I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie

Stiamo lasciando volontariamente aperte le porte della nostra civiltà ai barbari, dimenticando le nostre radici greche e romane? O forse siamo noi i barbari, quando utilizziamo il nostro passato per giustificare il peggio della nostra civiltà? Ecco un piccolo ‘libro nero’ sull’uso politico dell’antichità, che ci aiuta a comprendere cosa c’è di vivo e cosa c’è di morto nel nostro legame con i Greci e i Romani.

Giusto Traina e Laura Pepe dialogano a partire da I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie.

 

La teologia politica è inestinguibile

Teodoro Klitsche de la Grange | L’Opinione | 25 maggio 2023

L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato e ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale. Geminello Preterossi, nel suo saggio Teologia politica e diritto ritiene, invece, che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica, “ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del politico, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso), Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita a eliminare quello che Gianfranco Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Julien Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”.

L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza. Non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare. Tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’Occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti, caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’antipolitica, ne prova l’insostituibilità. La stessa “teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “antipolitica” perché fa dell’immanenza un assoluto, cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “ne deriva che o c’è Dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di Dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollega a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente”.

Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante. “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna. L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto -trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa: “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il contenuto etico non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”.

Così “la teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”. Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le cose ultime. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”. Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Thomas Hobbes, Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Carl Schmitt. Una notazione del recensore a un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale. E noto che a partire da Louis de Bonald, continuando per Juan Donoso Cortés e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato.

Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna, ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortés il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo Stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi, di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

Salone Internazionale del Libro: gli appuntamenti Laterza

Gli appuntamenti Laterza al Salone Internazionale del Libro di Torino.
Vi aspettiamo dal 18 al 22 maggio 2023 al Padiglione OvalStand U77!

 

Giovedì 18 ore 17.15 Sala Rosa
Ma la Storia è un romanzo? Diversi modi per capire da dove veniamo 
con Silvia Ballestra, Mimmo Franzinelli, Giorgio van Straten
modera Carlo Greppi

 

Venerdì 19 ore 11.00 Spazio UniTO
Contro lo smartworking
Savino Balzano

 

Venerdì 19 ore 13.15 Sala Bronzo
Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo
con Carlo Greppi

 

Venerdì 19 ore 17.00 Fondazione Amendola (Salone off)
I carnefici del Duce
con Eric Gobetti, Domenico Cerabona, Isabella Insolvibile

 

Sabato 20 ore 10.30 Sala Blu
La casa di tutti. Città e biblioteche
con Antonella Agnoli, Fabio Geda, Rosanna Purchia, Chiara Saraceno
modera Simonetta Fiori

 

Sabato 20 maggio ore 13.45 Sala Rosa
Dilaga ovunque
con Vanni Santoni, Gianmario Pilo, Gianluigi Ricuperati

 

Sabato 20 ore 14.30 Sala Rossa
Catilina. Una rivoluzione mancata
con Luciano Canfora

 

Sabato 20 ore 17.15 Caffè Letterario
Un mondo di cibo
con Fabio Ciconte, Monia Caramma, Francesca Grazioli, Raoul Tiraboschi

 

Sabato 20 ore 17.30 Arena Robinson
A proposito di Klee
Gregorio Botta con Melania Mazzucco

 

Domenica 21 ore 12.15 Sala Azzurra
Tempi difficili per la Costituzione. Gli smarrimenti dei costituzionalisti
con Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora
modera Geminello Preterossi

 

Domenica 21 ore 17.00 Bosco degli scrittori
Atlante dei boschi italiani
con Mauro Agnoletti e Diego Moreno

 

Domenica 21 ore 18.15 Sala Oro
Le scelte che fanno la Storia
con Alessandro Barbero, Alessia Amante, Giuseppe Laterza

 

Mussolini, la menzogna del comando

Tra sfoghi telefonici e oltre 300 lettere con la Petacci, fatti privati e autocelebrazioni lo storico del fascismo Mimmo Franzinelli costruisce una (auto)biografia del Duce: il ritratto di un dittatore mosso non da un disegno per la nazione ma da pulsioni irrazionali, lucida follia e una volontà di potenza senza limiti

Mirella Serri | tuttolibri | 1 aprile 2023

«Fascismo regime» o «fascismo movimento» secondo la celebre distinzione fatta dal più grande interprete della dittatura, Renzo De Felice? Fascismo fondato sull’azione risolutrice dell’arditismo dannunziano e sull’imposizione dei valori della guerra oppure «regime» caratterizzato dai compromessi con la monarchia, con la classe dirigente tradizionale e con la Chiesa? Non è esattamente così: adesso a rimescolare le carte e a spiegarci i lati oscuri della personalità del Duce – che non fu mai «un grande statista», capace di progetti per uno sviluppo progressivo del Paese – arriva il nuovo libro di uno dei più noti storici del fascismo, Mimmo Franzinelli, Mussolini racconta Mussolini. Franzinelli costruisce un’antologia di testi autobiografici del Duce – dalle confessioni de «La mia vita dal 29 luglio al 23 novembre 1911» fino alle 300 e oltre lettere dell’epistolario con Claretta Petacci nei venti mesi trascorsi a Salò – e ci restituisce un’immagine degli umori, delle esaltazioni, degli improvvisi colpi di testa, delle voluttà e degli innamoramenti politici e culturali del Capo. Nulla a che vedere con un disegno della Nazione, bensì pulsioni irrazionali originate da un ego sconfinato, da un convincimento e da un autoconvincimento delle proprie «volontà di potenza» che non conoscono limiti. Lo storico parla di personalità borderline – simile a quella di Hitler – e di un regime schizofrenico, sottoposto agli alti e bassi degli «istinti» per i quali Mussolini si pensava dotato di un facoltà profetica, come chiamava le sue accensioni, le sue illuminazioni. Di questo aspetto del fascismo gli italiani sono stati prigionieri per venti anni.

Professor Franzinelli, lei descrive non solo l’ambito privato di Mussolini ma le sue folli autocelebrazioni e le cupe zone d’ombra che condizionano la vita pubblica. Tratteggia la figura del dittatore in balia di una lucida follia che non può non impressionarci. Come è arrivato a queste conclusioni?

«Operando selezioni dall’Opera Omnia di Mussolini curata da Duilio e Edoardo Susmel. Ho composto un’inedita sequenza autobiografica, nella quale è arduo distinguere il pubblico dal privato. Mussolini che parla o che scrive di se stesso attua falsificazioni continue della realtà. E impressionante: si tratta della costruzione sociale della menzogna come leva di comando. Cambia e modifica le sue posizioni, senza compiere mai scelte lungimiranti o che guardino all’interesse pubblico. Si muove a seconda di stati d’animo e di convenienze. Questa alterazione dei dati di realtà l’ha operata fin da quando rievoca l’infanzia: ci descrive la sua scuola con toni molto letterari e costruisce un’atmosfera dickensiana. Si tratta dei Salesiani di Faenza, dove con una disciplina militaresca istitutori sadici si sfogano contro chi non può difendersi. Benito, entratovi a nove anni come scolaro di terza elementare, è punito per le sue posizioni controcorrente. Vessazioni e umiliazioni gli suscitano sentimenti di istintiva ribellione, con reiterati tentativi di fuga. La descrizione del maestro elementare è degna di un romanzo noir, in una narrazione fondata sul parossismo e sull’esagerazione che serve solo a pubblicizzare l’immagine del genio in fieri. Confiderà successivamente a Petacci di aver compreso a sedici anni che avrebbe realizzato grandi cose: “i coetanei sentivano che avevo qualcosa più di loro, che ero già qualcuno”. Anche le sue numerosissime conquiste erotiche sono raccontate in modo che venga evocato un parallelismo tra il suo rapporto predatorio con il mondo femminile e il suo potere sulle masse da lui equiparate a femmine bisognose di dominio».

Mussolini opera forzature della realtà anche narrando la prima guerra mondiale?

«Per tenere aggiornati i lettori, pubblica sul Popolo d’Italia un vigoroso Giornale di guerra in cui racconta tremende avventure al fronte, scontri sanguinosi e colpi di cannone. Al contrario, in privato comunica invece all’amico Torquato Nanni che si trova in luogo dove “nulla di importante accade”. Sul giornale celebra continuamente il cameratismo, gli scambi e la solidarietà che si instaurano tra commilitoni. Ad amici e collaboratori descrive all’opposto lo schifo, la repulsione fisica e intellettuale che gli suscitano i suoi compagni: parla “dell’istintivo ribrezzo della convivenza forzata diurna e notturna con individui di un livello intellettuale basso”, nonché dell’avversione “per il maggiore comandante del mio battaglione”. Quel che è peggio, si autoconvincerà delle sue stesse esagerazioni, in una visione artefatta, idilliaca della Grande Guerra che influenzerà la sua visione di quella che sarebbe stata la partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale».

Una megalomania che porterà Mussolini a farsi carico di iniziative inutili e azzardate, con migliaia di vite umane mandate allo sbando?

«Successe ad esempio nella campagna italiana di Grecia. Nel marzo 1941 una serie di telefonate dal fronte greco-albanese mostrano l’abissale distacco di Mussolini e l’incomprensione degli avvenimenti. Era convinto di rinvigorire con la sua sola presenza i combattenti e di respingere la controffensiva ellenica. Dapprima è entusiasta per l’accoglienza tributatagli dalla truppa: “Mi sento ringiovanito di almeno 25 anni. Questa è veramente un’atmosfera eroica e forte e sana”. Poi la visione di feriti e morti lo turba. Però insiste: “Vinceremo! Questa è la vera Italia, quella che io ho voluto”. Poi ammette con Claretta il crollo di ogni aspettativa: “Tutto va diversamente da come avevo creduto! La prima settimana è stata entusiasmante, accesa e viva; la seconda di attesa, di speranza, di alternativa: tutto inutile”. Ma attribuirà la colpa della sconfitta agli italiani capaci di fare solo “i loro porci comodi” e non invece di sacrificarsi per l’ideale».

Dal momento in cui diventa Duce, il suo Io tronfio non conosce più limite?

«Esasperato dal divario tra ambizioni e realtà, batte sempre sul nervo scoperto dei connazionali inetti: “L’entusiasmo è un’apparenza. La verità è che sono stanchi di me, che li faccio marciare. Perché loro vogliono sedere, hanno le emorroidi…”. Contemporaneamente confida solo in se stesso e nel suo potere. Ma le sue drammatizzazioni si scontrano sempre con quello che accade. In privato smentisce persino la retorica imperiale. A Claretta ricorda che i suoi uomini in Etiopia sono tutto il contrario di quello che appaiono e si mostrano ladri, infedeli o inclini ad accoppiamenti indebiti “con le negre”, come il governatore Alessandro Pirzio Biroli che prediligeva le minorenni e che sarà pertanto destituito da Mussolini. I commenti che riferì all’amante sull’attuazione delle leggi antiebraiche del 1938 furono spietati. Lo irritava la solidarietà dei suoi concittadini con i perseguitati. “Questi schifosi di ebrei, bisogna che li distrugga tutti…”. Era convinto che le sue considerazioni negative cambiassero la realtà. Pensava di risollevare i destini della guerra con i suoi discorsi – e gli yes-men che aveva intorno glielo facevano credere. Si mise persino a disegnare personalmente le divise dei gradi militari più elevati. Come se un fatto estetico potesse mutare l’andamento fallimentare del conflitto mondiale».

Il persistente senso di onnipotenza condiziona il Duce anche verso la fine della sua vita, a Salò?

«Direi di no, prevale l’autocommiserazione e la sfiducia. Nel discorso del 24 giugno 1943 sull’emergenza italiana eccolo pronunciare una serie di strafalcioni: confonde la battigia col bagnasciuga, scambia Protagora con Anassagora. Chiederà a Claretta se si è accorta “delle gaffe… delle frasi fuori luogo”. E incapace di reagire, vive in perenne stato confusionale».

Professore, le autorappresentazioni schizofreniche che nella fase giovanile avevano alimentato lo spirito antisistema, vitalismo, entusiasmo e fiducia, al tramonto della sua esistenza diventano stanchezza, desiderio di morte?

«Aumentano la labilità e l’insicurezza. Ma nella sua condizione di borderline, da vero megalomane Mussolini non si smentisce mai e gli rimane la propensione ad assolversi per la rovina d’Italia, presentandosi come vittima di oscuri complotti».

Miti e modelli eterni per compiacere il contemporaneo

Giusto Traina analizza con scattante ironia gli stereotipi, le sciocchezze e gli abusi che popolano il discorso comune sull’antico

Carlo Franco | Alias | 23 aprile 2023

L’attenzione rivolta al mondo antico affronta nel presente una trasformazione radicale. L’interesse per il passato, in qualunque forma, è in affanno rispetto al dilagare del presentismo. Le istanze della cultura globale infatti hanno marginalizzato (e colpevolizzato) la cultura greco-romana. La guerra allo storicismo ha sconfessato i metodi della presunta «scienza dell’antichità». Il paradigma filologico sopravvive solo dentro una piccola cerchia di dotti. L’autorevolezza del metodo e della critica è stata mortificata. Sono decadute competenze tecniche e linguistiche un tempo diffuse, sono cresciuti invece gli studi sulla «ricezione» del mondo antico: un modello flessibile e moderno, ma non così innocuo, giacché la persistenza dell’antico ha creato (anche) un costrutto ideologico fatto di ambiguità e tratti talora imbarazzanti (come un pensiero eurocentrico, solo di recente ripensato in modo critico).

Di tutto questo discute uno scattante libro di Giusto Traina, che per scelta adotta una scrittura leggera (ma con solida informazione), remota dallo stile inutilmente pensoso di certi tardivi elzeviristi dell’antico: I Greci e i Romanici salveranno dalla barbarie. Il titolo suona ironico: come un Lucrezio che rivela i guasti della religiosità tradizionale, Traina mostra che in nome dei classici greci e latini «si sono giustificate e tuttora si giustificano brutte cose». Altro che incolpare i barbari, quindi. La dimostrazione si serve di una panoramica delle sciocchezze ovvero delle banalità che popolano il discorso comune sull’antico. Con forza, ne denuncia gli stereotipi e gli abusi, spesso branditi come valori da certe vestali nostalgiche dei giorni felici (sebbene ormai quasi sepolte, come Winnie). Ce n’è per tutti.

Anzitutto per chi continua a pensare solo a una Grecia classicheggiante, fatta invariabilmente di partenoni e pepli bianchi, di democratici ateniesi vincitori di gradassi e rammolliti persiani, di filosofi barbuti che additano cielo (o terra). Tollerate appena le chiese bizantine e gli igumeni barbuti. Invisibile, invece, e incompresa, rimane la Grecia moderna e contemporanea, i cui palazzi e il cui traffico s’intrude e disturba il sogno romantico (che meglio si cercherebbe, in tal caso, nella Königsplatz di Monaco). Di qui la difficoltà verso ogni approccio diverso: quello di chi sia attratto dalle «radici afroamericane» della civiltà classica, ma anche quello di chi ami una grecità primitiva e violenta, tra Nietzsche, Frazer e Pavese. Non per caso, invece, si continuano a illustrare libri sull’Ellade con quadri di Alma-Tadema e simili, che sono rassicuranti o, alla peggio, morbid. E si continuano a ricercare miti e modelli «eterni», che compiacciono il gusto contemporaneo per la narrazione edificante. Così, dopo aver affermato che riprendere o imitare i «valori» antichi era un errore, si finisce felicemente per ricercare i nostri valori nei testi dell’antichità. E dunque, se nell’Ottocento ogni poeta patriottico era un Tirteo, oggi ogni giovane ribelle è invariabilmente un’Antigone. Identificazione che poco convince chi ricordi che, nella tragedia di Sofocle, la figlia di Edipo dichiara di stare meglio con i morti che con i vivi (v. 75), non già di agire in nome della libertà o del pacifismo, come si preferirebbe. Nella Tebe di Sofocle, insomma, non c’era una Rosenstraße.

Altro grande capitolo di riuso improprio dell’Antico è stato quello di Roma in età fascista. Quell’idea della romanità derivava, certo, da un «mito» radicato almeno dai tempi di Mameli, poi rivitalizzato dal nazionalismo. Il fascismo ne fece il centro di un progetto identitario, unendovi «Roma, onde Cristo è romano» e piazzando il latino persino sui francobolli postali. Più insidiosa fu la vernice classica di uno sforzo imperiale, che risultò improvvisato ed effimero. Il tema è molto studiato, non solo in Italia, talora con contributi nuovi, soprattutto d’archivio. Antico fu anche il modello esibito a supporto del nostrano colonialismo, soprattutto nella fase libica e nella guerra etiopica. E proprio l’educazione classica sembra aver aiutato intellettuali anche insospettabili ad abbracciare la causa: da Pascoli che nel 1911 elogiava l’azione della «grande proletaria», al pensoso storico cattolico Gaetano de Sanctis, che da antifascista appoggiò nel 1936 la guerra di civiltà in Etiopia.

Ancora paradigmi antichi sorressero dunque (o ci provarono) la politica aggressiva dell’Italia mediterranea, immaginando nuovi Scipioni e «quarte» guerre puniche: ma la battaglia finale in Africa del maggio 1943 ebbe un esito opposto al presunto modello. Sia chiaro, questi riusi e abusi sono naturali, e fanno essi pure parte della «fortuna» dei temi antichi, quando agiscono su di essi le sollecitazioni mutevoli della politica o dell’ideologia. Ma rispetto a tutto questo, quale è stato il ruolo degli antichisti, custodi dell’ortodossia? A loro, in verità, toccano nel libro note sarcastiche. Dell’abuso fascista, in larga misura, furono complici, perché toccava loro una visibilità mai più raggiunta. Passata quell’orgia, e maturati tanti elementi di crisi dell’antico, essi spesso sono stati difensori maldestri, che alla causa del mondo classico hanno recato più danno che vantaggio. Ritenerli responsabili di un guasto potrebbe parere accusa ingenerosa: in fondo, gli antichisti oggi sono minacciosi per l’assetto sociale e economico quanto lo era il dodo per gli abitanti di Mauritius. E la fine di entrambi pare sia per essere la medesima.

Come che sia, Traina è lontano dai piagnistei sulla decadenza dei classici, e addita piuttosto un fattore importante di crisi dell’antichistica nella perdita di «curiosità» degli addetti ai lavori. Molte energie sono da anni indirizzate a sistemare il nuovo nel noto, con abbondanza di formalismi e di ricerche poco o punto creative. Il criminogeno sistema di reclutamento accademico fa il resto, soprattutto nel decrepito settore umanistico, sterilizzando le indagini secondo modelli ingabbiati o prevedibili (compreso gender o inclusività, s’intende).

Se il mondo greco-romano può dare ancora risposte alle domande del nostro presente, ciò dipende dalla capacità di guardare verso realtà marginali, meno evidenti, ma non perciò assenti dall’immagine che il mondo classico ha mostrato di sé o che i moderni giungono a comprendere. Grecità e barbarie, osservò tempo fa Tucidide, sono concetti complementari. Proprio ai barbari andrà dunque rivolto lo sguardo (come nella tarda antichità?) per trovare un posto ai classici. Li si potrà studiare nelle relazioni internazionali, e non solo per capire la «trappola di Tucidide». D’altra parte, la sfida si fa ardua: un importante ateneo italiano ha attivato un corso di Global Humanities. Quindi? Quindi i Greci e i Romani, se alleati con i «barbari», si salveranno, e ci salveranno dalla muffa, ormai tossica, del classicismo.

Il male di scrivere sotto il fascismo

I rapporti di Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale con la dittatura: dall’iniziale assenso
del primo all’indifferenza del secondo. Fino alla netta condanna di entrambi per il baratro provocato nel Paese

Raffaele Liucci | ilSole24Ore | 2 aprile 2023

Si può ancora scrivere qualcosa di innovativo su Carlo Emilio Gadda (1893-1973) ed Eugenio Montale (1896-1981), due mostri sacri delle patrie lettere sui quali esistono ormai intere biblioteche? Ci è riuscito lo storico torinese Pier Giorgio Zunino, già autore di ricerche fondamentali sull’Italia novecentesca (il suo opus magnum è La Repubblica e il suo passato, 2003). Adottando la formula delle vite parallele, l’autore ha ripercorso l’atteggiamento di Gadda e di Montale nei confronti del fascismo, dalle trincee della Grande Guerra (nelle quali si era forgiato l’uomo nuovo mussoliniano) sino alla Seconda guerra mondiale. Un quarto di secolo della nostra storia raccontato attraverso lo sguardo di due letterati – incrociatisi di rado – capaci di «afferrare la realtà del mondo» che li circondava, «muovendo spesso dai più minuti dettagli». L’originalità di Zunino sta nell’averne scandagliato i carteggi, gli scritti e le opere più propriamente narrative e poetiche con l’occhio dello storico, in un corpo a corpo dal quale scaturiscono almeno tre questioni più generali.

Innanzitutto, la centralità della guerra nella società del tempo. Gadda, come è noto, non si liberò mai dallo «spasimo bellicista». Interventista della prima ora, volontario negli Alpini, vide nel conflitto l’unico mezzo per rigenerare il Paese dal grigiore giolittiano, come risulta evidente dal suo Giornale di guerra e di prigionia (apparso soltanto nel 1955). Ma anche il più apatico Montale, combattente al fronte nell’estate-autunno del 1918, visse «indimenticabili momenti di esaltazione comunitaria e di appassionamento patriottico». Zunino ricava questo dato, spesso trascurato, da un’attenta lettura del carteggio della sorella Marianna, «insostituibile testo di riferimento per intercettare qualche attendibile raggio di luce su Eugenio durante la Grande Guerra».

In secondo luogo, la compenetrazione tra il fascismo e il Paese (un tema peraltro già affrontato dall’autore in un illuminante volume del 1991, Interpretazione e memoria del fascismo). Nel turbolento Dopoguerra, scrive Zunino, «il fascismo che improvvisamente scaturisce dalle profondità della società italiana» rappresentò un balsamo per il déraciné Gadda, in preda alla tristezza del reduce. Montale, invece, firmatario del manifesto di Croce del 1925, non prenderà mai la tessera del PNF. Afflitto da un «male di vivere» incompatibile con le passioni forti, direttore dal 1929 al 1938 del Gabinetto Vieusseux, visse stando alla finestra, barcamenandosi fra vari gerarchi (come Corrado Pavolini e Galeazzo Ciano) il cui appoggio non sempre poté evitare. Al di là dei loro percorsi asimmetrici, sia Gadda sia Montale riusciranno infine a cogliere la realtà di «un regime proiettato a controllare la vita di tutti in ogni singolo istante». Paradigmatico, in questo senso, il carteggio amoroso e transoceanico intercorso fra Eugenio e l’italianista statunitense Irma Brandeis («Clizia»), in cui il poeta dipinge «un panopticon dell’intellettualità italiana vista da un membro di quello stesso mondo».

La terza questione riguarda la labilità dei confini tra fascismo e antifascismo, una condizione cui non si sottrassero neppure i nostri due protagonisti. Negli anni del «consenso» e della conquista dell’Etiopia, persino Montale – come del resto diversi oppositori del regime – fece qualche passo indietro rispetto alla sua ferma (ma silente) «ripulsa nei confronti del fascismo». Viceversa, verso la fine degli anni Venti il patriottismo di Gadda cominciò a evidenziare qualche crepa. Se l’ingegnere aveva sempre apprezzato la pars destruens del fascio littorio (infliggere un colpo mortale alla «porca Italia» imboscata e giacobina), cominciò a nutrire qualche dubbio sulla sua pars construens, ossia sullo Stato «nuovo», ancora dominato da camaleontici carrieristi. Del resto, si chiede Zunino, «come poteva mai armonizzarsi con le idee del fascismo una struttura mentale» quale quella gaddiana, portata per definizione a eliminare «il fondamento di ogni mito e illusione?».

Lo storico torinese coglie i segni di questo disamoramento nell’«intensa relazione» intrattenuta da Gadda con un filosofo solitario come Piero Martinetti, uno dei pochissimi cattedratici a rifiutarsi nel 1931 di giurare fedeltà al regime (Zunino ha curato nel 2011 le sue Lettere 1919-1942). Ma significativo è anche un romanzo «impubblicabile» come La meccanica (iniziato nel 1928), il cui unico personaggio positivo, tutto «cuore» e «rettitudine», è un operaio socialista. Inabissatosi al pari di un fiume carsico, questo «turbamento provocato dall’andamento delle cose italiane» riaffiorerà pienamente solo nel secondo Dopoguerra, in un’opera come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), non a caso ambientato nel 1927. Ossia proprio nel periodo in cui Gadda aveva cominciato a maturare le prime riflessioni sul fossato che separava la vita quotidiana degli italiani dall’autorappresentazione mitologica del regime (sulla quale lo stesso Zunino ha pubblicato nel 1985 un importante contributo, L’ideologia del fascismo).

Il lungo viaggio di Gadda attraverso il fascismo si concludeva il 29 ottobre 1939, quando in una lettera allo scrittore Bonaventura Tecchi parlò di Hitler, alleato del duce, come di un «mostro sadico che cerca rivincite di carneficine alla sua impotenza». In quanto a Montale, il definitivo risveglio era avvenuto nella «primavera hitleriana» del1938 (poi oggetto di una sua indimenticabile e, nella stesura, quasi coeva poesia): in particolare in quel tardo pomeriggio del 9 maggio in cui il poeta aveva assistito sgomento tra la folla fiorentina al passaggio in auto del Führer, all’indomani dell’invasione tedesca dell’Austria. Sulla soglia della guerra, entrambi i letterati videro dunque il «baratro verso cui l’Italia si stava incamminando», e varcarono definitivamente il Rubicone, sia pure nel loro foro interiore. Peccato che Zunino non abbia esteso la sua raffinata esegesi ai percorsi paralleli da loro intrapresi dopo il ‘45, nella repubblica democratica. Tema per un altro libro?

Gesti che fanno la storia

La letteratura, con la sua attenzione all’individuo, aiuta a capire meglio il passato

Walter Veltroni | Corriere della Sera | 25 aprile 2023

Uno dei film più belli sul fascismo è il racconto di una storia in cui il fascismo è un’assenza. Una clamorosa assenza. E un gigantesco condominio di Roma che si svuota di ogni essere umano perché Hitler è arrivato nella capitale e tutti, volenti e nolenti, adulti e bambini, vanno a rendere omaggio al dittatore nazista. Le camicie nere di ogni taglia sciamano verso il cancello e in quello spazio enorme, che per lo spettatore diventerà da quel momento il mondo intero, rimangono solo due persone.

Una donna del popolo, Sofia Loren, che vive in modo semplice la suggestione del fascismo al punto da aver provato un mancamento, un giorno, vedendo Mussolini su un cavallo bianco a Villa Borghese.

Nella finestra di fronte abita invece un annunciatore dell’Eiar, Marcello Mastroianni, licenziato dalla radio perché omosessuale e antifascista.

Il fascismo regime invadente, pesante, massificante diventa qui un vuoto tronfio in cui risuona come sovversiva la solitudine di due anime diverse che si incontrano.

Una giornata particolare è storia?

Lo è meno o più di quella organizzata nei manuali e nei saggi, prodotta dal faticoso, insostituibile lavoro sulle carte, sulle date, sui fatti che gli studiosi producono per far conoscere, capire, discutere?

È il tema di Invasione di campo, il bel saggio, pubblicato per i tipi di Laterza, che Giorgio Van Straten ha dedicato al rapporto tra letteratura e storia.

L’autore sostiene, a mio avviso a ragione, fin dall’inizio ciel volume, una tesi chiara: che esse abbiano un’origine comune e dunque «rimandino alla volontà di un confronto con la realtà e la sua memoria, con le esistenze delle donne e degli uomini per come concretamente sono state o si può immaginare che siano state; che entrambe, storia e letteratura, abbiano a che fare con gli individui, e con il desiderio di ricrearli, di rappresentarli e, si potrebbe dire, di riesumarli».

La storia si può non solo scrivere nella sua pura dimensione «fattuale». La si può raccontare assumendo come centro narrativo la condizione umana, individuale o collettiva.

Cioè la storia non ha solo un aspetto «strutturale» al quale l’approccio marxista ha affidato in passato il compito esclusivo di spiegare i fatti, ma essa può filtrare attraverso il vissuto degli umani. Anche solo di un essere umano.

Non aveva in fondo fatto così Omero raccontando di Ettore, Achille, Ulisse? Van Straten analizza, in particolare parlando di Primo Levi e di Beppe Fenoglio, i casi in cui la letteratura si è fatta storia per la capacità di scrittori – in questo caso dei testimoni diretti di portare un po’ più avanti la lettura dei fatti.

Primo Levi capì per primo e raccontò la natura complessa della «zona grigia» con la quale fece i conti nel campo di concentramento e che non è semplificabile nell’indifferenza o nella pura equidistanza.

Fenoglio, in particolare con Una questione privata, raccontò la Resistenza lontano dagli stereotipi riduttivi della letteratura celebrativa e si avventurò nella individuazione dell’esistenza di quella «guerra civile» di cui Claudio Pavone ebbe anni dopo il coraggio, culturale e civile, di parlare da storico di vaglia.

Ha scritto, forzando i termini della questione, Hans Magnus Enzensberger: «Il racconto dello storico è singolarmente privo di umanità. La storia viene esibita senza il suo soggetto: le persone. “I disoccupati”, si dice, “gli imprenditori”». Non per caso, per raccontare la tragedia del Titanic, storia pura, lui stesso adottò la forma del poema epico.

Il concorso della letteratura e della storia può offrire la possibilità di leggere in forma compiuta il succedersi degli eventi, la loro influenza sulla vita individuale e collettiva, persino il loro senso ultimo.

Van Straten cita lo scrittore americano Daniel Mendelsohn che ha indagato il rapporto tra storia e persona: «Da una parte esiste l’infinita gamma di possibilità dovute al caso, al tempo, allo stato d’animo, l’inconoscibile e sterminata massa di eventi che costituiscono la vita di un individuo o di un popolo; dall’altra in questo incredibile e illimitato universo cii fattori e possibilità, si intersecano la personalità e la volontà individuale, le decisioni, la capacità cui operare distinzioni, quindi di creare.».

In fondo la stessa storia degli eventi non è stata condizionata, sovente, dalla influenza delle decisioni umane e non solo dai grandi processi economici, sociali, politici?

Se Rosa Parks nel 1955 non si fosse rifiutata a Montgomery di cedere il suo posto a un bianco, se quello sconosciuto cittadino cinese non si fosse piazzato con due buste della spesa davanti ai carrarmati ciel regime di Pechino, se Libero Grassi non si fosse rifiutato di pagare la mafia, se Mahsa Amini non avesse scelto la sua dignità di ragazza iraniana…

Persone, il cui gesto, magari maturato In un istante, ha segnato la nostra storia.

Scrive Van Straten, in un libro che sviluppa un dibattito aperto proprio sulle pagine de «la Lettura », a proposito della necessità di superare un approccio esclusivamente «scientifico» al racconto storico: «Le donne e gli uomini in carne e ossa chiedevano di tornare a far parte della scena, come singoli e non solo come parte di una classe, di un’etnia o di una generazione, e insieme a questo elemento era riemersa anche la scelta di una nuova generazione di storici di partire da eventi singoli in grado di gettare luce su un intero periodo, sui fenomeni di maggiori dimensioni.».

Su versanti diversi Antonio Scurati e Patrick Modiano, l’uno affrontando letterariamente una attenta ricostruzione del fenomeno Mussolini e l’altro scegliendo di ricostruire la storia di Dora Bruder, una ragazza quindicenne scomparsa negli anni della deportazione degli ebrei dalla Parigi occupata, ci hanno offerto, ma cito solo due tra tanti, la possibilità di leggere la storia attraverso le vite individuali e viceversa.

Cipolla, Ginzburg, Diamond e tanti altri hanno dimostrato anche come sia affascinante il percorso inverso, quando la storia, quella degli specialisti, intreccia le due dimensioni.

Come ha spiegato Giovanni De Luna, a proposito del suo lavoro sulle donne perseguitate durante il fascismo: «La scelta obbligata era quella di coniugare “la storia” con le “storie” ponendo al centro del racconto il nesso individuale collettivo: la contraddittorietà delle vicende individuali veniva assunta consapevolmente come una straordinaria opportunità conoscitiva».

Con una avvertenza, però. Viviamo un tempo nel quale il rischio è opposto a quello del passato.

Siamo infatti costantemente bombardati da storie minute, diffuse per la loro particolarità ed elevate a simbolo esclusivo di problemi e tendenze generali. Un infinito e onnipresente «Strano ma vero» diffuso per indurre facile emotività e disabituarci alla complessità, al dubbio, al legame tra particolare e universale.

Ma proprio storia e letteratura possono servirai, nel loro meraviglioso intreccio, per evitare il rischio di diventare tutti degli isterici, insiemi e ingenui bevitori di frivola e pelosa superficialità.

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Marckalada, l’America molto prima di Colombo

Francesco Marzella | Avvenire | 16 febbraio 2023

Che Colombo e i suoi non siano stati i primi europei a metter piede in America, è cosa ormai da tempo acclarata. Le saghe islandesi ricordano i viaggi di alcuni coraggiosi che intorno all’anno mille si spinsero dall’insediamento islandese in Groenlandia (“la Terra verde”) verso un occidente ignoto, approdando prima a una terra coperta da ghiacciai e caratterizzata dalla presenza di rocce lisce, che fu pertanto ribattezzata Helluland (“la Terra delle pietre lisce”) e poi navigando ulteriormente fino a raggiungere una regione pianeggiante e boscosa, che chiamarono Markland (“la Terra dei boschi”). Di lì proseguirono ancora, fino a una terra cui diedero nome di Vinland (“la Terra del vino”) dove si fermarono per un po’ prima di far ritorno in Groenlandia. Alcuni testi menzionano anche l’incontro, degenerato in scontro, con le popolazioni locali, che avrebbero costretto gli islandesi a riprendere il largo sulle loro navi.

L’evidenza archeologica provò in seguito che il racconto delle saghe poteva effettivamente avere basi storiche. A l’Anse aux Meadows, sull’isola canadese di Terranova, furono ritrovate negli anni ‘600 le tracce di un insediamento vichingo che ebbe vita breve e servì probabilmente come base per esploratori che si sarebbero spinti anche verso terre più meridionali. L’insediamento è databile intorno all’anno mille, un dato compatibile col racconto delle saghe che prova come quel continente sia già stato raggiunto da europei quasi cinque secoli prima di Colombo.

C’è però un’altra parte della storia del rapporto fra Europa e Nuovo Mondo prima di Colombo che attendeva ancora di essere raccontata e che riaffiora da un testo inedito di metà Trecento. Poche righe che descrivono una terra rigogliosa, chiamata Marckalada, posta a occidente della Groenlandia, che secondo quanto raccontano «i marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia», sarebbe popolata da giganti, come del resto si dedurrebbe da alcuni edifici costruiti con pietre così imponenti «che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi».

Si parla ancora di Markland, quindi. Non in Islanda o in un altro Paese scandinavo, ma questa volta in Italia, e più precisamente a Milano. Paolo Chiesa, professore di Letteratura latina medievale all’Università degli studi di Milano, ha dato notizia della scoperta per la prima volta nel 2021, con un articolo pubblicato sulla rivista accademica Terrae incognitae che ha suscitato grande clamore. Ora la scoperta viene raccontata anche in un saggio pubblicato nella collana I Robinson di Laterza, Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, che ha per protagonisti un autore trecentesco con la passione per la storia e la geografia e un manoscritto di cui a lungo si è sottovalutata l’importanza. Il cronista è un frate domenicano che risponde al nome di Galvano Fiamma, è attivo presso i Visconti e nutre ambizioni non necessariamente proporzionate al suo talento di prosatore. Sarebbe anche un autore prolifico, ma è troppo pedante e lascia spesso incompiute le sue opere per via delle revisioni continue mai portate a termine. Il manoscritto in questione non è un autografo, ma una copia eseguita da uno scriba milanese una cinquantina di anni dopo la morte dell’autore e forse commissionata dai Visconti. Sul finire del diciannovesimo secolo compare dall’altra parte dell’oceano, fra le donazioni fatte da un collezionista americano alla città di Omaha, nel Nebraska, mentre un centinaio di anni dopo viene messo all’asta perché l’amministrazione pubblica ha bisogno di far cassa e viene presentato come una copia del Cronicon maius di Galvano Fiamma. Grazie ai dettagli che trapelano dopo una seconda asta, si inizia a intuire, però, che il codice potrebbe contenere un testo diverso. Sarà proprio Paolo Chiesa, quando avrà la possibilità di esaminare il manoscritto per gentile concessione del nuovo proprietario, a confermare che in realtà si tratta dell’unico testimone di un’altra opera di Galvano, la Cronica universalis, ancora inedita. Dalle pagine del codice, trascritte dagli studenti coinvolti in un progetto didattico, è emersa, fra le altre cose, la menzione di Marckala(n)da, che rivela come anche nell’area mediterranea circolassero notizie di quella tersa lontana grazie alla «permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest». E dov’è che Galvano venne a conoscenza dei racconti dei marinai del Nord? Colombo dunque sapeva? Le possibili risposte a queste domande si possono trovare fra le pagine di Marckalada, che resta prima di tutto il racconto di una scoperta – di cui il lettore potrà valutare la portata – che illustra metodi e obiettivi del lavoro del filologo, esalta la ricerca «come atteggiamento e vestito» e vuole insegnare che «il sapere non è un dato, ma un processo» che porta a una comprensione della realtà sempre diversa e «mai definitiva».