Sommario

agli amici sereni dell’Acoblanco

Non esiste una cultura pura e non mediata, tutte le culture sono un ibrido.

Edward Said

Le frontiere culturali ormai non contano più e chi

lo desidera può conoscere facilmente

le altre culture. Personalmente sono felice

di vivere in questo mondo meticcio,

di cui mi sembra di essere un esempio vivente,

perché sono cinese e francese, orientale e occidentale

e in me le due culture convivono senza fratture.

Gao Xingjiang

Premessa

Il teatro eurasiano non è il teatro delle steppe dell’Asia centrale: si riferisce a una regione del sapere teatrale dove le iridescenti tradizioni dei teatri classici dell’Asia – il Nô, il Kabuki, le danze dell’India e di Bali, l’Opera di Pechino... – si intrecciano con le tradizioni del teatro europeo e occidentale. Un territorio dunque dove Euripide, Kalidasa, Shakespeare, Zeami, la Poetica di Aristotele e il Natyashastra indiano convergono nei confini di un unico patrimonio di conoscenze teatrali.

Questo territorio è diventato esplicito nel Novecento anche se i rapporti, gli scambi, i malintesi più o meno fecondi tra Oriente e Occidente nel campo del teatro e delle pratiche sceniche risalgono all’antichità: è nel Novecento, infatti, che il teatro eurasiano trova un’estesa risonanza prima nel contesto del colonialismo e delle sue mode esotiche poi in quello del multiculturalismo.

Questo libro – sulla scorta di una precedente e più ampia ricerca: Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente (1992) – si dedica alla prospettiva del teatro eurasiano nel Novecento europeo dove uomini di teatro come Craig, Mejerchol’d, Artaud, Brecht, Grotowski, Brook e Barba hanno tratto dalle culture asiatiche alcuni degli stimoli più profondi per le loro pratiche e le loro teorie.

Il teatro eurasiano, dunque, come un’idea attiva nella cultura teatrale moderna, uno dei risultati del pensare il teatro non come letteratura ma come crogiuolo di esperienze innovative ed essenziali alla definizione della scienza teatrale e delle tecniche creative dell’attore.

Ringrazio qui cordialmente il Getty Research Institute di Los Angeles e il suo direttore Salvatore Settis, ora Rettore della Normale di Pisa, e l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) di Holstebro, diretta da Eugenio Barba, che hanno incoraggiato i miei studi nel campo del teatro eurasiano.

Desidero inoltre segnalare che le mie ricerche in questo ambito sono state in parte finanziate dal Progetto di ricerca di interesse nazionale 1998-2000: «Lo sperimentalismo nella storia del teatro occidentale».

Capitolo primo. Il crisantemo e la spada, o le tenaglie della storiografia teatrale

Quando il ventottenne maggiore dell’esercito americano Faubion Bowers, interprete del colonnello Charles Tench, sbarcò dall’aereo sul campo di Atsugi il 28 agosto 1945, condivise con il suo superiore l’onore di essere il primo nemico a metter piede sul suolo giapponese da conquistatore. A guerra appena finita, né vinti né vincitori sapevano cosa aspettarsi dal loro inedito confronto e un comprensibile timore opprimeva le delegazioni giapponese e americana che s’incontravano ad Atsugi per decidere le condizioni di resa dell’impero nipponico, venti giorni dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.

Durante i primi momenti di tensione, ricorrendo alla sua prontezza di giornalista, Bowers ruppe il ghiaccio chiedendo: «È ancora vivo Utaemon?». Quest’iniziale domanda, rivolta a un attonito diplomatico giapponese da un soldato americano che mostrava di conoscere un attore del Kabuki allora tra i più amati – il celebre Nakamura Utaemon, scomparso nel 1940 – sembrava suggerire che forse non tutti i «barbari occidentali» erano poi così selvaggi come si temeva.

Ci piace credere che sia iniziata così, con questa domanda curiosa, l’era del Pacifico, ritenuto da non pochi osservatori politici ed economici il Mediterraneo del terzo millennio. Ma sicuramente l’episodio, narrato dal giapponese Okamoto Shiro nel libro intitolato L’uomo che salvò il Kabuki. Faubion Bowers e la censura teatrale nel Giappone occupato, è uno snodo significativo anche per la storia del teatro contemporaneo (Leiter 2000: 3). Se, infatti, da un lato le difficili circostanze dell’episodio vanno ad alimentare la secolare leggenda dei teatri orientali, il più grande crogiolo di storie, arti e tecniche spettacolari cui il teatro occidentale abbia attinto nel tentativo di rinnovarsi, dall’altro troviamo uno studioso, Faubion Bowers, che, sebbene gravato dal ruolo di censore militare, fu tra i primi ad accorgersi del valore culturale del Kabuki e ad avviare studi sistematici sui teatri del Giappone e dell’intera Asia, riuscendo a sottrarli all’alone delle leggende e degli esotismi. Bowers, come poi la maggior parte degli orientalisti americani, meno oberati degli europei da secolari, fuorvianti abitudini di pensiero, poté restituire alla storia l’integrità dei fenomeni teatrali asiatici prima considerati come folclore o addirittura come forme primitive, affrancandoli dalle mode esotiche orientaliste. In definitiva, con gli studi di Bowers e di altri eccellenti studiosi statunitensi che lo seguirono, si annunciava, all’alba dell’epoca post-coloniale, l’avvento del transculturalismo (cross-cultural), cioè l’incrociarsi di flussi stabili di conoscenze e creatività nel rispetto delle singole identità culturali, gli scambi alla pari tra diverse culture anche attraverso gli studi, le arti e i comportamenti.

Quali conseguenze ebbero questi nuovi e più approfonditi studi sulla secolare leggenda dei teatri orientali? E, soprattutto, fu scalzato l’esotismo che si era accumulato nel corso dei secoli? Per iniziare a rispondere a queste domande torniamo ancora alla vicenda di Faubion Bowers per scrutare più da vicino il contesto del Giappone, «estremo Oriente» di nome e di fatto, ultima nazione dell’Asia ad essere «scoperta» dall’Occidente alla fine dell’Ottocento, quando le turcherie secentesche, le chinoiseries del Settecento e le ottocentesche baiadere indiane erano già largamente entrate nel mondo, e nel consumo, della cultura occidentale. Occorre, però, fare un passo indietro e andare all’inizio del secondo conflitto mondiale.

Superato lo sconcerto e la rabbia per il proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor, i centri politici e militari americani si accorsero, da un momento all’altro, di non conoscere affatto la mentalità dei loro bellicosi dirimpettai dell’Oceano Pacifico e, per rispondere adeguatamente a un nemico, improvvisamente rivelatosi efficiente e temibile, affidarono l’incarico all’antropologa Ruth Benedict, nota ideatrice del sistema dei «modelli di cultura», di preparare uno studio dal quale il servizio informazioni militari potesse trarre indicazioni utili durante la guerra per fronteggiare gli sconosciuti avversari. Senza aver mai visitato il Giappone, ma facendo ricorso a studi precedenti e ai giapponesi che vivevano negli Stati Uniti internati nei «campi militari di residenza speciale», perché non potessero avere sospettosi contatti con la madrepatria, la Benedict scrisse un saggio sui modelli di cultura giapponesi, saggio che fu divulgato nel 1945, subito dopo Hiroshima, in un libro intitolato Il crisantemo e la spada e che divenne, di fatto, il manuale di orientamento delle forze americane di occupazione del Giappone. Scrive la Benedict all’inizio del libro:

La guerra nel Pacifico fu qualcosa di più di una serie di sbarchi sulle spiagge delle isole oceaniche e di un problema di logistica militare di insuperata difficoltà: la questione più difficile rimase quella di comprendere la natura del nostro avversario, perché solo attraverso la conoscenza delle sue abitudini potevamo essere in grado di affrontarlo con successo (Benedict 1989: 9).

Non è difficile rendersi conto che se in America c’era scarsezza di una conoscenza globale del Giappone, dei modi di vivere e di pensare del popolo giapponese, ancora di più dovevano mancare le cognizioni complementari sui suoi statuti più squisitamente culturali e, dunque, anche sulle sue più originali forme di spettacolo. Una lacuna non colmata neanche dal saggio della Benedict, preoccupato di fornire un quadro con meno sfumature possibili. Fu questa ignoranza la ragione per cui, a guerra finita, avendo occupato il Giappone, gli americani sferrarono una sommaria offensiva contro il teatro Kabuki, ritenuto un’arte compromessa con il regime militarista sconfitto.

Nonostante esplicite dichiarazioni a favore della libertà di stampa e di pensiero utili a facilitare una trasformazione democratica del Giappone, il generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle forze americane d’occupazione, si preoccupò di istituire una stretta censura sui giornali e sui divertimenti popolari giapponesi per favorire, paradossalmente, quell’avvento democratico auspicato, sia pur confusamente, anche dalle sconfitte autorità nipponiche. Costretti a fare tabula rasa del loro passato militare, i giapponesi intravedevano negli stranieri vittoriosi, in privato ritenuti poco più che «cowboy ghiotti di chewing-gum», un realizzabile modello culturale proprio in quanto «modello vittorioso».

Insomma, come aveva scritto la Benedict, poiché gli Stati Uniti non potevano creare un Giappone libero e democratico «con un semplice comando», occorreva procedere innanzitutto a una rieducazione dei giapponesi occidentalizzante e antimilitarista. Pertanto uno degli obiettivi primari della censura istituita dagli occupanti fu il teatro Kabuki, temuto in quanto, con i suoi temi di lealtà feudale, sacrificio e vendetta, rilevati proprio dalla Benedict nel suo libro, poteva essere considerato un’espressione diretta dello spirito militarista giapponese d’anteguerra.

Purtroppo, all’epoca i censori americani, incluso il predecessore di Bowers, Earle Ernst¹, non conoscevano in pratica niente di questa popolare forma teatrale giapponese, tanto è vero che l’accanimento si concentrò sui testi drammatici del Kabuki. Questo provvedimento si comportava secondo il metodo della censura preventiva sui testi drammatici, sempre adottato in Occidente per prevenire il passaggio alla rappresentazione e, quindi, il contagio sociale del teatro; non aveva però particolare senso adottarlo con il Kabuki. Infatti, sebbene i testi drammatici Kabuki si nutrano di valori feudali e marziali, sono assai modesti da un punto di vista letterario e assolutamente ininfluenti sull’esito dello spettacolo. Il pubblico del Kabuki non si recava, e non si reca, a teatro per sentire interpretare un bel testo poetico o per essere permeato dalle idee che contiene. Le storie rappresentate sono molto note e il piacere di uno spettacolo Kabuki sta quindi nel godimento della sua complessa macchina spettacolare, nelle sue roboanti convenzioni sceniche e soprattutto nello straordinario virtuosismo dei suoi attori, veri pilastri della rappresentazione. Insomma una situazione paragonabile a quella dei libretti della nostra opera, poco o addirittura mal considerati rispetto alla forza della musica, alla fastosa messinscena e soprattutto all’interpretazione dei cantanti.

¹ Anche Earle Ernst fu a sua volta uno studioso di teatri asiatici: cfr. infra, p. 105.

Faubion Bowers, che si era fermato a Tokyo nel 1940, sulla strada che lo portava a studiare la musica gamelan delle Indie Olandesi, aveva avuto modo di apprezzare i grandi spettacoli di Kabuki nel contesto del loro splendore e del loro pubblico, e aveva compreso il valore della sua grande tradizione d’arte. Così quando, agendo ancora per il generale MacArthur, passò dall’ufficio interpreti a quello della censura, non gli fu difficile capire come non si potessero censurare i testi, proibendo la rappresentazione dei drammi Kabuki, senza rischiare di distruggere lo stesso Kabuki. Perciò Bowers iniziò subito a scrivere sui giornali contro l’iniziativa di censurare il Kabuki, fatto che naturalmente dispiacque alle autorità dalle quali dipendeva, che pretendevano da lui proprio quell’iniziativa. Per questo Bowers, nel 1946, si dimise dalla commissione militare di censura ma subentrò ad Earle Ernst nel ruolo di capocensore teatrale civile, un cambiamento che gli permetteva di operare con più libertà e che fu salutato dal mondo del Kabuki come la possibile liberazione da ogni forma di censura: evento che si verificò puntualmente nel 1948, poco prima che Bowers lasciasse definitivamente l’incarico governativo per dedicarsi finalmente allo studio dei teatri asiatici, dopo aver sposato la scrittrice indiana Santha Rama Rau.

Questa l’emblematica vicenda di Faubion Bowers che, evitando una sanzione sommaria, aiutò il mondo del Kabuki a superare il momento forse più nero della sua storia. Da qui la qualifica di «uomo che salvò il Kabuki» conferitagli dal biografo giapponese, un titolo che, nonostante indubbi meriti storici, appare altisonante e che perciò rientra, a buon diritto, anche nella leggenda dei teatri orientali. Spesso, nell’arte del teatro la memoria storica e la leggenda contribuiscono e addirittura collaborano alla sua buona riuscita. Senza l’intervento di Bowers, il Kabuki, sebbene fiorente in tutti i suoi aspetti – arte dell’attore, autonomia economica, vitalità dell’ambiente teatrale –, non si sarebbe salvato dal declino, ferito com’era dalle conseguenze di una guerra durissima. D’altra parte, il censore Bowers non avrebbe mai saputo difendere così a oltranza un’arte se non fosse stato in precedenza conquistato dalla sua leggenda. Così, tra storia e leggenda, anche la storiografia teatrale deve fare i conti con queste tenaglie, tessendo i suoi racconti.

Faubion Bowers è morto nel suo appartamento di New York, per un attacco di cuore, il 16 novembre 1999.

Capitolo secondo. Teatri orientali e teatri asiatici

Nella prima metà del Novecento, gli incontri di Craig con il teatro indiano, di Artaud con il teatro di Bali, o di Brecht con il teatro cinese, l’influenza del teatro classico giapponese Kabuki su Mejerchol’d ed Ejzenštejn, dell’antico e ancora rigoglioso teatro giapponese Nô su Yeats e Claudel da una parte, e dall’altra su Decroux, sono vicende esemplari nel percorso culturale del teatro, vicende che presto esamineremo nei dettagli. Occorre però subito premettere che si tratta di incontri tutti caratterizzati, fra l’altro, dall’elusione di un paradigma illusorio altrove imperante.

L’ingresso dei teatri asiatici nella cultura teatrale dell’Occidente ha posto, infatti, alcuni problemi storiografici di fondo che si sono scontrati con il paradigma dell’opposizione Oriente/Occidente, a lungo utilizzato, più o meno consapevolmente, nelle sistemazioni della storia delle arti e del pensiero. Tale paradigma ha fatto sì che i teatri asiatici venissero in genere collocati dalle storie del teatro nella categoria «teatri orientali»: «una zona liminare, come se fossero arcaicità, antichità o reliquie d’una fase storica sorpassata», mentre invece essi sono «interpretazioni contemporanee di un’antica (mai tanto quanto si pensa e si pretende) partitura spettacolare» (Cruciani-Taviani 1985: 15).

Tali impostazioni storiografiche, quand’anche attente e senza pregiudizi, hanno impropriamente visto nella continuità delle tradizioni classiche asiatiche come una sorta di immobilità astorica, dimenticando che ogni tradizione vive della dialettica fra conservazione e pulsione al rinnovamento, e che partiture spettacolari che continuano a essere interpretate e messe in scena non possono essere viste come semplici reperti o permanenze del passato, così come non lo sono Shakespeare, Eschilo o Molière nel teatro del Novecento, né lo è la florida tradizione musicale dell’opera, pur fondata su un repertorio che è in larga parte sette-ottocentesco. Così il quadro fisso e nebuloso in cui spesso sono stati costretti i teatri asiatici, la categoria cioè di un mitico «teatro d’Oriente», va ricondotto al più generale problema dell’orientalismo, cioè di quel complesso ventaglio di atteggiamenti nei confronti delle civiltà e delle culture dell’Asia che va dalla semplice infatuazione all’interesse scientifico. Ma se nell’Ottocento l’orientalismo era giustificato dalla mania degli artisti e dalle ridotte conoscenze sull’Asia (definite «una complessa ignoranza»), oggi alcuni studiosi hanno spiegato come l’orientalismo e gli studi d’orientalistica sono stati originati dalla prospettiva coloniale, cioè da necessità transitorie in cui sono venuti a trovarsi gli studiosi europei forti dell’egemonia delle loro società: finita l’era coloniale, questi studi sono stati messi in una giusta crisi. Ma la Seconda guerra mondiale, che segnò – è bene ricordarlo – la fine del potere coloniale di Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Italia e Stati Uniti (un dominio esteso in Asia su tutti i paesi ad eccezione del Giappone e della Tailandia), non ha risolto i gravi problemi posti da secoli di dominazioni e di colonialismo e ha lasciato strascichi politici, economici e culturali ancora cocenti nella mentalità e nell’azione dei popoli sia europei sia asiatici.

Lo studioso di origine palestinese Edward Said ha dimostrato, nel suo discusso libro intitolato Orientalism (1978), come in epoca moderna le relazioni fondamentali di ordine politico, culturale, economico fra Oriente e Occidente siano state segnate dal rapporto dominatore-dominato, una correlazione che ha trovato un suo esteso, inevitabile prolungamento anche nell’ambito delle attività artistiche, creando categorie preconcette, cristallizzatesi nel tempo e divenute difficili da rimuovere (cfr., inoltre, Said 1993). Said si riferisce in particolare al contesto islamico del Vicino Oriente, ma la sua analisi può essere estesa correttamente a tutta l’Asia. Secondo altri studiosi, oggi non c’è nessun «Oriente»:

Ci sono popoli, paesi, regioni, società, culture innumerevoli sulla terra. Alcuni hanno caratteri comuni (durevoli o momentanei). Ogni studio comune ad una o più di tali entità deve essere giustificato in base ad alcune caratteristiche comuni in un dato periodo (Rodinson 1988: 143).

In altri termini, l’antitesi Oriente/Occidente è un luogo comune del pensiero, quindi non deve più funzionare come un pregiudizio e non ha più ragione di esistere sul piano della descrizione del mondo e delle genti che lo popolano. Purtroppo la storia recente ha tragicamente riportato in primo piano le tenebre di questa opposizione e dei furori che riesce a muovere, tanto da richiamare alla mente quella tesi che Kipling riassunse lapidariamente nel discusso verso di una sua ballata: «Oh! l’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente e le due metà non si potranno mai incontrare». Ma è proprio questo il punto: se per capire dobbiamo respingere ogni tentativo di generalizzare, di pensare secondo categorie sommarie, è pur vero che l’antitesi Oriente/Occidente è stata un pregiudizio, cioè è stata a lungo un modo di stabilire, intendere e filtrare i rapporti Europa-Asia: una prospettiva, insomma, che oggi occorre respingere come un antiquato cliché che non spiega nulla dell’odierna situazione storica, ma anche un’ottica di cui non si può fare a meno nell’interpretare tanta storia trascorsa del pensiero, della cultura e delle arti (Mackenzie 1995).

In questa luce, e soltanto in questa luce, la categoria «teatri orientali» designa dunque non tanto i «teatri asiatici», cioè le diverse culture dello spettacolo dei paesi dell’Asia, quanto l’«orientalismo teatrale», quel complesso di suggestioni ora profonde ora diffuse, provenienti da un’informazione imprecisa dei teatri asiatici, che ha agito come una leggenda nella cultura teatrale di matrice europea a partire dalla fine del Settecento. In altre parole, i «teatri orientali» sono un concetto utile per rappresentare proprio quello che il termine letteralmente addita: la visione da Occidente dei teatri dell’Asia, un punto di vista chiaramente parziale, una visione intrisa d’esotismo e del mito dell’Oriente, che quindi assume una connotazione storica più che geografica. Da questo punto di vista, i teatri orientali sono stati una delle costellazioni del pensiero teatrale occidentale, un punto di riferimento, nella fondazione del teatro moderno, come la «commedia dell’arte» o il «teatro greco», il «teatro popolare» o quello dei «primitivi». Un nodo essenziale che per essere compreso interamente ha bisogno di chiarire i suoi indispensabili contesti extra-teatrali, il mito dell’Oriente e l’esotismo.

Capitolo terzo. Il mito dell’Oriente

Nella cultura europea l’Oriente è un mito presente fin dall’antichità, quando i Greci del V secolo a.C. per la prima volta sembrarono trovare le radici della loro (e della nostra) identità proprio confrontandosi con l’Asia e con l’impero persiano di Serse. Da allora in poi, arricchitosi di sfumature e di suggestioni nel mondo latino ed ellenistico, nella cultura medievale come in quella rinascimentale, il mito dell’Oriente ha subìto più metamorfosi, seguendo l’evolversi delle conoscenze occidentali sull’Asia, al punto che le immagini che ne compongono l’attuale profilo, sovrapposte e rimescolate per secoli in varie combinazioni, hanno finito per trasformare l’Oriente in una formula densa di significati, un mito per l’appunto, sul quale scivola costantemente ogni tentativo di un senso univoco.

A un primo livello, l’oriente è un’indicazione astronomica che indica la parte del cielo dove sorge il sole: l’oriens latino significa, infatti, «nascente». Ma sebbene la nascita del sole sia un fatto quotidiano, con essa entriamo subito nel campo di una metafora possente. Come luogo dove nasce il sole, l’oriente è infatti la fonte della vita materiale ma anche di quella spirituale e simboleggia la luce e ogni nascita. L’orientamento, che vuol dire «cercare il Nord attraverso il cammino del sole che avanza da Est», non solo è una nozione fondamentale per ogni viaggiatore di terra e di mare ma entra a far parte, in molte civiltà, di riti che riguardano la fondazione delle città, dei templi e delle abitazioni.

A un secondo livello, come indicazione geografica derivata dall’astronomia, l’Oriente designa, in senso lato, il complesso delle terre situate a est: quindi orientale vuol dire «tutto ciò che si pone a oriente, che proviene dall’oriente» ma anche «tutto ciò che è proprio dell’Oriente e dei suoi abitanti». Una definizione incerta, condizionata dalle grandi distanze un tempo invalicabili, e quindi imbevuta anch’essa delle leggende delle terre lontane, popolate di esseri favolosi, di volta in volta selvaggi, mostri o angeli del paradiso. Dal punto di vista eurocentrico, l’Oriente è stato dunque la definizione complessiva della parte di mondo «a Est dell’Europa anglo-latina», e perciò un vastissimo universo che va dai vicini paesi slavi all’Asia intera con tutte le sue civiltà, le sue genti e i suoi costumi: un’umanità, cioè, che a prima vista si contrapponeva al contesto dell’Occidente. Un termine, quest’ultimo, che a sua volta, per estensione, ha finito con il designare non più soltanto l’Europa e la sua cultura ma anche tutti i paesi e le genti che hanno adottato la cultura, i modi di vivere e di pensare degli europei.

Infine un’ultima, ed estrema, accezione di Oriente è quella che riguarda l’universo delle fantasie letterarie e artistiche che ha caratterizzato la cultura occidentale. In questo caso l’Oriente è un vero luogo del pensiero e delle arti che è stato esteso genericamente a tutti i paesi «caldi e lontani» e che mescola un complesso ventaglio di argomenti e sensazioni impressionistiche – curiosità, fascino, pittoresco, seduzione, rivelazione, annullamento, esotismo. L’Oriente immaginario, «categoria-dello-spirito», è stato usato come catalizzatore di contraddizioni e di eccessi propri della cultura occidentale. Come tale è un’idea che abita, si può dire stabilmente, la nostra mentalità, e sottintende un’alternanza di positività e negatività, secondo l’avvicendarsi periodico delle crisi dell’identità occidentale:

Per un istante l’Oriente è luce, anima universale, attrattiva magica del nostro spazio interiore, distanza presa nei confronti della nostra sinistra modernità. Ma, al minimo incidente, alla prima macchia di sangue, la luce vacilla, si spegne: l’Oriente affonda nel fango della nostra paura, indietreggia nell’oblio prima di ritornare nel sogno. Riflesso di paccottiglia all’angolo della strada. Ornamento. Miraggio (Hentsch 1988: 7).

Tutte queste facce lo indicano chiaramente: l’Oriente è più di una nozione complessa, è un mito frutto di invenzioni come di estreme realtà. E l’opposizione Oriente/Occidente non è pertanto una pura diversità geografica, ma un’antinomia i cui confini sono tracciati dalla storia e non dalla geografia. Quest’opposizione oggi non ha più una reale ragione di esistere e nel villaggio globale si sente la necessità di ristrutturare la visione della storia umana concepita in Europa, di dimostrare la falsità di una serie di concetti deterministici, instancabilmente rimessi in circolazione in appoggio alla centralità delle società occidentali dominanti.

Di fatto oggi, in epoca di multiculturalismo, di interessi economici multinazionali e di globalizzazione, la contrapposizione Oriente/Occidente, sebbene permanga nella terminologia corrente, non ha più molto senso. Alle metafore mutuate dalla geografia, come Est-Ovest, e poi Nord-Sud, che ricalcano blocchi politici e culturali in continuo assestamento, si dovrebbero preferire i più flessibili concetti di centro e periferia, che esprimono meglio la relatività e i rapporti all’interno dei macrocosmi come dei microcosmi, e che denunciano, con una connotazione meno etnocentrica, l’inevitabile imperfezione del mondo. Esistono popoli che vivono al centro e altri che restano o sono lasciati ai margini, proprio come all’interno di una stessa collettività esistono gruppi e individui prevalenti e altri emarginati.

Possiamo dunque denunciarne l’inattualità e i limiti, possiamo proporre necessarie revisioni al suo periodico riproporsi, tuttavia l’antitesi Oriente/Occidente è stata a lungo un topos culturale, una vera e propria categoria storiografica, con a sua volta una storia, che non può essere tralasciata (Barthold 1947; Charnay 1980). Pertanto, l’Asia come Oriente e l’Europa come Occidente sono una contrapposizione storica che ha inciso tracce profonde nella cultura e nella mentalità, e dunque anche nel teatro e nella sua storia.

Capitolo quarto. Esotismo e orientalismo

Ugualmente invasiva è stata la pratica e la tradizione dell’esotismo. Troviamo l’aggettivo exotikòs già nella lingua greca antica con il significato di «estraneo», «lontano», ma l’accezione moderna del sostantivo ha avuto origine nell’Ottocento con il senso di estraneità procurata da un viaggio reale (o immaginario), di sprofondamento in un mondo lontano, di immersione, altrettanto estraniante, in una civiltà passata e scomparsa. Nel percorso tra le diverse epoche del sentire europeo, la nozione, l’uso e il consumo dell’esotismo hanno preso sfumature differenti ma sempre contrassegnate da una rappresentazione spaziale di distanza: vissuto o fantastico, geografico o storico, in ogni sua astrazione ideologica e formale, il sentimento esotista ha sempre conservato nel suo fondo il senso di una ricerca, attraente e ansiosa a un tempo, di universi estranei e non familiari (Praz 1932; Moura 1992).

Così l’esotismo è stato, di volta in volta, il sogno del paradiso terrestre e dei luoghi lontani abitati da esseri meravigliosi o mostruosi (Medioevo); oppure il desiderio di viaggiare, di avventurarsi nell’ignoto e di incontrare popoli lontani (XVI secolo); o ancora un modo, più o meno cosciente, di vedere e descrivere «gli altri» e quindi di rispecchiarsi in loro (XVIII secolo); o infine il bisogno, quasi la necessità, di evadere, di smarrirsi, di raggiungere luoghi puri e incontaminati in cui i rapporti fra gli esseri umani fossero di nuovo paradisiaci e incontaminati (XIX e XX secolo). Quando, infine, lo scrittore e viaggiatore francese Victor Segalen, che visse a lungo in Cina e in Oceania come medico e archeologo, iniziò a scrivere nel 1908 un saggio sull’esotismo, l’argomento aveva ormai preso una piega così necessaria da convertirsi di lì a breve addirittura nei dubbi di una scienza, quella etnografica che sorse in Francia alla fine degli anni Venti:

Innanzitutto sgomberare il terreno. Bisogna eliminare tutto ciò che la parola esotismo ha di abusato e di rancido. Spogliarlo dei suoi orpelli; le palme e i cammelli; il casco coloniale; le pelli nere e il sole giallo [...]. La sensazione d’esotismo non è altro che la nozione del differente; la percezione del Diverso; la conoscenza che esiste qualcosa che non siamo noi; e il potere d’esotismo non è altro che il potere di concepire altrimenti (Segalen 1983: 33).

Ora, in tutte queste diverse forme, anche nelle più moderne, troviamo che l’esotismo è una tematica sempre strettamente legata al mito dell’Oriente, cioè all’Asia che per secoli fu l’unico universo «lontano» dell’Occidente. Tanto che, nonostante la scoperta del Nuovo Mondo, quello orientale è rimasto sempre il più frequentato e il più prolifico filone dell’attrazione esotista nella letteratura come nelle arti visive, nella musica e poi nel cinema (Bellman 1998; Gradenwitz 1977; Bernstein-Studlar 1997).

L’avvento del positivismo e delle sistemazioni scientifiche non riuscì a sradicare del tutto le fantasie esotiche che, anzi, agli inizi del Novecento, sembrarono trovare nuove estreme esaltazioni nelle imprese coloniali e nell’impressionante accelerazione dei viaggi di terra e di mare. Per la verità, un velo di esotismo sembrò schermare all’inizio anche le scienze che si occupavano dei vari aspetti delle culture asiatiche: gli studi delle lingue, delle religioni, delle filosofie e delle arti dell’Asia si erano raccolti, infatti, sotto il nome di scienze orientalistiche, una denominazione che, per le sue assonanze, introduceva di fatto l’aspettativa esotica¹. Con il nome di Orientalisti, per esempio, si chiamavano sia gli scrittori e i pittori che avevano fatto dei paesi e delle genti dell’Asia i loro soggetti preferiti sia gli studiosi di argomenti asiatici (Bézombes 1953; Jullian 1977). Ma tant’è: l’intramontabile mito dell’Oriente, l’etnocentrismo imperante, all’epoca certo non avvertito come un problema, e il colonialismo esasperato proiettarono i loro vapori anche sui primi studi che cercavano di diradare proprio quelle nebbie, scoprendo convergenze antiche e nuove tra Oriente e Occidente.

¹ È interessante notare che si contemplano anche forme contrapposte di occidentalismo (Carrier 1995).

In questa direzione lavorava, per esempio, il geografo tedesco Carl Gustav Reuschle, che nel suo Handbuch der Geographie introdusse, nel 1858, il termine «Eurasia», giustificandolo con il fatto che Europa e Asia non sono due zone del mondo, due unità territoriali separate e circondate dagli oceani, come le Americhe o l’Africa, ma costituiscono un’unica massa continentale, senza soluzione di continuità, tra i cui elementi unificanti vi sono alcuni importanti fattori geografici, come la formazione geologica (la cosiddetta orogenesi alpino-himalayana), e specie botaniche e faunistiche.

Oggi, a un secolo e mezzo di distanza dalla definizione, alla luce di nuove evidenze in molti campi, dalla linguistica all’archeologia, dalla storia dell’arte alla storia delle tecnologie, si può affermare che l’Eurasia è non solo un termine geografico che indica un grande insieme continentale, ma anche una realtà riconoscibile sul piano etno-antropologico: risulta, cioè, un territorio che ha in comune lineamenti culturali oltre che geografici. Si pensi al nomadismo preistorico, alla diffusione di alcune componenti linguistiche, come i gruppi delle lingue altaiche e uraliche, all’immenso bacino di espansione delle tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e islamismo), e soprattutto al complesso dei contatti e degli scambi secolari (dalle invasioni barbariche al colonialismo europeo) che, per quanto intricati e labirintici, hanno rappresentato un vastissimo movimento di uomini, idee, tecniche e merci (Edwardes 1976). L’Eurasia, insomma, è stata un grande serbatoio di confluenze, migrazioni e contaminazioni tanto che, in alcuni contesti sociologici, il termine «eurasiano» assume la connotazione di «meticcio».

I primi tracciati di quelle che saranno poi la celebre Via della Seta al centro, la Via delle Steppe all’estremo nord e la Via delle Spezie (o dei Monsoni) a sud per attraversare l’Oceano Indiano furono infatti itinerari antichissimi non soltanto di popoli nomadi, di carovane di mercanti o di pellegrini, ma anche di molteplici flussi culturali che in ogni epoca hanno attraversato l’Eurasia, lungo la direttrice est-ovest, sia in un senso sia nell’altro. In questo campo gli studi di storia dell’arte di Rudolph Wittkower (The Impact of Non-European Civilizations on the Art of the West, 1989), quelli monumentali di Joseph Needham sulla civiltà cinese (Science and Civilization in China, 1954, in parte tradotto in italiano) o quelli di Giorgio Borsa sulla risposta di India, Cina e Giappone alla penetrazione europea (La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, 1977) sono ricerche esemplari, oltre che d’estrema utilità, di una nutrita schiera.

In conclusione, sono state più propriamente le componenti storiche a fare di Europa e Asia due entità diverse e, come ha ben affermato lo storico olandese Jan Romein, soltanto una catena di eventi storici può spiegare la paradossale opposizione tra il più grande dei continenti e una sua piccola appendice: «Fu la storia che separò l’Asia dall’Europa, non la natura. Senza storia l’Europa sarebbe tuttora ciò che fu per centinaia di secoli: una serie di penisole asiatiche» (1969: 27). Come abbiamo visto, però, a dispetto, per così dire, della piattaforma eurasiana, i rapporti Europa-Asia si sono espressi e sviluppati alla luce della contrapposizione Oriente/Occidente.

La parabola storica delle tradizioni teatrali asiatiche ripercorre puntualmente questa parabola: introdotti dall’esotismo, i teatri dell’Asia si situano a lungo nella tenace dialettica Oriente/Occidente con la formula «teatri orientali»², per maturare solo nel Novecento nella logica dei «teatri asiatici». Oggi, al di là di ogni precedente ripartizione storica o geografica, l’approfondimento degli aspetti tecnici e professionali dell’attore propone un’inedita estensione transculturale: la dimensione eurasiana.

² A cui si può aggiungere il punto di vista coloniale (per esempio: Leprun 1986) e quello post-coloniale (per esempio: Crow-Banfield 1996).

Capitolo quinto. Verso il teatro eurasiano

Già nel teatro del primo Novecento il concetto di teatri orientali subì continue erosioni, sia pur con il reiterato accompagnamento di variegate vicende di scambi esotici, di malintesi fertili o grotteschi. Si guardi, ad esempio, più avanti, la vicenda degli artisti asiatici alle esposizioni universali. Passata la guerra, alla fine degli anni Sessanta, probabilmente favorita dallo studio di Leonard Pronko, che per la prima volta illustrava gli intensi rapporti teatrali fra Oriente e Occidente (Theater East & West. Perspectives Toward a Total Theater, 1967), una fiorente sperimentazione teatrale incentrata sul recupero dell’arte dell’attore e di una sua forte presenza scenica indusse alcuni uomini di teatro – in Europa come in America – a introdurre nel loro lavoro non le suggestioni di storie esotiche o di vivaci costumi di scena, quanto autentici frammenti di pratiche e di tecniche estratte di peso dalle tradizioni teatrali classiche dell’Asia.

Alcuni registi e attori, insoddisfatti delle consuetudini commerciali del teatro occidentale, decisero perfino di recarsi ad apprendere nelle scuole teatrali asiatiche, secondo lo stretto e celebrato rapporto maestro-allievo, il segreto di una teatralità ormai leggendaria. E questo avvenne, non a caso, in un periodo in cui, parallelamente, giovani artisti asiatici abbandonavano le loro tradizioni classiche per inoltrarsi nell’esercizio di tradizioni occidentali come il balletto classico o il canto lirico.

Quest’apprendistato diretto, tecnico, che, attraverso la pratica, entra nel cuore dei rispettivi sistemi, oltrepassa ogni precedente tentativo di contaminazione e di sincretismo. In breve tempo, ai loro livelli più avanzati, le culture teatrali occidentali e quelle asiatiche non sono più da separare. Alcuni teatri classici dell’Asia continuano a esercitare influenza e fascino per gli uomini di teatro occidentali, ma le diverse conoscenze e i diversi motivi si intersecano al punto che si può parlare d’una cultura teatrale nuova, che ha superato e tesaurizzato la dialettica Oriente/Occidente in una dimensione «eurasiana». Non ha più senso, cioè, continuare a vedere i grandi modelli dei teatri classici dell’Asia come se stessero al di là di una linea di demarcazione culturale: è una separazione, inoltre, che mal si adatta alle esigenze di quella storia di viaggi, scambi, equivoci e profonde comprensioni di princìpi artistici comuni che è la storia sotterranea di molto teatro novecentesco.

Si può ben dire che, alla fine del Novecento, le tradizioni giapponesi del teatro Nô e del teatro Kabuki, le forme classiche del teatro e della danza indiane, l’Opera di Pechino, le forme spettacolari dell’isola di Bali, in Indonesia – per non citare che gli esempi più famosi – appaiono importanti punti di riferimento per la cultura e la pratica teatrale, non meno presenti e attivi, non meno «contemporanei» di quanto non lo siano i modelli di teatro elaborati dai teorici della regia, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento.

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