Sommario

Memoria

non è peccato, fin che giova.

Dopo è

letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sé.

Eugenio Montale, Voce giunta con le folaghe (La bufera)

Processi e lezioni di storia

Questo libro narra la storia di un grande processo – di un «maxiprocesso», si direbbe nel lessico politico dell’Italia di fine Novecento – contro l’intero comando militare dell’apparato di potere nazista in Italia, operativo dal 1943 al 1945: un processo accuratamente preparato dagli Alleati sulla base giuridica e tecnica del processo di Norimberga, ma che non fu mai celebrato.

Qui si cerca di spiegare perché e come esso venne sostituito da pochi e contraddittori dibattimenti giudiziari di rilievo assolutamente minore, con il risultato di produrre un colossale equivoco storico sull’occupazione nazionalsocialista e di ridurre la stessa questione alla dimensione delle responsabilità individuali.

Per spiegare quell’«atto mancato» ho ritenuto necessario risalire all’esito del giudizio di Norimberga contro le più alte autorità del III Reich, alla politica degli Alleati nei confronti dell’Italia del 1946 e 1947 – quando la situazione politica del paese appariva straordinariamente incerta –, al confronto tra Alleati e governi italiani sul trattato di pace, la salvaguardia del territorio nazionale e lo status internazionale del nostro paese, sul cui sfondo si collocava il braccio di ferro su chi avesse l’autorità di processare gli imputati nazisti, ma anche i militari italiani colpevoli di crimini di guerra perpetrati nei territori occupati dall’Asse sino al 1943. Un intreccio di questioni che i governi italiani affrontarono con la tattica del gioco su due tavoli (o delle due parti in commedia) utilizzando l’estenuante manovra dilatoria verso gli Alleati, per evitare la consegna a loro – o, peggio, ai poteri jugoslavi – dei militari italiani imputati per i crimini commessi nei Balcani e, sull’altro versante, le sollecitazioni sottobanco alla Procura generale militare italiana. Lo scopo era quello di insabbiare le iniziative processuali contro gli appartenenti alle truppe naziste che avrebbero provocato reazioni nell’opinione pubblica tedesca, rischiando di mettere in crisi il processo di reinserimento della Germania federale nella comunità europea.

Questo libro non mira a denunciare tardivamente l’opportunismo politico o la cattiva giustizia: chi compie una ricerca storica sbaglierebbe se intendesse rimediare alle mancanze dei tribunali, ma commetterebbe un errore assai più grave se pretendesse di supplire alla cattiva giustizia con una storiografia giustizialista. Non si tratta né di appiattirsi sulle sentenze di allora, né di contestare i processi non celebrati, ma di contestualizzare l’azione della giustizia e della politica nella storia del dopoguerra, non solo per illuminare la natura dell’occupazione nazista e della collaborazione fascista repubblicana, ma anche per comprendere la natura della giustizia postbellica. Questa fu politicamente condizionata dalla finalità di costruire una memoria pubblica della guerra e del passato recente funzionale a quella che appariva la nuova e incerta identità dell’Italia e dell’Europa. L’intera vicenda, inoltre, venne straordinariamente complicata dalle lacune e dalle incertezze del diritto internazionale in materia di rappresaglie verso le popolazioni civili, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Alle contraddizioni accumulatesi a Norimberga, tra innovazioni etiche e giuridiche e violazioni dei fondamenti del diritto (a partire dal principio di irretroattività della legge), si aggiunsero quelle prodotte dalla giustizia ordinaria e militare dei diversi paesi europei, nei confronti degli occupanti e dei loro collaboratori, che si dimostrò incapace di sciogliere nodi come il ruolo dei militari nel terrore e il consenso di massa ai sistemi totalitari.

Quei processi furono i cardini di una gigantesca opera di decostruzione del ricordo di un passato recente che comprendeva le responsabilità delle classi dirigenti nel fallimento delle democrazie parlamentari, il consenso alle nuove soluzioni autoritarie, la subalternità alla riorganizzazione nazista dell’equilibrio europeo, i crimini perpetrati anche da parte dei «giusti». Venne così elaborata una memoria pubblica selettiva e parziale, basata sull’esclusiva attribuzione dei crimini contro l’umanità alla nazione tedesca, identificata nel sistema nazionalsocialista.

L’arbitraria separazione tra «noi» e «loro» in Europa e in Italia risultò opportunamente complementare all’opera di democratizzazione senza denazificazione della Germania. Così, sin dal 1945, gli Alleati e l’Europa offrirono un campionario intero di memorie ufficiali deformate ad uso propagandistico. L’oblio giudiziario ne fu un aspetto cruciale.

Non per caso ho dedicato un capitolo alla memoria di Vichy nella storia politica, culturale e giudiziaria francese dopo il 1945. Dopo la breve stagione dell’épuration, la Repubblica d’oltralpe venne infatti edificata sulla consapevole sostituzione del ricordo della collaborazione di Vichy col mito gollista della Francia indivisa e unita nella più strenua resistenza. La sua vicenda può essere assunta a paradigma di quelle di molte democrazie occidentali costruite sull’oblio: l’Italia di De Gasperi, l’Austria riabilitata di Kurt Waldheim, la Germania di Adenauer e dei suoi eredi, tenacemente decisa a dimenticare.

Ma proprio in Germania, il soprassalto del 1968 ebbe riflessi decisivi anche sul terreno della memoria, e riattualizzò l’imperativo morale del ricordo nella forma ammonitrice della prescrizione ebraica: «Il ricordo è il segreto della redenzione». Da quell’esercizio il paese avrebbe ricavato un buon profitto più tardi, quando esso si trovò ad affrontare, dopo quello della fine del nazionalsocialismo, il «trauma» della caduta di un comunismo statalista e oppressivo. La questione della transizione da una dittatura all’auspicata stabilità democratica è sempre connessa al modo con cui garantire la giustizia di fronte alle violazioni dei diritti umani, affrontando e comprendendo contemporaneamente il passato che le ha prodotte.

L’interrogativo su quale sia la soluzione per fare giustizia e nel contempo comprendere e superare un passato difficile non è certo una peculiarità germanica, ma ha riguardato negli ultimi decenni del nostro tempo una quantità di Stati: il Cile, l’Argentina, El Salvador, la Spagna dopo Franco, la Grecia dopo i colonnelli, la Cambogia, l’Etiopia e, più recentemente, tutti gli Stati postcomunisti dell’Europa centrale e orientale. In molti di questi paesi la causa dell’oblio ha avuto ottimi sostenitori – in Spagna dopo il 1975 si parlò di amnesia volontaria collettiva.

Dopo la rivoluzione polacca del 1989, la linea seguita dal ministro Tadeusz Mazowiecki è stata ad esempio quella di «tracciare un solco netto tra noi e il passato», senza processi e recriminazioni. Forse nella transizione polacca, così come in quella tedesca dopo il 1945, l’impellenza della ripresa dell’economia ha giocato un ruolo decisivo. Nel caso di Vaclav Havel in Cecoslovacchia, la linea di rigetto delle recriminazioni e delle ritorsioni corrispondeva piuttosto a una convinzione profonda che non è stata condivisa, invece, da altri governi postcomunisti, come il governo conservatore di József Antall in Ungheria. Havel ha dichiarato in più occasioni che la giustizia e la punizione dei colpevoli e la valutazione del passato, invece di rafforzare la nuova e fragile democrazia, le avrebbero fatto correre il rischio di lacerare il tessuto sociale, un rischio che non è comparabile alla perdita delle testimonianze o al mancato accertamento delle responsabilità storiche e penali.

Molti paesi postcomunisti dell’Europa centrale e orientale hanno scelto così di giocare la carta della rimozione, già utilizzata dall’Europa occidentale dopo il 1945, rischiando di cronicizzare patologie come quella che in Francia è stata definita la «sindrome di Vichy», la febbre che ha afferrato in più occasioni il paese (ultimo il caso delle rivelazioni sui trascorsi di François Mitterrand), o di esporsi a deformazioni unilaterali, come quelle prodotte dall’agguerrita generazione del Sessantotto in Germania, che riuscì a ribellarsi all’incapacità dei padri di confrontarsi con il nazismo ma chiuse nel contempo gli occhi di fronte al regime della Repubblica Democratica Tedesca. In questi anni, la situazione si è poi ulteriormente complicata, poiché solo alcuni paesi dell’Europa centrale e orientale – la Polonia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria e l’Albania – hanno dovuto affrontare la comprensione del passato all’interno dei confini dei vecchi Stati, mentre nell’ex Unione Sovietica, nell’ex Jugoslavia e nell’ex Cecoslovacchia le vecchie compagini sovranazionali si sono disgregate in nuove e più piccole comunità statali.

In generale nell’Europa centrale postcomunista la pratica dei processi contro i responsabili delle politiche oppressive o dei crimini contro l’umanità è risultata alla fine di dubbia efficacia. A differenza delle dittature cilena o argentina, infatti, in questi paesi le leve grandi o piccole del regime erano state nelle mani di un elevato numero di persone e una buona parte della società si era trovata così invischiata nella rete dei conformismi e dei compromessi quotidiani. Non per caso Vaclav Havel ha sempre avvertito come fosse impossibile tracciare una separazione inequivocabile tra gli oppressi e gli oppressori, dimostrandosi estremamente ostile a controfirmare la legge del 1991 che metteva al bando intere categorie. In Polonia ampie riserve sono state espresse sul processo intentato contro il generale Jaruzelski, per le sue responsabilità nella repressione armata delle proteste degli operai del Baltico tra il 1970 e il 1971.

Nel complesso, le iniziative giudiziarie nei paesi dell’Europa centro-orientale sono risultate frammentarie, episodiche e prive di efficacia. Non si può neppure sostenere che anche la più sistematica azione della giustizia tedesca, dopo l’unificazione del 1990, sia servita a rafforzare la legalità. La magistratura tedesca è riuscita a non ripetere quello che la stampa aveva definito «lo stile Norimberga», cioè la persecuzione legale per crimini non considerati tali dal codice del regime dell’epoca, in violazione del principio di irretroattività della legge. Non per questo la sua azione è risultata immune da forme di selettività arbitraria e da brutali strumentalizzazioni politiche nell’applicazione delle vecchie leggi della Repubblica Democratica Tedesca ai delitti commessi dai suoi funzionari. L’unico paese che ha cercato di classificare gli atti del periodo comunista – a partire dai crimini commessi durante la rivoluzione del 1956 – entro le categorie giuridiche classificate dal processo di Norimberga è stato l’Ungheria.

Considerazioni analoghe si potrebbero continuare a svolgere per le purghe in Cecoslovacchia o per i feroci ricorrenti episodi di uso politico diffamatorio dei documenti del passato nella lotta politica in Polonia. Se l’interrogativo apertosi nel 1945 rimane dunque assolutamente attuale, soluzioni soddisfacenti appaiono ancora lontane.

Uno dei pochi esempi positivi è stata forse la Commissione per la ricerca della verità adottata in Sudafrica. Alcune soluzioni giudiziarie possono essere individuate nella costruzione di una rete di norme del diritto internazionale relative ai crimini contro l’umanità, nonché nella creazione di istituzioni sovranazionali, come il tribunale dell’Aja per la Bosnia e il Ruanda e la Corte penale internazionale permanente. Ma sul piano pratico la loro applicazione, probabilmente, non riuscirà ad evitare i problemi già prodottisi nei processi celebrati contro i criminali nazisti.

La ricerca paziente della verità storica – verità sempre umana e perciò parziale, fallibile e suscettibile di correzione– rimane una via necessaria per la comprensione e il superamento del passato. Ma lo studio delle eredità e delle conseguenze di una qualsiasi forma di potere autoritario o totalitario è anche uno dei modi migliori per chiarire quanto sia difficile il raggiungimento di una verità storica. Se infatti i documenti di uno Stato fondato sulla menzogna della propaganda rimangono inaffidabili, lo storico deve continuare a sospettare anche delle testimonianze retrospettive e delle stesse carte processuali.

Ringraziamenti

Questo testo nasce da una riflessione maturata nell’ambito di un gruppo di ricerca delle università di Napoli, Bari, Bologna e Pisa, coordinata e diretta da Paolo Pezzino, le cui attività sono state per me di stimolo costante.

Due persone hanno letto il testo e mi hanno offerto un aiuto importante per correggere errori e imprecisioni. Claudio Pavone è da molto tempo il riferimento essenziale dei miei studi sulla crisi italiana del 1943-47, dalla guerra di Resistenza alle origini della Repubblica, e a lui debbo i fondamenti del mio lavoro e una costante lezione di equilibrio. Adriano Sofri è un interlocutore della mia riflessione, sin dal tempo ormai lontano dell’entusiasmo. In anni recenti, la vergognosa vicenda giudiziaria di cui è vittima lo ha ricondotto nella mia città. Il dialogo con lui è per me un valore di cui lui non immagina la ricchezza.

Ad Alessandra Peretti, infine, va una gratitudine di antica data.

La decostruzione della memoria

Nell’inverno 1995-96 mi affannavo attorno ai faldoni dell’Archivio di Stato britannico, il Public Record Office londinese, consultando le carte della sezione investigativa dell’esercito. La Special Investigation Branch aveva indagato tra il 1944 e il 1945 su centinaia di episodi sanguinosi che avevano coinvolto la popolazione civile inerme durante la campagna d’Italia. Gino Nunes, all’epoca presidente della provincia di Pisa, su suggerimento di Giuseppe de Felice, aveva incaricato me, che in quegli anni lavoravo presso la Scuola Normale Superiore, e un collega dell’Università pisana, Paolo Pezzino, di ricercare le tracce di alcuni massacri di civili accaduti nel territorio pisano e in Toscana nella primavera e nell’estate del 1944, durante la fase più drammatica della guerra e della Resistenza nella nostra regione. Di essi si serbavano poco più che memorie locali. La nostra ricerca si svolgeva negli archivi britannici, statunitensi, tedeschi e italiani.

A suo tempo Roberto Battaglia aveva insistito sulla sanguinosa peculiarità della ritirata tedesca da Roma e Firenze e noi ci muovevamo sulla sua pista.

Mentre la Resistenza del Nord si va avviando alla sua maturità, quella dell’Italia centro-meridionale è impegnata a contrastare la ritirata tedesca che da Roma si dirige a gran passi verso l’Appennino tosco-emiliano. Kesselring ha deciso opportunamente di operare un grande balzo indietro di 400-500 Km per assorbire il colpo ricevuto nella battaglia di Roma e attua una «ritirata aggressiva [...] caratterizzata [...] da una serie di combattimenti di retroguardia che contrastano il terreno palmo a palmo alle avanguardie alleate fino al definitivo arretramento sulla linea gotica [...]. Una terrificante scia di massacri spezza in senso trasversale la penisola, denuncia il passaggio dalla prima alla seconda fase della ritirata. Da est a ovest: a Gubbio [...]; a Cortona. A Civitella Val di Chiana [...]; a Castelnuovo Val di Cecina [...]. Così per seguire le successive fasi della ritirata tedesca basta ripercorrere i luoghi del martirio della Toscana devastata dall’esercito di Kesselring: ogni massacro una tappa prestabilita. Lungo la linea di ritirata Arezzo-Firenze, da Sud a Nord, S. Giovanni Valdarno [...] e poi su vicino a Firenze [...] a Marradi; Figline di Prato [...]. Non c’è zona della Toscana percorsa da una strada di qualche importanza dove non imperversi la furia nazista, aumentando d’intensità man mano che si spinge verso il nord fino a toccare il suo culmine nella provincia di Pistoia [...] presso il Padule di Fucecchio. L’esercito nazista esegue alla lettera [...] le disposizioni [...] del maresciallo Kesselring. [...] Risulta infatti dalle sue memorie [...] come ‘la lotta contro le bande doveva essere posta tatticamente sullo stesso piano della guerra al fronte’»¹.

Non fu facile leggere quelle carte per chi, come me, proveniva da una famiglia investita direttamente dalla tragedia toscana. Il volume che uscì dalla ricerca suscitò per fortuna discussioni nell’accademia e fuori e la cosiddetta «guerra ai civili» assunse anche una certa dignità di oggetto storiografico, sino ad essere posta al centro di un importante convegno di studi internazionale².

Sono stato assalito più volte dal dubbio se a quelle carte d’archivio io stessi ponendo la domanda giusta. I documenti britannici incrociati con quelli rinvenuti negli archivi italiani, tedeschi e americani rispondevano certamente agli interrogativi sulla genesi dei singoli massacri, ma acquistavano per me un senso pieno solamente se li prendevo in esame nel loro insieme. Molto spesso infatti le inchieste sui singoli episodi rinviavano le une alle altre e i duplicati di alcuni documenti si ritrovavano nei dossier dedicati a casi diversi. Gli inquirenti avevano continuamente collegato un episodio all’altro, non solo perché i responsabili – le unità dell’esercito o gli ufficiali in comando – erano gli stessi, ma perché le dinamiche in atto erano apparse straordinariamente analoghe. Confrontando i documenti e comparando i casi non fu difficile concludere che in realtà tutti i dossier avevano fatto parte di un’unica inchiesta generale, in origine indirizzata all’apparato militare che il sistema di occupazione tedesco aveva organizzato per contrastare il movimento partigiano e la disobbedienza delle popolazioni civili. Gli inquirenti stessi avevano definito quell’apparato «the machinery of reprisals». Per valutare la natura criminale del suo meccanismo terroristico si era ritenuto necessario, tra l’aprile e l’agosto del 1946, organizzare un unico grande processo ai responsabili principali, alcune decine di alti ufficiali e comandanti delle forze armate e di polizia. Per quel processo si era pensato addirittura di utilizzare il personale e le strutture del Tribunale militare internazionale di Norimberga. Senza fornire alcuna spiegazione, nel torno di pochi mesi gli inquirenti inglesi avevano però abbandonato la prospettiva della Norimberga italiana. I dossier non erano dunque che gli spezzoni residuali dell’inchiesta generale: essi erano stati separati dal tronco originale in funzione di altri processi di minor rilievo che vennero organizzati solamente dopo che la prospettiva del grande processo era stata abbandonata. Non fu facile ritrovare le tracce di quel processo fantasma, poiché le sue carte erano state smembrate in istruttorie separate. Rimanevano infatti solo pochi indizi del dibattito giuridico e politico che aveva condotto all’abbandono.

In queste pagine cerco di ricostruire quella prospettiva, ricomponendo l’architettura dell’istruttoria di un processo che non fu mai celebrato, per risalire alle conseguenze di quell’atto di giustizia mancato sui due terreni del diritto e della memoria pubblica. Sin dal dopoguerra, la mancata celebrazione giudiziaria ebbe infatti effetti pesanti di rimozione, di ricostruzione selettiva e parziale del passato prossimo.

Rimozione e selettività non sono però scomparse neppure nei decenni successivi. Il 7 maggio del 1996 si apriva a Roma il processo contro Erich Priebke. Tra le prime decisioni prese da quella Corte militare ve ne fu una estremamente grave, che ridusse a zero sin dall’inizio la possibilità che il dibattimento facesse progredire il sapere storico sulla tragedia delle Fosse Ardeatine. La Corte rinunciò infatti ad ascoltare un testimone ancora vivente, il colonnello Dietrich Beelitz, che nella primavera del 1944 aveva ricoperto il delicato incarico di capo dello staff operativo dello Stato Maggiore del maresciallo Kesselring³. Se nel 1946 l’inchiesta sul «meccanismo del terrore» fosse stata condotta a termine e il processo contro i suoi responsabili fosse stato celebrato, il ruolo chiave del teste Beelitz sarebbe emerso cinquant’anni prima. I giudici militari italiani non avrebbero potuto ignorare, ancora nel 1996, l’importanza del meccanismo terroristico messo in movimento da tutto l’esercito e non solamente dalle truppe specializzate delle SS.

Il primo processo Priebke risultò un evento disastroso anche sotto altri profili. L’ufficiale nazista venne paradossalmente considerato da una parte dell’opinione pubblica come una vittima dei superstiti del 1944 e dei testimoni del genocidio: l’esplosione della collera degli ebrei di Roma nel corso delle prime udienze provocò reazioni allarmate e infastidite e fu assimilata ad un’intolleranza totalitaria, sino ad essere presentata come il fanatismo di chi si avvinghia al culto memoriale dell’unicità dello sterminio degli ebrei d’Europa per ignorare gli altri genocidi del Novecento. Così il processo Priebke e le reazioni sentimentali e di opinione che l’accompagnarono riuscirono, anche se non del tutto, a rovesciare la relazione che c’era stata nel 1944 tra le vittime e il loro carnefice, rivelando come anche in Italia ormai esistesse un rapporto fragile, storto, non elaborato, tra la società e il suo passato, la sua memoria, la sua storia. Non era solo questione dell’assoluzione di Priebke, di per sé sufficiente a squalificare i giudici militari, ma della manifestazione dell’approssimazione giuridica e morale come carattere ormai costitutivo dello spirito pubblico italiano. Quel crimine contro l’umanità venne ridotto ad evento addirittura opinabile, rivelando una situazione d’emergenza morale e culturale. L’antifascismo colava a picco, mentre riaffiorava una vecchia tendenza al rigetto di tutta la storiografia dell’ultimo mezzo secolo, accusata di essere una sorta di racconto ideologico e storia iniqua, scritta al solo uso dei vincitori.

Mentre scrivevo le mie pagine del libro sulla guerra ai civili nell’Italia del 1944, i sintomi della malattia italiana si moltiplicavano. Patologia della memoria e della facoltà di distinguere tra i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità, si mischiavano a un relativismo culturale certo non esclusivamente italiano, ma qui aggravato dal connubio ambiguo tra un’indulgenza di ritorno verso il fascismo repubblicano e il mancato giudizio critico sulla vicenda dei sistemi totalitari comunisti dell’Europa orientale (e sul loro nesso con la storia dei partiti del movimento operaio italiano). La confusione mentale era certo il precipitato di una storia di silenzi, censure, contraddizioni e straordinaria indifferenza, ma non poteva prescindere da altri fenomeni di involuzione, largamente presenti in tutta Europa nel corso degli anni Novanta. D’altra parte diveniva improrogabile ripensare per intero il secolo delle Fosse Ardeatine e delle foibe, ricomponendone i brandelli, senza finire a contrapporre morti a morti, in una nuova insensata guerra ideologica trasposta sul terreno storiografico o accademico. Cominciai a pensare che fosse ormai impellente risalire all’immediato dopoguerra, al periodo in cui si erano installate le categorie con cui per cinquant’anni la guerra era stata pensata, e alla rappresentazione postbellica della storia fondata sul «consenso di Norimberga», cioè a quelle sentenze processuali connotate da una fortissima valenza pedagogica e di memoria, ma rimaste, in quanto tali, senza un’adeguata riflessione critica sul piano storiografico.

I processi successivi al 1945 – tra quelli condotti dalle autorità britanniche in Italia, il più importante fu il processo contro il maresciallo Kesselring – erano stati giustificati, infatti, da un doppio intento: la punizione dei responsabili politici e militari dell’Asse e la «rieducazione democratica» delle nazioni governate dai regimi totalitari. La conduzione dei processi trasformò questa seconda funzione «pedagogica» in una omologazione delle istituzioni alle democrazie occidentali, che prescindeva però dalla denazificazione e dalla defascistizzazione della cultura, dello spirito pubblico e della morale collettiva di quelle società. Grandiose rappresentazioni pubbliche, i grandi processi contro i «criminali di guerra» si risolsero in una glorificazione dei vincitori e in una demonizzazione dei vinti, senza che i gruppi dirigenti delle nazioni alleate si dimostrassero capaci di ripensare il rapporto fra il totalitarismo e la storia europea. Le regole politiche, le categorie giuridiche, le procedure giudiziarie plasmarono una sterminata quantità di eventi riconducibili alla guerra secondo un’ottica estremamente semplificata, che si rivelò incapace di spiegare ciò che era stato il sistema totalitario. Le finalità politiche-giuridiche stabilite a priori dai governi dei paesi alleati nell’istruzione dei processi, a partire dall’International Military Tribunal di Norimberga, ebbero un effetto profondo sulla rappresentazione pubblica della criminalità nazionalsocialista. Solo alcuni dei caratteri del totalitarismo e della sua azione violenta vennero presi in considerazione, deformando la percezione dello stesso sterminio degli ebrei. I processi costituirono un aspetto decisivo della politica di occupazione alleata nei paesi dell’Asse e divennero così strumenti essenziali della scomposizione e ricomposizione della realtà storica attraverso categorie giuridiche ricondotte solamente ad alcuni soggetti, in primo luogo le organizzazioni naziste, mentre altri scomparivano dall’orizzonte.

Questo libro cerca di ripensare i processi celebrati o i processi mancati come effetti della decostruzione della memoria. La mia ipotesi è che la rappresentazione giudiziaria della guerra offerta dai processi della seconda metà degli anni Quaranta – i processi celebrati dagli Alleati nei confronti dei responsabili politici e militari dell’Asse, ma anche i processi di epurazione nei singoli paesi – abbia fornito per un lungo tempo le categorie di una memoria selettiva. Ciò ha impedito la comprensione di alcune cause profonde della distruzione dell’Europa tra il 1939 e il 1945. Come se il passato prossimo avesse velato il passato remoto.

Ha scritto Marc Bloch in L’étrange défaite, testimonianza insuperabile del crollo francese del 1940: «Non è lontano il tempo in cui le vittime della guerra si contavano più nelle campagne razziate e ridotte alla fame o lungo le strade delle città saccheggiate che tra i ranghi dei combattenti. Ma chi se ne ricordava? [...] Il recente passato è per l’uomo medio un comodo schermo»⁴.

I massacri delle popolazioni civili perpetrati durante la seconda guerra mondiale non furono però il ritorno alle stragi che avevano accompagnato le guerre di religione del XVI secolo. Essi si comprendono solo nel contesto di quella che abbiamo definito la «guerra ai civili», le tecniche distruttive della guerra moderna e la brutalità che la caratterizza. Un sistema di ordini preparati dal comando della Wehrmacht, accettati dai comandi delle SS e dalle unità minori dell’esercito, aveva ripreso modelli di azione già sperimentati in altre zone martoriate d’Europa e fu la base organizzativa della «guerra ai civili». Il meccanismo punitivo, in cui erano state integrate le strutture militari, quelle delle SS e delle forze di polizia, ebbe l’effetto di correggere parzialmente il disordine prodotto dall’articolazione multicefala e policratica del sistema di occupazione.

Le carte processuali rimangono fonti privilegiate per ricostruire la catena di quegli eventi e le loro cause più lontane. In particolare, le indagini preliminari svolte dalle autorità investigative britanniche e gli interrogatori degli ufficiali nazisti imputati sono decisivi per ricostruire quel «meccanismo del terrore», come fu definito allora dagli inquirenti della Special Investigation Branch.

È necessario affrontare con molta cautela queste fonti. Nei documenti del Public Record Office si possono infatti decodificare una pluralità di registri narrativi: la ricostruzione dei fatti secondo un paradigma indiziario, il quadro di riferimento normativo degli inquirenti, i principi giuridici che orientarono i processi. Ciò significa che il senso di quelle fonti non si esaurisce tutto all’interno della vicenda processuale, poiché esse presuppongono a monte una preistoria e, a valle, uno scontro di potere, una lotta giocata attorno all’esecuzione o alla modifica delle sentenze. Quella lotta rinvia a linguaggi politici e codici culturali stratificati profondamente nella coscienza europea.

In particolare, la storia dei processi celebrati in Italia contro alcuni importanti ufficiali tedeschi, a partire dal responsabile del Comando supremo sud-ovest della Wehrmacht, il maresciallo Kesselring, presuppone una lunga vicenda preliminare di scontri di potere sulle basi giuridiche dei processi stessi, su quale tipo di processi celebrare e su chi avesse l’autorità di celebrarli.

È lo status di paese cobelligerante a fianco degli Alleati, ottenuto dall’Italia il 13 ottobre del 1943, che consentì alla United Nations War Crimes Commission – già incaricata di indagare sui crimini di guerra perpetrati dalle truppe del III Reich contro i militari alleati, i prigionieri e le popolazioni civili dei paesi occupati – di estendere la propria competenza all’Italia. L’Italia non poteva però partecipare in prima persona alle istruttorie, in ragione del ruolo svolto dal nostro paese all’interno dell’Asse sino all’8 settembre del 1943, che ne faceva uno Stato sottoposto a indagini per crimini di guerra commessi dalle proprie truppe in altri paesi occupati assieme alla Germania. La United Nations War Crimes Commission delegò quindi il caso italiano ad una sottocommissione, la War Crime Commission for Italy, riservando le principali energie all’istruzione del Tribunale militare internazionale, che avrebbe celebrato il processo di Norimberga, con uno scopo allora definito in una sentenza che a me pare estremamente significativa, anche per il caso che ci interessa: «non solo nell’interesse della giustizia, ma più in generale nell’interesse della sicurezza». La distinzione tra i due principi, sicurezza e giustizia, costituisce un elemento decisivo per interpretare la natura giudiziaria e politica dei processi contro i responsabili del III Reich nel contesto della vicenda europea, nonché gli stessi processi celebrati in Italia. Dal maggio del 1945, la Commissione delle Nazioni Unite collaborò con la Commissione centrale per i crimini di guerra del governo italiano, presieduta dal sottosegretario Medici-Tornaquinci. Nonostante l’avviso contrario del ministro dell’Italia occupata, Mauro Scoccimarro, quella collaborazione venne ridotta dagli Alleati solo all’ambito investigativo. La celebrazione dei processi fu invece riservata esclusivamente alle corti di giustizia militari inglesi, «per ragioni di giustizia e di convenienza».

Anche quest’ultimo lemma, convenienza («expediency» nel testo inglese), è denso di significati. Fu però una decisione successiva a costituire il punto di svolta. Ancora nel maggio 1946 le autorità britanniche ritenevano di poter istruire un unico processo ai «comandanti tedeschi responsabili della politica della rappresaglia e della sua pianificazione». Pochi mesi dopo sarebbe prevalsa l’idea di celebrare solo processi separati. Che cosa aveva provocato il mutamento di indirizzo? Che cosa impedì quella che gli stessi inglesi cominciavano a chiamare la «Norimberga italiana»?

Tre furono probabilmente le cause determinanti: la mancata applicazione della resa incondizionata e, con ogni probabilità, l’effetto incrociato del braccio di ferro tra l’ambasciatore italiano a Londra, il conte Carandini, e il Judge Advocate General (presidente del Tribunale supremo militare), Sir Forster Mac Geagh, sulla consegna agli Alleati dei generali italiani ritenuti responsabili dei crimini di guerra perpetrati dal nostro esercito nei Balcani. Giocò un ruolo anche il timore da parte britannica che un processo unico sarebbe facilmente divenuto una faccenda politica («a matter of policy», scrissero gli inquirenti). Come vedremo dalle fonti, tali preoccupazioni si fecero più intense dall’aprile al giugno del 1946, cioè dalle elezioni amministrative di primavera – le prime consultazioni libere dopo l’abolizione fascista della carica elettiva di sindaco – a quelle politiche e al referendum istituzionale del 2 giugno: una sequenza di battaglie politiche che rese evidente la consistenza del blocco delle sinistre e dell’opinione antimonarchica nel paese. La sconfitta dell’opzione monarchica nel referendum istituzionale avrebbe confermato le preoccupazioni britanniche. Con la rinuncia a celebrare un solo grande processo contro il meccanismo del terrore e i suoi responsabili, gli inquirenti persero però l’occasione di mettere a fuoco una delle cause principali delle stragi di civili, definita dal colonnello Isham «la politica di rappresaglie collettive condotte senza il rispetto della distinzione tra colpevoli e innocenti». Con l’abolizione del grande processo, la questione si spostò dal terreno oggettivo e funzionale del «meccanismo terroristico» all’accertamento delle predisposizioni culturali, delle intenzioni soggettive e delle responsabilità oggettive di Kesselring. Si potrebbe quasi sostenere che lo scontro tra la scuola intenzionalistica e quella funzionalistica si combatté prima tra i giudici che tra gli storici. (Se all’epoca l’espressione «maxiprocesso» infatti non esisteva, non si può tuttavia negare che nella sostanza quella scelta dell’unico grande processo implicasse un’ipotesi interpretativa analoga a quella che avrebbe sorretto il maxiprocesso contro la mafia del 1987, cioè l’esistenza di un comando unificato⁵.)

Anche gli italiani, del resto, procedevano assai tiepidamente, processando nel 1945 l’ex ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana (RSI) Guido Buffarini Guidi con l’ex prefetto di Milano Oscar Uccelli; nel 1946 Pietro Koch, capo di una banda di torturatori, il generale della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) Biagioni, e il capo della provincia di Genova Carlo Basile; nel 1947 il principe Junio Valerio Borghese e nel 1950 il ministro della Difesa della RSI, Rodolfo Graziani.

Il processo contro Mackensen e Mältzer, rispettivamente comandanti della XIV Armata tedesca e della piazza di Roma – celebrato nel 1947 –, servì a rendere più evidenti le responsabilità di Kesselring, che aveva agito «come se l’esistenza del movimento partigiano fosse una colpa della popolazione civile». Per la vicenda delle Ardeatine, i giudici del processo Mackensen-Mältzer, prestando fede alla testimonianza di Kappler, posero le basi per la condanna dei due imputati e soprattutto dello stesso Kesselring. Mentre a Roma si accendeva uno scontro tra le proteste popolari, che accompagnavano il processo con la richiesta di punizioni rigorose, e le pressioni vaticane per la commutazione delle condanne a morte dei due comandanti, il dibattimento contro il maresciallo apertosi a Venezia il 10 febbraio 1947 ripropose gli stessi interrogativi. L’ufficiale del controspionaggio inglese Scotland e il teste Beelitz (un colonnello che era stato addetto allo staff operativo dello Stato Maggiore) confermarono che gli accordi del 1° maggio 1944 tra il feldmaresciallo e il comandante supremo delle SS, Wolff, avevano conferito a Kesselring la massima autorità sulla guerra antipartigiana. Venne provata la sua responsabilità nell’emanazione delle direttive che avevano condotto all’avvio di procedure che l’accusa definiva «fuori di ogni regola del diritto di guerra». Si concluse che le stragi erano state la conseguenza di quelle procedure, e non dell’azione di unità dell’esercito fuori controllo, che avrebbero agito – come pretendeva l’imputato – in modo autonomo in un contesto di relazioni caotiche tra il Comando supremo e il fronte. Al contrario, i testi degli ordini del feldmaresciallo contenevano prove cospicue dell’identificazione da lui operata tra il movimento partigiano e la popolazione civile.

Non basta tuttavia chiedersi perché il processo Kesselring si svolse seguendo tale procedura; bisogna soprattutto domandarsi perché esso fu pressoché l’unico processo celebrato in Italia dagli Alleati.

Come si spiega la celebrazione di un numero così ridotto di processi contro i militari tedeschi imputati di crimini di guerra? Qui entra in gioco un complesso di cause, tra cui gli orientamenti giudiziari e politici delle autorità britanniche e il doppio gioco di quelle italiane. Il nostro governo cercò di utilizzare l’esito di questa vicenda per evitare un giudizio ai comandanti militari italiani imputati per i crimini di guerra e condizionare le clausole del trattato di pace.

Mentre la Procura generale militare aveva inoltrato le proprie denunce alla United Nations War Crimes Commission sulla base delle prove raccolte dalla Commissione presieduta da Medici-Tornaquinci, accampando un diritto a processare gli ex alleati nazisti, il governo cercava invece i mezzi per evitare la consegna dei generali responsabili dei massacri balcanici, a partire da Roatta e Robotti. Tuttavia anche le incertezze delle autorità inglesi in Italia favorirono questa azione dilatoria, impostata sulla rivendicazione del diritto a giudicare in proprio i criminali di guerra nazionali in ragione del nuovo status internazionale dell’Italia. Il gioco di forza si tradusse nell’insabbiamento di centinaia di procedure avviate contro i criminali di guerra nazisti da parte delle procure militari e inoltrate alla Procura generale militare. Anche la separazione tra il processo a carico di Kesselring, attribuito agli Alleati, e quelli agli ufficiali di grado inferiore responsabili per fatti specifici di carattere locale, conferiti alla magistratura italiana, funzionò a favore del rinvio. La centralizzazione dei dati presso la Procura generale del Tribunale supremo militare italiano favorì, com’è noto, la confisca definitiva di tutti i procedimenti ad opera del procuratore generale Borsari, coperto dal ministro degli Esteri Sforza dal 1947 al 1952 e da quello della Difesa Pacciardi dal 1948 al 1953. Dopo il 1954 i successori di Borsari, i procuratori generali Mirabella e Santacroce, archiviarono definitivamente la massa dei documenti, tranne quelli privi dell’indicazione nominativa dei responsabili, e dunque innocui. Nel 1956, infine, Gaetano Martino, all’epoca ministro degli Esteri, ed Emilio Taviani, ministro della Difesa, stabilirono di lasciare definitivamente impregiudicata la questione dei criminali di guerra nazisti, per favorire la normalizzazione dei rapporti tra Roma e Bonn. Tutto ciò era solo un aspetto della «piccola politica» che l’Italia si apprestava a praticare negli anni del dopoguerra. La «grande politica» veniva giocata altrove, in Europa, attorno agli equilibri tra i vari Stati nazionali nel contesto della ricostruzione e al destino militare e industriale della Germania.

La politica giudiziaria degli Alleati non sarebbe stata priva di conseguenze. Gli stessi imputati ne erano consapevoli. Non per caso, nel corso dei processi, la loro difesa giocò volutamente sulle differenze tra i codici di guerra tedeschi e quelli dei paesi alleati nonché sulle lacune del diritto internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1929, o quelle precedenti dell’Aja del 1899 e del 1907, avevano infatti codificato come illegale la rappresaglia, intesa come uccisione di ostaggi, ma anche la guerriglia partigiana. Altre forme di ritorsione, dall’imposizione di taglie ai bombardamenti, purché proporzionate ai danni subiti, erano invece consentite. Nei codici tedeschi – il Fleischmann, il List e il Waltzoog (quest’ultimo redatto nel 1941) – le «lacune» del diritto internazionale erano state dilatate, ampliando la nozione di «rappresaglia consentita» alla detenzione e alla fucilazione di ostaggi nel caso di attentati alle forze di occupazione. Il codice britannico – con il quale Kesselring venne giudicato – proibiva invece assolutamente l’uccisione di civili e la punizione indiscriminata di intere comunità, ma rimaneva ambiguo rispetto alla legalità della guerra partigiana. Restava infine aperto il problema se il testo dell’articolo 50 della quarta Convenzione, allegata alla seconda Conferenza internazionale di pace dell’Aja del 1907, consentisse la concezione della guerra ai civili praticata da Kesselring.

La posta in gioco, nel caso di Kesselring come in tutti i dibattimenti precedenti, a partire da quello di Norimberga, fu infatti doppia: comprendere lo statuto specifico della criminalità nazista, consentendo però alla Germania di inserirsi nella comunità internazionale. Gli eventi della guerra vennero interpretati attraverso categorie giuridiche funzionali al disegno politico della democratizzazione senza denazificazione, mentre le regole e le procedure si occupavano di ridefinire e plasmare a questo fine la stessa materia processuale. Anche i processi contro i «minor war criminals», celebrati nelle varie zone d’occupazione – tra i quali va annoverato quello contro Kesselring –, dipendevano necessariamente dalla struttura di principi, regole e categorie giuridiche fissate dal Charter dell’International Military Tribunal (IMT). Com’è noto, quest’ultimo era stato concepito soprattutto per provare l’esistenza della cospirazione nazista con il fine di dominare l’Europa per mezzo di una guerra praticata con metodi contrari al diritto. Questa impostazione «intenzionalistica» – in qualche modo intrinseca allo stesso diritto penale – aveva avuto come principale conseguenza la necessità di privilegiare l’incriminazione dei responsabili dell’apparato nazista, introducendo i crimini contro l’umanità solamente come corollari del crimine contro la pace (peraltro attraverso la violazione del principio di irretroattività della legge: nullum crimen sine lege). In realtà, gli storici oggi sanno che il meccanismo funzionale che aveva condotto allo sterminio degli ebrei era stato meno l’effetto del protocollo di Wannsee che dello stallo dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica e delle conseguenze che esso aveva provocato nei territori del governatorato di Polonia⁶. Ma tutto ciò nel 1946 rimase necessariamente fuori del campo di osservazione. Il modello analitico adottato nel Charter di Norimberga ne fu la causa. Anche le responsabilità dell’esercito negli eccidi di popolazioni civili, a partire da quelli praticati nel corso dell’«operazione Barbarossa», sarebbero state in questo modo difficili da comprendere e da giudicare.

Lo si vide a Norimberga per i casi di Jodl e Keitel, capo dello Stato Maggiore delle Forze Armate tedesche e capo dell’alto comando dell’esercito. Analogamente, negli anni successivi, quando vennero celebrati gli altri dodici processi conseguenti all’IMT, non si riuscì a portare a giudizio il capo del Comando supremo dell’esercito tedesco dal 1938 al 1941, von Brauchitsch, né il vincitore della Polonia, von Rundstedt. Anche il cosiddetto «cervello della Wehrmacht», Manstein, alla fine se la cavò. Lo stesso programma giudiziario britannico, pur meno vincolato allo schema intenzionalistico-cospirativo escogitato per Norimberga dal capo del Dipartimento della guerra americano, Stimson, rivelò difficoltà nel prendere in considerazione la responsabilità della Wehrmacht nella guerra di sterminio. Il processo Kesselring dev’essere ricondotto insomma a tale contesto: l’incomprensione del meccanismo terroristico che aveva integrato in Italia la Wehrmacht, le SS e le forze di polizia. L’indulgenza non fu solo l’effetto delle preoccupazioni inglesi per la situazione italiana, della nuova ondata di antibolscevismo o della riduzione della politica giudiziaria a variabile dipendente della politica di occupazione. Le pressioni esercitate per salvare Manstein e per commutare la sentenza di Kesselring da parte degli esponenti conservatori della Camera dei Lord, a partire dallo stesso Winston Churchill, da parte dell’arcivescovo di Chichester, Bell, del generale Alexander e dello scrittore T.S. Eliot, rinviavano ad un quadro mentale inadeguato a comprendere la specificità della criminalità nazista. L’atteggiamento verso la Wehrmacht in generale, e verso Kesselring in particolare, lascia trasparire quasi la necessità psicologica della élite britannica di separare l’esercito tedesco dall’apparato nazista del III Reich. Si tratta, credo, di spie indicative del tentativo estremo di far sopravvivere un codice culturale comune ai vincitori e ai vinti, l’appartenenza del conservatorismo britannico e del prussianesimo, ad una stessa tradizione europea quando quell’Europa liberale e cristiana era crollata sotto le macerie della nuova guerra dei Trent’anni.

Perché non fu celebrato il grande processo ai criminali di guerra

Il quadro storico dell’Italia fra il 1943 e il 1945 – per certi aspetti fino alla conquista della Repubblica – rimane tuttavia uno dei più complessi della storia europea degli anni della seconda guerra mondiale e della transizione all’ordine postbellico.

La caduta del regime nel luglio del 1943, per effetto dell’allontanamento da Mussolini delle classi dirigenti e dei Savoia e, in un secondo tempo, della Chiesa cattolica; la proclamazione dell’armistizio, con la successiva dichiarazione di guerra alla Germania, consentirono all’Italia un repentino salto nel campo di coloro che sino a quel momento erano stati i nemici dell’Asse, ma provocarono effetti tragici all’interno del paese e conseguenze politiche di rilievo tra gli Alleati della coalizione antifascista. Il passaggio dall’alleanza dell’Asse alla cobelligeranza a fianco degli angloamericani vanificò infatti l’ipotesi, sino ad allora prevalente tra gli Alleati, di applicare all’Italia la clausola della resa senza condizioni (che sarebbe stata imposta alla Germania). Scompaginò le intese diplomatiche stabilite in precedenza tra gli angloamericani e i sovietici sull’assetto che l’Europa avrebbe dovuto assumere dopo la liberazione dal nuovo ordine hitleriano, a partire dalla questione delle frontiere polacche¹. La disastrosa condotta del governo, del sovrano e di Badoglio dopo la proclamazione pubblica dell’armistizio condusse alla disgregazione dello Stato e alla divisione del paese, mentre nessuna forza politica antifascista – neppure le più prossime ai centri di potere influenti del Vaticano e della Corte, come i cattolici e i liberali – riuscì ad avere voce in capitolo.

Il «settembre nero» del 1943 può essere considerato l’inevitabile conseguenza delle incongruenze nella condotta della Corte e del ministero Badoglio. Gli Alleati furono costretti a proclamare pubblicamente l’armistizio per scoprire le carte italiane, pur non avendo la possibilità di decidere quello sbarco a nord della capitale che forse avrebbe segnato un destino diverso per Roma e per la guerra in Italia. Essi riuscirono, dopo un difficile sbarco a Salerno, a spingersi verso quella linea che i tedeschi denominarono la «linea Gustav» e che, partendo dal Garigliano a nord di Napoli, raggiungeva l’Adriatico a sud di Pescara, dove la situazione militare sarebbe rimasta immobilizzata sino al maggio 1944.

Al di sotto di tale linea si insediò il regime di occupazione angloamericano e si esercitò, almeno formalmente, la sovranità della monarchia italiana (il cosiddetto «regno del Sud»). Nel Nord del paese si insediava nel contempo un sistema di occupazione tedesco e, s

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