Un nuovo approdo

“Carissima mamma, come vede, siamo in terra africana, giunti ieri dopo tre giorni di buon viaggio di mare. Intanto la salute è ottima, tanto per me come per Gaetano, il quale non ha nulla da invidiare in fatto di nerezza a questi arabi beduini.”

È una donna, Emilia De Sanctis Rosmini, a comunicare qui alla suocera lo sbarco a Bengasi della Missione cretese il 5 luglio 1910, e sono le sue prime osservazioni sul contesto d’approdo a segnare il cambio di passo e di scenario dell’archeologia italiana d’oltremare. Arrivata qualche mese prima a Creta al seguito del marito, Emilia aveva sperimentato più degli altri la solitudine e la frugalità della vita sull’isola e si preparava ora ad una nuova avventura confidando nell’esistenza di «un Dio per gli archeologi». Su di lui forse contavano anche gli uomini che formavano questa prima spedizione, condotta da Halbherr con l’idea di consolidare la presenza italiana nel Mediterraneo. Al capomissione poteva essere di difetto l’età, 53 anni, ma l’impresa «a base di carabine» che si accingeva ad avviare era destinata ad altri, a quei colleghi giovani a cui era necessario aprire la strada. Solo De Sanctis in realtà accettò di avventurarsi nel tour finanziato dal Banco di Roma che portò la missione da Tocra a Derna e poi da Bengasi a Tripoli, attraverso territori ricchi di rovine.

Altri rimasero a Creta o in Italia, spaventati dall’idea di inoltrarsi in regioni prive di stabilità e interessati piuttosto a sviluppare la propria carriera di accademici o funzionari del settore delle antichità. Di lì a poco però, l’archeologo Salvatore Aurigemma e il berberista Francesco Beguinot si risolsero a partire, prendendo parte ad una seconda esplorazione compiuta in due fasi nel 1911 e riportando un’esaltante immagine del territorio. L’entusiasmo con cui i due scrivevano a Halbherr soprattutto della Cirenaica derivava dalla scoperta di un vero e proprio giacimento di reperti, di una «miniera ricchissima e intatta» della cui natura in pochi erano riusciti ad avere in passato piena consapevolezza. La loro euforia svelava anche l’importanza del passaggio di mano tra «vecchi» e «nuovi giovani» tradottosi nell’ampliamento e nel ricambio di quello che Halbherr chiamava a Creta lo «stato maggiore del nostro piccolo esercito di esploratori». Nuove figure si lanciavano ora in imprese che i cambiamenti politici dell’area rendevano per la prima volta possibili. Questi ultimi si avveravano nel segno della tensione, della spinta condivisa da vari paesi ad approfittare della debolezza dell’impero ottomano, forzando la mano nelle relazioni internazionali in vista di futuri assetti di potere. In questo contesto, l’archeologia d’oltremare godette di un nuovo sostegno espresso innanzitutto dal governo, pronto a sostenerne le esplorazioni all’insegna di una segretezza e di una riservatezza riflesso di ambiziose mete politiche; quindi dalla stampa, promotrice di un nuovo interesse per la disciplina, tradottosi nel rafforzamento dell’immagine eroica messa già a punto per Creta.

Quotidiani e riviste riservarono ampio spazio non solo alla modalità e ai risultati delle esplorazioni compiute dalla Missione lungo la fascia costiera della Libia, ma anche al ruolo fondamentale degli studiosi, capaci di far riemergere i fili di un passato tutto ancora da magnificare. Sulle pagine del «Corriere della Sera» come dell’«Illustrazione italiana», del «Giornale d’Italia» come della «Tribuna», Halbherr e i «suoi» giovani vennero ritratti come arditi pionieri, pronti a sfidare il pericolo per portare avanti un’opera di civilizzazione da tutti condivisa.

Quest’ultima venne descritta come attesa e desiderata o, al contrario, rifiutata e ostacolata da una popolazione locale alternativamente pronta a prodigarsi in «infinite e commoventi manifestazioni di simpatia» o, all’opposto, a boicottare e ad attentare all’incolumità degli studiosi. In ogni caso, gli «austeri sacerdoti della scienza» approdati in Libia stavano lì a dimostrare il progresso degli studi archeologici italiani e la loro funzione di apripista in un piano di conquista del territorio a cui nessun ostacolo doveva frapporsi. Neppure quelli rappresentati dagli interessi delle altre scuole archeologiche, spinte ad approfittare della debolezza dell’impero per accaparrarsi nuovi permessi di scavo. Le tensioni politiche si riversarono allora sul terreno della ricerca scientifica, dove la «gara pacifica tra le nazioni» venne rapidamente rimpiazzata dallo scontro aperto per il controllo di eventuali, future aree d’indagine.

Che il clima stesse degenerando anche nel campo delle esplorazioni archeologiche fu chiaro già nelle prime settimane trascorse in suolo libico dalla Missione. L’ostilità o la semplice freddezza con cui il direttore e i suoi vennero accolti lungo il tragitto erano infatti poca cosa rispetto alla tensione vissuta con i veri rivali sul campo, i colleghi dell’American Archaeological Institute indaffarati ad ottenere i permessi di scavo per il sito più ambito del territorio: Cirene. Lontani i tempi in cui avevano unito le forze per esplorare Creta e pubblicare i risultati delle ricerche sull’isola, italiani e statunitensi si fronteggiavano ora a colpi di accuse. Per i primi, gli Usa costituivano una «seria minaccia» non solo per la futura attività di scavo ma «per il nostro avvenire politico in questo paese». Ragione per cui Halbherr ribadiva «il dovere di impedire in tutti i modi» che l’attività americana si avviasse nel territorio conteso. In questo, il capomissione venne spalleggiato dall’ambasciatore italiano Edmondo Mayor, il quale fu particolarmente attivo nello screditare gli statunitensi presso le autorità ottomane, ricordando loro le centinaia di reperti prelevati dai territori dell’impero e allestiti nei musei d’oltreoceano. «Ognuno di essi – scriveva –, sotto lo scienziato, cel[a], e male, il saccheggiatore»: motivo per cui era doveroso escluderli dalle indagini da aprirsi nella regione.

Con un crescendo che esplose con il misterioso omicidio dell’archeologo Herbert Fletcher De Cou, di cui gli italiani vennero accusati di essere i mandanti, due scuole scientifiche troncavano i propri rapporti divenendo l’una dichiaratamente ostile all’altra: a ridosso dello scoppio della guerra, per Halbherr la missione statunitense non era altro che «una missione nemica» da scacciare dal paese, mentre per Richard Norton, suo direttore, quella italiana era un insieme di banditi, pronti a portare in Libia «the lurid civilization of the Neapolitan Camorra and the hospitable brigantage of Sicily».

Il clima di tensione respirato e alimentato dagli archeologi ruppe il ‘patto di cortesia’ tra loro esistente fino a qualche anno prima. L’ambizione di potere trascinò con sé le ragioni della scienza, disponibile a farsi promotrice della spinta al controllo di nuovi territori e, di conseguenza, del loro passato per larga parte oscuro. Come chiariva Halbherr nella sua corrispondenza con De Sanctis nei convulsi mesi a cavallo tra 1910 e 1911, attivarsi, ognuno con le proprie competenze, per l’affermazione nazionale in Libia rappresentava un dovere morale, un obbligo, un segno estremo di patriottismo a cui non si doveva né poteva rinunciare. «La Missione archeologica – scriveva da Derna il 24 maggio 1911 – non deve essere soffocata: essa deve mantenersi, radicarsi in mezzo alle difficoltà, formare il perno di quello che sarà, se la regione diverrà nostra, l’Istituto italiano per l’esplorazione del settore centrale dell’Africa del Nord».

L’archeologia faceva propria la spinta colonialista di un paese pronto ad approfittare dei mutamenti in corso nel Mediterraneo.

Al tempo stesso, le forze al governo coglievano il ruolo della disciplina nel sancire la presenza italiana nell’area, impiegandola come strumento di forza per «penetrare», ormai non più pacificamente, all’interno del paese. In questo senso andò l’invito a Halbherr a subordinare «il punto di vista scientifico a quello politico», predisponendo subito un piano di scavi adeguato a chiarire le intenzioni italiane alle autorità locali e, più in generale, agli attori internazionali. I tentennamenti e i vagheggiamenti che avevano a lungo compresso l’attività cretese lasciavano ora il posto alla «furia» del console italiano, che chiedeva di abbandonare ogni indugio e «scavare subito e all’impazzata».

Se anche Halbherr avesse voluto, non sarebbe stato comunque possibile farlo in un contesto in cui i dissidi esplodevano e la guerra si preannunciava come loro sbocco finale. Le rovine rimasero per il momento inaccessibili agli studiosi che dovettero attendere a lungo prima di «porre la zappa sul terreno»: nel frattempo l’archeologia divenne un terreno immaginifico animato da attori il più delle volte estranei alla disciplina, in grado però di carpirne il risvolto evocativo e di piegarlo alla retorica della conquista.

A ridosso della guerra, quest’ultima dominava il discorso pubblico italiano che indicava nel conflitto lo strumento per resuscitare l’economia nazionale, risolvere l’«eccedenza» demografica, restituire dignità alla nazione intaccata dalle precedenti disavventure coloniali. Con la guerra, l’Italia sarebbe rinata non solo dal punto di vista economico ma anche morale, grazie alla sconfitta del grigiume e della miopia di una classe politica inetta e per nulla audace, incapace di vedere la strada e di guidare le sorti future del paese. Cavalcando questi temi, enfatizzando paure ed emozioni ad essi connesse, una minoranza di individui, gruppi e sodalizi riuscì in breve a guadagnare consenso, prospettando una palingenesi in grado di ridefinire la stessa italianità, radicata nel tempo, compressa nel presente, desiderosa di tornare a splendere per mezzo di una nuova rinascita.

Quell’italianità trovava nella Roma antica la propria origine, la Roma conquistatrice di terre e di popoli che ora veniva rispolverata nelle sue vicende e nelle sue immagini offrendo ad artisti, intellettuali, giornalisti e poeti l’occasione di esercitare la propria penna e il proprio talento. Da Gabriele D’Annunzio a Giovanni Pascoli, passando per una miriade di altre voci, il mito dell’Urbe venne rimodulato in chiave moderna e piegato alle esigenze propagandistiche di una narrazione che ancorava l’Italia al suo glorioso passato, indicando nella Libia il paese in cui tornare a far risplendere l’impero.

[…] La guerra e la propaganda trasformarono il territorio libico in uno spazio di racconto e di memoria, in un testo disseminato di segni che davano ai novelli legionari la possibilità di autoriconoscersi in un passato comune; a quanti invece assistevano alla guerra da casa, l’opportunità di comprendere e percepire emotivamente l’eredità racchiusa nel territorio invaso. In questa direzione risultò assai efficace la rappresentazione anche visuale di paesaggi disseminati di rovine, isolate nella loro magnificenza e proiettate su uno scenario di abbandono che ne dimostrava ancora di più la straordinaria grandezza. Questa sorta di poeticizzazione del territorio stabilì una specifica relazione simbolica tra il luogo e la comunità che ne reclamava il possesso, finendo con il delineare una geografia del potere attraverso cui un nuovo campo di senso rendeva comprensibile il territorio di cui l’Italia si candidava «di nuovo» a guidare lo sviluppo.

Grazie a questo processo di narrativizzazione, nel giro di poco tempo l’archeologia divenne uno spazio discorsivo catalizzatore di temi, motivi e visioni connessi alla ridefinizione dell’identità nazional-imperiale di un paese proiettato verso orizzonti politici nuovi.

 

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Claudia Bianchi racconta “Hate speech”

«Solo in tempi recenti si è cominciato a denunciare in modo sistematico il carattere etnocentrico e sessista di molta filosofia tradizionale: dietro l’apparente neutralità, epistemologia, etica e filosofia politica hanno più o meno consapevolmente modellato le loro teorie su soggetti maschi, bianchi, eterosessuali, occidentali, di ceto medio-alto e privi di disabilità.»

Commenti sessisti, insulti razzisti, attacchi omofobici: le parole possono essere scagliate contro gli altri per deriderli, ferirli, umiliarli, e ancor più per rinchiuderli in ruoli e posizioni di inferiorità. Le parole possono essere potenti strumenti di oppressione, pesanti come pietre.

Chi parla, soprattutto se da posizioni di autorità o in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità: ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto, sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, assodato, legittimo. E cambiare i limiti di ciò che può essere detto cambia allo stesso tempo i limiti di ciò che può essere fatto: ci abituiamo a una mancanza di attenzione e vigilanza sulle parole, che rende più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni. Il silenzio, l’indifferenza o la superficialità con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corrono il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione, legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.

Claudia Bianchi racconta Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio.

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Maometto II e l’assedio di Costantinopoli

I colpi di cannone che continuano, i rulli di tamburi durante la notte, e gli assedianti che si fanno sempre più vicini.

 

Alessandro Vanoli, storico e scrittore, ci racconta Maometto II e l’assedio di Costantinopoli in una nuova lezione di Storia del ciclo ‘La presa del potere’, dal Teatro Grande di Brescia.

 

Maometto II e Costantinopoli sono destinati a uno scontro frontale di dimensione epocale. Da un lato, un sultano turco di origini nomadi, salito al potere all’età di soli 13 anni; dall’altro, una città illustre e antica, dalle mura leggendarie e impenetrabili – fino all’arrivo di Maometto II, s’intende.

 

Per scoprire come l’incontro fra un uomo e una città ha cambiato il futuro del mondo moderno in un dialogo profondo con il passato del Mediterraneo, vi invitiamo a seguire con noi gli appassionanti snodi di questo potentissimo racconto.

 

La lezione sarà introdotta da Paolo di Paolo e sarà disponibile a partire dalle ore 8:00 di domenica 28 marzo sulla piattaforma Auditoriumplus. Sempre domenica sarà possibile assistere a un dialogo in diretta fra Paolo di Paolo e Alessandro Vanoli e porre della domande al relatore alle ore 19.00 sui nostri canali Facebook e Youtube, quelli dell’Auditorium e quelli del teatro.

Scopri come guardare e acquistare il ciclo su www.auditoriumplus.com.

Qui il programma completo.

 

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

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Potere e identità

Modernità: della costrizione a non essere nessuno, o a diventare un altro

Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman

 

Peter Haffner Fra gli autori che L’hanno influenzata in maniera significativa, ce ne sono due che non provengono dal recinto della Sua specializzazione, cioè dalla sociologia: lo scrittore Franz Kafka e lo psicologo Sigmund Freud. Che cosa hanno da dirci sulla conditio humana del presente, sulla nostra vita?

Zygmunt Bauman È difficile rispondere a questa domanda. Come si può indicare a dito quello che ci insegnano oggi? Il pensiero del presente è un prodotto collettivo di autori come loro. Una volta che un’idea diventa di dominio comune, è morta, perché nessuno si ricorda più da dove viene. Appartiene ormai alla classe delle cose autoevidenti. Kafka fu assolutamente rivoluzionario, e Freud fu assolutamente rivoluzionario. Ma quando noi oggi riflettiamo su di loro, ci appaiono semplicemente ortodossi. Le idee cominciano la loro vita come eresie, la proseguono fino a diventare ortodossia, e la finiscono come superstizioni. Questo è il destino di ogni idea nella storia. Kafka e Freud sono già uniti nella «doxa», nel senso della filosofia greca, cioè come opinione universalmente riconosciuta.

P.H. Che cosa c’era, dunque, di rivoluzionario in Kafka?

Z.B. La sua analisi del potere e della colpa. Il processo e Il castello sono due documenti fondamentali della modernità. A mio avviso, nessuno dopo Kafka è riuscito a migliorare l’analisi del potere. Prendiamo Il processo. Un tale viene accusato. Egli vorrebbe sapere di che cosa è accusato, ma non ha modo di scoprirlo. Vorrebbe giustificarsi, ma non sa per che cosa. È pieno di buona volontà e deciso a pellegrinare presso tutte le istituzioni che possano dargli informazioni al riguardo. Cerca inutilmente di arrivare al processo. Alla fine, viene giustiziato senza sapere in che cosa consista la sua colpa. La sua colpa consiste nel fatto di essere stato accusato.

P.H. Il principio base della procedura penale di uno Stato di diritto è la presunzione di innocenza: fin tanto che la colpa non è provata, chiunque va considerato innocente.

Z.B. Kafka mostra che le cose vanno in maniera diversa. Poiché gli innocenti non sono accusati, chi è accusato dev’essere colpevole. Il fatto di essere ritenuto colpevole rende Josef K., il protagonista del romanzo, criminale. È lui che deve dimostrare la sua innocenza. Ma per poterlo fare, deve sapere di che cosa viene incolpato. Ma non lo sa, e nessuno glielo dice. È una situazione tragica.

P.H. E nel Castello?

Z.B. L’eroe del romanzo, un certo K., presume che delle persone molto in alto nel castello siano esseri razionali. Certo, non ha confidenza con loro né loro ne hanno con lui; tutto è misterioso, non trasparente e inavvicinabile. Egli lotta inutilmente per ottenere il riconoscimento della propria esistenza professionale e privata. Ma K. crede comunque che i funzionari del castello si comporteranno in maniera razionale, e che lui potrà parlare con loro del motivo, della causa della sua sconfitta. Kafka ci dice poco su questo K., ma dal testo si capisce che è presumibilmente una persona colta. È un uomo razionale, uno che, come dice Max Weber, sceglie i mezzi giusti per i suoi obiettivi dando per presupposto che gli altri pure operino in maniera razionale. Ma le cose non stanno così, e questo è il suo errore peggiore. Poiché il potere degli abitanti del castello consiste proprio nel fatto che si comportano in modo irrazionale. Se si comportassero in maniera razionale, si potrebbe trattare con loro, li si potrebbe probabilmente convincere o si potrebbe combattere contro di loro e forse vincere. Ma se sono irrazionali, se il loro potere consiste nella irrazionalità, è impossibile farlo.

[…]

P.H. Che cosa significa Sigmund Freud per Lei?

Z.B. Freud, come Kafka, è diventato parte del nostro pensiero. Un bene comune, per così dire. Per noi, oggi, concetti come inconscio, «Es» e «Io» e «Super-io», sono familiari. Il filosofo, sociologo e psicologo americano George Herbert Mead, che ha fornito un contributo essenziale alla questione della identità, non usa questi termini, ma intende sostanzialmente la stessa cosa quando parla di I e Me, di «Io» e «Me». «Io» sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico. Ma io sono diviso in due, perché a questo «Io» che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il «Me», quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà. La nostra vita è una lotta per la coesistenza amichevole fra l’«Io» e il «Me». Questo è un altro modo di raccontare la storia raccontata da Sigmund Freud.

P.H. Mead diceva che l’individuo riceve la sua identità tramite l’interazione con altri individui. Ci sono più «Me» diversi, e compito dell’«Io» è di sintetizzarli in una immagine unitaria di sé. L’identità nella modernità «liquida» o «fuggevole» di oggi ha qualcosa a che fare con questa interazione, ma è molto più complessa. Ognuno ha ora non più solo tanti «Me» ma anche tanti «Io». Di questo Lei si è occupato soprattutto.

Z.B. L’identità è oggi una questione di negoziazione. È, in effetti, liquida: noi non siamo nati con una identità data una volta per tutte, che non cambia mai. Di più: possiamo avere diverse identità contemporaneamente. In una conversazione su Facebook Lei può scegliere una identità, nella successiva conversazione un’altra. Può cambiare di volta in volta la Sua identità, ci sono identità che vanno di moda. Questo gioco combinato di «Io» e «Super-io» o di «I» e «Me» è parte del nostro compito quotidiano. Freud preparò il terreno per questo gioco.

[…]

P.H. L’identità, oggi – dice il sociologo francese François de Singly –, non ha più radici. Alla metafora delle radici, egli preferisce quella dell’àncora. Diversamente dall’abbandono delle proprie radici, che è rinuncia alle tutele sociali, il levar l’àncora non ha niente di irrevocabile o definitivo. Che cosa non La convince in questa impostazione?

Z.B. Può diventare un altro solo chi cessa di essere chi era. Egli deve rigettare continuamente quello che è stato il suo Io fino ad allora. Di fronte alle continue nuove possibilità quel suo Io gli appare ben presto come non moderno, inappropriato e insoddisfacente.

P.H. Non ha qualcosa di liberatorio, il fatto che uno possa cambiare? In America, nel Nuovo Mondo, il mantra era ed è: scopriti di nuovo!

Z.B. Per la verità, non è una strategia nuova quella di darsela a gambe quando la situazione diventa scabrosa. È quello che sempre hanno cercato di fare gli uomini. Ma è nuovo il desiderio di sottrarsi assegnandosi un nuovo Sé scelto dal catalogo. E quello che all’inizio poteva essere stato l’approdo consapevole su nuove sponde, si trasforma rapidamente in una ossessiva routine. Il liberatorio «puoi diventare un altro» diventa il costrittivo «devi diventare un altro». Questo «devi» ha poco a che fare con l’agognata libertà, e molti vi si ribellano proprio per questo motivo.

P.H. Che significa, allora, essere libero?

Z.B. Essere liberi vuol dire poter perseguire i propri desideri e obiettivi. L’arte di vivere orientata al consumo, che è tipica della modernità liquida, promette certo questa libertà, ma non realizza quel che promette.

[…]

P.H. Quali altri autori oltre a Kafka, Freud e Simmel citerebbe, fra quelli che L’hanno influenzata in maniera particolare?

Z.B. Molti hanno avuto un ruolo nel mio pensiero, ognuno col suo stile, la sua peculiarità. Antonio Gramsci l’ho già ricordato: non potrò mai sottolineare abbastanza quanto io gli sia debitore. Egli mi ha permesso una onorevole presa di distanza dal marxismo. Solo grazie a lui riuscii a cessare di essere un marxista ortodosso senza diventare un antimarxista. Il mio amico Leszek Kołakowski non poté farlo. Egli riuscì a prendere congedo dal marxismo solo diventando antimarxista. Probabilmente non aveva letto Gramsci, non so. Antonio Gramsci è uno dei filosofi più brillanti, umani, che io conosca.

P.H. E fra i pensatori più recenti?

Z.B. Fra questi ultimi, mi è particolarmente vicino Claude Lévi-Strauss, che va considerato come il fondatore dello strutturalismo etnologico. C’è stato un tempo della mia vita, alla fine degli anni Sessanta, in cui ero completamente preso, incantato da Lévi-Strauss. Che cosa ho preso da lui? Devo precisare che io sono molto eclettico, attingo dovunque trovi qualcosa di eccitante, che si innesta bene nel mio pensiero, ma non mi sento obbligato ad accettare il pensatore in sé. Da Lévi-Strauss ho preso l’abolizione dell’idea di cultura come corpo unitario. Anziché riflettere sulle culture, sulla loro diversità, egli parlava di modalità di approccio universali. Non usava la parola «cultura», ma la parola «struttura». È entrato nella storia come strutturalista. Ma in realtà egli ha rinunciato all’idea di una struttura, di un’organizzazione data, di un assetto fisso delle cose. Insisteva sulla universalità dello strutturarsi. La struttura è per lui un’attività. Non un corpo, ma un’attività in un certo senso incerta, che non finisce mai. Nulla è costituito una volta per tutte, le strutture non sono fossilizzate, pietrificate, immutabili. E proprio così io cerco di descrivere la realtà, le realtà sociali, la loro dinamica. La cultura sta al centro delle mie ricerche come un processo dinamico, che non è mai compiuto.

 

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Una questione personale

In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, riproponiamo un estratto di Oro blu, di Edoardo Borgomeo: nove storie da tutto il mondo, dalla Sicilia al Bangladesh, dall’Olanda al Brasile, a raccontare come l’acqua si intrecci all’economia, alla storia, alla cultura e alla vita di ciascuno di noi. 

Senza di lei non duriamo nemmeno un giorno.

Non possiamo scrivere, non possiamo alzarci la mattina, non possiamo amare, non possiamo fare niente. Senza di lei non c’è vita. È la prima cosa che cerchiamo nello spazio, e quando troviamo i segni della sua presenza, ci convinciamo che forse lassù c’è qualcuno; e che dobbiamo continuare a cercare.

È essenziale, e in crisi.

Sentiamo che visto che è così poca, e noi così tanti, sta finendo. È talmente preziosa che la chiamiamo l’oro blu. Diciamo che le guerre del futuro si combatteranno per lei. Oppure, anche peggio, che ci annegherà tutti, perché il diluvio universale deve ancora venire.

È essenziale e in crisi, eppure ne osserviamo solo la superficie. Non la conosciamo bene e la diamo per scontata. Non riusciamo ad andare oltre gli scenari apocalittici. Parliamo di guerre, di inondazioni catastrofiche e di affaristi senza scrupoli che vogliono appropriarsi delle nostre fonti. Oppure la percepiamo solo come una molecola che ci costituisce e niente più. Non riusciamo a pensarla in modo diverso, attraversare la sua superficie e guardarla nel profondo. Diciamo che è in crisi, ma non pensiamo abbastanza alle soluzioni.

È l’acqua, attrice protagonista nel dramma del cambiamento climatico.

Un pianeta più caldo significa ghiacciai che si sciolgono, piogge meno prevedibili, inondazioni più frequenti, deserti che avanzano. Attraverso l’acqua sentiamo e vediamo gli effetti del riscaldamento globale. Anche se l’acqua è la protagonista di questi cambiamenti, non ci appassiona. Forse perché la tocchiamo, la beviamo e la sprechiamo ogni giorno. Forse perché la nostra lingua è piena di modi di dire e proverbi che ci ricordano continuamente dell’importanza dell’acqua […]. Forse perché è così quotidiana, quasi banale, non vediamo come si intreccia con l’economia, la cultura, la politica. Non vediamo come l’acqua determini la capacità di apprendimento di una bambina indiana, come influisca sulla sicurezza energetica di uno Stato, o come sia al centro delle religioni di tutto il mondo. Non capiamo in che modo la sua gestione contribuisce alla creazione di legami sociali e lavoro in una comunità.

[…] La tesi di questo libro è semplice: la gestione dell’acqua non è solamente compito di ingegneri, economisti o ecologi, ma è compito di tutti. È per questo che ho deciso di raccontare le sfide dell’acqua attraverso nove storie: per mostrare il legame fra noi e l’acqua, e provare a capire come vivere meglio questo legame. È una questione personale, che riguarda tutti, non solo i tecnici; e proprio per questo il libro è stato scritto per chi l’acqua non la conosce o la conosce poco.

Questo libro non è un compendio di tutti i problemi e le soluzioni legate alla gestione dell’acqua nel mondo; non è un manuale delle tecnologie da adottare e delle politiche da mettere in atto per risolvere la crisi idrica. E non è neanche una denuncia di speculatori colpevoli del prosciugamento o dell’inquinamento dei fiumi. È un tentativo di andare alla fonte, cioè all’origine, del nostro legame con l’acqua attraverso nove storie di donne e uomini.

 

Scopri il libro:

 

Allegra Iafrate racconta “Cercar tesori”

Dica trentatré!

Come armati di stetoscopio, abbiamo provato a spiazzare i nostri autori chiedendogli di aprire i loro libri a pagina trentatré e di leggerne un brano: pensiamo che ogni testo abbia mille porte, e che nessuno meglio di chi l’ha scritto possa raccontarne il cuore senza bisogno di partire dal via.

Entra nel libro senza chiedere permesso: apri a pagina 33 con i nostri autori, per ascoltare ogni volta una storia diversa.

Nel nostro primo episodio, la storica dell’arte Allegra Iafrate legge un brano dalla trentatreesima pagina del libro Cercar Tesori, da poco in libreria e negli store online.

 

“Pagina 33” è un podcast degli Editori Laterza, puoi ascoltarlo su Spreaker, Spotify e Google Podcasts oppure sul nostro canale Telegram.
Montaggio e mix a cura di Matteo Portelli – The White Lodge

Guelfi e Ghibellini, una guerra civile italiana

“Parlare di Guelfi e Ghibellini significa parlare della lotta per il potere in Italia nel Medioevo, in un momento in cui la lotta per il potere nei comuni italiani era una lotta feroce, senza esclusione di colpi, che non riconosceva nessuna legittimità all’avversario, che anzi considerava qualunque avversario come un nemico da annientare.”
In questo trailer, Alessandro Barbero ci trasporta per un densissimo istante in una delle più crudeli guerre civili italiane, raccontando dal Teatro Regio di Torino la sanguinosa presa del potere dei guelfi bianchi a Firenze.
Fra il cozzo delle spade e degli scudi, tra il bagliore nascosto dei pugnali nelle maniche dei cortigiani e il tintinnio delle fiale di veleno svuotate nei calici dei nemici, si muove inoltre una persona illustre che di lì a poco verrà costretta all’esilio: questa presa del potere infatti segna anche la caduta di Dante Alighieri.
La lezione sarà introdotta da Paolo di Paolo e sarà disponibile a partire dalle ore 8:00 di domenica 21 marzo sulla piattaforma Auditoriumplus. Sempre domenica, alle 19:00, sarà possibile assistere a un dialogo in diretta fra Paolo di Paolo e Alessandro Barbero e porre della domande al relatore.

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Qui il programma completo.

 

Info e costi

Pay per view: 5 euro per singola lezione, 40 euro per l’intera stagione 2021.

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“Hate speech”: un’audio-pillola

«Solo in tempi recenti si è cominciato a denunciare in modo sistematico il carattere etnocentrico e sessista di molta filosofia tradizionale: dietro l’apparente neutralità, epistemologia, etica e filosofia politica hanno più o meno consapevolmente modellato le loro teorie su soggetti maschi, bianchi, eterosessuali, occidentali, di ceto medio-alto e privi di disabilità.»

Commenti sessisti, insulti razzisti, attacchi omofobici: le parole possono essere scagliate contro gli altri per deriderli, ferirli, umiliarli, e ancor più per rinchiuderli in ruoli e posizioni di inferiorità. Le parole possono essere potenti strumenti di oppressione, pesanti come pietre.

Un estratto di Hate speech di Claudia Bianchi è ora su IBS.it in forma di audio-pillola, grazie all’iniziativa Voce ai libri. Parole d’autore per voci di talento e alla voce di Serena Chiavetta, studentessa dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico di Siracusa.

 

 

Scopri il libro:

Un libro di storia smonta tutte le “fake news” sui partigiani

Il libro di Chiara Colombini ricostruisce le letture false e mistificatrici della Resistenza. Non un manifesto “antipansista”, ma un lavoro di storia.

Francesco Filippi, MicroMega, 10 marzo 2021

“… bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo…”

Con queste parole il partigiano giellista Emanuele Artom nel novembre 1943, a guerra civile appena iniziata, racconta al proprio diario l’inquietudine riguardo il giudizio futuro sui combattenti di quel conflitto dilaniante. Condurre i fatti nella giusta prospettiva, per evitare agiografie come temeva Artom o, come sempre più spesso oggi accade, volgari dannazioni di memoria.

Non è un caso che queste parole vengano riprese nel nuovo libro di Chiara ColombiniAnche i partigiani, però… (Laterza, 2021) che si incarica, una volta di più, di riportare nell’alveo della ricerca storica le vicende di un periodo cruciale per la storia di questo paese, periodo troppo spesso strattonato e sfilacciato dalla chiacchiera politica.

Un’operazione complessa, che deve fare i conti da un lato con la ragguardevole mole di studi prodotti sul periodo ‘43-’45 e dall’altro con l’altrettanto ingente cumulo di sciocchezze, imprecisioni o vere e proprie bugie che per i motivi più vari sono state prodotte sul tema, in particolare a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

Con attenzione e puntualità il saggio esamina i maggiori luoghi comuni circolanti sulla Resistenza affiancandoli alla realtà dei fatti riportata dalle fonti e dalle analisi storiografiche, non dimenticando di riportare le varie interpretazioni che negli anni il dibattito degli storici ha prodotto. Un lavoro necessario, che cerca di sgombrare il campo e fare chiarezza attorno alle affermazioni più abusate e ai giudizi più brutali sugli antifascisti combattenti: uno per uno vengono smontati e ridefiniti storicamente i falsi miti dei partigiani tutti comunisti, rubagalline o terroristi, fino al vecchio, trito, “la storia la scrivono i vincitori”.

Capitoli agili, precisi ma pensati anche per un pubblico di non addetti ai lavori, vale a dire per i lettori che più spesso possono incappare in questo tipo di mistificazioni. Un saggio efficace e puntuale e, forse proprio per questo, scomodo.

Come già successo alle precedenti uscite della collana della Laterza Fact Checking, vale a dire L’antifascismo non serve più a niente di Carlo Greppi (2020) e E allora le foibe? di Eric Gobetti (2021), anche il testo di Chiara Colombini è finito sotto l’attacco scomposto dell’estrema destra, su carta e nel web. Con rabbia niente affatto celata, molte voci di quell’area si sono alzate per protestare contro il tentativo di “negare dignità a un pezzo d’Italia” e di voler “rileggere la storia”: affermazioni forti, che da un lato suscitano la legittima domanda sul tipo di dignità custodita dal “pezzo di Italia” che collaborò alla deportazione e allo sterminio di migliaia di italiani; dall’altro dimentica, forse dolosamente, che il lavoro di chi si occupa di passato è proprio quello di “rilegge la storia”, per non lasciarla muta di fronte allo scorrere del tempo.

Fatto ancor più interessante, le critiche sono cominciate ad arrivare ben prima dell’uscita del volume, il 4 marzo 2021. Una sorta di censura preventiva rivelatrice: questo accanirsi a ben vedere potrebbe essere la spia di un sentimento diffuso di insicurezza da parte di chi per anni ha prosperato, soprattutto politicamente, sul tentativo di sgretolare la memoria resistenziale e con essa i valori antifascisti posti a fondamento della Repubblica.

Un tentativo di erosione cominciato ben prima degli scritti di Giampaolo Pansa, ma che ha avuto e ha nella produzione del giornalista (non storico) piemontese il suo punto di riferimento principale. Un movimento di revisione non tanto storico quanto emotivo, che per anni ha lavorato a un livellamento dei piani interpretativi e, più in generale, a un’equiparazione morale tra fascisti e antifascisti. Equiparazione che ha lo scopo di accantonare le responsabilità storiche del totalitarismo italiano e dei suoi ammiratori di ieri e di oggi.

Qualcuno, tra i sostenitori del “questo libro non s’ha da fare, né ora né mai”, ha sottolineato il fatto che da vent’anni determinata storiografia cerca di rispondere colpo su colpo alle bufale e alle letture distorsive sui partigiani propalate da Pansa ed epigoni vari: un lavoro di fact checking di questo tipo nel 2021, si dice, risulta non necessario. Un’affermazione piuttosto curiosa, forse scaturita da commentatori che si sono fermati al titolo e che, a ben vedere, appare poco sostenibile: in primo luogo perché, come nota chiunque abbia letto almeno l’indice del saggio di Chiara Colombini, questo libro non è un manifesto “antipansista”, ma più semplicemente un lavoro di storia.

Inevitabilmente, quindi, il suo contenuto va a demolire quanto di storiograficamente falso è stato ripreso e riplasmato nei molti libri che attaccano il movimento partigiano; il suo obiettivo è fare chiarezza, per poter ripartire con un’analisi più serena e sgombra da menzogne su uno dei periodi cruciali della storia di questo paese.

L’obiezione poi che, siccome sono stati scritti tanti libri sull’argomento, questo (proprio questo!) sarebbe “inutile”, più che portare acqua al mulino dei censori scatena una nuova domanda, inquietante: perché tutti questi libri scritti negli anni, almeno a livello di opinione pubblica, non sono serviti a fermare la devastante opera demolitrice del revisionismo vero, quello che vuole equiparare fascisti e antifascisti in una melassa grigia e non responsabile perché decolpevolizzata? Perché, insomma, dopo tutti questi testi, c’è sempre più gente convinta che fare rastrellamenti o compiere stragi di civili e combattere per liberare l’Italia dal totalitarismo siano azioni che hanno, specularmente, lo stesso valore?

Forse perché, anche a causa di un dibattito troppo veloce e tendente al semplicistico su questi argomenti, molti lavori non sono riusciti ad arrivare al grande pubblico, complice la scarsa abitudine alle letture specialistiche da parte della popolazione, al poco spazio riservato solitamente dai media a questo tipo di pubblicazioni e anche, non da ultimo, a una certa tendenza all’utilizzo sistematico di un linguaggio da “addetti ai lavori” da parte di alcuni autori che inibisce l’approccio ai non professionisti. Tutti elementi che fanno dire che sì, molti libri sono stati scritti, ma ne sono stati letti meno di quanto auspicabile, forse.

Ed è proprio qui che Anche i partigiani però… appare non solo utile, ma necessario: perché affronta il tema partendo proprio dal semplicismo tipico delle bufale che va a smontare, ricostruendo poi a ritroso la complessità dei fatti storici senza però perdere di vista la necessità di un linguaggio aperto e chiaro. In un paese in cui la parola “divulgativo” si trascina dietro un’accezione negativa, si tratta di una scelta, oltre che faticosa, di coraggio.

E forse è proprio questo che ha fatto scoppiare le polemiche preventive e gli anatemi di tanti fascisti, post fascisti e fascisti inconsapevoli: a differenza di molti altri, il libro di Chiara Colombini si fa leggere, e leggere bene, e la sua diffusione è una minaccia diretta alle mistificazioni che per anni si sono nascoste dietro la speranza che in molti, o almeno quelli meno avvezzi alla materia, accettassero per vere delle letture semplicistiche, scorrette o più propriamente false della Resistenza. Questo è un libro che, senza mai abbandonare il rigore storiografico, parla a molti, e c’è la fondata speranza che stavolta siano in molti ad ascoltare.

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Il corpo di Gramsci

L’infanzia, la “sardità”, l’amore, la solitudine intellettuale e la malattia. Torna in libreria la vita del leader comunista scritta da Giuseppe Fiori

Alberto Asor Rosa, la Repubblica, 23 gennaio 2021

In un articolo apparso in occasione della scomparsa dell’autore di Vita di Gramsci, Rossana Rossanda osservò, con la consueta acutezza, che Giuseppe (Peppino) Fiori aveva per primo attirato l’attenzione sulla componente umana, sul dramma esistenziale che aveva accompagnato il grande dirigente e teorico comunista dall’inizio alla fine del suo percorso. Più esattamente: quella di Gramsci «era stata una sofferenza impossibile da addomesticare nella memoria sotto la veste dell’eroismo. Era sofferenza pura, solitudine esistenziale, verifica del pensare isolato, senza possibilità di comunicazione». «Noi – aggiunge Rossanda – non lo avremmo ammesso facilmente come se nell’impegno politico ci fosse un risarcimento oggettivo, un limite al patire». «Fiori – continua Rossanda – ci obbligava a vedere che non era così. Per me fu il primo».

Questo rappresenta inequivocabilmente il punto di partenza di qualsiasi discorso su questa Vita di Gramsci, una valutazione del suo tessuto tematico come del suo, veramente notevole, dispiegamento narrativo (Fiori scrive con un’asciuttezza e un’incisività esemplari, anche fuori del contesto prescelto).

Siamo nel 1966. Fiori mostra di essere cosciente già allora della prospettiva nuova sulla quale Rossanda e altri più tardi si soffermeranno. E nella Premessa alla prima edizione dichiara: «Questo libro non vuole avere altra ambizione che di completare il ritratto di Gramsci, cioè di aggiungere alla “testa” (al Gramsci grande intellettuale e leader politico) “gambe e corpo”: quegli elementi umani, dall’infanzia alla maturità, che aiutano a farci vedere il personaggio “intero”, nei giorni della fame, dell’amore e del lento morirsene. E quindi specialmente il ritratto di Nino Gramsci (il diminutivo con cui Antonio veniva conosciuto famigliarmente e amicalmente».

Facciamo qualche esempio. Le prime ottanta pagine del libro sono ovviamente dedicate, a partire dalla nascita, agli anni della prima formazione, degli intensissimi rapporti famigliari, delle consuetudini, molto condivise, paesane e amicali. In un certo senso si concludono quando Antonio, squattrinato come pochi altri giovani pretendenti ad una carriera umanistica e professorale del suo tempo, concorre ad una borsa di studio presso il Collegio Carlo Alberto di Torino, e la vince, cosa che gli consente d’iscriversi all’università e di trasferirsi – pressoché stabilmente, a guardar bene – da quel momento in poi sul Continente.

La mia tesi è che la ricostruzione, così attenta, minuziosa, circostanziata, fedele, che Peppino Fiori fa di quei primi vent’anni, porti come conseguenza – più che mirare intenzionalmente, quasi come un programma di obiettivi e risultati perfettamente chiaro e consapevole – ad una sottolineatura particolarmente chiara di quei caratteri anche nella personalità e nell’opera del Gramsci maturo.

Naturalmente non voglio dire che Fiori riduca Gramsci alle sue origini sarde. Fiori è indubbiamente, in sé e per sé, un cultore autentico della “sardità”, ma in virtù di queste sue radicate preferenze e impostazioni – la linea che lui segue nel ricostruire passo per passo la biografia gramsciana consiste nel vederne le radici e le scaturizioni psicologiche e culturali nel massimo della profondità possibile, là dove biografia ed ethnos traggono alimento reciproco. È proprio per questo, perciò, che si può dire che questa è una “vita” autentica, non un casellario di idee fatte calare dall’alto, e cioè una “biografia” intesa nel senso più tradizionale ed esteriore del termine. Considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito di quegli altri temi e aspetti “umani” che attraversano da cima a fondo la seconda fase (quella dell’impegno politico, nel Partito socialista, prima, nel Partito comunista d’Italia, poi, di cui nell’agosto 1924 divenne Segretario) e la terza (quella della prigionia, dopo la condanna a vent’anni del Tribunale speciale fascista nel maggio 1928) della sua vita. Qui, fra i molti esempi possibili, uno spicca indubbiamente su tutti gli altri: quello del suo amore per la giovane intellettuale russa Giulia (Julka) Schucht, conosciuta a Mosca e destinata a diventare sua moglie e madre dei suoi due figli. Di questa importanza decisiva, se non addirittura centralità, del tema amoroso nella ricostruzione della biografia gramsciana, è senza dubbio Giuseppe Fiori l’artefice maggiore.

La nostra conclusione è che questo conferma quanto accennavamo fin dall’inizio: per Fiori la biografia di Gramsci è la conseguenza, non meccanica ma volontaria, di una serie di scelte tutte intrecciate fra loro, di cui quelle sentimentali, passionali, personali e comunicative occupano uno spazio di altissimo livello. Ma – potrebbe osservare uno qualsiasi degli interlocutori con i quali abbiamo cercato di dialogare nel corso di queste note – in questo modo non si farebbe che confermare l’analisi originaria, quella della Rossanda, secondo cui il libro di Fiori è apprezzabile soprattutto perché evidenzia fortemente il lato umano dell’esperienza gramsciana. Io invece penso che la Vita di Gramsci di Peppino Fiori contenga ben altri spunti, sia pure intrecciati con gli aspetti più personali e primigeni della sua biografia.

Siamo – l’ho già ricordato – nel 1966. Giuseppe Fiori ha circa quarant’anni, è un giornalista molto noto e capace, di orientamento socialista. Non c’è ombra di dubbio che a “tirarlo” verso il tema gramsciano ci sia, oltre che la “sardità”, il clima di revisione critica e autocritica che spira in quello scorcio di tempo sulla cultura e sulla intellettualità cosiddetta “di sinistra”.

Due sono i punti, nella ricostruzione della biografia gramsciana, su cui Fiori, con evidente scelta interpretativa, insiste con particolare efficacia. Innanzi tutto, la linea che, da recente Segretario, Antonio intende imprimere al Partito, in mezzo (non dimentichiamolo) al caos impresso dal fascismo al contesto politico e sociale italiano. Siamo, grosso modo, fra il 1924, l’anno del delitto Matteotti, e il 1926, l’anno del Congresso di Lione, dove Gramsci riuscì almeno formalmente a far passare le sue tesi. Non gli restava molto tempo per pensare e lavorare in libertà: l’8 novembre 1926 fu arrestato e restò in vario modo prigioniero, fino alla morte avvenuta nella Clinica Quisisana di Roma il 29 aprile 1937 (quando aveva 46 anni). Fiori insiste molto efficacemente sulle caratteristiche di questo punto. Gramsci ha alle spalle le esperienze leniniste nell’organizzazione comunista internazionale. Elabora una linea, quasi, si potrebbe dire, senza il sostegno di nessun altro e, almeno formalmente, riesce a farla approvare. La questione si ripresenta ancor più drammaticamente quando in Russia, dopo l’uscita di scena di Lenin, arrivano alle ultime battute i dissensi interni al gruppo dirigente comunista. Gramsci si schiera risolutamente contro il pericolo della scissione, che renderebbe insanabile il conflitto e aprirebbe la strada secondo lui ad un’ulteriore estremizzazione della posizione comunista internazionale.

Questa presa di posizione così netta e così chiara – e così coerente, secondo Fiori, con le prime battute del suo essere dirigente comunista italiano – non riscuote il consenso di Palmiro Togliatti, il quale allora rappresentava a Mosca il partito italiano presso l’Internazionale comunista.

Fiori torna più e più volte sull’argomento: sostiene e documenta che Antonio resta estraneo ed ostile alla linea ormai dominante nell’Internazionale comunista e nel Partito italiano. Gli ultimi anni sono quelli dell’estenuazione, della perdita di conoscenza, della sofferenza e della morte.

Antonio muore il 27 aprile 1937, assassinato da quel regime criminale di massa che fu il fascismo (spero che la ripubblicazione di questo libro aiuti a ricordare anche questo aspetto, certo non irrilevante, della storia). Giuseppe Fiori ci aiuta a conoscerlo più da vicino, e più profondamente.

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