Eusebio e l’Ingegnere di fronte allo spasimo bellicista

Alberto Fraccacreta | Alias | 3 settembre 2023

In Eros e Priapo la posizione di Carlo Emilio Gadda su Mussolini è abbastanza chiara: il «kuce» è variamente appellato «scacarcione sifoloso», «spiritato basedòwico», «provolone imbischerito», «Maccherone Ingrognato», «Batrace luetico» e via dicendo. Lo stesso Ventennio coincide, per l’Ingegnere, con una sorta di catabasi, descensus ad inferos, in cui è sprofondato il paese guidato dal «Caino Giuda Maramaldo»: la fumea caliginosa si alza e vibra anche nel Maradagàl di Gonzalo Pirobutirro o nella Roma dell’«ubiquo ai casi» don Ciccio Ingravallo. Scenario stigio – simile a un luttuoso stampo annidato nell’inconscio collettivo – che avvolge persino la Firenze della Primavera hitleriana di Eugenio Montale: là «un messo infernale» si aggira con «i mostri nella sera l della loro tregenda», mentre comincia a riaffacciarsi la sperata palingenesi, il «respiro di un’alba» «bianca ma senz’ali di raccapriccio», donata dal sacrificio cristiano-cliziano.

Gadda e Montale avevano vissuto sul campo, con spirito patriottico, la Grande Guerra: lo scrittore fu fatto prigioniero sull’Isonzo e deportato a Celle; il poeta ebbe il ruolo di sottotenente in Valmorbia, «terra dove non annotta». Ma qual era stato il loro atteggiamento nei confronti del fascismo, nella successiva epoca dello «spasimo bellicista»? Di stentorea condanna, si è detto, soprattutto nel biennio 1938-1939, con qualche vacillamento agli albori. E dunque con un’avversione conquistata nel tempo. Sul modello dei parallelismi plutarchei Pier Giorgio Zunino, già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino, ricostruisce in Gadda, Montale e il fascismo le analoghe vicende del lombardo e del genovese, raccontando gli entusiasmi nazionalistici bruciati, la crescente «apatia» e, infine, l’aperta ostilità al «sudicio Poffarbacco». «Per vie misteriose le vite di Gadda e di Montale – osserva l’autore nell’introduzione – ebbero modo di incrociarsi mostrando di avere in comune più di qualche tratto (…). Qui se ne additerà per intanto uno decisivo, e cioè la diuturna lotta per tentare di preservare spazi di autonomia a favore della loro vocazione letteraria rispetto alle necessità di vita che li costrinsero di frequente ad accettare lavori che nulla avevano a che fare con ciò che chiamavano lo “studio”, cioè la tradizione culturale che essi consideravano la premessa essenziale della loro attività letteraria. (…) Sotto diversi riguardi il confronto con il fascismo fu il comune basso continuo che animò due vite che cercarono, quale più quale meno, di affrancarsene».

Se Gadda in Argentina sembra non disdegnare la trazione antibolscevica del fascismo «visto da lontano», in contrasto con il neutralismo del «bojaccio» Giolitti (salvo poi ricredersi nel periodo romano con il regime «visto da vicino»), Montale firma già nel ‘25 il Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Croce. (Nei ricordi di Eugenio figura lo stentoreo «Te lo sei meritato» del padre Domenico – detto Domingo – al ceffone ricevuto da uno squadrista per non aver salutato con rispetto il «cencio nero». Peraltro, in una lettera del ‘23 a un amico scrive: «La rivoluzione sono disposta a farla dentro di me tutti i giorni; ma fuori preferisco non bere olio di ricino o buscare legnate»).

Eugenio fu assunto come direttore del Gabinetto Vieusseux nel ‘29 dal podestà di Firenze, il conte Senatore Giuseppe della Gherardesca, perché sprovvisto della tessera del PNF. Verrà rimosso nel ‘38 per lo stesso motivo. Nel ‘33 era scoppiato il thunderbolt con l’italianista americana dalle «pupille d’acquamarina», Irma Brandeis che in poesia diventerà Clizia, visiting angel, «messaggera accigliata», tornata in Europa un’ultima volta prima della Seconda guerra mondiale proprio nel ‘38 per coordinare le operazioni di raduno degli ebrei a Lussino e a Parigi. Esistenze in rotta di collisione, dissonanze che toccano qui il punto focale. Zunino sottolinea come per Gadda e Montale «i giorni bui dell’autunno 1938» creino la mitologia di un antifascismo più concettuale che d’azione: con l’aria infetta che aleggia nella Cognizione del dolore e nel Pasticciaccio. E la durissima epigrafe del poeta barocco francese d’Aubigné ad aprire Finisterre (pubblicata in Svizzera nel ‘43): «Le loro mani servono soltanto a perseguitarci».

Giro del mondo con Francis Drake

Nella biografia di David Salomoni il racconto di come il corsaro inglese circumnavigò la Terra per colpire l’impero spagnolo. Con lui un prigioniero portoghese, Nuno da Silva, che divenne suo amico e poi fu processato dall’Inquisizione

Alessandro Vanoli | La Lettura | 4 giugno 2023

C’era un mondo intero scosso da venti di tempesta. Scontri di religione, lunghe crisi di potere che agitavano il regno e in tutto questo sopraffazioni, violenze e furti; i nobili che espropriavano le terre con la forza e i contadini che si ribellavano devastando e rubando ciò che potevano nelle campagne in fiamme. Non doveva essere facile crescere in Inghilterra a metà del Cinquecento. Meglio talvolta nascondersi, in qualche luogo sperduto. Per qualcuno che aveva problemi con la giustizia, la regione sud-orientale del Kent, sulle sponde del fiume Medway, andava bene. E se si fosse arrivati sin lì, forse si avrebbe avuta l’idea di un destino già segnato: un relitto scuro di una nave da guerra che si innalzava tra gli sterpi bassi e la nebbia fitta, in un paesaggio di moli e baracche di legno marcito. E dentro a quel relitto una famiglia di fuggiaschi, con alcuni ragazzi che giocavano.

Chi avrebbe mai potuto dire che, tra quei ragazzi, uno fosse destinato a segnare per sempre la storia di Inghilterra; a diventare sir Francis Drake, corsaro della regina, viceammiraglio della marina inglese, colui che avrebbe affrontato un giorno l’Invencible Armada, assistendo alla disfatta della possente flotta spagnola. Ma ci sarebbero voluti ancora tanti anni prima di quel momento. Prima di tutto questo, ci furono gli anni sulle rotte commerciali del Mare del Nord, e poi i primi terribili scontri con gli spagnoli e un viaggio che avrebbe fatto la storia.

In quegli anni di metà Cinquecento, la scena politica si era fatta particolarmente complessa e violenta. Nel dilagare della Riforma protestante, l’Inghilterra aveva inizialmente oscillato: dopo Enrico VIII, che si era staccato da Roma, la figlia Maria aveva restaurato il cattolicesimo, non senza una buona dose di violenza, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Sanguinaria. Ma era stata una parentesi: dopo la sua morte, era salita al trono Elisabetta I, la figlia che Enrico VIII aveva avuto da Anna Bolena. Con lei l’Inghilterra tornava definitivamente nella Riforma, attraverso un passo formale che avrebbe fatto storia: nel 1563, con l’Atto di supremazia, Elisabetta si definiva infatti suprema governatrice dell’Inghilterra. Questo scatenò ovviamente le potenze cattoliche, a cominciare dal papato e dalla Spagna, che ora era retta da Filippo II.

Una parte importante di questo scontro si era già trasferito sul mare: i galeoni spagnoli incrociavano sulle rotte atlantiche e intaccare la loro supremazia militare era decisamente impensabile per un Paese ancora debole come l’Inghilterra, con una flotta militare a dir poco esigua. Si poteva fare qualcos’altro però, una guerra diremmo oggi asimmetrica: piccole navi pirata, contro grandi navi da guerra cariche dei tesori immensi provenienti dall’America. Così cominciarono le fortune dei Sea dogs, i «Cani del mare», come furono chiamati i corsari della regina. E tra loro quel giovane che scalpitava per scontrarsi contro gli odiati spagnoli e guadagnare fantastiche ricchezze.

Furono anni di assalti e violenza. Di rapine e di morti; durante i quali Francis Drake, imparò molto della guerra corsara e ancor più del mare e delle sue nuove rotte. Tanto da capire, lui per primo, che se si voleva portare davvero la guerra agli spagnoli, occorreva osare e spingersi ancor più lontano: sino al Pacifico. E questa la storia che racconta il bellissimo libro di David Salomoni Francis Drake (Laterza), appoggiandosi anche a nuove carte da lui scoperte negli archivi di Lisbona. Una spedizione preparata nel buio, nelle notti d’inverno, tra mille sotterfugi, per non destare sospetti nelle tante spie spagnole che si muovevano per Londra. Cinque piccole navi salpate infine da Plymouth il 13 dicembre 1577; e la rotta più meridionale che gli inglesi avessero mai sperimentato. Poi a Capo Verde, uno scontro fortunoso e il rapimento di un pilota portoghese, Nuno da Silva, che per quegli strani sortilegi del destino, sarebbe diventato un vero amico per Drake, e la guida di quel viaggio verso l’ignoto. Poi il Río de la Plata e i mesi di sosta in Patagonia. Era il 21 agosto e non ancora finito l’inverno australe, quando Drake entrò nello stretto: non era solo la rotta di Magellano quella che Drake stava seguendo; era come se ne ripercorresse le tappe, tra difficoltà di navigazione e persino rischi di ammutinamento, come quello che vide protagonista il nobile inglese Thomas Doughty, che durante il viaggio scivolò lentamente dall’arroganza e l’insolenza sino a una tetra pazzia.

Quando Drake uscì dalle tremende acque dello Stretto di Magellano, il resto della flotta era scomparso. Due navi erano state abbandonate sulla costa orientale del Sud America; un’altra distrutta dai violenti temporali oceanici e l’altra costretta a ritornare in Inghilterra. Drake era rimasto solo con la sua piccola nave, la Golden Hind. Si spinse allora verso nord, attaccando navi e porti lungo le coste del Cile e del Perù e arricchendosi di bottino straordinario. Incontrò soldati spagnoli, indigeni e persino un nuovo territorio che battezzò Nuova Albione, prendendone possesso in nome dell’Inghilterra.

Settimane e settimane, prima di lanciarsi verso ovest, in direzione delle Molucche. Finì per attraversare il Pacifico dove esso si allarga di più. Il 4 novembre era a Ternate, l’isola che lui sperava di trasformare nella futura base del commercio britannico delle spezie; poi da Giava volse la prua al Capo di Buona Speranza per rilanciarsi nuovamente lungo le rotte dell’Atlantico. Il 26 settembre 1580 era di nuovo a Plymouth: aveva compiuto la prima circumnavigazione del globo con bandiera britannica. La regina Elisabetta mostrò tutta la sua riconoscenza recandosi personalmente a visitare la nave e prendendo parte a un banchetto a bordo.

Ma di tutta questa storia. David Salomoni ci offre anche uno sguardo differente, raccontando di quel compagno di avventure, Nuno da Silva. La storia del suo ritorno sarebbe stata segnata da processi e umiliazioni. Drake infatti lo rilasciò Il 13 aprile 1579 nel porto di Hatulco, sulle coste occidentali del Messico, dunque nel viceregno della Nuova Spagna: un luogo a dir poco rischioso per uno come lui. Il portoghese finì per essere accusato di eresia: per avere assistito, si disse, a riti e sennoni protestanti a bordo della nave inglese e avere compiuto di sua spontanea volontà atti di riverenza e sottomissione verso la falsa dottrina cristiana. Torturato e interrogato, era inevitabile che gli fosse riconosciuta la colpa: fu condannato ad abiurare in un autodafé e ad essere esiliato per sempre dalle colonie.

Lo ritroviamo così a Madrid nel 1583, come prigioniero politico. Nella penombra delle austere sale del Consiglio delle Indie, tra carte nautiche, mappamondi e sfere armillari, sotto il severo sguardo dei suoi inquisitori, da Silva rilasciò allora una delle più strabilianti testimonianze mai ascoltate da quegli uomini: il racconto di come Francis Drake, il corsaro della regina, avesse attraversato il mondo.

 

Crimini «ordinari» di una storia violenta, l’età del fascismo

Guido Caldiron | il manifesto | 22 luglio 2023

Non si tratta solo di smentire la vulgata che vuole gli italiani «brava gente» e che, allo stesso modo, assolve i nostri soldati dall’aver compiuto alcuna atrocità prima e durante la Seconda guerra mondiale proprio in virtù di un’attitudine perfino eccessivamente troppo empatica verso il prossimo. L’indagine che compie Eric Gobetti ne I carnefici del Duce ha un obiettivo ben più articolato e originale: comprendere in che misura la lunga stagione del fascismo, protrattasi dal 1922 fino all’epilogo nella Rsi a Salò tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, e le conseguenze di tutto ciò, abbia invece plasmato in senso inverso la società e il carattere nazionale dell’epoca.

L’analisi di Gobetti è netta e indica come, accanto alle violenze del Ventennio, quelle commesse dagli italiani all’estero, nelle colonie come durante il conflitto mondiale, siano «la conseguenza di una specifica ideologia, di un’idea di società basata sul nazionalismo, sul razzismo, sulla violenza e sulla brutalità come sinonimo di forza e potenza». In questo senso, quei crimini non sono l’effetto dell’azione di poche mele marce particolarmente malvagie e crudeli, né una parentesi incomprensibile della nostra storia «naturalmente» buona. Sono piuttosto il risultato di logiche militari, culturali e politiche che hanno raggiunto il loro apice nel nostro Paese col fascismo: «l’applicazione pratica di un sistema di pensiero basato su una graduatoria di razze, nazioni e generi».

In modo meticoloso, e sulla scorta degli studi in tal senso che hanno aperto la strada ad un’altra visione delle vicende patrie – su tutti, il lavoro sul tragico capitolo del colonialismo in terra d’Africa di Angelo Del Boca –, Gobetti fa emergere, accanto ai criminali di guerra più noti, ma mai passati per un tribunale a causa della «mancata Norimberga italiana» e dell’assenza di una reale epurazione dopo il 1945, i carnefici ordinari che si resero responsabili, anche se con ruoli differenti della medesima barbarie. Del resto, i dati che enumera il giovane ricercatore sono impressionanti e lasciano poco spazio al dubbio. Gobetti sottolinea come durante la Seconda guerra mondiale si calcola che circa 850mila militari italiani siano stati impiegati con compiti di occupazione e contro i partigiani locali in Francia, nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo. Circa la metà delle truppe di terra disponibili. Questo, mentre altre centinaia di migliaia di soldati hanno partecipato in precedenza alle operazioni in Libia, in Spagna, in Etiopia e nelle altre colonie africane. «Perciò, sommando ai militari di leva le forze di polizia, i volontari, i funzionari civili, gli impiegati, i coloni e le rispettive famiglie, possiamo dire che buona parte della società italiana è stata coinvolta, direttamente o indirettamente, in questa storia di violenza». E, malgrado i risultati delle ricerche in tal senso non siano mai stati fatti propri dalle nostre istituzioni, neppure a oltre settant’anni dai fatti, dalla Jugoslavia alla Grecia, dall’Etiopia alla Libia, emerge come «una quantità enorme di persone, almeno un milione fra resistenti e vittime inermi, sono morte a causa della politica espansionistica condotta dal regime fascista». Perciò, l’oppressione delle popolazioni soggette alle occupazioni italiane in epoca fascista non è un fenomeno marginale o estemporaneo, ma, come suggerisce Gobetti, «è storia di tutti, fa parte o dovrebbe fare parte a pieno titolo della storia d’Italia».

Il carattere di massa di questo lungo capitolo segnato dalla violenza sembra suggerire qualche ragione supplementare alla volontà, emersa fin dall’immediato dopoguerra, in un contesto rapidamente dominato dallo scontro della Guerra fredda come dalla necessità di scagionare alcuni individui di potere direttamente coinvolti negli eccidi, e però ancora attiva, di lasciare che tutto ciò scivoli sempre più nell’oblio. Malgrado quanto ribadisce Gobetti nelle sue conclusioni, vale a dire che «se la responsabilità dei singoli crimini resta individuale, la colpa globale è dunque dell’intero Paese, e dell’ideologia nella quale si riconosceva».

Casanova

Chi era Giacomo Casanova? Un avventuriero intraprendente, un letterato generoso, un diplomatico accorto, un baro temibile, un viaggiatore instancabile e –ça va sans dire– un grande amante delle donne.
A quasi 300 anni dalla nascita, la storia di una vita straordinaria in un libro che è insieme la biografia di uno dei veneziani più noti al mondo e un affresco originale dell’Europa del Settecento.

Alessandro Marzo Magno racconta il suo Casanova

 

 

La diplomazia del terrore

Dall’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972 sino alla strage di Lockerbie del 1988, passando per gli attacchi contro l’aeroporto di Fiumicino e la nave da crociera Achille Lauro, questo libro si pone un obiettivo ambizioso: quello di comprendere perché l’Europa non è riuscita a vaccinarsi contro il terrorismo internazionale del XX secolo, prevenendo la nuova ondata di violenza politica che ha avuto origine con l’attacco alle Torri gemelle del 2001.

Valentine Lomellini, già autrice de Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, racconta La diplomazia del terrore.

 

Suona, gozzoviglia o ammazza mosche?

Giorgio Ieranò ha letto per tuttolibri Il riposo dell’imperatore di Massimiliano Papini. Qui un estratto.

«I soliti ciccioni grondanti sudore che addentano cosciotti di abbacchio e ingurgitano grappoli d’uva, le solite bocche unte che si baciano lascivamente, staccandosi l’una dall’altra solo per tracannare vino». Così Federico Fellini, mentre lavorava al Satyricon, rievocava gli stereotipi con cui il cinema era solito dipingere i divertimenti dell’antica Roma. Ma, in verità, questi luoghi comuni hanno alle loro spalle una lunga storia. Già gli scrittori antichi narravano con accenti coloriti, per esempio, gli stravizi di Nerone o di Elagabalo.

Ma, stereotipi a parte, come passavano davvero il loro tempo libero gli imperatori romani? Come si configurava il loro otium, cioè tutta quella parte dell’esistenza che era sottratta al negotium, agli impegni politici e militari? […] L’otium dei romani, ricorda Massimiliano Papini, poteva essere litteratum: una sobria e austera pausa di riflessione dedicata alle letture e agli studi. Ma poteva anche essere ignavum o luxuriosum e concretizzarsi in divertimenti più futili e assai meno intellettuali. In entrambi i casi era opportuno staccarsi dalla frenesia della metropoli: rintanarsi nei giardini urbani o prendere la via delle ville extraurbane, in campagna o sul mare (l’otium, inutile precisarlo, era privilegio dei ricchi). Gli imperatori, disponendo in abbondanza di ville e giardini, avevano dunque molti spazi da consacrare al riposo (spazi ai quali Papini, da archeologo qual è, dedica svariate pagine). Ma, al tempo stesso, il loro ufficio rischiava di sottrarli agli ozi così cari agli aristocratici: si narra che Petronio Massimo, effimero signore di Roma per poche settimane nell’anno 455 d. C., fosse scoppiato a piangere, non appena nominato, poiché si rendeva conto che i negotia di un imperatore gli avrebbero tolto tutti gli otia di cui godeva da semplice senatore.

[…] È evidente che non tutti questi racconti saranno veritieri. L’invenzione letteraria o la deformazione diffamatoria animano molte narrazioni. Nerone, senz’altro, si sarà dedicato a divertimenti poco consoni alla dignità imperiale. Ma se suonava la cetra e componeva tragedie (come Augusto, peraltro) non era solo perché era uno stravagante ma perché certi comportamenti erano conformi al suo filellenismo, a sua volta collegato all’idea di un dispotismo svincolato dal vecchio fardello del Senato e ispirato alle monarchie di Alessandro Magno e dei suoi eredi.  […] Se di Domiziano si narrava che passasse ore da solo ammazzando mosche, un caso particolare è quello di Adriano. Alla sua figura storica si è sovrapposto ormai il pensoso personaggio inventato da Marguerite Yourcenar. Per cui tendiamo a immaginare che l’otium dell’imperatore fosse tutto dedicato alla composizione di aeree poesie, come Animula vagula blandula. Però, dalle testimonianze antiche, emerge una personalità assai più contraddittoria: quella di un despota capriccioso che, nel tempo libero, preferiva le grazie efebiche del suo Antinoo alla bellezza delle statue nella villa di Tivoli.

Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta

«Il tempo della mia vita cambiò, il ritmo cambiò. Fu come passare dall’altro lato di un orologio. Vivere qui comportava impiegare il tempo di questo luogo, che scorre sotto lancette diverse, lente e collose, fatte di piogge, di stagioni, di epoche di raccolta, di periodi di deposizione delle uova, di limiti imposti da forze superiori, con le quali l’uomo non compete; semplicemente si arrende, le asseconda, le rispetta.»

Emanuela Evangelista racconta Amazzonia. Una vita nel cuore della foresta

 

 

Cura e lavoro, le contraddizioni di Simone Weil

Francesca Rigotti | Domenica – il Sole24Ore | primo ottobre 2023

Il pensiero di Simone Weil è articolato e complesso, è ricco, contraddittorio e provocatorio e fondamentalmente pessimista. È quanto emerge — al mio sguardo non benevolo verso queste forme di riflessione di tipo mistico-religioso-esaltato — anche da due scritti recenti a lei dedicati, che illuminano in particolare l’aspetto del lavoro e quello della giustizia/cura. Un pensiero, quello di Weil, che anche io, come scrisse Franco Fortini in un breve articolo su «Rinascita» del 1981, ammiro e rifiuto. Rifiuto, per esempio, perché non coerente, la concessione fatta da Weil a seguire «l’obbligo rigoroso» sui nemici da parte dei soldati, senza però andare un millimetro più in là dell’obbligo. L’imperativo categorico kantiano, spietato ma coerente, non l’avrebbe consentito.

Ammiro l’indignazione e la potenza della sua critica. Apprezzo l’acutezza nell’individuare i punti critici e negativi, frutto probabilmente dell’applicazione dell’attenzione, insomma la pars destruens. Tutti punti presenti nelle due opere che presento, dedicate al lavoro e alla giustizia.

Prendiamo il tema della giustizia, finemente analizzato da Greco. Weil introduce una partizione tra diritto e giustizia, nella sua prima opera, secondo la quale il diritto protegge dall’ineguaglianza, anzi, è la sua forza a proteggere i deboli (in seguito vedrà anche il diritto inesorabilmente contaminato dalla forza). La giustizia di Weil invece va oltre, eccede il diritto, coincide con la carità. Rifiuta la benda che impedisce di vedere gli ultimi, i bisognosi; rinuncia alla bilancia con i suoi bracci uguali che dovrebbero garantire l’eguaglianza delle forze, alla spada in cui si annida la forza, ripudiata anche se il suo uso è legittimo. A questi simboli, che rimandano a imparzialità, equilibrio e forza, Weil contrappone attenzione, decreazione, debolezza, là dove decreazione significa la rinuncia di Dio alla propria potenza nel voler far esistere l’altro, l’uomo. È Dio stesso allora che incarna la debolezza che porta alla giustizia-carità; un Dio impotente, un Dio che nel creare la realtà l’abbandona. Che è poi la posizione di un grande filosofo ebreo tedesco, Hans Jonas, che pur di mantenere a Dio l’attributo della bontà e «spiegare» perché non è intervenuto a Auschwitz, gli nega l’onnipotenza.

L’aspetto di Dio che si de-crea, si de-realizza viene sottolineato anche da Scarcia nella sua chiara e articolata analisi delle posizioni sul lavoro di Simone Weil, i cui problemi teorici tanto la attanagliavano da farle cercare la risposta nella fabbrica stessa, dove infatti entrò per qualche tempo come operaia. Weil voleva capire se e come ci potesse essere un’emancipazione del lavoro, se e come il lavoro potesse diventare il luogo della pace, della vera fratellanza e amicizia. A lei l’organizzazione della fabbrica si presentò incomprensibile, oppressiva, infernale, il lavoro manuale le si rivelò quale abbrutimento e sudditanza; non realizzazione ma alienazione, come in Marx. Ma diversamente che per Marx, per Weil è come se non ci fosse speranza, come se il suo Dio si fosse indebolito a tal punto da non lasciare nemmeno immaginare una possibilità di emancipazione. Da una parte Weil apprezza il lavoro, lo ritiene fonte di saggezza, binomio perfetto di pensiero e azione, e poi se ne ritrae, non vede soluzioni o arriva a proporne di improbabili, conservatrici, come il radicamento, il titolo dell’ultima opera, L’enracinement, ove auspicava la fioritura delle comunità locali, il richiamo alle tradizioni, agli spazi di vita condivisi, il ritorno alle radici religiose e spirituali, una mistica del lavoro.

Così, anche la soluzione al diritto contaminato dalla forza è una giustizia la cui essenza è la cura, la carità, l’attenzione all’altro, la discesa, la diminuzione di sé per calare nel bisogno dell’altro. La sua è una giustizia chinata, trasformata paradossalmente in demenza, anzi in un continuo esercizio di misericordia. Vi si cancella l’idea forte che i diritti possono, devono essere, sono la miglior difesa dell’inerme e riguardano la collettività pur curandosi dell’individuo, così importante per Weil.

Certo che nel caso dei migranti sui barconi, qui concordo con Greco, non c’è tempo per chiedersi chi sono, ci si può solo fermare, sbilanciarsi, abbassarsi; certo che i «reati di solidarietà» sono un abominio. Eppure il diritto, i diritti, sono lì per far fronte ai soprusi e garantire l’eguaglianza. Sono i diritti correttamente intesi la difesa dell’inerme. Così come il lavoro, l’azione trasformativa manuale e intellettuale, è, può, deve essere fonte di realizzazione, di crescita, di libertà, di felicità di quell’individuo che sta a cuore a Weil, e di felicità collettiva e per questo occorre contrastare non soltanto la disoccupazione ma anche la precarietà, la moltiplicazione dei contratti personalizzati, la diffusione dei lavoretti, sotto la prospettiva dell’abolizione dei mestieri in seguito ad automazione e digitalizzazione, in una trasformazione che porta sempre di più verso la realtà astratta del mondo matematizzato e non sulla realtà sensibile del mondo vissuto.

Le parole della filosofia: cosa significa ‘identità’

Cosa ci rende le persone che siamo, l’insieme delle nostre caratteristiche psicologiche (i ricordi, le emozioni, i desideri) o la persistenza delle nostre caratteristiche fisiche?

La questione dell’identità personale è tra le più dibattute nella storia della filosofia fin dalle sue origini. Con Piccola guida filosofica all’identità personale, Fabio Patrone conduce per mano in uno dei temi filosofici più sorprendenti.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Editori Laterza (@editorilaterza)

 

 

La rivincita della Storia

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 12 settembre 2023

Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio del 2022, quando ebbe inizio l’invasione russa dell’Ucraina, si impose un riesame della nostra storia. E quel che sostiene Franco Cardini in La deriva dell’Occidente. Quella notte accadde qualcosa che «gli europei non avrebbero creduto potesse più accadere». Vladimir Putin, a dire il vero, non parlò di guerra. Ma nelle settimane successive fu chiaro che proprio di questo si trattava. Una «guerra vera e propria», «la prima sul territorio del nostro continente dopo settantasette anni». In realtà chi ha detto che era la «prima» dimostrava «scarsa memoria e forse anche cattiva coscienza». Dal momento che una «guerra ai margini orientali del continente — un po’ più a sudovest, magari — si era già affacciata alla fine del secolo scorso». Nella «maledetta» primavera del 1999, con i bombardamenti della Nato su Belgrado e sulla Serbia «con tanto di bombe a grappolo, uranio impoverito e stragi di civili innocenti». Guerra a cui presero parte — «sia detto», scrive Cardini, «a vergogna nostra e del governo di allora» — anche aerei italiani.

Un’avventura «maldestra» quella della Nato nei Balcani alla fine del secolo scorso. A cui, dopo l’11 settembre, seguirono quelle che Cardini definisce le «scellerate aggressioni degli Stati Uniti e dei Paesi loro gregari (tra cui il nostro)» contro Afghanistan e Iraq, «destinate a lasciare il Vicino e Medio Oriente in condizioni peggiori di quelle riscontrate all’inizio della crisi». Risultato: un sistema di «multipolarismo imperfetto» che oltretutto stenta ad affermarsi.

Il tutto a smentire la profezia di Francis Fukuyama in La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli). All’idea di una «uscita dalla storia» e di un «impero americano su cui non sarebbe mai più tramontato il sole» si è sovrapposto un «sogno dell’Occidente agitato e pieno di incubi». Sino allo «sconcertante risveglio del 24 febbraio 2022 che ci ha costretti ad arrenderci alla realtà». La storia data per finita da Fukuyama «si è rimessa in moto». Anzi, siamo stati costretti a prendere atto del fatto che «non si era mai fermata».

Quel che è accaduto, secondo Cardini, è riconducibile alla convinzione — «esplicita o strisciante che sia» — di una «superiorità» occidentale. Quella occidentale è l’unica cultura che, nella pratica, sia riuscita a imporre sé stessa alle altre in modo sistematico, insieme con l’idea di un senso della storia universale che andasse a coincidere con una pluralità di dinamiche. Tutte però convergenti nell’accettazione, da parte delle altre culture, della nostra, quella occidentale. Con «una forza» che «sarebbe roseo eufemismo definire solo “della ragione”».

Fukuyama secondo Cardini non si è discostato dalla lezione hegeliana, all’interno della quale «tutto quel che è extra occidentale è perciò stesso arcaico, appartiene a una fase trascorsa della storia universale». L’occidentalizzazione del mondo lascia spazio, là dove si è fatta strada, soltanto a qualche relitto, naturalmente «anacronistico» e «antistorico». Se l’Oriente era la fanciullezza del mondo e della storia, quel che ancora ne rimane (e non si è metabolicamente adeguato all’Occidente) «va trattato come il patetico relitto d’un vecchio bambino che non sia riuscito a diventare adulto». Persino nelle famose lezioni tenute da Jacob Burckhardt a Basilea tra il 1868 e il 1872 — pubblicate come Considerazioni sulla storia universale (Mondadori) — «nonostante qualche fuggevole accenno all’Islam o all’Asia, nulla si coglie che non sia profondamente ed esclusivamente occidentale».

Sembra impossibile, scrive Cardini, infrangere in qualche modo l’incantesimo del «canone storico» imposto dalla cultura occidentale, rispetto alla quale le altre possono solo porsi in un «rapporto analogico concorrenziale». O accettare di «entrare in relazione» man mano che l’Occidente le ha «scoperte». Lo «scambio asimmetrico» sul quale si fonda l’«economia mondo» sembra riflettersi anche nell’ambito dei modi e degli strumenti di ricostruzione del passato.

Perfino Peter Haugen nell’apparentemente anticonformista Storia del mondo per negati (Mondadori) indica «dieci date indimenticabili» che iniziano con il 46o a.C. (avvio della democrazia ad Atene) e si chiudono con il 1945 (il lancio dell’atomica statunitense sul Giappone). Possibile che neanche una di queste date riguardi un avvenimento che non sia rigorosamente «occidentale» e «occidentocentrico»?

Perché dobbiamo accettare il fatto che una storia mondiale è possibile solo a partire dal momento nel quale, tra Quattrocento e Cinquecento, l’Europa occidentale «ha sbriciolato le frontiere di un mondo a compartimenti stagni» e ha obbligato tutte le civiltà in esso esistenti a comunicare tra loro?

L’accettazione di questo punto di vista non significa forse tornare a Hegel, e ammettere con lui che la «storia universale» può essere concepita solo in termini di egemonia dell’Occidente, con ciò stesso proponendo una sinonimia dei concetti di Occidente e di Modernità? In una relazione tenuta a Sidney in occasione di un congresso di storici, Natalie Zemon Davis riuscì a dimostrare che il modello storico occidentale è stato a tal punto «forte» da condizionare «anche l’approccio di coloro che scrivono per mettere in discussione gli imperi occidentali». L’Europa, spiegava Zemon Davis, resta sempre e comunque al centro (magari sottinteso) delle storiografie contemporanee anche americane, asiatiche, africane. Semmai nascosta, l’Europa, dietro termini riferiti al resto del mondo quali «mancanze», «transizioni non completate», «non ancora».

Si sono così messe in atto da parte di storici greci e turchi «strategie di reazione al canone della storia occidentale» in modo da adattare il passato delle loro rispettive tradizioni alla traiettoria europea; o strategie di «universalità alternative» da parte di storici cinesi e giapponesi «caratterizzate da un ritmo temporale loro proprio». Proposte alternative che, però, pur proponendo di ribaltarlo, secondo Zemon Davis, non fanno che ribadire il canone occidentale. Canone che ha una sua linearità fino al termine del Medioevo. Poi, con la «strozzatura» quattro-cinquecentesca, il mondo «chiuso» della cosmografia medievale si è dissolto. Da allora «le linee delle differenti civiltà dovevano fatalmente convergere verso differenti ma inevitabili forme di incontro (o di scontro) dalle quali avrebbero dovuto nascere, e in effetti sono nate, delle sintesi in cui le diverse, rispettive forze delle linee “componenti” hanno dato luogo a una “risultante” in prevalenza senza dubbio occidentale». Fino a giungere all’Occidente moderno, a tal punto attratto dall’«altro da sé» da aver inventato una scienza per studiarlo, l’antropologia culturale. E da aver elaborato un complesso di valori etico-filosofici per favorire la convivenza con altri, cioè «la tolleranza, che si è dovuta misurare con civiltà che sovente non riuscivano neppure a concepire che il “diverso” potesse avere dignità umana».

Solo l’Occidente ha potuto concepire una carta di «diritti umani» valida — almeno secondo i suoi schemi concettuali — per tutto il genere umano; e al tempo stesso è stata solo la nostra civiltà occidentale moderna ad elaborare in modo sistematico — sia pure riprendendo elementi già vivi nelle civiltà passate — una cultura dell’«orientalismo», dell’«esotismo», un’estetica fondata su culture differenti sia pure a tal punto «rielaborate da riuscire speso irriconoscibili». Caratteristica dell’Occidente moderno è la sua volontà di potenza. Nessuna «identità» è «più composita e dinamica di quella occidentale». Eppure, al tempo stesso, «è stato solo quest’Occidente umanitario e tollerante a soggiogare il resto del mondo con la propria volontà di potenza».

La stessa illusione che l’insieme dei «diritti umani» elaborati all’interno della sua civiltà possa essere obiettivamente valido sempre e per tutti, quindi universale, «è un’espressione di quella volontà di potenza». Manifestazione di tale volontà di potenza è considerata da Cardini «la proposta di far valere come principio generale valido per tutto il genere umano il fatto che alberghi nella natura dell’uomo» la «ricerca della felicità», che è nient’altro che «il nostro obiettivo e il nostro sogno». Volontà di potenza è il sistema dei «due pilastri sui quali la Modernità si reggerebbe». Primo pilastro: l’uguaglianza legittimata e garantita dallo Stato. Secondo pilastro: la libertà, incarnata e sostenuta, anche in questo caso, dallo Stato. Peccato solo, nota Cardini, che i «due pilastri» siano in realtà «cavalli ben decisi a tirare in due direzioni opposte». E difatti un di più di uguaglianza «finisce sempre per attentare alla libertà». Un di più di libertà «a indebolire l’uguaglianza». Ci vorrebbe un terzo elemento, un «pilastro mediano». Ad esempio?

La Rivoluzione francese proponeva, «umanitariamente ed utopisticamente», la fratellanza. Ma «pare proprio che, se non sostenuta da una qualche giustificazione metafisica e metastorica, la fratellanza non regga». La pretesa, poi, che la civiltà occidentale sia stata la «grande benefattrice dell’umanità» appare allo storico come un’autentica «frode» o «un immenso abbaglio». Come si può ancora ignorare che questa «grande benefattrice» ha elargito i princìpi primi della scienza, della ragione, della libertà, del progresso, e in cambio di queste bellissime cose — «promesse agli altri e talora in effetti quanto meno parzialmente fornite, di solito a caro prezzo» — si è «serenamente autoassolta» di «tutte le violenze, i furti, gli orrori, le menzogne e le infamie di cui si è resa responsabile nella sua conquista del mondo»?

Il «nostro Occidente» si è largamente e ripetutamente «autobiografato», per dirla con Juan Donoso Cortés quando ha scritto che la storia è «la biografia del genere umano». E «ha biografato il “diverso da sé” solo nella misura in cui ciò lo interessava». E «nella prospettiva che gli conveniva». La sfida del futuro è mantenere il prezioso punto di vista del grande pensatore spagnolo dell’Ottocento e «individuare strumenti e metodi atti a tradurre sul serio in realtà quella sua constatazione che era ai suoi tempi, e resta ancor oggi, solo un auspicio o una finzione».

Cardini esorta a riflettere su due dati di fatto. Da una parte non può esserci dubbio sulla circostanza che la costruzione di una storia dell’Occidente — sostanzialmente armonica e ininterrotta — nonché la sua autocoscienza, dal logos ellenico agli odierni sviluppi del sistema scientifico-tecnologico — «sia eminentemente un’artificiale pretesa ideologica». Pretesa «che ha determinato in tempi relativamente recenti — e con qualche recentissima recrudescenza politica — lo scellerato maturare di pseudo certezze identitarie» (tipo «the West and the Rest»). Dall’altra parte «è altrettanto sicuro che le civiltà fiorite sul pianeta attraverso i millenni e spazialmente separate tra loro da forti distanze, squilibri climatico-ambientali, deserti, montagne e oceani si sono reciprocamente comportate per lunghi millenni come se fossero state separate tra loro da compartimenti stagni, sia pure a imperfetta tenuta». Fu con l’epopea delle grandi scoperte e delle conquiste oceaniche, con l’era — a dirla con Carlo M. Cipolla — «delle vele e dei cannoni», che l’Europa infranse le proprie frontiere e si diffuse nel mondo, dando luogo all’era coloniale e allo «scambio asimmetrico», «quindi a quel processo di globalizzazione che oggi sembra giunto a un momento importante di verifica e di ridefinizione». Verifica e ridefinizione a cui, purtroppo, ancora una volta siamo costretti da una guerra. Al momento solo la guerra d’Ucraina.