Questi gli store online che aderiscono all’iniziativa:
*escluse le novità degli ultimi sei mesi e le collane universitarie
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Torna Laterza in libreria: ogni mese un podcast ricco di curiosità sulle nostre novità, scritto e curato da Emilio Fabio Torsello.
Su Spotify la sesta puntata, dedicata alle uscite nel mese di giugno 2023, dal titolo: Storie sotto il mare
Buon ascolto!
Torna Laterza in libreria: ogni mese un podcast ricco di curiosità sulle nostre novità, scritto e curato da Emilio Fabio Torsello.
Su Spotify la quinta puntata, dedicata alle uscite nel mese di maggio 2023, dal titolo: L’ipocrisia dell’abbondanza
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Torna Laterza in libreria: ogni mese un podcast ricco di curiosità sulle nostre novità, scritto e curato da Emilio Fabio Torsello.
Su Spotify la quarta puntata, dedicata alle uscite nel mese di aprile 2023, dal titolo: Mussolini racconta Mussolini
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Stiamo lasciando volontariamente aperte le porte della nostra civiltà ai barbari, dimenticando le nostre radici greche e romane? O forse siamo noi i barbari, quando utilizziamo il nostro passato per giustificare il peggio della nostra civiltà? Ecco un piccolo ‘libro nero’ sull’uso politico dell’antichità, che ci aiuta a comprendere cosa c’è di vivo e cosa c’è di morto nel nostro legame con i Greci e i Romani.
Giusto Traina e Laura Pepe dialogano a partire da I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie.
Teodoro Klitsche de la Grange | L’Opinione | 25 maggio 2023
L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato e ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale. Geminello Preterossi, nel suo saggio Teologia politica e diritto ritiene, invece, che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica, “ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del politico, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”. Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso), Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita a eliminare quello che Gianfranco Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Julien Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”.
L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza. Non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare. Tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’Occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti, caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’antipolitica, ne prova l’insostituibilità. La stessa “teologia economica” neoliberale “è una teologia politica “antipolitica” perché fa dell’immanenza un assoluto, cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “ne deriva che o c’è Dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di Dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollega a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente”.
Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante. “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna. L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto -trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa: “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il contenuto etico non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”.
Così “la teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”. Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le cose ultime. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”. Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Thomas Hobbes, Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Carl Schmitt. Una notazione del recensore a un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale. E noto che a partire da Louis de Bonald, continuando per Juan Donoso Cortés e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato.
Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna, ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortés il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo Stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi, di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.
Gli appuntamenti Laterza al Salone Internazionale del Libro di Torino.
Vi aspettiamo dal 18 al 22 maggio 2023 al Padiglione Oval, Stand U77!
Giovedì 18 ore 17.15 Sala Rosa
Ma la Storia è un romanzo? Diversi modi per capire da dove veniamo
con Silvia Ballestra, Mimmo Franzinelli, Giorgio van Straten
modera Carlo Greppi
Venerdì 19 ore 11.00 Spazio UniTO
Contro lo smartworking
Savino Balzano
Venerdì 19 ore 13.15 Sala Bronzo
Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo
con Carlo Greppi
Venerdì 19 ore 17.00 Fondazione Amendola (Salone off)
I carnefici del Duce
con Eric Gobetti, Domenico Cerabona, Isabella Insolvibile
Sabato 20 ore 10.30 Sala Blu
La casa di tutti. Città e biblioteche
con Antonella Agnoli, Fabio Geda, Rosanna Purchia, Chiara Saraceno
modera Simonetta Fiori
Sabato 20 maggio ore 13.45 Sala Rosa
Dilaga ovunque
con Vanni Santoni, Gianmario Pilo, Gianluigi Ricuperati
Sabato 20 ore 14.30 Sala Rossa
Catilina. Una rivoluzione mancata
con Luciano Canfora
Sabato 20 ore 17.15 Caffè Letterario
Un mondo di cibo
con Fabio Ciconte, Monia Caramma, Francesca Grazioli, Raoul Tiraboschi
Sabato 20 ore 17.30 Arena Robinson
A proposito di Klee
Gregorio Botta con Melania Mazzucco
Domenica 21 ore 12.15 Sala Azzurra
Tempi difficili per la Costituzione. Gli smarrimenti dei costituzionalisti
con Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora
modera Geminello Preterossi
Domenica 21 ore 17.00 Bosco degli scrittori
Atlante dei boschi italiani
con Mauro Agnoletti e Diego Moreno
Domenica 21 ore 18.15 Sala Oro
Le scelte che fanno la Storia
con Alessandro Barbero, Alessia Amante, Giuseppe Laterza
Tra sfoghi telefonici e oltre 300 lettere con la Petacci, fatti privati e autocelebrazioni lo storico del fascismo Mimmo Franzinelli costruisce una (auto)biografia del Duce: il ritratto di un dittatore mosso non da un disegno per la nazione ma da pulsioni irrazionali, lucida follia e una volontà di potenza senza limiti
Mirella Serri | tuttolibri | 1 aprile 2023
«Fascismo regime» o «fascismo movimento» secondo la celebre distinzione fatta dal più grande interprete della dittatura, Renzo De Felice? Fascismo fondato sull’azione risolutrice dell’arditismo dannunziano e sull’imposizione dei valori della guerra oppure «regime» caratterizzato dai compromessi con la monarchia, con la classe dirigente tradizionale e con la Chiesa? Non è esattamente così: adesso a rimescolare le carte e a spiegarci i lati oscuri della personalità del Duce – che non fu mai «un grande statista», capace di progetti per uno sviluppo progressivo del Paese – arriva il nuovo libro di uno dei più noti storici del fascismo, Mimmo Franzinelli, Mussolini racconta Mussolini. Franzinelli costruisce un’antologia di testi autobiografici del Duce – dalle confessioni de «La mia vita dal 29 luglio al 23 novembre 1911» fino alle 300 e oltre lettere dell’epistolario con Claretta Petacci nei venti mesi trascorsi a Salò – e ci restituisce un’immagine degli umori, delle esaltazioni, degli improvvisi colpi di testa, delle voluttà e degli innamoramenti politici e culturali del Capo. Nulla a che vedere con un disegno della Nazione, bensì pulsioni irrazionali originate da un ego sconfinato, da un convincimento e da un autoconvincimento delle proprie «volontà di potenza» che non conoscono limiti. Lo storico parla di personalità borderline – simile a quella di Hitler – e di un regime schizofrenico, sottoposto agli alti e bassi degli «istinti» per i quali Mussolini si pensava dotato di un facoltà profetica, come chiamava le sue accensioni, le sue illuminazioni. Di questo aspetto del fascismo gli italiani sono stati prigionieri per venti anni.
Professor Franzinelli, lei descrive non solo l’ambito privato di Mussolini ma le sue folli autocelebrazioni e le cupe zone d’ombra che condizionano la vita pubblica. Tratteggia la figura del dittatore in balia di una lucida follia che non può non impressionarci. Come è arrivato a queste conclusioni?
«Operando selezioni dall’Opera Omnia di Mussolini curata da Duilio e Edoardo Susmel. Ho composto un’inedita sequenza autobiografica, nella quale è arduo distinguere il pubblico dal privato. Mussolini che parla o che scrive di se stesso attua falsificazioni continue della realtà. E impressionante: si tratta della costruzione sociale della menzogna come leva di comando. Cambia e modifica le sue posizioni, senza compiere mai scelte lungimiranti o che guardino all’interesse pubblico. Si muove a seconda di stati d’animo e di convenienze. Questa alterazione dei dati di realtà l’ha operata fin da quando rievoca l’infanzia: ci descrive la sua scuola con toni molto letterari e costruisce un’atmosfera dickensiana. Si tratta dei Salesiani di Faenza, dove con una disciplina militaresca istitutori sadici si sfogano contro chi non può difendersi. Benito, entratovi a nove anni come scolaro di terza elementare, è punito per le sue posizioni controcorrente. Vessazioni e umiliazioni gli suscitano sentimenti di istintiva ribellione, con reiterati tentativi di fuga. La descrizione del maestro elementare è degna di un romanzo noir, in una narrazione fondata sul parossismo e sull’esagerazione che serve solo a pubblicizzare l’immagine del genio in fieri. Confiderà successivamente a Petacci di aver compreso a sedici anni che avrebbe realizzato grandi cose: “i coetanei sentivano che avevo qualcosa più di loro, che ero già qualcuno”. Anche le sue numerosissime conquiste erotiche sono raccontate in modo che venga evocato un parallelismo tra il suo rapporto predatorio con il mondo femminile e il suo potere sulle masse da lui equiparate a femmine bisognose di dominio».
Mussolini opera forzature della realtà anche narrando la prima guerra mondiale?
«Per tenere aggiornati i lettori, pubblica sul Popolo d’Italia un vigoroso Giornale di guerra in cui racconta tremende avventure al fronte, scontri sanguinosi e colpi di cannone. Al contrario, in privato comunica invece all’amico Torquato Nanni che si trova in luogo dove “nulla di importante accade”. Sul giornale celebra continuamente il cameratismo, gli scambi e la solidarietà che si instaurano tra commilitoni. Ad amici e collaboratori descrive all’opposto lo schifo, la repulsione fisica e intellettuale che gli suscitano i suoi compagni: parla “dell’istintivo ribrezzo della convivenza forzata diurna e notturna con individui di un livello intellettuale basso”, nonché dell’avversione “per il maggiore comandante del mio battaglione”. Quel che è peggio, si autoconvincerà delle sue stesse esagerazioni, in una visione artefatta, idilliaca della Grande Guerra che influenzerà la sua visione di quella che sarebbe stata la partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale».
Una megalomania che porterà Mussolini a farsi carico di iniziative inutili e azzardate, con migliaia di vite umane mandate allo sbando?
«Successe ad esempio nella campagna italiana di Grecia. Nel marzo 1941 una serie di telefonate dal fronte greco-albanese mostrano l’abissale distacco di Mussolini e l’incomprensione degli avvenimenti. Era convinto di rinvigorire con la sua sola presenza i combattenti e di respingere la controffensiva ellenica. Dapprima è entusiasta per l’accoglienza tributatagli dalla truppa: “Mi sento ringiovanito di almeno 25 anni. Questa è veramente un’atmosfera eroica e forte e sana”. Poi la visione di feriti e morti lo turba. Però insiste: “Vinceremo! Questa è la vera Italia, quella che io ho voluto”. Poi ammette con Claretta il crollo di ogni aspettativa: “Tutto va diversamente da come avevo creduto! La prima settimana è stata entusiasmante, accesa e viva; la seconda di attesa, di speranza, di alternativa: tutto inutile”. Ma attribuirà la colpa della sconfitta agli italiani capaci di fare solo “i loro porci comodi” e non invece di sacrificarsi per l’ideale».
Dal momento in cui diventa Duce, il suo Io tronfio non conosce più limite?
«Esasperato dal divario tra ambizioni e realtà, batte sempre sul nervo scoperto dei connazionali inetti: “L’entusiasmo è un’apparenza. La verità è che sono stanchi di me, che li faccio marciare. Perché loro vogliono sedere, hanno le emorroidi…”. Contemporaneamente confida solo in se stesso e nel suo potere. Ma le sue drammatizzazioni si scontrano sempre con quello che accade. In privato smentisce persino la retorica imperiale. A Claretta ricorda che i suoi uomini in Etiopia sono tutto il contrario di quello che appaiono e si mostrano ladri, infedeli o inclini ad accoppiamenti indebiti “con le negre”, come il governatore Alessandro Pirzio Biroli che prediligeva le minorenni e che sarà pertanto destituito da Mussolini. I commenti che riferì all’amante sull’attuazione delle leggi antiebraiche del 1938 furono spietati. Lo irritava la solidarietà dei suoi concittadini con i perseguitati. “Questi schifosi di ebrei, bisogna che li distrugga tutti…”. Era convinto che le sue considerazioni negative cambiassero la realtà. Pensava di risollevare i destini della guerra con i suoi discorsi – e gli yes-men che aveva intorno glielo facevano credere. Si mise persino a disegnare personalmente le divise dei gradi militari più elevati. Come se un fatto estetico potesse mutare l’andamento fallimentare del conflitto mondiale».
Il persistente senso di onnipotenza condiziona il Duce anche verso la fine della sua vita, a Salò?
«Direi di no, prevale l’autocommiserazione e la sfiducia. Nel discorso del 24 giugno 1943 sull’emergenza italiana eccolo pronunciare una serie di strafalcioni: confonde la battigia col bagnasciuga, scambia Protagora con Anassagora. Chiederà a Claretta se si è accorta “delle gaffe… delle frasi fuori luogo”. E incapace di reagire, vive in perenne stato confusionale».
Professore, le autorappresentazioni schizofreniche che nella fase giovanile avevano alimentato lo spirito antisistema, vitalismo, entusiasmo e fiducia, al tramonto della sua esistenza diventano stanchezza, desiderio di morte?
«Aumentano la labilità e l’insicurezza. Ma nella sua condizione di borderline, da vero megalomane Mussolini non si smentisce mai e gli rimane la propensione ad assolversi per la rovina d’Italia, presentandosi come vittima di oscuri complotti».
Giusto Traina analizza con scattante ironia gli stereotipi, le sciocchezze e gli abusi che popolano il discorso comune sull’antico
Carlo Franco | Alias | 23 aprile 2023
L’attenzione rivolta al mondo antico affronta nel presente una trasformazione radicale. L’interesse per il passato, in qualunque forma, è in affanno rispetto al dilagare del presentismo. Le istanze della cultura globale infatti hanno marginalizzato (e colpevolizzato) la cultura greco-romana. La guerra allo storicismo ha sconfessato i metodi della presunta «scienza dell’antichità». Il paradigma filologico sopravvive solo dentro una piccola cerchia di dotti. L’autorevolezza del metodo e della critica è stata mortificata. Sono decadute competenze tecniche e linguistiche un tempo diffuse, sono cresciuti invece gli studi sulla «ricezione» del mondo antico: un modello flessibile e moderno, ma non così innocuo, giacché la persistenza dell’antico ha creato (anche) un costrutto ideologico fatto di ambiguità e tratti talora imbarazzanti (come un pensiero eurocentrico, solo di recente ripensato in modo critico).
Di tutto questo discute uno scattante libro di Giusto Traina, che per scelta adotta una scrittura leggera (ma con solida informazione), remota dallo stile inutilmente pensoso di certi tardivi elzeviristi dell’antico: I Greci e i Romanici salveranno dalla barbarie. Il titolo suona ironico: come un Lucrezio che rivela i guasti della religiosità tradizionale, Traina mostra che in nome dei classici greci e latini «si sono giustificate e tuttora si giustificano brutte cose». Altro che incolpare i barbari, quindi. La dimostrazione si serve di una panoramica delle sciocchezze ovvero delle banalità che popolano il discorso comune sull’antico. Con forza, ne denuncia gli stereotipi e gli abusi, spesso branditi come valori da certe vestali nostalgiche dei giorni felici (sebbene ormai quasi sepolte, come Winnie). Ce n’è per tutti.
Anzitutto per chi continua a pensare solo a una Grecia classicheggiante, fatta invariabilmente di partenoni e pepli bianchi, di democratici ateniesi vincitori di gradassi e rammolliti persiani, di filosofi barbuti che additano cielo (o terra). Tollerate appena le chiese bizantine e gli igumeni barbuti. Invisibile, invece, e incompresa, rimane la Grecia moderna e contemporanea, i cui palazzi e il cui traffico s’intrude e disturba il sogno romantico (che meglio si cercherebbe, in tal caso, nella Königsplatz di Monaco). Di qui la difficoltà verso ogni approccio diverso: quello di chi sia attratto dalle «radici afroamericane» della civiltà classica, ma anche quello di chi ami una grecità primitiva e violenta, tra Nietzsche, Frazer e Pavese. Non per caso, invece, si continuano a illustrare libri sull’Ellade con quadri di Alma-Tadema e simili, che sono rassicuranti o, alla peggio, morbid. E si continuano a ricercare miti e modelli «eterni», che compiacciono il gusto contemporaneo per la narrazione edificante. Così, dopo aver affermato che riprendere o imitare i «valori» antichi era un errore, si finisce felicemente per ricercare i nostri valori nei testi dell’antichità. E dunque, se nell’Ottocento ogni poeta patriottico era un Tirteo, oggi ogni giovane ribelle è invariabilmente un’Antigone. Identificazione che poco convince chi ricordi che, nella tragedia di Sofocle, la figlia di Edipo dichiara di stare meglio con i morti che con i vivi (v. 75), non già di agire in nome della libertà o del pacifismo, come si preferirebbe. Nella Tebe di Sofocle, insomma, non c’era una Rosenstraße.
Altro grande capitolo di riuso improprio dell’Antico è stato quello di Roma in età fascista. Quell’idea della romanità derivava, certo, da un «mito» radicato almeno dai tempi di Mameli, poi rivitalizzato dal nazionalismo. Il fascismo ne fece il centro di un progetto identitario, unendovi «Roma, onde Cristo è romano» e piazzando il latino persino sui francobolli postali. Più insidiosa fu la vernice classica di uno sforzo imperiale, che risultò improvvisato ed effimero. Il tema è molto studiato, non solo in Italia, talora con contributi nuovi, soprattutto d’archivio. Antico fu anche il modello esibito a supporto del nostrano colonialismo, soprattutto nella fase libica e nella guerra etiopica. E proprio l’educazione classica sembra aver aiutato intellettuali anche insospettabili ad abbracciare la causa: da Pascoli che nel 1911 elogiava l’azione della «grande proletaria», al pensoso storico cattolico Gaetano de Sanctis, che da antifascista appoggiò nel 1936 la guerra di civiltà in Etiopia.
Ancora paradigmi antichi sorressero dunque (o ci provarono) la politica aggressiva dell’Italia mediterranea, immaginando nuovi Scipioni e «quarte» guerre puniche: ma la battaglia finale in Africa del maggio 1943 ebbe un esito opposto al presunto modello. Sia chiaro, questi riusi e abusi sono naturali, e fanno essi pure parte della «fortuna» dei temi antichi, quando agiscono su di essi le sollecitazioni mutevoli della politica o dell’ideologia. Ma rispetto a tutto questo, quale è stato il ruolo degli antichisti, custodi dell’ortodossia? A loro, in verità, toccano nel libro note sarcastiche. Dell’abuso fascista, in larga misura, furono complici, perché toccava loro una visibilità mai più raggiunta. Passata quell’orgia, e maturati tanti elementi di crisi dell’antico, essi spesso sono stati difensori maldestri, che alla causa del mondo classico hanno recato più danno che vantaggio. Ritenerli responsabili di un guasto potrebbe parere accusa ingenerosa: in fondo, gli antichisti oggi sono minacciosi per l’assetto sociale e economico quanto lo era il dodo per gli abitanti di Mauritius. E la fine di entrambi pare sia per essere la medesima.
Come che sia, Traina è lontano dai piagnistei sulla decadenza dei classici, e addita piuttosto un fattore importante di crisi dell’antichistica nella perdita di «curiosità» degli addetti ai lavori. Molte energie sono da anni indirizzate a sistemare il nuovo nel noto, con abbondanza di formalismi e di ricerche poco o punto creative. Il criminogeno sistema di reclutamento accademico fa il resto, soprattutto nel decrepito settore umanistico, sterilizzando le indagini secondo modelli ingabbiati o prevedibili (compreso gender o inclusività, s’intende).
Se il mondo greco-romano può dare ancora risposte alle domande del nostro presente, ciò dipende dalla capacità di guardare verso realtà marginali, meno evidenti, ma non perciò assenti dall’immagine che il mondo classico ha mostrato di sé o che i moderni giungono a comprendere. Grecità e barbarie, osservò tempo fa Tucidide, sono concetti complementari. Proprio ai barbari andrà dunque rivolto lo sguardo (come nella tarda antichità?) per trovare un posto ai classici. Li si potrà studiare nelle relazioni internazionali, e non solo per capire la «trappola di Tucidide». D’altra parte, la sfida si fa ardua: un importante ateneo italiano ha attivato un corso di Global Humanities. Quindi? Quindi i Greci e i Romani, se alleati con i «barbari», si salveranno, e ci salveranno dalla muffa, ormai tossica, del classicismo.
I rapporti di Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale con la dittatura: dall’iniziale assenso
del primo all’indifferenza del secondo. Fino alla netta condanna di entrambi per il baratro provocato nel Paese
Raffaele Liucci | ilSole24Ore | 2 aprile 2023
Si può ancora scrivere qualcosa di innovativo su Carlo Emilio Gadda (1893-1973) ed Eugenio Montale (1896-1981), due mostri sacri delle patrie lettere sui quali esistono ormai intere biblioteche? Ci è riuscito lo storico torinese Pier Giorgio Zunino, già autore di ricerche fondamentali sull’Italia novecentesca (il suo opus magnum è La Repubblica e il suo passato, 2003). Adottando la formula delle vite parallele, l’autore ha ripercorso l’atteggiamento di Gadda e di Montale nei confronti del fascismo, dalle trincee della Grande Guerra (nelle quali si era forgiato l’uomo nuovo mussoliniano) sino alla Seconda guerra mondiale. Un quarto di secolo della nostra storia raccontato attraverso lo sguardo di due letterati – incrociatisi di rado – capaci di «afferrare la realtà del mondo» che li circondava, «muovendo spesso dai più minuti dettagli». L’originalità di Zunino sta nell’averne scandagliato i carteggi, gli scritti e le opere più propriamente narrative e poetiche con l’occhio dello storico, in un corpo a corpo dal quale scaturiscono almeno tre questioni più generali.
Innanzitutto, la centralità della guerra nella società del tempo. Gadda, come è noto, non si liberò mai dallo «spasimo bellicista». Interventista della prima ora, volontario negli Alpini, vide nel conflitto l’unico mezzo per rigenerare il Paese dal grigiore giolittiano, come risulta evidente dal suo Giornale di guerra e di prigionia (apparso soltanto nel 1955). Ma anche il più apatico Montale, combattente al fronte nell’estate-autunno del 1918, visse «indimenticabili momenti di esaltazione comunitaria e di appassionamento patriottico». Zunino ricava questo dato, spesso trascurato, da un’attenta lettura del carteggio della sorella Marianna, «insostituibile testo di riferimento per intercettare qualche attendibile raggio di luce su Eugenio durante la Grande Guerra».
In secondo luogo, la compenetrazione tra il fascismo e il Paese (un tema peraltro già affrontato dall’autore in un illuminante volume del 1991, Interpretazione e memoria del fascismo). Nel turbolento Dopoguerra, scrive Zunino, «il fascismo che improvvisamente scaturisce dalle profondità della società italiana» rappresentò un balsamo per il déraciné Gadda, in preda alla tristezza del reduce. Montale, invece, firmatario del manifesto di Croce del 1925, non prenderà mai la tessera del PNF. Afflitto da un «male di vivere» incompatibile con le passioni forti, direttore dal 1929 al 1938 del Gabinetto Vieusseux, visse stando alla finestra, barcamenandosi fra vari gerarchi (come Corrado Pavolini e Galeazzo Ciano) il cui appoggio non sempre poté evitare. Al di là dei loro percorsi asimmetrici, sia Gadda sia Montale riusciranno infine a cogliere la realtà di «un regime proiettato a controllare la vita di tutti in ogni singolo istante». Paradigmatico, in questo senso, il carteggio amoroso e transoceanico intercorso fra Eugenio e l’italianista statunitense Irma Brandeis («Clizia»), in cui il poeta dipinge «un panopticon dell’intellettualità italiana vista da un membro di quello stesso mondo».
La terza questione riguarda la labilità dei confini tra fascismo e antifascismo, una condizione cui non si sottrassero neppure i nostri due protagonisti. Negli anni del «consenso» e della conquista dell’Etiopia, persino Montale – come del resto diversi oppositori del regime – fece qualche passo indietro rispetto alla sua ferma (ma silente) «ripulsa nei confronti del fascismo». Viceversa, verso la fine degli anni Venti il patriottismo di Gadda cominciò a evidenziare qualche crepa. Se l’ingegnere aveva sempre apprezzato la pars destruens del fascio littorio (infliggere un colpo mortale alla «porca Italia» imboscata e giacobina), cominciò a nutrire qualche dubbio sulla sua pars construens, ossia sullo Stato «nuovo», ancora dominato da camaleontici carrieristi. Del resto, si chiede Zunino, «come poteva mai armonizzarsi con le idee del fascismo una struttura mentale» quale quella gaddiana, portata per definizione a eliminare «il fondamento di ogni mito e illusione?».
Lo storico torinese coglie i segni di questo disamoramento nell’«intensa relazione» intrattenuta da Gadda con un filosofo solitario come Piero Martinetti, uno dei pochissimi cattedratici a rifiutarsi nel 1931 di giurare fedeltà al regime (Zunino ha curato nel 2011 le sue Lettere 1919-1942). Ma significativo è anche un romanzo «impubblicabile» come La meccanica (iniziato nel 1928), il cui unico personaggio positivo, tutto «cuore» e «rettitudine», è un operaio socialista. Inabissatosi al pari di un fiume carsico, questo «turbamento provocato dall’andamento delle cose italiane» riaffiorerà pienamente solo nel secondo Dopoguerra, in un’opera come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), non a caso ambientato nel 1927. Ossia proprio nel periodo in cui Gadda aveva cominciato a maturare le prime riflessioni sul fossato che separava la vita quotidiana degli italiani dall’autorappresentazione mitologica del regime (sulla quale lo stesso Zunino ha pubblicato nel 1985 un importante contributo, L’ideologia del fascismo).
Il lungo viaggio di Gadda attraverso il fascismo si concludeva il 29 ottobre 1939, quando in una lettera allo scrittore Bonaventura Tecchi parlò di Hitler, alleato del duce, come di un «mostro sadico che cerca rivincite di carneficine alla sua impotenza». In quanto a Montale, il definitivo risveglio era avvenuto nella «primavera hitleriana» del1938 (poi oggetto di una sua indimenticabile e, nella stesura, quasi coeva poesia): in particolare in quel tardo pomeriggio del 9 maggio in cui il poeta aveva assistito sgomento tra la folla fiorentina al passaggio in auto del Führer, all’indomani dell’invasione tedesca dell’Austria. Sulla soglia della guerra, entrambi i letterati videro dunque il «baratro verso cui l’Italia si stava incamminando», e varcarono definitivamente il Rubicone, sia pure nel loro foro interiore. Peccato che Zunino non abbia esteso la sua raffinata esegesi ai percorsi paralleli da loro intrapresi dopo il ‘45, nella repubblica democratica. Tema per un altro libro?