Laura Pepe apre “Le smanie per la villeggiatura”, la nuova rubrica estiva della pagina Facebook Lezioni di Storia Laterza.
Domenica dopo domenica, la rubrica accompagnerà i lettori alla scoperta del significato delle ‘vacanze’ e dei viaggi in diverse epoche e contesti storici, dall’antica Roma alla Germania della DDR, dai Greci dell’Odissea al Medioevo, fino all’avvento del turismo di massa, con gli scritti di Simona Colarizi, Alberto Mario Banti, Laura Pepe, Massimiliano Papini, Maria Giuseppina Muzzarelli, Alessandro Marzo Magno e Gianluca Falanga.
> Prossimo appuntamento: domenica primo agosto,
con Massimiliano Papini e L’otium rivelatore dei Romani.
Fra Ciclopi e Sirene
Perché i Greci non andavano in vacanza
Laura Pepe
Fare vacanza – trascorrere cioè quel tempo vacans, “libero” dal lavoro e dalle incombenze quotidiane – per la maggior parte di noi è sinonimo di viaggiare, di cambiare aria e città. Un’idea, questa, di cui possiamo forse rinvenire una qualche traccia nelle abitudini dei nostri antenati Romani – beninteso, solo quelli appartenenti a una certa classe sociale: perché erano in pochi a potersi permettere di oziare (anche se, come è ben noto, l’otium antico ha ben poco a che vedere con il dolce far niente che è ingrediente pressoché fondamentale delle nostre, di vacanze); ed erano ancora meno quelli che potevano farlo spostandosi dalla loro dimora abituale a una villa – d’otium, appunto – costruita fuori città, in una qualche rinomata località di villeggiatura (gettonatissime erano al tempo le coste della Campania).
L’idea che il tempo libero potesse essere allietato dai viaggi, o che viaggiare fosse un’occupazione piacevole e rilassante per soggiornare in posti diversi dalla propria casa, era invece del tutto sconosciuta ai Greci. In effetti, la ragione di spostamento più frequente per i cittadini atti alle armi (in assenza di un esercito professionale) erano le campagne militari; ma, per quanto fossero educati sin da ragazzini a combattere e a morire di una morte bella in difesa della loro patria, i Greci non dovevano certo divertirsi a fare la guerra. Un po’ più allettanti, se non altro perché più redditizi, dovevano essere i viaggi di lavoro, benché poi anche in questi casi il rischio di subire l’assalto di pirati o di briganti – che infestavano mari e campagne – non fosse affatto remoto. L’ipotesi migliore e più tranquilla doveva essere quella di spostarsi per motivi religiosi, se non altro perché spesso era garantita una qualche forma di protezione a chi si recava a un festival o partecipava a una competizione sportiva (posta anch’essa sotto l’egida di una divinità: Zeus, per esempio, era il patrono delle Olimpiadi); ma a ben vedere neppure in questa circostanza i viaggi erano del tutto privi di rischi: basti ricordare quel che accadde a Edipo quando, dopo aver consultato l’oracolo di Delfi, giunse al celebre trivio dove fronteggiò i predoni (in realtà il padre Laio con i suoi servitori) che gli chiedevano strada…
Il fatto è che il concetto di viaggio come insidia, e dunque come qualcosa di completamente opposto al diletto, che per quanto possibile andava evitato, dovette insinuarsi nel popolo greco sin dalla notte dei tempi. Da quando, cioè, i primi cantori iniziarono a girare per i villaggi della Grecia ricordando le incredibili avventure di Odisseo, quell’inquietante “odissea” decennale che da Troia, dopo la distruzione della città, riportò l’eroe in patria, nella petrosa Itaca. Non appena si allontana dalla via maestra – complice l’odio nei suoi confronti del dio del mare Poseidone, che costringe lui e i compagni a ripetuti naufragi – Odisseo viene di continuo minacciato dall’incubo di non poter mai più toccare le sponde natie. Patenti o latenti, i pericoli sono ovunque: tra i Lotofagi mangiatori di loto, la pianta che fa dimenticare il ritorno; tra i giganteschi Ciclopi che non conoscono leggi né ospitalità; tra i Lestrigoni antropofagi; nell’isola di Eea dove abita Circe, la maga che trasforma gli uomini in porci; tra le Sirene che dicono di sapere tutto e assicurano conoscenza a chiunque ascolti il loro dolcissimo canto; a Ogigia, la terra di Calipso ove Odisseo, persi tutti i compagni, rimane per sette lunghissimi anni, allettato dalla promessa dell’immortalità e dell’eterna giovinezza.
Ma dove si trovano questi luoghi pieni di minacce, dai quali è opportuno stare alla larga? Già gli antichi si interrogavano sulla geografia dell’Odissea, senza essere peraltro in grado di fornire risposte certe: e mentre qualcuno, saggiamente, affermò che le tappe del viaggio di Odisseo avrebbero potuto essere identificate solo quando si fosse scoperto il cuoiaio che aveva cucito l’otre dei venti di Eolo (e dunque mai), altri, ben più numerosi, tentarono di dimostrare che Omero avesse raccontato, pur con qualche licenza poetica, di luoghi reali. Un filone, quest’ultimo, che non ha mai smesso di essere fecondo, neppure in tempi molto più recenti. Come non ricordare Samuel Butler, che sul finire del 1800 sostenne che teatro dell’Odissea, scritta da una donna, è la Sicilia (il saggio in questione, del 1897, è L’autrice dell’Odissea)? E quanti sono coloro ai quali è familiare il nome di Felice Vinci, l’ingegnere nucleare che nel 1995 fu autore di un best seller – Omero nel Baltico – in cui tentava di dimostrare (sulla base di dubbi argomenti linguistici, toponomastici e metereologici) che le storie raccontate da Omero vanno ambientate non già nel Mediterraneo ma nei mari del Nord?
Ipotesi più o meno fantasiose a parte, l’Odissea in realtà ci dice una cosa importantissima di ciò che per i Greci significava viaggiare: era bene esplorare, era bene conoscere popoli diversi e confrontarsi con l’altro da sé; ma l’importante era fare come Odisseo, che mai – neppure quando avrebbe potuto optare per soluzioni vantaggiose, come il dono dell’immortalità che Calipso gli aveva offerto – mai aveva perso di vista il nostos, il ritorno a casa; anzi, aveva provato nostalgia, desiderio doloroso per il ritorno, quando l’obiettivo sembrava lontano e irraggiungibile.
Ben più che lo spostarsi, il migrare, lo stabilirsi altrove, per i Greci contava l’autoctonia, cioè l’essere nati e radicati nella stessa terra che si abitava. E nell’eventualità che andare lontano dalla patria fosse stato indispensabile – per sopperire alla mancanza di terre e di viveri in madrepatria –, il luogo di destinazione non poteva che essere una apoikia: termine che noi traduciamo con “colonia”, ma che i Greci intendevano, in modo diverso e ben più pregnante, come duplicazione del proprio oikos, della propria casa e patria.
Era lì, nel calore della famiglia, delle pareti domestiche, degli edifici pubblici e dei concittadini, che si trascorrevano le vacanze migliori.