettore la differenza tra i due modi e la sensazione di rilassamento e di risoluzione (di luce, ancora una volta) provocata dal passaggio dall’uno all’altro. Un ottimo esempio è il movimento lento dell’ultima Sonata per pianoforte di Mozart, K. 576 in Re Maggiore. Un brano scritto in un momento davvero significativo, visto che Mozart la iscrive nel proprio catalogo nel luglio 1789: esattamente contemporanea della Rivoluzione francese, quindi. Il secondo movimento della sonata è un bellissimo Adagio in forma tripartita, ABA: una sezione iniziale, sognante e cantabile, in modo Maggiore; una sezione centrale, più contrastata e dolente, in minore; e infine la ripresa, praticamente identica, della sezione iniziale. Ma il brano si chiude con una breve Coda, che ha un ruolo fondamentale: quest’ultima parte, infatti, riprende il materiale musicale della sezione in minore ma lo trasfigura completamente, e lo ripropone in modo Maggiore.

La perturbazione improvvisa creata dall’episodio contrastante in modo minore non viene quindi semplicemente riassorbita nell’organizzazione simmetrica del brano: la tensione generata da quell’istante viene invece, letteralmente, risolta, visto che Mozart ce lo fa riascoltare in modo Maggiore nella Coda, riavvicinandola al carattere e alla tonalità della prima e terza sezione. Lo sguardo illuminista mozartiano si mostra proprio in questo senso di risoluzione dei contrasti, nell’idea che una perturbazione interna al brano riappaia alla fine trasfigurata e riconciliata con tutto ciò che la circonda.

La possibilità di leggere questo percorso musicale come una metafora, come rappresentazione di un mondo in cui anche le difficoltà e i contrasti (il «buio») si risolvono, in cui tramite l’azione dell’uomo è possibile raggiungere l’armonia (la «luce»), è fin troppo evidente.

 

Scopri il libro:

“La salute globale”, a cura di Walter Ricciardi e Stefano Vella

Nel novembre del 2020 si è tenuta a Padova la seconda edizione del Festival della salute globale progettato dagli Editori Laterza e promosso dal Comune di Padova e dall’Università degli studi della città, in collaborazione con Medici con l’Africa Cuamm, con il patrocinio della Regione Veneto, Camera di Commercio di Padova e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.

Il festival – diretto da Walter Ricciardi e Stefano Vella – ha ospitato gli interventi di alcuni tra i più prestigiosi ricercatori italiani e internazionali che hanno trattato la salute globale come fenomeno di straordinaria importanza, resa ancora più evidente dalla pandemia di Covid-19. La salute globale, a cura di Marco Simonelli e Leuconoe Grazia Sisti, raccoglie alcune tra le relazioni più significative tenute al festival: quelle di Peter Doherty, Mark Dybul, Anna Mia Ekström, Andy Haines, Richard Horton, Michael Marmot e Jeffrey Sachs.

Ne pubblichiamo un’introduzione.

Il volume è disponibile sui maggiori store online e a questo link.

 

Nel presentare il Festival della salute globale 2020, abbiamo scritto che salute globale non significa parlare solo di medicina, ma anche di distribuzione delle risorse, di rapporto tra malattie e globalizzazione, di guerre, diritti e povertà, di salute ambientale e animale, di mobilità umana. E che avevamo ideato questo Festival, diretto ai cittadini del nostro Paese, come un’opportunità di conoscenza, di riflessione e confronto della comunità internazionale sulle sfide imminenti e future della salute e della globalizzazione. Un’occasione per lavorare insieme, virologi, infettivologi, sociologi, epidemiologi, economisti, esperti di sanità pubblica; un’opportunità di dialogo e confronto tra scienziati, industria, mondo della politica e comunità civile. La devastante pandemia di COVID-19 che stiamo sperimentando ha dimostrato che i tradizionali metodi per affrontare le emergenze epidemiche non sono più sufficienti e sottolinea l’importanza di un’azione condivisa e la necessità e il dovere di essere preparati ad affrontare le sfide del nostro tempo.

Le nuove epidemie, come d’altra parte anche le grandi epidemie del passato, ci ricordano come i microrganismi «non abbiano bisogno del passaporto per viaggiare». Lo abbiamo letto nei libri di storia con le epidemie di peste, colera e vaiolo, lo abbiamo sperimentato con l’influenza spagnola, con l’AIDS e con l’Ebola, con l’epidemia di SARS, l’influenza H1N1, la minaccia del virus Zika. La veloce diffusione a livello globale dell’infezione da SARS-COV-2, con il suo carico di mortalità, ha reso ancora più evidente la necessità di uno sforzo collettivo e condiviso tra ricerca pubblica e privata per giungere allo sviluppo di un vaccino, come è stato fatto per il virus Ebola, e per lo sviluppo di farmaci antivirali in grado di modificare la storia naturale dell’infezione. Oggi più che mai dobbiamo preoccuparci dei fattori legati alla crescente mobilità umana, della capacità di virus e batteri di adattarsi, dell’impatto dei conflitti e delle crescenti disuguaglianze di accesso alla salute che aumentano la vulnerabilità dei popoli. Ora dovrebbe essere più chiaro a tutti che la salute globale è quel che stiamo sperimentando sulla nostra pelle: la forte interdipendenza della salute dell’uomo da fattori ambientali, sociali, culturali.

Nella seconda edizione del Festival abbiamo ovviamente molto parlato di COVID-19, delle sue origini, delle sue dinamiche di trasmissione, dei determinanti sociali della pandemia, della gestione ed evoluzione della stessa in Italia e nel mondo, dell’impatto nei Paesi economicamente avanzati e nei Paesi a risorse economiche limitate, ma abbiamo anche discusso di come sarà la salute globale nei prossimi dieci anni, abbiamo parlato di sostenibilità, di innovazione, di partnership pubblico-private, di comunicazione scientifica e di quell’insieme di azioni concrete, basate sulla ricerca, adottate come misure precauzionali per far fronte adeguatamente a potenziali disastri, che siano essi epidemie o improvvise calamità naturali, come accadrà sempre più di frequente a causa dei cambiamenti climatici. E sono emerse prepotentemente le interconnessioni fra il terzo Obiettivo di sviluppo sostenibile – quello relativo alla salute – e gli altri sedici, a partire dal primo, la lotta alla povertà, passando dal secondo, la lotta alla fame, al quarto, l’educazione, al quinto, la parità di genere, al sesto, l’acqua pulita, fino al sedicesimo, la promozione di società pacifiche e inclusive e all’ultimo, rafforzare i mezzi di attivazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile. Perché solo con il raggiungimento di tutti gli obiettivi insieme si può sperare di rendere la salute davvero globale. Infatti, malgrado la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Costituzione italiana indichino la salute come un diritto fondamentale, garanzia per il singolo e per la collettività, malgrado i presupposti normativi, e nonostante il progresso scientifico della biomedicina e lo sviluppo tecnologico, permangono, anzi aumentano, diseguaglianze evitabili in termini di accesso ai servizi socio-sanitari, aspettativa di vita e mortalità per malattie, molte delle quali prevenibili e curabili. Ciò si ritiene erroneamente limitato ai Paesi a risorse limitate, ma include anche i Paesi più ricchi, soprattutto in questo particolare momento storico caratterizzato da una complessa congiuntura internazionale, dal punto di vista sia economico-finanziario sia geopolitico.

Il nostro Paese possiede uno straordinario esempio di salute globale: un sistema sanitario universalistico. Mentre altri Paesi stanno privatizzando o smantellando i propri sistemi di assistenza, il nostro è basato su uno dei tanti alti princìpi della Costituzione: equità e salute come diritto. Ma, come abbiamo visto, purtroppo non è bastato, di fronte a un’emergenza sanitaria di questa portata, avere un grande sistema sanitario: occorreva proteggerlo e curarlo, cosa che chiaramente non è accaduta. Durante il Festival sono stati presentati gli strumenti per poter agire e per non sottovalutare i rischi e le vulnerabilità future, dalle pandemie influenzali all’antibiotico-resistenza, dal cambiamento climatico alle popolazioni vulnerabili e al mancato accesso alle cure: dobbiamo utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione, rendere accessibili i farmaci e i servizi sanitari di base per tutti, continuare nella ricerca di nuovi farmaci e vaccini, contrastare le disuguaglianze e lottare contro i cambiamenti climatici, rafforzare i nostri sistemi sanitari per essere pronti ad affrontare le prossime emergenze. Dobbiamo consolidare le nostre politiche economiche e sociali per far fronte alle possibili conseguenze di una futura possibile pandemia, ma è chiaro che dobbiamo potenziare la nostra consapevolezza e coscienza civica per lavorare insieme.

Questa pubblicazione, che è diretta principalmente ai nostri giovani, raccoglie alcuni significativi interventi di scienziati e ricercatori di fama mondiale che hanno messo a disposizione il loro sapere e la loro capacità di illustrare e semplificare fenomeni complessi. È un primo contributo per una riflessione e un’azione comune.

 

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“Martin Luther King: una storia americana”, con Paolo Naso

Atlanta, 4 aprile 1968, ore 18:01.

Martin Luther King viene assassinato.

La domanda non è tanto chi lo ha ucciso ma perché è stato ucciso. La risposta, forse, si può trovare riascoltando le canzoni di quel tempo.

In questo nuovo episodio del nostro podcast I Suoni della Storia, lo storico Paolo Naso racconta la storia gloriosa e l’amara fine di Martin Luther King attraverso le musiche che animarono quegli anni decisivi, e che continuano a chiederci giustizia.

Per approfondire la storia di uno dei leader più carismatici del Novecento, l’ultimo libro di Paolo Naso, Martin Luther King. Una storia americana.

I suoni della Storia è il nuovo podcast delle Lezioni di Storia Laterza, per far ascoltare al presente ciò che la musica può rivelare del passato.
Puoi seguire e ascoltare su Spreaker, Spotify e Google Podcasts i nostri storici, mentre raccontano brani capaci di riassumere in poche, indimenticabili note intere epoche.
Ascolta anche “Amazing grace: una storia americana”, un racconto di Alessandro Portelli. 

Francesco Filippi racconta “Prima gli Italiani! (sì, ma quali?)”

‘Prima gli italiani’ è uno slogan di grandissimo successo. Lo abbiamo sentito ripetuto migliaia di volte e lo troviamo in rete in ogni dove. Prendiamolo sul serio, allora: chi sono questi italiani che devono venire prima? Gli eredi dei Romani o quelli che abitano la nostra penisola? Insomma, quand’è che siamo diventati italiani? E perché?

Storico della mentalità e autore del best-seller Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Francesco Filippi ci invita riflettere sul senso e sulla storia di un aggettivo che spesso diamo per scontato – “italiano” – a partire dal suo nuovo libro, Prima gli italiani (sì, ma quali?).

 

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#CasaLaterza: Alessandro Somma dialoga con Nello Preterossi e Jan Zielonka

Alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la sovranità nazionale viene diffusamente ritenuta un ostacolo alla costruzione di un futuro di pace e prosperità. Nasce così l’Europa unita, intenzionata a coordinare l’azione dei singoli Stati per sostenere la piena occupazione e difendere la società dall’invadenza dei mercati. Ben presto, però, la promozione della concorrenza diviene il punto di riferimento per l’operato delle istituzioni europee, che finiscono per identificare nel mercato il principale strumento per redistribuire la ricchezza.

La moneta unica viene creata per presidiare questo schema, perché la sua architettura impedisce agli Stati di tutelare il lavoro e alimentare il welfare: non deve esserci spazio per allocare risorse con modalità alternative a quelle riconducibili al libero incontro di domanda e offerta di beni e servizi. Di qui il crescente impoverimento della società, alla base dei drammatici conflitti che evidenziano il tradimento delle idealità da cui era scaturito il percorso verso l’unità europea. E se l’Europa unita si mostrerà irriformabile, se cioè il sogno di una stagione di pace e prosperità avrà ceduto il passo all’incubo di un futuro di conflitti e povertà, il suo destino sarà irrimediabilmente segnato.

A partire da Quando l’Europa tradì se stessa, Alessandro Somma dialoga con Nello Preterossi e Jan Zielonka.

 

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