Introduzione
Fu cambiato l’ordine degli anelli.
Ma la catena rimase una catena.
Gianni Rodari
Questo libro contiene una scelta di indicazioni pratiche accompagnate da chiarimenti
teorici essenziali sui fenomeni e gli usi interpuntivi. Chi lo ha scritto non ha preteso
di accampare ipotesi innovative o di offrire una panoramica sullo stato degli studi
e delle conoscenze in materia. Ha avuto solo la (modesta) ambizione di fare qualcosa
di utile, sulla base di un’ovvietà e di ragionevoli constatazioni. È ovvio che con
la punteggiatura abbia a che fare chiunque voglia e sappia scrivere. È ragionevole
prendere atto che sono abbastanza frequenti i dubbi e le curiosità su una pratica
aperta a incertezze, a problemi per i quali talvolta si improvvisano soluzioni arbitrarie
– ma non è detto che l’arbitrio e l’improvvisazione portino necessariamente ad errori.
È ragionevole anche osservare che incertezze e problemi possono sollecitare qualche
interesse riguardo ai principi linguistici su cui si fondano le spiegazioni degli
usi e dei fenomeni interpuntivi.
Si è cercato di dare alla materia una disposizione non del tutto consueta alla manualistica
corrente. Il risultato è quello che l’arguzia di Rodari messa in epigrafe sintetizza.
Gianni Rodari non ci ha lasciato saggi sull’interpunzione. Ne ha trattato applicando
con naturalezza forse inconsapevole qualcosa di assai vicino all’aureo principio da
lui formulato per inventare storie: il principio del «binomio fantastico». Ne sono
venute fuori trovate come queste, che riporto per sollievo del lettore:
Un Tizio salì in cima al Colosseo e gridò: – Mi butto?
– Non è regolare, – gli fecero osservare i passanti. – Lei doveva metterci il punto
esclamativo, non il punto interrogativo. Torni a casa e studi la grammatica.
Qualche volta un errore di grammatica può salvare una vita.
(Favole minime, in Il cane di Magonza,
Editori Riuniti, Roma 1982, p. 82)
Nella bizzarra Tragedia di una virgola il segno grafico si anima:
C’era una volta / una povera virgola / che per colpa di uno scolaro / disattento /
capitò al posto di un punto / dopo l’ultima parola / del componimento. / La poverina,
da sola, / doveva reggere il peso / di cento paroloni, / alcuni perfino con l’accento.
(Filastrocche in cielo e in terra,
in I cinque libri, Einaudi, Torino 1993, p. 16)
Poi è la volta del punto, nello schizzo lapidario Il dittatore, beffato dall’indifferenza generale:
Tutto solo a mezza pagina / lo piantarono in asso, / e il mondo continuò / una riga
più in basso.
(Ivi, p. 9)
Sappiamo che la scrittura proietta la sua immagine nell’attività di parola attraverso
modi di pensare e di dire che vanno dalla nobile costellazione delle metafore raffiguranti
il mondo (la natura è un libro scritto in caratteri matematici) e la mente (le espressioni
dantesche: «libro della memoria», «o mente che scrivesti ciò ch’io vidi») a stereotipi
di larga diffusione, come «voltare pagina», «tra le righe», «sopra le righe», «non
capire un’acca», compresi quelli che si riferiscono all’ortografia e alla punteggiatura:
«mettere l’accento su...», «mettere i puntini sulle i», «sottolineare», «punto e basta»,
«punto e a capo», «senza cambiare una virgola», «non manca una virgola», «puntini
puntini», «(detto) tra parentesi / tra virgolette».
La forma stessa dei segni ha fornito il destro a immagini e a trovate argute. C’è
il pirandelliano quadretto cimiteriale:
Qualche foglia caduta dalle siepi ingombrava i vialetti. Qualche sterpo era cresciuto
qua e là. E i passeri monellacci, ignorando che lo stil lapidario non vuole interpunzioni,
avevano seminato con le loro cacatine tra le tante virtù di cui erano ricche le iscrizioni
di quelle pietre tombali, troppe virgole forse e troppi punti ammirativi.
(Pirandello, US, La cassa riposta, p. 650)
E l’incipit scherzoso di un bel libro umoristico:
Man mano che la notte arrivava in città la salutavano parole luminose. Alcune erano
lunghe e pulsanti [...], altre erano semplici punteggiature, virgole di lampioni,
esclamativi di semafori, file di punti rossi di auto incolonnate.
(S. Benni, Comici spaventati guerrieri,
Feltrinelli, Milano 1986)
Si dice comunemente che esistono forme diverse di punteggiatura: logica, stilistica,
ritmica. Sono differenze che comportano gradi diversi di costrizione per chi scrive,
corrispondenti a gradi diversi di rigidità delle convenzioni interpuntive, e quindi
di libertà da queste. Libertà non significa anarchia. Ignorare le convenzioni d’uso
elementari non è motivo onorevole per infrangerle. Sulle velleità scrittorie di chi
non la pensa così (o non pensa nulla al riguardo) e si comporta disinvoltamente di
conseguenza si è abbattuta l’ironia di scrittori grandi, consapevolmente liberi nell’interpungere a modo loro perché padroni di tutte le risorse del sistema. Leggiamo
ciò che Gadda annota, «a proposito di interpunzione», sulle composizioni di alcuni
dei partecipanti a un concorso letterario:
Una vaga disseminazione di virgole e di punti e virgole, buttati a caso, qua e là,
dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara.
(Conforti della poesia, «La fiera letteraria»,
IV, 29, 1949)
Più la scrittura è formale, più vincolanti sono le convenzioni. Allora l’importante
è richiamare l’attenzione su tipi e generi testuali che ammettono l’uno o l’altro
modo di interpungere. E sui diversi modi di scrivere, secondo il variare della situazione
comunicativa (destinatari, rapporti e legami personali fra chi comunica, occasioni,
argomenti e altro ancora) all’interno dello stesso genere. L’originalità di soluzioni
innovative, le infrazioni all’uso comune, più o meno motivate, più o meno plausibili,
i risultati di scelte consapevoli o di ignoranza delle norme presuppongono un riferimento
a parametri di «regolarità»: a un uso, per intenderci, neutro rispetto alle variazioni
possibili. È questo che si tiene presente quando si discorre di valori e di impieghi
delle unità interpuntive, con intento descrittivo, non prescrittivo. Gli eventuali giudizi sul grado di accettabilità dei modi di interpungere sono sempre
relativi alle svariate situazioni di discorso.
Nel primo e nel secondo capitolo si torna più volte a trattare di uno stesso segno
di punteggiatura. L’Indice delle cose notevoli, che si trova alla fine del libro,
dovrebbe servire a mettere insieme i vari pezzi delle singole voci per avere sott’occhio
almeno tutto quello che si è cercato di spiegare nel volume, visto che la completezza
della trattazione è meta non raggiunta, e difficilmente raggiungibile.
Gli esempi sono solo in minima parte costruiti ad hoc. La grande maggioranza appartiene a testi autentici: scientifici, giuridici, di saggistica
filosofica e letteraria, di narrativa. Le ragioni si desumono facilmente dalle casistiche
dei fenomeni interpuntivi che i passi citati illustrano. Si è cercato di documentare
usi esemplari nei diversi generi testuali e tipi compositivi. Per le peculiarità ammissibili,
e talora perfino necessarie nell’economia di testi non sottoposti a vincoli di «formalità
congelata», si sono cercate testimonianze in opere non programmaticamente eversive
delle normali convenzioni. In contesti nei quali la punteggiatura «logica» non è bandita,
anzi è prevalente nelle scelte, le soluzioni inattese, dovute allo stravolgimento
dei valori tradizionalmente assegnati a un segno, appaiono meglio giustificate (sempre
che non siano casuali o frutto di distrazioni momentanee), pienamente significative
e talvolta addirittura riducibili a sistema.
Le dimensioni e il carattere stesso di questo prontuario escludono trattazioni della
punteggiatura di singoli autori e delle tendenze dominanti nelle varie epoche della
nostra storia linguistica e letteraria. Ognuno vede come sarebbe importante, stilisticamente
decisivo in molti casi, occuparsi delle leggi compositive interne a ciascun testo,
sia questo letterariamente costruito oppure appartenente a generi non letterari; leggi
che sono intrinseche al «progetto testuale», e agiscono a ogni livello, compreso quello
di cui ci occupiamo qui. Il complesso imponente delle analisi linguistiche, stilistiche
e retoriche di opere singole, di documenti, di corpora di ogni genere offrirebbe fonti importanti a cui attingere. Impossibile qui darne
conto; né saranno sufficienti le indicazioni essenziali che episodicamente capiterà
di fornire su argomenti connessi a quelli che sono oggetto specifico del presente
lavoro.
Solo qualche cenno occasionale si è riservato alla punteggiatura nella comunicazione
in rete. Per quanto riguarda le modalità di lettura e di codificazione dei messaggi
verbo-visivi trasmessi in Internet, c’è da osservare preliminarmente che le questioni
elementari toccano la sfera semiotica del rapporto tra parole e immagini, la dinamica
della disposizione e degli scorrimenti in pagina, la scelta di formati, colori, proporzioni
e rese volumetriche (ma l’elenco è gravemente lacunoso). La punteggiatura «per lo
schermo», naturalmente, è congrua con l’impostazione generale. Le demarcazioni sono
date principalmente dai formati. Il colpo d’occhio è uno sguardo non solo su blocchi
di parole come è nella scrittura sulla pagina cartacea, ma su blocchi di informazioni
ricavate da figure, da nastri scorrevoli di scrittura, da finestre affiancate e sovrapponibili.
Nei testi verbali in rete i segni di interpunzione tradizionali vedono ridotte e semplificate
le loro funzioni: il punto e virgola, ad esempio, cede al punto e alla virgola, secondo
la forza delle «pause» che si vogliono indicare; ma rimane come segno convenzionale
di separazione dei nomi di più destinatari di uno stesso messaggio di posta elettronica.
Prendono piede i segnali intonativi, come i punti esclamativo e interrogativo, abbinati
o più spesso raddoppiati o triplicati per intensificare l’enfasi, e i puntini di sospensione.
Per quanto riguarda gli scambi comunicativi, che Internet permette di compiere «in
tempo reale», la scrittura veloce di messaggi nella posta elettronica induce a una
certa sciatteria, fa perdonare la semplificazione e perfino l’incuria interpuntiva
(e ortografica!), e incrementa l’impiego di sigle e abbreviature. L’intento di comunicare
reazioni emotive senza verbalizzarle, ovviando con simboli visivi all’impossibile
resa dei toni di voce, ha imposto la trovata e l’impiego delle «faccine» o «ciberfacce»
o smiley o emoticon (termine, quest’ultimo, che si va imponendo; è la combinazione di emotion e di icon: «immagine che sintetizza un’emozione»), facili da comporre con la tastiera del computer. Ne esistono a centinaia, elencate
(e di volta in volta rinnovate) in siti Internet e in pubblicazioni specialistiche.
Una scelta assai ridotta si trova nel Dizionario di Internet (Rossi 2000). Un buon resoconto delle «nuove funzioni dei segni paragrafematici»,
con utili informazioni sui siti da consultare, si legge nel saggio di Serafini (2001,
pp. 213-222).
Che dire infine sulla decisione di trattare gli usi odierni della punteggiatura prima
di dare informazioni essenziali sulle sue vicende nel corso dei tempi, sul formarsi
e sul mutare dei valori attribuiti a ciascun segno, sulla scomparsa di un buon numero
degli accorgimenti usati per iniziative individuali, sulle origini e le ragioni degli
acquisti e delle perdite? Sono temi che interessano, se non altro perché appagano
una voglia di sapere che ha molto in comune con la curiosità etimologica quasi istintiva
in chi almeno per poco rifletta sulla lingua. La decisione di andare a ritroso posponendo
il passato al presente risponde al proposito di andare dal più al meno noto, nella
presunzione – che si spera non infondata – di seguire il modo di procedere naturale
nell’acquisto delle conoscenze.
Avvertenze
Tra parentesi quadre sono segnalati i rinvii alle diverse parti del testo: il numero
romano indica il capitolo, le cifre arabe indicano i paragrafi.
Gli autori degli esempi sono citati in forma abbreviata con il solo cognome seguito
da una sigla indicante il titolo dell’opera; nella sezione A dei Riferimenti bibliografici
il lettore potrà trovare l’indicazione bibliografica completa dei testi da cui si
cita. Gli studi sull’interpunzione, elencati per esteso nella sezione B degli stessi
Riferimenti, sono citati nel testo e nelle note con il nome dell’Autore e la data di edizione.
Nel testo e nelle note sono indicati altri studi (che non compaiono nei Riferimenti
bibliografici), importanti per alcune nozioni di cui si tratta.
Gli esempi sono numerati, per comodità di riferimento. I numeri d’ordine sono chiusi
normalmente tra parentesi tonde; queste sono sostituite da quadre quando i numeri
compaiono all’interno di enunciati che si trovino tra parentesi tonde.
Il corsivo è usato (oltre che per trascrivere i titoli di volumi e di articoli, secondo
le convenzioni tipografiche qui adottate) per le menzioni (ad esempio: la congiunzione
ma). Negli esempi, come occasionalmente nei commenti, mette in evidenza espressioni
su cui verte l’analisi.
Il grassetto segnala, occasionalmente, argomenti del discorso.
I. La punteggiatura: istruzioni per l’uso
1. Giustificazioni preliminari
Dare «istruzioni per l’uso» della punteggiatura può avere più di una giustificazione.
Una, ad esempio, fa leva su una circostanza abbastanza comune: a chiunque scriva possono
sorgere dubbi o interrogativi sulla scelta di determinati segni, sulla necessità o
sull’opportunità di usarne uno piuttosto che un altro, o nessuno dei due. Altre giustificazioni
derivano da inconvenienti non banali né troppo rari: le decisioni che prendiamo sono
talvolta – diciamo pure di solito – poco sistematiche; le incoerenze interpuntive
serpeggiano in testi a cui si richiederebbe la massima coerenza anche in questo settore.
Degli inconvenienti sono in parte responsabili la negligenza, la distrazione, la fretta
di chi scrive, e perfino l’ignoranza o la sottovalutazione delle norme. Ma la causa
prima delle incertezze e delle incoerenze è la natura polimorfa dell’interpunzione,
unita alla relativa labilità dei suoi statuti, mutevoli nel tempo e non ben definiti.
Il risultato più vistoso della polimorfia – causa ed effetto di ricchezza e di povertà
– è la presenza di più funzioni in uno stesso segno.
La decisione di anteporre le indicazioni pratiche alle riflessioni sulla natura e
sui ruoli diversissimi che ha avuto nel corso dei tempi un sistema variabile come
è quello di cui ci stiamo occupando nasce dall’intento di rispondere preliminarmente
a una delle possibili aspettative di chi consulti un prontuario. Intento realistico,
da cui è dipesa anche la scelta di dirigere l’attenzione sull’attualità prima che
sul passato.
Quando si esaminano sia le peculiarità degli usi propri di generi e tipi compositivi,
sia le svariate abitudini individuali, le omissioni e le trasgressioni o intenzionali
o involontarie (è sempre la consapevolezza dei mezzi e dei loro impieghi che fa la
differenza), si tengono ragionevolmente sullo sfondo – uno sfondo neutrale – le «regolarità»
definibili in base alle convenzioni in vigore. A queste bisogna dunque riferirsi se
si vogliono dare indicazioni sui modi di interpungere. È sul fondamento dei valori
attribuiti a ciascuno dei segni che si riconoscono e si valutano le possibili variazioni:
si descrivono modalità d’uso mostrando se sono o non sono appropriate al particolare
tipo di testo con cui si ha a che fare.
Le istruzioni per l’uso della punteggiatura sono infatti relative ai generi della
comunicazione (privata o pubblica, pratica o scientifica o letteraria o di consumo),
ognuno dei quali non forma un complesso unitario e omogeneo, ma si suddivide in serie
più o meno numerose di sottoclassi. All’interno di queste le differenze sono molte
e dipendono da fattori disparati. Fra i più importanti, i destinatari per cui il testo
è stato ideato e scritto, la sede e gli intenti che governano la pubblicazione (specialistica,
scolastica, di larga divulgazione, ecc.) determinano, fra l’altro, il grado di formalità
del messaggio. Prendiamo i libri delle discipline scientifiche destinati ai vari ordini
delle scuole superiori: vi troviamo buoni esempi della variazione di rigidità nella
trattazione degli argomenti e anche nella pratica interpuntiva. La maggiore regolarità
si trova nelle formulazioni di regole, assiomi, teoremi, corollari; più libere le
parti discorsive.
Altre differenze riguardano il mezzo (orale/scritto) in cui un discorso è stato prodotto,
e il modo in cui viene trasmesso. Ad esempio, un discorso orale può essere trascritto,
e in questo caso l’interpunzione conserverà evidenti le tracce del progetto testuale
originario [II, 1.1].
Ogni tipo di testo avrà dunque norme interpuntive differenti? La domanda è mal posta.
Non di norme si deve infatti parlare, ma di usi accettabili, e quindi di variazioni
nell’impiego della punteggiatura rispetto a un paradigma di regolarità fissato convenzionalmente.
2. Vizi d’origine?
Parlare di «convenzioni in vigore» è un richiamo ovvio alla storicità dei sistemi
interpuntivi. Meno ovvio sarà dirigere l’attenzione sulla debolezza dei loro statuti.
Leggiamo che cosa scrive a questo proposito l’autore di una poderosa sistemazione
delle regole grammaticali della lingua italiana: «Tra le varie norme che regolano
la lingua scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate, non
solo in italiano. Inoltre, alle incertezze pratiche si aggiunge il disaccordo degli
studiosi sull’interpretazione complessiva del fenomeno, nonché sulla definizione e
sulla classificazione delle singole unità interpuntive» (Serianni I, § 201). Partiremo
dalle «incertezze pratiche»; e diremo subito che la causa prima della facilità con
cui si producono va ricercata nelle origini del sistema stesso, o meglio nelle esigenze
che hanno dato origine all’interpungere.
Il passaggio dalla scriptio continua, cioè dall’assenza di cesure all’introduzione di elementi divisori (spazi fra le
parole, sbarre, iniziali colorate, rosette, segni di interpunzione tra unità del discorso
– dalle minime come i costituenti di frase, alle più ampie quali i commi, i paragrafi,
i capitoli, ecc.) ha a che fare con le diverse pratiche di lettura. La mancanza di
demarcazioni nello scritto poteva essere superata nel rallentamento dei tempi di esecuzione
della lettura ad alta voce, la cui scansione è misurata sulla frequenza e sugli intervalli
del respiro. Secondo un’ipotesi accreditata negli studi di antropologia della comunicazione,
le tradizioni che adottano la scriptio continua sarebbero la maggioranza rispetto a quelle che si servono di interpunzioni. Notava
Cardona: «l’uso di elementi demarcativi è probabilmente legato alla lettura endofasica; quanto
più la lettura è mentale e veloce, tanto più si richiede che il testo sia presentato
analiticamente, con indicazioni sul valore delle varie parti». Questo perché il lettore
esperto non procede compitando lettera per lettera, sillaba per sillaba, ma è abituato
a rappresentarsi blocchi di parole come forme organizzate (Gestaltungen) per effetto degli elementi di demarcazione che la pratica della scrittura gli fornisce,
a cominciare dalla divisione tra le parole. Le interpunzioni vengono così a costituire
via via un sistema «per l’occhio», adatto alla lettura silenziosa.
Un tale sistema ingloba, almeno negli statuti assegnati modernamente all’interpunzione
nelle lingue occidentali, anche il complesso della punteggiatura «per l’orecchio»,
che comprende alcuni degli accorgimenti atti a manifestare ciò che contava originariamente
per la lettura a voce. Per la lettura a voce contavano soprattutto il ritmo e la scansione
degli intervalli secondo le esigenze della respirazione; ma per segnare questi intervalli
le odierne sistemazioni della punteggiatura per lo scritto non codificano appositi
segni. Tali segni esistono invece sia per marcare le differenze (standardizzate) di
tono pertinenti al senso e alla forza illocutoria [II, 3] degli enunciati, cioè le
curve intonative tipiche di domande, asserzioni, esclamazioni, enumerazioni, sospensioni
e via elencando, sia per mettere in rilievo costituenti, o per cambiarne lo statuto
sintattico-semantico [II, 2]. A ciò provvedono le interpunzioni adibite con gli stessi
valori nella punteggiatura per l’occhio (pensiamo agli usi fondamentali dei punti
interrogativo ed esclamativo), oppure con un cumulo di valori (sintattici e ritmici,
ad esempio, come accade per la virgola), talvolta facendo prevalere le ragioni del
ritmo in contrasto con quelle della sintassi.
L’essere contemporaneamente al servizio dell’orecchio e dell’occhio, l’essere nata
per indicare le pause alla lettura e per provvedere alla demarcazione di unità sintattiche
e delle loro relazioni ha fruttato alla punteggiatura in uso nelle varie epoche l’accusa
di essere insoddisfacente. Valéry, finissimo artista della parola, riassumeva così
i termini della questione che opponeva la punteggiatura «ritmica» alla punteggiatura
«logica»: Notre ponctuation est vicieuse car à la fois phonétique et sémantique, et insuffisante
dans les deux ordres.
3. Regolarità e valori basilari
Parametri di regolarità si possono ricavare dal tipo di punteggiatura per l’occhio
corrispondente a ciò che si intende per punteggiatura logica: fondata su criteri logico-sintattici relativi a strutture frasali normalizzate,
qualunque sia il loro grado di complessità, omologhe a un’organizzazione concettuale
chiara e coerente, anche se di architettura complicata.
Questo modo di interpungere ama l’uniformità e la costanza dell’applicazione, una
volta stabiliti i valori e assegnate le relative funzioni a ciascuno dei segni. Si
addice all’esattezza che ci si aspetta di trovare nella scrittura dei testi scientifici
e dei testi legislativi. Mi riferisco, in particolare, alla redazione delle leggi
fondamentali, destinate a lunga durata, come le costituzioni e i codici, che sono
le principali fonti del diritto. La regolarità delle strutture, come si manifesta
nell’ordinamento gerarchico delle materie, così richiede che anche la punteggiatura
risponda a criteri rigorosi, applicati senza incoerenze e senza deviazioni, in accordo
con l’esigenza di segnalare gli snodi del ragionamento e quindi le divisioni e le
relazioni sia tra i membri delle frasi sia tra le frasi che compongono complessi più
ampi e articolati. L’uniformità severa dell’interpungere corrisponde al rigore necessario
all’organizzazione concettuale.
Francesco Sabatini ha affermato, con buone ragioni, che le leggi fondamentali appartengono
al «tipo di testo» che pone i vincoli più stretti all’interpretazione, tanto da apparire
prossimo al sistema virtuale della lingua in quanto tende a essere il più possibile
esplicito, oggettivo, estraneo alla ricerca di effetti speciali. Nelle costituzioni
e nei codici, quando questi sono formulati con la dovuta accuratezza compositiva,
i segni di interpunzione che compaiono (alcuni infatti, come i punti esclamativo e
interrogativo e i puntini di sospensione, ne sono esclusi per le ragioni che si intuiscono
facilmente) mantengono i valori convenzionali che si possono considerare basilari.
Questa condizione può essere condivisa da qualsiasi testo composto all’insegna della
formalità, e in generale dalle scritture a cui convenga un grado abbastanza alto di
neutralità emotiva.
Naturalmente, le varie sottoclassi dei testi di ogni genere avranno peculiarità compositive
– e quindi anche interpuntive – non esportabili in altri settori. Ne discende che
bisognerà considerare «non marcato», per i singoli segni, l’uso che sarà neutro, da
un lato, rispetto alle particolari convenzioni stabilite per ognuno dei generi (ad
esempio, gli accorgimenti che in un testo legislativo segnalano i confini dei commi);
dal lato opposto, rispetto alle svariate imprevedibili prassi individuali, alle originalità
innovative proprie dei modi di scrivere non convenzionali.
La qualifica di non convenzionali si può attribuire sia a prodotti letterari, o che vogliano essere tali nelle intenzioni
degli autori, sia ai cosiddetti stili negligenti, che caratterizzano gli scritti informali
o provvisori: ad esempio, lettere familiari, messaggi composti in fretta senza controllare
la forma, appunti e annotazioni di carattere personale, abbozzi, promemoria e così
via. Quando invece si scrive mirando alla regolarità formale, è giusto e decoroso
che si avverta l’esigenza di uniformarsi alle convenzioni interpuntive comunemente
accettate nella propria epoca. E che si cerchi di applicarle con la maggior coerenza
possibile. Se questa non sarà perfetta (non lo è quasi mai), è desiderabile che se
ne sia almeno consapevoli.
4. A ragionevoli dubbi qualche ragionata risposta
Chi va in cerca di regolarità può trovarsi a risolvere questioni, modeste ma non irrilevanti,
come sono quelle di cui si offre qui un campionario essenziale. Più avanti, nel capitolo
II, gli stessi temi saranno ripresi e trattati insieme con altri prima lasciati in
ombra; si ricorrerà ad argomentazioni fondate su concetti che qui non sono ancora
stati introdotti; le attestazioni di punteggiatura d’autore copriranno zone più ampie,
e la casistica sarà più ricca. Quella che si troverà in formato ridotto nel presente
capitolo è relativa alle incertezze e alle trascuratezze che l’esperienza comune mostra
più frequenti: in primo luogo negli usi della virgola [4.1]; in secondo luogo nel
riconoscimento dei valori assegnati ad alcuni altri segni paragrafematici. Sono stati
denominati così da Arrigo Castellani, oltre alle interpunzioni comunemente riconosciute come tali (punto, virgola, punto
e virgola, due punti, punto interrogativo ed esclamativo, puntini di sospensione,
parentesi e lineette) gli altri segni non alfabetici che possono valere come interpunzioni
vere e proprie (ad esempio, le virgolette e le lineette impiegate come indicatori
grafici del discorso diretto e del dialogo), acquistare valori sintattici e morfologici
(come il trattino d’unione) o semantici (le virgolette di «distanziamento» o «riserva»,
le barre oblique che segnalano opposizione, l’asterisco negli usi lessicografico e
grammaticale); e inoltre gli accorgimenti grafici quali il tipo di carattere a cui
si assegnino precise funzioni distintive di vario genere: ad esempio, il corsivo che
nell’uso giornalistico, specialmente, segnala le citazioni di parole e frasi; il corsivo
dei titoli e delle menzioni; e infine il corsivo che segnala l’estraneità di una parola
al sistema fonologico e lessicale della lingua italiana.
Tale condizione si verifica con i prestiti non adattati da dialetti o da lingue straniere.
Si dia il caso dei forestierismi. Quando occupano un vuoto del lessico italiano, oppure
prendono il posto di una parola italiana caduta in disuso o rimasta come minoritaria
(ad esempio, il latino “album” e i vocaboli inglesi “sport”, “tennis”, “film” [vincente
su “pellicola cinematografica”], “computer” [prevalente su “calcolatore”]), la grafia
non li segnala come non appartenenti al sistema della nostra lingua: il che significa
che non li troviamo scritti in corsivo. Lo provano i migliori dizionari – fra i più
recenti, s’intende – che registrano parole come queste in caratteri tondi, mentre
mettono in corsivo termini come escamotage, hobby, habitué. Esistono tuttavia oscillazioni e differenze dall’uno all’altro dizionario e fra
edizioni, più o meno lontane negli anni, dello stesso dizionario. Tutti invece concordano
nel considerare invariabili, per quanto riguarda la formazione del plurale, i termini
stranieri quando non sono segnalati come tali; perciò si dirà: “gli sport”, “i film”,
“gli album”. I termini per i quali si ricorre al corsivo conservano, generalmente,
il plurale originario: escamotages; hobbies; habitués al maschile e habituées al femminile. Ma si possono considerare invariabili quelli che hanno ampia diffusione
o alta disponibilità, come hobby, handicap, ecc. Una norma sensata di comportamento è consultare, all’occorrenza, un buon dizionario
recente e seguirne le indicazioni su grafie, caratteri, e formazione del plurale.
I principali interrogativi che l’esperienza mostra più frequenti riguardano le convenzioni
da seguire: nell’uso delle virgolette [4.2]; nell’introdurre il discorso diretto e
i dialoghi [4.3]; nel differenziare gli impieghi del trattino rispetto alla lineetta
[4.4]; nella scelta dei tipi di parentesi [4.5]; nell’attribuire i valori alle barre
verticali e oblique e all’asterisco [4.6], e infine nell’impiego del punto per le
abbreviazioni [4.7].
Dei rimanenti segni non si tratterà nel presente capitolo, non perché manchino le
incertezze sul modo di usarli. Sul punto e virgola (a cui si dà un primo sguardo in
4.1.6) e il punto fermo le domande più comuni vertono sulla durata e la graduazione
delle pause, e sulla legittimità del procedimento, molto in voga da qualche tempo,
di triturare la sintassi mediante un punto che rompe le normali relazioni di costruzione
della frase. In questo caso le scelte stilistiche in gioco si spiegano con riferimento
non solo alla sintassi, ma specialmente alla distribuzione dell’informazione e alla
«messa a fuoco»: questioni che bisognerà affrontare dopo avere ragionato sui ruoli
della punteggiatura nella costruzione del testo [II, 1]. Solo allora si potrà tentare
una rassegna sistematica delle interpunzioni in quanto segnali della scansione del
discorso (pause e demarcazioni sintattiche; giunzioni e snodi testuali) [II, 2]. Si
punterà poi l’obiettivo sul valore di «marche dell’intonazione», tipico ma non certo
esclusivo, dei punti esclamativo e interrogativo [II, 3]; e infine sui ruoli squisitamente
testuali e retorici di segni come i due punti, le parentesi, le virgolette come «avvisi
di distanziamento», i puntini di sospensione e di reticenza [II, 4].
4.1. Chiarimenti su alcuni usi della virgola
Le svariate funzioni della virgola appaiono fuse e confuse, nella percezione dei più,
con le pause di lettura a cui questo segno corrisponde almeno in parte, mantenendo
molte delle motivazioni che le erano assegnate in origine [III, 2]. Si aggiunga la
diffusa tendenza a servirsi della virgola per mettere in rilievo un qualche elemento
del discorso indipendentemente dalle relazioni sintattiche che questo intrattiene
con gli altri componenti della frase in cui si trova. Sono condizioni che si riverberano
sui quesiti qui sotto elencati:
1) in quali casi una virgola non si mette e in quali invece si può, o si deve, mettere
immediatamente prima della congiunzione e?
2) come comportarsi con ma, né, sia, o?
3) con quale criterio si decide se separare con una virgola i sintagmi o le frasi
che esprimono le svariate circostanze (tempo, luogo, causa, ecc.) all’inizio di enunciati?
4) quando la virgola può e quando non può essere posta tra soggetto e verbo, oppure
tra verbo e oggetto, diretto o indiretto, o tra un verbo di forma passiva e il suo
complemento di agente?
5) c’è una norma che ne regoli l’uso davanti a un pronome relativo?
6) in quali casi invece di una virgola occorre usare un punto e virgola?
Dalle risposte elementari che sembra lecito suggerire si potranno già intuire alcune
delle riflessioni che faremo sotto diverso titolo [II, 2 e 3] sui valori che si accumulano
su questo segno, i cui molti ruoli sono o ignorati o perduti di vista più spesso di
quanto non si creda.
4.1.1. Le risposte alla prima domanda dipendono dai ruoli rivestiti di volta in volta dalla congiunzione e. Questa non è preceduta da una virgola se, in un elenco, collega un membro ai precedenti
(o al precedente, se i membri da unire sono solo due) senza creare discontinuità nella
serie:
(1) Ecco Gigliola, Paolo, Luca e Giorgio. / Entrano Luca e Giorgio, poi Gigliola e Paolo.
Lo stesso comportamento vale in casi più complessi per quanto riguarda gli effetti
di senso. Si vedano gli esempi (2) e (3), dove troviamo disposte e concatenate in
serie continua espressioni di significato opposto. Si tratta di campioni di scrittura
alta, ma lo schema che rappresentano vale anche in situazioni di livello stilistico
differente:
(2) A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell’uso e del disuso; l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe.
(Contini, UE, p. 199)
(3) [...] quasi che sentimenti e scaltra ragione, serietà e gioco, necessità e caso, profondità e superficie si invertissero gli uni negli altri incessantemente, inafferrabilmente.
(Mengaldo, AP, p. 238)
La virgola compare davanti alla e quando serve come strumento di separazione per sciogliere ambiguità di senso. Si
vedano i due passi seguenti: «In Facciamo le parti: Giorgio, Ada, Ugo e Anna non è chiaro se si facciano quattro parti o tre (una per Ugo e Anna); mentre in Giorgio, Ada, Ugo, e Anna specifichiamo che si tratta di quattro parti» (Lepschy, Lepschy 1993, p. 92); «La
sua era una dieta particolare: a mezzogiorno carne e verdura, alla sera riso e insalata,
e frutta a volontà» (De Palma 1996, p. 53).
Analoga funzione disambiguante ha la virgola negli esemplari di discorso giuridico
(4) e tecnico-scientifico (5):
(4) La Corte costituzionale giudica: [...] sui conflitti di attribuzione tra i poteri
dello Stato, e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni […].
(Cost., art. 134)
(5) [...] si consideri dapprima il tripolo a stella [...]: il suo comportamento esterno
può essere agevolmente studiato immaginando di applicare fra i morsetti A e C, e fra i morsetti B e C due generatori ideali di tensione [...].
(Civalleri, LE, p. 165)
Più frequenti le situazioni analoghe a quelle esemplificate nei due passi che seguono.
Nell’esempio (6) il distacco di uno dei componenti dell’elenco è giustificato anche
dal «peso del costituente» sintattico, cioè dalla sua lunghezza e dalla complessità
strutturale rispetto ai precedenti:
(6) Ecco Gigliola, Paolo, Luca, e Giorgio che arriva di corsa.
L’esemplare di scrittura scientifica proposto in (7) mostra l’uso della virgola davanti
alle e che introducono espressioni collocate in posizione parentetica.
(7) Qui però appare con chiarezza che almeno alcuni presupposti ontologici, e segnatamente in questo caso la dicibilità del mondo nella sua varia molteplicità,
sono in contrasto con la forza dell’elenchos, (e con la validità della consequentia).
(D’Agostini, DV, p. 111; corsivi nel testo originale)
La prima occorrenza di e introduce un segmento parentetico delimitato da due virgole; il valore di inciso
esplicativo è sottolineato, nel testo originale, dal corsivo dei segmenti interrotti
dall’inserzione. La seconda occorrenza di e in apertura dell’inciso messo tra parentesi tonde è preceduta, come la prima, da
una virgola. In questo caso particolare è stata la volontà di sottolineare il carattere
aggiuntivo dell’inciso a dare luogo a un cumulo di segni (virgola e parentesi) che
in altre circostanze apparirebbero sovrabbondanti.
Se la congiunzione e ha valore avversativo, la virgola anteposta istituisce uno stacco che marca l’opposizione:
(8) Chiamava, chiamava, e nessuno rispondeva.
In ognuno dei casi prospettati è in gioco la funzione demarcativa della virgola rispetto
alle unità sintattiche (un segno ha funzione demarcativa quando serve a indicare un
confine linguistico). Eccone altre due prove:
(9) La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale.
(Cost., art. 2)
(10) La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
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