Lezioni di Storia | Alla scoperta del Potere: un nuovo trailer

Barbero, Pepe, Carandini, Vanoli, Migliorini, Canfora, Banti, Samarani, Emiliani, Zanatta…

sono gli storici che ci guidano in questo viaggio attraverso i secoli e i continenti, alla scoperta del potere, da Zeus a Mao Zedong, da Agrippina ai Guelfi e i Ghibellini, da Maometto II a Nasser, da Mazzini ai giacobini, fino a Fidel Castro.

Abbiamo fatto molta strada e siamo quasi a metà delle lezioni del ciclo La Presa del Potere.

Quali nuove, antiche storie ci aspettano? Eccone alcuni lampi e uno ‘sneak peek’ delle prossime lezioni.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

Acquista sulla piattaforma streaming www.auditoriumplus.com  accedendo alla sezione “Masterclass” o cliccando su “Lezioni  di Storia – La presa del potere” nell’home page dove potrai  visualizzare l’elenco delle lezioni.

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«Dal buio alla luce»: modo minore e modo Maggiore

Un estratto da “La musica della luce”, di Giovanni Bietti

 

C’è un altro aspetto importante dello sguardo illuminista di Haydn, Mozart e Beethoven che vale la pena di prendere in esame a questo punto: l’idea di dar vita attraverso i suoni alla metafora più rappresentativa dei Lumi, il passaggio dal buio alla luce.

La forma-sonata può essere interpretata dall’ascoltatore come una conciliazione dei contrasti e delle  divergenze, come immagine di una società armonica ed equilibrata. L’uso di diversi stili musicali all’interno di uno stesso brano può comunicare il senso di égalité e di fraternité, la volontà di far parlare tra loro tutti gli uomini e tutte le classi sociali.

Ma per rappresentare il confronto tra il buio e la luce, tra le tenebre dell’ignoranza e dell’oppressione e la luce della conoscenza e della libertà, i tre grandi viennesi utilizzano un’altra strategia musicale, che si affianca a quelle appena menzionate e le rafforza: il contrasto tra il modo minore e il modo Maggiore, una delle caratteristiche fondamentali del sistema tonale classico.

Non è facile spiegare in modo chiaro e comprensibile, a un lettore non esperto, cosa sia la tonalità occidentale. Basterà dire che è il sistema di organizzazione dei suoni all’interno di una composizione, il modo in cui le note, gli accordi, le melodie, i temi, i motivi vengono posti in relazione tra loro. Un brano musicale del periodo qui preso in esame, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, è sempre scritto in una precisa tonalità (è in Do Maggiore, in re minore, in Fa diesis Maggiore, in si bemolle minore e così via): tale tonalità è il «centro» del pezzo, il ristretto gruppo di suoni (la scala, per usare una definizione più tecnica) intorno ai quali ruota l’intera costruzione musicale. I diversi materiali musicali possono allontanarsi dal centro o avvicinarsi, dandoci quindi all’ascolto la sensazione della maggiore tensione o del rilassamento. Invariabilmente, comunque, un brano del cosiddetto periodo classico comincia e finisce nella stessa tonalità, tornando verso il centro. Ogni singola tonalità, a sua volta, può essere declinata in due diversi «modi»: Maggiore e minore. Le note di riferimento della scala, quelle più importanti dal punto di vista strutturale, sono identiche nei due modi (per esempio la nota do, la nota fa e la nota sol sono comuni a Do Maggiore e a do minore), mentre altre note cambiano. Ed è proprio attraverso queste note cangianti che possiamo definire se la tonalità sia Maggiore o minore: in Do Maggiore si utilizza la nota mi, in do minore la nota mi bemolle. Inutile approfondire il discorso dal punto di vista tecnico, molto complesso; ciò che qui ci interessa maggiormente è infatti l’effetto sonoro ed espressivo che i due modi, Maggiore e minore, rendono all’ascolto. Studiosi e commentatori hanno costruito un ampio vocabolario di metafore per descrivere l’effetto dei due modi nel periodo classico: il modo minore viene utilizzato per esprimere atmosfere drammatiche, malinconiche, scure, il Maggiore per atmosfere trionfali, serene, luminose.

Sarebbe troppo azzardato considerare queste metafore come una regola assoluta; ma comunque quando un compositore, alla fine del Settecento, voleva rappresentare musicalmente uno stato d’animo doloroso, triste, malinconico, tendeva in genere a utilizzare il modo minore (basta citare tre Arie mozartiane: «L’ho perduta… me meschina» di Barbarina nel quarto atto delle Nozze di Figaro; «Tradito, schernito» di Ferrando nel secondo atto di Così fan tutte; e l’Aria di Pamina nel secondo atto del Flauto magico). E al contrario, uno stato d’animo gioioso (la prima Aria di Papageno nel Flauto magico), risoluto («Vedrò, mentr’io sospiro» del Conte nelle Nozze), malizioso o burlesco («Madamina, il catalogo è questo» di Leporello nel Don Giovanni) era quasi immancabilmente reso attraverso l’uso del modo Maggiore.

Non a caso ho citato esempi tratti solo dalla musica operistica. Non c’è dubbio infatti che la progressiva definizione, che si sviluppa nel corso dell’intero XVIII secolo, del carattere contrastante di modo minore e modo Maggiore avvenga prima di tutto nella musica vocale, sfruttando le specifiche emozioni, i sentimenti ben definiti espressi dal testo. Questo avviene soprattutto nell’opera, ma se ne trovano tracce evidenti anche nella musica sacra: a metà secolo, nel Credo della sua grande Messa in si minore, Bach contrappone il Crucifixus, scritto in un «doloroso» mi minore, e l’Et resurrexit, nel «trionfante» Re Maggiore. Man mano che la dicotomia tra i due modi, il loro diverso significato espressivo, si precisava, essa veniva accolta anche nelle composizioni strumentali.

Non c’era più bisogno del testo per comprendere il tono triste o malinconico di un brano in modo minore, e il carattere allegro o risoluto di una composizione in Maggiore.

L’ascoltatore di fine Settecento era quindi abituato ad associare suggestioni ben precise al modo minore e al modo Maggiore: l’apparizione improvvisa di una sezione in minore nel corso di un brano in Maggiore, per esempio, doveva senz’altro dare l’impressione di un aumento della tensione drammatica, di un oscurarsi del tessuto musicale (come se il cielo si fosse improvvisamente rannuvolato). Mentre il passaggio dal minore al Maggiore dava la sensazione opposta, era un rasserenamento, una risoluzione improvvisa delle tensioni e dei contrasti. L’accostamento del minore al buio e del Maggiore alla luce si presentava quasi spontaneamente alla mente dell’ascoltatore; e in effetti molte composizioni di questo periodo che cominciano in modo minore ma proseguono in Maggiore, con un totale rovesciamento del carattere espressivo, furono immediatamente descritte fin dalla prima apparizione come un graduale «passaggio dal buio alla luce», ossia come un’esplicita resa musicale della metafora illuminista.

La traccia audio propone due composizioni pianistiche basate sul contrasto minore/Maggiore, per far immediatamente percepire al lettore la differenza tra i due modi e la sensazione di rilassamento e di risoluzione (di luce, ancora una volta) provocata dal passaggio dall’uno all’altro. Un ottimo esempio è il movimento lento dell’ultima Sonata per pianoforte di Mozart, K. 576 in Re Maggiore. Un brano scritto in un momento davvero significativo, visto che Mozart la iscrive nel proprio catalogo nel luglio 1789: esattamente contemporanea della Rivoluzione francese, quindi. Il secondo movimento della sonata è un bellissimo Adagio in forma tripartita, ABA: una sezione iniziale, sognante e cantabile, in modo Maggiore; una sezione centrale, più contrastata e dolente, in minore; e infine la ripresa, praticamente identica, della sezione iniziale. Ma il brano si chiude con una breve Coda, che ha un ruolo fondamentale: quest’ultima parte, infatti, riprende il materiale musicale della sezione in minore ma lo trasfigura completamente, e lo ripropone in modo Maggiore.

La perturbazione improvvisa creata dall’episodio contrastante in modo minore non viene quindi semplicemente riassorbita nell’organizzazione simmetrica del brano: la tensione generata da quell’istante viene invece, letteralmente, risolta, visto che Mozart ce lo fa riascoltare in modo Maggiore nella Coda, riavvicinandola al carattere e alla tonalità della prima e terza sezione. Lo sguardo illuminista mozartiano si mostra proprio in questo senso di risoluzione dei contrasti, nell’idea che una perturbazione interna al brano riappaia alla fine trasfigurata e riconciliata con tutto ciò che la circonda.

La possibilità di leggere questo percorso musicale come una metafora, come rappresentazione di un mondo in cui anche le difficoltà e i contrasti (il «buio») si risolvono, in cui tramite l’azione dell’uomo è possibile raggiungere l’armonia (la «luce»), è fin troppo evidente.

 

Scopri il libro:

“La salute globale”, a cura di Walter Ricciardi e Stefano Vella

Nel novembre del 2020 si è tenuta a Padova la seconda edizione del Festival della salute globale progettato dagli Editori Laterza e promosso dal Comune di Padova e dall’Università degli studi della città, in collaborazione con Medici con l’Africa Cuamm, con il patrocinio della Regione Veneto, Camera di Commercio di Padova e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.

Il festival – diretto da Walter Ricciardi e Stefano Vella – ha ospitato gli interventi di alcuni tra i più prestigiosi ricercatori italiani e internazionali che hanno trattato la salute globale come fenomeno di straordinaria importanza, resa ancora più evidente dalla pandemia di Covid-19. La salute globale, a cura di Marco Simonelli e Leuconoe Grazia Sisti, raccoglie alcune tra le relazioni più significative tenute al festival: quelle di Peter Doherty, Mark Dybul, Anna Mia Ekström, Andy Haines, Richard Horton, Michael Marmot e Jeffrey Sachs.

Ne pubblichiamo un’introduzione.

Il volume è disponibile sui maggiori store online e a questo link.

 

Nel presentare il Festival della salute globale 2020, abbiamo scritto che salute globale non significa parlare solo di medicina, ma anche di distribuzione delle risorse, di rapporto tra malattie e globalizzazione, di guerre, diritti e povertà, di salute ambientale e animale, di mobilità umana. E che avevamo ideato questo Festival, diretto ai cittadini del nostro Paese, come un’opportunità di conoscenza, di riflessione e confronto della comunità internazionale sulle sfide imminenti e future della salute e della globalizzazione. Un’occasione per lavorare insieme, virologi, infettivologi, sociologi, epidemiologi, economisti, esperti di sanità pubblica; un’opportunità di dialogo e confronto tra scienziati, industria, mondo della politica e comunità civile. La devastante pandemia di COVID-19 che stiamo sperimentando ha dimostrato che i tradizionali metodi per affrontare le emergenze epidemiche non sono più sufficienti e sottolinea l’importanza di un’azione condivisa e la necessità e il dovere di essere preparati ad affrontare le sfide del nostro tempo.

Le nuove epidemie, come d’altra parte anche le grandi epidemie del passato, ci ricordano come i microrganismi «non abbiano bisogno del passaporto per viaggiare». Lo abbiamo letto nei libri di storia con le epidemie di peste, colera e vaiolo, lo abbiamo sperimentato con l’influenza spagnola, con l’AIDS e con l’Ebola, con l’epidemia di SARS, l’influenza H1N1, la minaccia del virus Zika. La veloce diffusione a livello globale dell’infezione da SARS-COV-2, con il suo carico di mortalità, ha reso ancora più evidente la necessità di uno sforzo collettivo e condiviso tra ricerca pubblica e privata per giungere allo sviluppo di un vaccino, come è stato fatto per il virus Ebola, e per lo sviluppo di farmaci antivirali in grado di modificare la storia naturale dell’infezione. Oggi più che mai dobbiamo preoccuparci dei fattori legati alla crescente mobilità umana, della capacità di virus e batteri di adattarsi, dell’impatto dei conflitti e delle crescenti disuguaglianze di accesso alla salute che aumentano la vulnerabilità dei popoli. Ora dovrebbe essere più chiaro a tutti che la salute globale è quel che stiamo sperimentando sulla nostra pelle: la forte interdipendenza della salute dell’uomo da fattori ambientali, sociali, culturali.

Nella seconda edizione del Festival abbiamo ovviamente molto parlato di COVID-19, delle sue origini, delle sue dinamiche di trasmissione, dei determinanti sociali della pandemia, della gestione ed evoluzione della stessa in Italia e nel mondo, dell’impatto nei Paesi economicamente avanzati e nei Paesi a risorse economiche limitate, ma abbiamo anche discusso di come sarà la salute globale nei prossimi dieci anni, abbiamo parlato di sostenibilità, di innovazione, di partnership pubblico-private, di comunicazione scientifica e di quell’insieme di azioni concrete, basate sulla ricerca, adottate come misure precauzionali per far fronte adeguatamente a potenziali disastri, che siano essi epidemie o improvvise calamità naturali, come accadrà sempre più di frequente a causa dei cambiamenti climatici. E sono emerse prepotentemente le interconnessioni fra il terzo Obiettivo di sviluppo sostenibile – quello relativo alla salute – e gli altri sedici, a partire dal primo, la lotta alla povertà, passando dal secondo, la lotta alla fame, al quarto, l’educazione, al quinto, la parità di genere, al sesto, l’acqua pulita, fino al sedicesimo, la promozione di società pacifiche e inclusive e all’ultimo, rafforzare i mezzi di attivazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile. Perché solo con il raggiungimento di tutti gli obiettivi insieme si può sperare di rendere la salute davvero globale. Infatti, malgrado la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Costituzione italiana indichino la salute come un diritto fondamentale, garanzia per il singolo e per la collettività, malgrado i presupposti normativi, e nonostante il progresso scientifico della biomedicina e lo sviluppo tecnologico, permangono, anzi aumentano, diseguaglianze evitabili in termini di accesso ai servizi socio-sanitari, aspettativa di vita e mortalità per malattie, molte delle quali prevenibili e curabili. Ciò si ritiene erroneamente limitato ai Paesi a risorse limitate, ma include anche i Paesi più ricchi, soprattutto in questo particolare momento storico caratterizzato da una complessa congiuntura internazionale, dal punto di vista sia economico-finanziario sia geopolitico.

Il nostro Paese possiede uno straordinario esempio di salute globale: un sistema sanitario universalistico. Mentre altri Paesi stanno privatizzando o smantellando i propri sistemi di assistenza, il nostro è basato su uno dei tanti alti princìpi della Costituzione: equità e salute come diritto. Ma, come abbiamo visto, purtroppo non è bastato, di fronte a un’emergenza sanitaria di questa portata, avere un grande sistema sanitario: occorreva proteggerlo e curarlo, cosa che chiaramente non è accaduta. Durante il Festival sono stati presentati gli strumenti per poter agire e per non sottovalutare i rischi e le vulnerabilità future, dalle pandemie influenzali all’antibiotico-resistenza, dal cambiamento climatico alle popolazioni vulnerabili e al mancato accesso alle cure: dobbiamo utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione, rendere accessibili i farmaci e i servizi sanitari di base per tutti, continuare nella ricerca di nuovi farmaci e vaccini, contrastare le disuguaglianze e lottare contro i cambiamenti climatici, rafforzare i nostri sistemi sanitari per essere pronti ad affrontare le prossime emergenze. Dobbiamo consolidare le nostre politiche economiche e sociali per far fronte alle possibili conseguenze di una futura possibile pandemia, ma è chiaro che dobbiamo potenziare la nostra consapevolezza e coscienza civica per lavorare insieme.

Questa pubblicazione, che è diretta principalmente ai nostri giovani, raccoglie alcuni significativi interventi di scienziati e ricercatori di fama mondiale che hanno messo a disposizione il loro sapere e la loro capacità di illustrare e semplificare fenomeni complessi. È un primo contributo per una riflessione e un’azione comune.

 

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“Martin Luther King: una storia americana”, con Paolo Naso

Atlanta, 4 aprile 1968, ore 18:01.

Martin Luther King viene assassinato.

La domanda non è tanto chi lo ha ucciso ma perché è stato ucciso. La risposta, forse, si può trovare riascoltando le canzoni di quel tempo.

In questo nuovo episodio del nostro podcast I Suoni della Storia, lo storico Paolo Naso racconta la storia gloriosa e l’amara fine di Martin Luther King attraverso le musiche che animarono quegli anni decisivi, e che continuano a chiederci giustizia.

Per approfondire la storia di uno dei leader più carismatici del Novecento, l’ultimo libro di Paolo Naso, Martin Luther King. Una storia americana.

I suoni della Storia è il nuovo podcast delle Lezioni di Storia Laterza, per far ascoltare al presente ciò che la musica può rivelare del passato.
Puoi seguire e ascoltare su Spreaker, Spotify e Google Podcasts i nostri storici, mentre raccontano brani capaci di riassumere in poche, indimenticabili note intere epoche.
Ascolta anche “Amazing grace: una storia americana”, un racconto di Alessandro Portelli. 

Francesco Filippi racconta “Prima gli Italiani! (sì, ma quali?)”

‘Prima gli italiani’ è uno slogan di grandissimo successo. Lo abbiamo sentito ripetuto migliaia di volte e lo troviamo in rete in ogni dove. Prendiamolo sul serio, allora: chi sono questi italiani che devono venire prima? Gli eredi dei Romani o quelli che abitano la nostra penisola? Insomma, quand’è che siamo diventati italiani? E perché?

Storico della mentalità e autore del best-seller Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Francesco Filippi ci invita riflettere sul senso e sulla storia di un aggettivo che spesso diamo per scontato – “italiano” – a partire dal suo nuovo libro, Prima gli italiani (sì, ma quali?).

 

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#CasaLaterza: Alessandro Somma dialoga con Nello Preterossi e Jan Zielonka

Alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la sovranità nazionale viene diffusamente ritenuta un ostacolo alla costruzione di un futuro di pace e prosperità. Nasce così l’Europa unita, intenzionata a coordinare l’azione dei singoli Stati per sostenere la piena occupazione e difendere la società dall’invadenza dei mercati. Ben presto, però, la promozione della concorrenza diviene il punto di riferimento per l’operato delle istituzioni europee, che finiscono per identificare nel mercato il principale strumento per redistribuire la ricchezza.

La moneta unica viene creata per presidiare questo schema, perché la sua architettura impedisce agli Stati di tutelare il lavoro e alimentare il welfare: non deve esserci spazio per allocare risorse con modalità alternative a quelle riconducibili al libero incontro di domanda e offerta di beni e servizi. Di qui il crescente impoverimento della società, alla base dei drammatici conflitti che evidenziano il tradimento delle idealità da cui era scaturito il percorso verso l’unità europea. E se l’Europa unita si mostrerà irriformabile, se cioè il sogno di una stagione di pace e prosperità avrà ceduto il passo all’incubo di un futuro di conflitti e povertà, il suo destino sarà irrimediabilmente segnato.

A partire da Quando l’Europa tradì se stessa, Alessandro Somma dialoga con Nello Preterossi e Jan Zielonka.

 

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#CasaLaterza: Simona Troilo dialoga con Giusto Traina

Tra Ottocento e Novecento molti paesi europei si lanciarono in grandi campagne archeologiche nei paesi del Mediterraneo, alimentando le collezioni di prestigiosissimi musei a Londra, Parigi e Berlino. Tali operazioni politiche e culturali servivano a giustificare il proprio espansionismo coloniale attraverso l’appropriazione e l’uso simbolico dei materiali della storia. Anche in Italia l’archeologia ha svolto un ruolo di primo piano, e mai prima esplorato, nella costruzione di un’alterità barbara, inferiore e subalterna, incapace di aver cura del passato.

A partire dal suo Pietre d’oltremare, Simona Troilo, professoressa di Storia Contemporanea presso l’Università dell’Aquila, dialoga con Giusto Traina, professore di Storia Romana presso la Sorbona.

 

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Il potere delle donne

Nel ciclo delle Lezioni di Storia “La presa del potere”, la domenica di Pasqua si terrà un evento speciale, dedicato alle donne.

Con l’eccezione di Agrippina, che seppe esercitare il potere attraverso gli uomini, i personaggi storici protagonisti del ciclo, dal mito fino agli anni più recenti, sono uomini: da Zeus a Maometto II, da Cortés e Montezuma a Robespierre, da Garibaldi e Mazzini a Mao, da Nasser a Fidel Castro.

Non è un caso: il potere – almeno quello politico e di governo – è stato per secoli e rimane in buona parte ancora oggi in mano agli uomini. O forse no? Forse, anche guardando alla storia, scopriremo che ci sono state varie donne che hanno preso il potere, in modo ufficiale o talvolta dietro le quinte. Il XXI si annuncia poi come il secolo della presa del potere delle donne, anche se molto rimane da fare in questo senso.

La domanda sarà al centro di un incontro sul web che si svolgerà domenica 4 aprile alle ore 18.00 nella sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma.

Protagoniste:
Eva Cantarella, giurista e storica dell’antichità che alla condizione femminile in Grecia e a Roma ha dedicato buona parte della sua ricerca e dei suoi testi, tra cui Gli inganni di Pandora. L’origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica.
Alessandra Sardoni, giornalista de La7, autrice del volume Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza.
Jennifer Guerra, giornalista, autrice del libro Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà.

Stimolate dalle domande dello scrittore Paolo Di Paolo parleranno del multiforme rapporto delle donne con il potere, ieri e oggi: il potere esercitato sugli uomini attraverso la seduzione, il potere degli uomini sulle donne, dalle deprivazioni nella Grecia antica ai diritti faticosamente conquistati nella nostra epoca, salvo il permanere di forti discriminazioni, come testimoniato dalle recenti vicende nei partiti politici italiani. Fino all’esercizio diretto del potere da parte delle donne, dal mito delle Amazzoni a Margaret Thatcher, da Angela Merkel a Ursula von der Leyen… Il governo finlandese, a prevalenza femminile, resterà una eccezione o sarà il modello di governo del futuro? Si parlerà anche del ruolo dei media, delle nuove opportunità offerte dai social, ma anche dei rischi.

Questi i temi che verranno discussi domenica 4 aprile alle ore 18 sulle pagine Facebook e YouTube degli Editori Laterza e dell’Auditorium Parco della Musica. L’incontro sarà trasmesso anche sui profili Facebook dei teatri coinvolti.

Il prossimo appuntamento con le Lezioni di storia si terrà come da programma: domenica 11 aprile con Luigi Mascilli Migliorini dal teatro Bellini di Napoli su “Cortés contro Montezuma”.

Qui tutto il programma.

Alberto Mario Banti racconta Game of Thrones

Analizzare le serie e i film di successo è fondamentale per capire la struttura delle storie che ogni giorno consumiamo e i loro effetti politici, come ci spiega Alberto Mario Banti, storico della cultura di massa contemporanea, anche nel suo ultimo libro La democrazia dei follower. Neoliberismo e cultura di massa.

In questo video, che inaugura #cinestoria, la nuova videorubrica della pagina Facebook delle Lezioni di Storia Laterza, Banti ci racconta perché Game of Thrones sfugge agli stereotipi e alle regole narrative del mainstream e come è diventato un fan sfegatato di questa serie.

Il Trono di Spade: per chi ha visto questa celebre serie e se ne è appassionato, questo nome da solo è capace di evocare emozioni e ricordi completamente contrastanti; per chi non l’ha fatto, attenzione agli spoiler!

 

Un nuovo approdo

“Carissima mamma, come vede, siamo in terra africana, giunti ieri dopo tre giorni di buon viaggio di mare. Intanto la salute è ottima, tanto per me come per Gaetano, il quale non ha nulla da invidiare in fatto di nerezza a questi arabi beduini.”

È una donna, Emilia De Sanctis Rosmini, a comunicare qui alla suocera lo sbarco a Bengasi della Missione cretese il 5 luglio 1910, e sono le sue prime osservazioni sul contesto d’approdo a segnare il cambio di passo e di scenario dell’archeologia italiana d’oltremare. Arrivata qualche mese prima a Creta al seguito del marito, Emilia aveva sperimentato più degli altri la solitudine e la frugalità della vita sull’isola e si preparava ora ad una nuova avventura confidando nell’esistenza di «un Dio per gli archeologi». Su di lui forse contavano anche gli uomini che formavano questa prima spedizione, condotta da Halbherr con l’idea di consolidare la presenza italiana nel Mediterraneo. Al capomissione poteva essere di difetto l’età, 53 anni, ma l’impresa «a base di carabine» che si accingeva ad avviare era destinata ad altri, a quei colleghi giovani a cui era necessario aprire la strada. Solo De Sanctis in realtà accettò di avventurarsi nel tour finanziato dal Banco di Roma che portò la missione da Tocra a Derna e poi da Bengasi a Tripoli, attraverso territori ricchi di rovine.

Altri rimasero a Creta o in Italia, spaventati dall’idea di inoltrarsi in regioni prive di stabilità e interessati piuttosto a sviluppare la propria carriera di accademici o funzionari del settore delle antichità. Di lì a poco però, l’archeologo Salvatore Aurigemma e il berberista Francesco Beguinot si risolsero a partire, prendendo parte ad una seconda esplorazione compiuta in due fasi nel 1911 e riportando un’esaltante immagine del territorio. L’entusiasmo con cui i due scrivevano a Halbherr soprattutto della Cirenaica derivava dalla scoperta di un vero e proprio giacimento di reperti, di una «miniera ricchissima e intatta» della cui natura in pochi erano riusciti ad avere in passato piena consapevolezza. La loro euforia svelava anche l’importanza del passaggio di mano tra «vecchi» e «nuovi giovani» tradottosi nell’ampliamento e nel ricambio di quello che Halbherr chiamava a Creta lo «stato maggiore del nostro piccolo esercito di esploratori». Nuove figure si lanciavano ora in imprese che i cambiamenti politici dell’area rendevano per la prima volta possibili. Questi ultimi si avveravano nel segno della tensione, della spinta condivisa da vari paesi ad approfittare della debolezza dell’impero ottomano, forzando la mano nelle relazioni internazionali in vista di futuri assetti di potere. In questo contesto, l’archeologia d’oltremare godette di un nuovo sostegno espresso innanzitutto dal governo, pronto a sostenerne le esplorazioni all’insegna di una segretezza e di una riservatezza riflesso di ambiziose mete politiche; quindi dalla stampa, promotrice di un nuovo interesse per la disciplina, tradottosi nel rafforzamento dell’immagine eroica messa già a punto per Creta.

Quotidiani e riviste riservarono ampio spazio non solo alla modalità e ai risultati delle esplorazioni compiute dalla Missione lungo la fascia costiera della Libia, ma anche al ruolo fondamentale degli studiosi, capaci di far riemergere i fili di un passato tutto ancora da magnificare. Sulle pagine del «Corriere della Sera» come dell’«Illustrazione italiana», del «Giornale d’Italia» come della «Tribuna», Halbherr e i «suoi» giovani vennero ritratti come arditi pionieri, pronti a sfidare il pericolo per portare avanti un’opera di civilizzazione da tutti condivisa.

Quest’ultima venne descritta come attesa e desiderata o, al contrario, rifiutata e ostacolata da una popolazione locale alternativamente pronta a prodigarsi in «infinite e commoventi manifestazioni di simpatia» o, all’opposto, a boicottare e ad attentare all’incolumità degli studiosi. In ogni caso, gli «austeri sacerdoti della scienza» approdati in Libia stavano lì a dimostrare il progresso degli studi archeologici italiani e la loro funzione di apripista in un piano di conquista del territorio a cui nessun ostacolo doveva frapporsi. Neppure quelli rappresentati dagli interessi delle altre scuole archeologiche, spinte ad approfittare della debolezza dell’impero per accaparrarsi nuovi permessi di scavo. Le tensioni politiche si riversarono allora sul terreno della ricerca scientifica, dove la «gara pacifica tra le nazioni» venne rapidamente rimpiazzata dallo scontro aperto per il controllo di eventuali, future aree d’indagine.

Che il clima stesse degenerando anche nel campo delle esplorazioni archeologiche fu chiaro già nelle prime settimane trascorse in suolo libico dalla Missione. L’ostilità o la semplice freddezza con cui il direttore e i suoi vennero accolti lungo il tragitto erano infatti poca cosa rispetto alla tensione vissuta con i veri rivali sul campo, i colleghi dell’American Archaeological Institute indaffarati ad ottenere i permessi di scavo per il sito più ambito del territorio: Cirene. Lontani i tempi in cui avevano unito le forze per esplorare Creta e pubblicare i risultati delle ricerche sull’isola, italiani e statunitensi si fronteggiavano ora a colpi di accuse. Per i primi, gli Usa costituivano una «seria minaccia» non solo per la futura attività di scavo ma «per il nostro avvenire politico in questo paese». Ragione per cui Halbherr ribadiva «il dovere di impedire in tutti i modi» che l’attività americana si avviasse nel territorio conteso. In questo, il capomissione venne spalleggiato dall’ambasciatore italiano Edmondo Mayor, il quale fu particolarmente attivo nello screditare gli statunitensi presso le autorità ottomane, ricordando loro le centinaia di reperti prelevati dai territori dell’impero e allestiti nei musei d’oltreoceano. «Ognuno di essi – scriveva –, sotto lo scienziato, cel[a], e male, il saccheggiatore»: motivo per cui era doveroso escluderli dalle indagini da aprirsi nella regione.

Con un crescendo che esplose con il misterioso omicidio dell’archeologo Herbert Fletcher De Cou, di cui gli italiani vennero accusati di essere i mandanti, due scuole scientifiche troncavano i propri rapporti divenendo l’una dichiaratamente ostile all’altra: a ridosso dello scoppio della guerra, per Halbherr la missione statunitense non era altro che «una missione nemica» da scacciare dal paese, mentre per Richard Norton, suo direttore, quella italiana era un insieme di banditi, pronti a portare in Libia «the lurid civilization of the Neapolitan Camorra and the hospitable brigantage of Sicily».

Il clima di tensione respirato e alimentato dagli archeologi ruppe il ‘patto di cortesia’ tra loro esistente fino a qualche anno prima. L’ambizione di potere trascinò con sé le ragioni della scienza, disponibile a farsi promotrice della spinta al controllo di nuovi territori e, di conseguenza, del loro passato per larga parte oscuro. Come chiariva Halbherr nella sua corrispondenza con De Sanctis nei convulsi mesi a cavallo tra 1910 e 1911, attivarsi, ognuno con le proprie competenze, per l’affermazione nazionale in Libia rappresentava un dovere morale, un obbligo, un segno estremo di patriottismo a cui non si doveva né poteva rinunciare. «La Missione archeologica – scriveva da Derna il 24 maggio 1911 – non deve essere soffocata: essa deve mantenersi, radicarsi in mezzo alle difficoltà, formare il perno di quello che sarà, se la regione diverrà nostra, l’Istituto italiano per l’esplorazione del settore centrale dell’Africa del Nord».

L’archeologia faceva propria la spinta colonialista di un paese pronto ad approfittare dei mutamenti in corso nel Mediterraneo.

Al tempo stesso, le forze al governo coglievano il ruolo della disciplina nel sancire la presenza italiana nell’area, impiegandola come strumento di forza per «penetrare», ormai non più pacificamente, all’interno del paese. In questo senso andò l’invito a Halbherr a subordinare «il punto di vista scientifico a quello politico», predisponendo subito un piano di scavi adeguato a chiarire le intenzioni italiane alle autorità locali e, più in generale, agli attori internazionali. I tentennamenti e i vagheggiamenti che avevano a lungo compresso l’attività cretese lasciavano ora il posto alla «furia» del console italiano, che chiedeva di abbandonare ogni indugio e «scavare subito e all’impazzata».

Se anche Halbherr avesse voluto, non sarebbe stato comunque possibile farlo in un contesto in cui i dissidi esplodevano e la guerra si preannunciava come loro sbocco finale. Le rovine rimasero per il momento inaccessibili agli studiosi che dovettero attendere a lungo prima di «porre la zappa sul terreno»: nel frattempo l’archeologia divenne un terreno immaginifico animato da attori il più delle volte estranei alla disciplina, in grado però di carpirne il risvolto evocativo e di piegarlo alla retorica della conquista.

A ridosso della guerra, quest’ultima dominava il discorso pubblico italiano che indicava nel conflitto lo strumento per resuscitare l’economia nazionale, risolvere l’«eccedenza» demografica, restituire dignità alla nazione intaccata dalle precedenti disavventure coloniali. Con la guerra, l’Italia sarebbe rinata non solo dal punto di vista economico ma anche morale, grazie alla sconfitta del grigiume e della miopia di una classe politica inetta e per nulla audace, incapace di vedere la strada e di guidare le sorti future del paese. Cavalcando questi temi, enfatizzando paure ed emozioni ad essi connesse, una minoranza di individui, gruppi e sodalizi riuscì in breve a guadagnare consenso, prospettando una palingenesi in grado di ridefinire la stessa italianità, radicata nel tempo, compressa nel presente, desiderosa di tornare a splendere per mezzo di una nuova rinascita.

Quell’italianità trovava nella Roma antica la propria origine, la Roma conquistatrice di terre e di popoli che ora veniva rispolverata nelle sue vicende e nelle sue immagini offrendo ad artisti, intellettuali, giornalisti e poeti l’occasione di esercitare la propria penna e il proprio talento. Da Gabriele D’Annunzio a Giovanni Pascoli, passando per una miriade di altre voci, il mito dell’Urbe venne rimodulato in chiave moderna e piegato alle esigenze propagandistiche di una narrazione che ancorava l’Italia al suo glorioso passato, indicando nella Libia il paese in cui tornare a far risplendere l’impero.

[…] La guerra e la propaganda trasformarono il territorio libico in uno spazio di racconto e di memoria, in un testo disseminato di segni che davano ai novelli legionari la possibilità di autoriconoscersi in un passato comune; a quanti invece assistevano alla guerra da casa, l’opportunità di comprendere e percepire emotivamente l’eredità racchiusa nel territorio invaso. In questa direzione risultò assai efficace la rappresentazione anche visuale di paesaggi disseminati di rovine, isolate nella loro magnificenza e proiettate su uno scenario di abbandono che ne dimostrava ancora di più la straordinaria grandezza. Questa sorta di poeticizzazione del territorio stabilì una specifica relazione simbolica tra il luogo e la comunità che ne reclamava il possesso, finendo con il delineare una geografia del potere attraverso cui un nuovo campo di senso rendeva comprensibile il territorio di cui l’Italia si candidava «di nuovo» a guidare lo sviluppo.

Grazie a questo processo di narrativizzazione, nel giro di poco tempo l’archeologia divenne uno spazio discorsivo catalizzatore di temi, motivi e visioni connessi alla ridefinizione dell’identità nazional-imperiale di un paese proiettato verso orizzonti politici nuovi.

 

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