Edizione: 2005, XXII rist. 2023 Pagine: 392 Collana: Manuali di base [31] ISBN carta: 9788842078036 ISBN digitale: 9788858116555 Argomenti: Storia moderna
I caratteri principali del volume rispondono alle necessità di chiarezza, sinteticità, completezza indispensabili a un testo che si rivolge in primo luogo agli studenti universitari dei corsi di base. L’obiettivo è quello di fornire uno strumento di studio concettualmente chiaro, conciso e aggiornato con uno stile scorrevole e un uso rigoroso dei termini storiografici.
Edizione: 2023 Pagine: 392 Collana: Manuali di base ISBN: 9788842078036
L'autore
Francesco Benigno
Francesco Benigno insegna Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si è occupato di storia politica europea della prima età moderna, di storia dei concetti, della nascita del crimine organizzato italiano all’indomani dell’Unità e di storia del terrorismo su scala globale. Tra le sue pubblicazioni, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia(Viella 2013), La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (Einaudi 2015) e Terrore e Terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi 2018). Per Laterza è, tra l'altro, autore di L'età moderna. Dalla scoperta dell'America alla restaurazione (2005).
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Questo testo, suddiviso in trenta concisi capitoli che affrontano le principali tematiche
della storia moderna, è stato progettato ai fini dell’insegnamento universitario nelle
nuove lauree triennali. Al contempo, esso si propone di incorporare nel sapere consolidato
talune nuove acquisizioni, derivanti dalla più recente ricerca storica.
Per questa ragione esso può risultare interessante anche per un pubblico più vasto
e segnatamente per chi voglia tenersi aggiornato rispetto alle nuove interpretazioni
storiografiche.
Il progetto è stato ideato da Francesco Benigno in collaborazione con Massimo Carlo
Giannini e Nicoletta Bazzano. A Massimo Carlo Giannini si deve, oltre alla cura editoriale,
anche la scrittura dei capitoli 3, 10, 15, 20, 21, 28. Nicoletta Bazzano, a sua volta,
ha scritto i capitoli 4, 6, 11, 12. Tutti i restanti capitoli sono stati scritti da
Francesco Benigno.
Francesco Benigno, ordinario di Storia moderna, è preside della Facoltà di Scienze della comunicazione
dell’Università degli Studi di Teramo. Si è occupato di storia politica dell’Europa
moderna e di storia economico-sociale dell’area mediterranea.
Massimo Carlo Giannini è ricercatore di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Teramo. Si occupa
di storia delle istituzioni ecclesiastiche e di fiscalità papale. Ha scritto L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede, 1560-1620, Il Mulino, Bologna 2003.
Nicoletta Bazzano è ricercatrice di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Teramo. Si occupa
di storia politica del Cinquecento. Ha scritto Marco Antonio Colonna, Salerno Editrice, Roma 2003.
1. Il sogno dell’impero, la realtà di monarchie e repubbliche
L’analisi delle vicende storiche dell’Europa agli inizi di quella che si usa chiamare
prima età moderna non può prescindere da un’attenta valutazione dei principali attori
politici e dei quadri di riferimento ideali in cui essi si muovono. Ecco perché occorre
anzitutto partire dal ruolo dell’impero e dall’idea di monarchia universale ad esso
sottesa per comprendere una situazione politica e territoriale quanto mai complessa.
All’inizio del XVI secolo un solo sovrano, Carlo d’Asburgo, riunisce sotto il proprio
scettro un enorme e straordinario insieme di possedimenti. Dal padre Filippo, detto
il Bello, egli ha ereditato i tradizionali domini della casa d’Asburgo, concentrati
nell’attuale Austria, e l’eredità borgognona della nonna, formata dalla Franca Contea
e dai Paesi Bassi. Dalla madre, Giovanna, detta la Pazza, Carlo ha ricevuto le corone
di Castiglia e di Aragona, che includono i regni di Sardegna, Sicilia e Napoli, nonché
le nuove colonie americane. Per giunta, nel 1519, Carlo succede al nonno Massimiliano
I d’Asburgo nel titolo elettivo di imperatore del Sacro romano impero della nazione
germanica. In pratica, nelle sue mani si concentra il governo di un grande ed eterogeneo
conglomerato di territori di cui è il naturale sovrano. Inoltre, in teoria, nella
sua qualità di imperatore, Carlo V controlla indirettamente gran parte dell’attuale
Germania e la Boemia, suddivise in principati, vescovati e città indipendenti, che
pur sostanzialmente autonomi, riconoscono, almeno teoricamente, l’alta sovranità dell’imperatore,
cui spetta una sorta di potere di indirizzo e di coordinamento all’interno dell’impero.
Per un momento, nella prima metà del Cinquecento, un sogno (o, a seconda dei punti
di vista, un incubo) sembra materializzarsi, quello della restauratio imperii, la rinascita dell’impero.
Le quattro eredità di Carlo V
La parola «impero» richiama antiche e importanti tradizioni cui occorre, sia pure
rapidamente, accennare. Nella sua fase tarda l’impero romano era stato un impero cristiano
e l’imperatore aveva rappresentato una sorta di onnipotente esecutore della volontà
divina in terra. La memoria di questo unico, sconfinato potere terreno, costruito
a imitazione del potere spirituale dell’unico Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento
e per questo ammantato esso stesso di sacralità, non aveva da allora più abbandonato
l’Europa. Allorché, una volta dissolto l’impero romano, il regno dei franchi – sicuramente
il più forte dei regni creati nell’Europa romanizzata in seguito alle cosiddette invasioni
barbariche – aveva coltivato ambizioni di espansione e di egemonia su scala europea,
non a caso aveva di nuovo guardato all’impero romano come a un modello da imitare.
Tra l’VIII e il IX secolo, infatti, il sovrano franco Carlo Magno, con l’appoggio
del papato, aveva tentato di fare rinascere quell’antica istituzione universale, adattandola
alla nuova realtà dell’Europa medievale: in tale contesto, il giorno di Natale dell’anno
800, papa Leone III aveva incoronato Carlo Magno, attribuendogli il titolo di imperatore
del Sacro romano impero. Nel corso del basso Medioevo (secoli XII-XIV) gli imperatori
tedeschi come Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa (1123-90), o Federico
II di Svevia (1194-1250), si erano duramente scontrati con il papato che temeva lo
strapotere dell’autorità imperiale e le connesse pretese che i suoi detentori, come
rappresentanti della volontà di Dio nella sfera degli affari terreni, potevano avanzare
in materia di organizzazione ecclesiale.
Se per il papato la rinascita dell’impero aveva finito per costituire una minaccia,
viceversa, per tutti coloro che – come ad esempio Dante Alighieri (1265-1321) – ritenevano
pericolose e sbagliate le pretese papali di costituire la massima autorità religiosa
e politica della cristianità, il sogno dell’impero, e cioè di una monarchia universale
in grado di garantire nella realtà terrena la realizzazione dei valori cristiani (e
in primo luogo della pace), rimase a lungo vivo. Per quanto decaduto e ormai circoscritto
alla realtà germanico-boema, a cavallo fra Medioevo ed età moderna, l’impero conferisce
ancora a chi ne cinge la corona una teorica superiorità rispetto agli altri sovrani
e costituisce una fondamentale risorsa di legittimazione giuridica e politica per
poteri di natura «pubblica» (principi, città, feudatari, signori) e «privata» (corporazioni,
comunità, istituzioni ecclesiastiche). Finché tuttavia a tale autorità universale
non corrisponde un’intrinseca forza politico-militare del detentore del titolo imperiale,
nessuno ritiene praticabile la prospettiva di una nuova rinascita imperiale. Ciò fino
a quando la corona imperiale non si posa sul capo di un sovrano come Carlo V d’Asburgo,
che si presenta quale nuovo Carlo Magno e che possiede teoricamente risorse economiche
e forze in grado di assoggettare l’intero continente europeo.
Anche in questa straordinaria e irripetibile congiuntura, tuttavia, il sogno della
rinascita dell’impero, come del resto rilevò la maggioranza degli osservatori coevi,
si dimostra irrealizzabile. Lo stesso Carlo V, che pure ha impiegato le sue migliori
energie nel tentativo di ridare vigore all’idea imperiale, deve riconoscere, alla
fine della propria vita, l’incapacità a superare le enormi difficoltà legate alla
complessità della politica europea e, nella fattispecie, la propria impotenza a tenere
unito e a trasmettere a un unico erede il complesso di domini che ha governato. Questa
ammissione traspare chiaramente dalla sua decisione di dividere l’eredità asburgica
in due tronconi: egli lascia al figlio Filippo II le corone di Castiglia e di Aragona,
più i territori dell’eredità borgognona e italiani, mentre al fratello Ferdinando
garantisce la successione al trono imperiale, sostenuta dai tradizionali possedimenti
asburgici in Austria, cui si sommano le corone recentemente acquisite di Boemia e
d’Ungheria. Ciò significa la nascita di due rami dinastici distinti, alleati e imparentati,
ma guidati da differenti interessi dinastico-territoriali, e sancisce così apertamente
il tramonto della prospettiva di un unico impero cristiano europeo; una prospettiva
destinata alla sconfitta e resa inattuabile dalla forza dei nuovi processi che investono
l’Europa tra Quattro e Cinquecento: la fine dell’unità religiosa cristiana, i nuovi
equilibri territoriali determinati dall’avanzata dell’impero ottomano nel Mediterraneo
e dall’avvio dello sfruttamento delle Americhe, ma soprattutto la formazione e il
consolidamento in diverse parti del continente europeo di forti poteri monarchici,
in grado di sottomettere vaste estensioni territoriali, nuclei di quelle che saranno
considerate in seguito alcune tra le più importanti nazioni europee.
1.1. Le nuove monarchie...
L’elemento più importante nello sviluppo delle società europee all’inizio dell’età
moderna è la formazione di poteri monarchici che dispiegano la loro autorità su territori
di ampie dimensioni. In questi ambiti il potere dei sovrani si esercita più fortemente
che nel passato, grazie alla creazione di efficaci ancorché esili strutture burocratiche
incaricate del controllo della vita civile e religiosa, dell’amministrazione della
giustizia e della riscossione delle tasse, oltre che, naturalmente, di armare in caso
di necessità un esercito o una flotta per la difesa del territorio o per la conquista
di nuovi possedimenti. Tale sviluppo comporta una graduale trasformazione anche del
ruolo della monarchia e dell’immagine dei monarchi.
Tradizionalmente i sovrani erano visti soprattutto come i severi detentori della virtù
della giustizia, coloro ai quali ci si rivolgeva per dirimere in giudizio le controversie
fra i sudditi; allo stesso tempo essi erano considerati i generosi dispensatori delle
grazie terrene, i soli davvero in grado di promuovere e innalzare i sudditi ai principali
onori materiali e spirituali. In pratica il re, a somiglianza di Dio, era immaginato
come colui che punisce e premia, raddrizzando i torti e ricompensando i meriti, l’unica
autorità terrena in grado di riportare un’armonia sociale continuamente messa a rischio
dalle passioni e dai peccati degli uomini. Le qualità principali di un sovrano erano
perciò considerate l’equanimità e la magnanimità, che si dovevano accompagnare alle
funzioni precipue della sovranità, quali la protezione dei beni e delle vite dei sudditi
e la difesa della religione, ovverosia dell’unico credo condiviso, quello cristiano.
A queste attribuzioni, tuttavia, i sovrani vengono aggiungendo tra Quattro e Cinquecento
nuove prerogative che derivano intimamente dalla crescente capacità di controllo di
vasti possedimenti territoriali. Si tratta anzitutto dell’aumento della capacità di
prelievo fiscale, reso in parte autonomo dalla contrattazione annuale che ne vincola
l’esazione all’assenso delle rappresentanze politiche dei territori (ad esempio gli
Stati generali o i Parlamenti). È attraverso l’ampliamento della potestà d’imporre
e incassare tasse che le corone riescono a finanziare apparati burocratici stabili
(e cioè stipendiati) e soprattutto eserciti e flotte sempre più potenti e tendenzialmente
in ferma permanente, cioè pagati in maniera continuativa e non solo in occasione di
una guerra, come usava nei secoli precedenti (cfr. infra, cap. 10).
Questa affermazione di potenza comporta due essenziali conseguenze. Nei confronti
degli assetti tradizionali interni al regno, si manifesta l’inclinazione dei sovrani
a liberarsi di ogni struttura di potere che minacci o condizioni quello della corona.
Si pensi anzitutto ai grandi feudatari, abituati da secoli a considerarsi dei «quasi
pari» del re, ma si pensi anche alle città autonome, avvezze all’autogoverno e a una
sostanziale indipendenza. All’origine della propensione dei sovrani a estendere il
raggio d’azione della giustizia regia e a incrementare le forme di controllo del territorio
da parte di ufficiali nominati direttamente dalla corona sta dunque essenzialmente
l’esigenza di tenere a freno e sotto tutela le tendenziali spinte centripete. E tuttavia
questa esigenza fa avvertire il bisogno di un apparato regio più consistente e quindi
di maggiori risorse finanziarie per sostenerne il funzionamento, cui si può far fronte
solo accrescendo il controllo del territorio, in un processo circolare che acquisirà
nei secoli successivi grande rilievo.
Non meno importante è tuttavia un secondo effetto della crescita del potere dei re,
e cioè la tendenza di questi ultimi a porre la loro sovranità come indipendente da
ogni altro potere esterno e a considerarla come voluta direttamente da Dio. Una sovranità,
dunque, che non riconosce alcun potere terreno superiore al proprio. Ne fa le spese
anzitutto la teorica supremazia imperiale, che in pratica non viene più riconosciuta
né rispettata dai monarchi. Ma rischia di subire conseguenze pesanti anche il papato,
nella misura in cui pretende di assoggettare il potere dei re a vincoli che derivano
dalla propria supremazia spirituale. La tendenza dei sovrani a non riconoscere altri
poteri superiori al proprio comporta, nella migliore delle ipotesi, la tendenza a
subordinare le strutture ecclesiastiche al controllo della corona (il che significa
avere un ruolo decisivo nella nomina dei vescovi e degli abati, in quanto titolari
della gestione di imponenti patrimoni ecclesiastici) e, nella peggiore delle ipotesi,
la totale separazione dalla Chiesa di Roma, profittando della storica occasione che
si profila con la Riforma protestante (cfr. infra, cap. 5).
I processi di irrobustimento delle monarchie si legano infine al coagularsi di quella
che gli storici hanno chiamato formazione delle identità protonazionali. In pratica
l’insediamento e la stabilizzazione di monarchie territoriali contribuiscono alla
nascita e allo sviluppo di tradizioni e di costumi comuni e all’acquisizione da parte
delle classi dirigenti della consapevolezza di far parte, al di là delle pur significative
differenze locali e regionali, di un unico organismo politico, vincolato alla continuità
delle proprie tradizioni, leggi e costumi.
L’Europa intorno al 1500
Secondo il grande storico ottocentesco svizzero Jakob Burckhardt, le radici dei processi
di accentramento politico e di omogeneizzazione amministrativa realizzati nelle «nuove»
monarchie hanno la propria radice nella cultura rinascimentale, una cultura in cui
lo Stato e la politica vengono percepiti chiaramente non più come riflesso della volontà
divina, ma come artifizio umano, fino ad assumere la forma di una vera e propria «opera
d’arte» creata dalla virtù di un principe. Nel corso del Novecento, la storiografia
è venuta quindi insistendo sulla creazione di possenti apparati burocratici, amministrativi
e militari come il segno sicuro della realizzazione di un superiore livello di cultura
collettiva. La creazione di un’entità superiore quale la monarchia, incentrata sulla
figura di un sovrano, è parsa agli storici il presupposto necessario per l’affermazione
di un positivo e progressivo principio di tendenziale uguaglianza dei sudditi. In
tempi più recenti, tuttavia, è venuto emergendo dagli studi come la maggioranza delle
esperienze monarchiche europee della prima età moderna non sia affatto caratterizzata
dall’affermazione sicura dei principi di superamento dei particolarismi amministrativi,
culturali e politici nel segno di una sempre crescente omogeneizzazione. Al contrario,
mentre il caso della Francia (tradizionale modello di riferimento per l’idea di un
percorso storico finalizzato all’edificazione dello «Stato moderno») appare sempre
più un caso a se stante, la costruzione delle «nuove monarchie» viene vista come un
processo molto più complesso e meno lineare di quanto si ritenesse in passato. In
particolare lo storico inglese John H. Elliott ha fatto notare come, nella stragrande
maggioranza dei casi, i sovrani europei della prima età moderna siano portatori di
differenti diritti di successione sui diversi territori che formavano i loro domini,
titoli che venivano accumulati e giustapposti, come tante corone su un’unica testa,
senza fondersi in superiori unità politiche, giuridiche e amministrative. Tale agglomerato
politico-territoriale, tenuto insieme dalla sola persona del sovrano – e dagli appartenenti
alla sua dinastia –, è stato definito da Elliott «monarchia composita».
L’affermazione di principi di parziale razionalizzazione amministrativa e politica
deve essere pertanto ricondotta all’esito di un processo, per nulla lineare, volto
a inglobare le diverse tradizioni giuridiche e amministrative in complessi politico-territoriali
più ampi.
Questi processi si delineano concretamente in alcune realtà significative. La prima
e più importante monarchia sulla scena europea è naturalmente quella di Francia, erede
diretta del già citato regno franco e retta dalla dinastia dei Valois. La lunga guerra
contro l’Inghilterra (chiamata guerra dei Cent’anni, sebbene in realtà si tratti di
una serie di conflitti che coprono un arco cronologico ben più lungo, dal 1337 al
1453) consente ai sovrani francesi di cementare l’unità del regno nella difesa dalle
pretese di dominio inglesi. I sovrani della casa di Valois, inoltre, sono molto attenti
ad attaccare ed eliminare i domini feudali autonomi, potenziali pericoli per la stabilità
della corona. È il caso del ducato di Borgogna, un importante e ricco agglomerato
territoriale comprendente la Borgogna, la Piccardia, l’Artois, la Franca Contea, il
Lussemburgo, il Brabante e la Fiandra, la cui corte ha raggiunto fama europea per
splendore e mecenatismo. Il re Luigi XI di Valois (1451-83), al fine di accrescere
il proprio potere in Francia, favorisce la disintegrazione del ducato, dopo aver sconfitto
l’ultimo duca, Carlo detto il Temerario, suo acerrimo avversario (1477). Sarà lo stesso
Luigi XI, negli anni successivi, ad annettere al regno di Francia altri nuclei territoriali
che sfuggivano al controllo dei Valois: l’eredità dell’estinta dinastia degli Angiò,
comprendente le importanti regioni dell’Angiò, del Maine e della Provenza. Il suo
successore, Carlo VIII (1483-98), completerà questo processo sposando Anna di Bretagna,
erede del più importante complesso territoriale semiautonomo rimasto in territorio
francese, la Bretagna appunto. Tale percorso di aggregazione territoriale è sostenuto
dal rafforzamento dell’esercito, reso possibile dall’imposizione di una serie di tasse
da versare direttamente alla corona (la taille, la taglia, una tassa diretta annuale gravante sui focolari domestici, gli aides, gli aiuti, percepiti sui beni di consumo corrente, e la gabella del sale) ed è accompagnato
da un crescente controllo sulla Chiesa francese, dalla creazione di un’amministrazione
stabile e dalla riorganizzazione degli apparati giudiziari.
I successori di Carlo VIII, e cioè i sovrani Luigi XII d’Orléans (1498-1515), Francesco
I (1515-47) ed Enrico II (1547-59), procederanno nella loro azione di governo lungo
le medesime direttrici, ma in un contesto internazionale di molto mutato, che avrà
al suo centro la necessità di limitare sulla scena europea la potenza della rivale
casa d’Asburgo, sfruttando a tal fine il vero e proprio terremoto politico e culturale
provocato dalla Riforma.
Sconfitta nelle sue pretese di dominare il regno di Francia, l’Inghilterra vive, nei
decenni successivi alla conclusione della guerra dei Cent’anni, una serie di conflitti
intestini animati dalle due casate contrapposte degli York e dei Lancaster, che si
contendono il diritto alla successione sul trono inglese come eredi dell’estinta dinastia
dei Plantageneti. Questa stagione di conflitti che, dalle insegne sugli scudi delle
due fazioni in lotta, è nota come guerra delle Due rose (1455-85) indebolisce l’autonomia
della corona, rendendola fortemente dipendente dall’aristocrazia, nonché dal Parlamento,
dal clero e dalle città. Solo con Enrico VII Tudor (1485-1509), erede designato dai
Lancaster e marito di Anna di York, la monarchia inglese ritrova una propria capacità
di azione politica, mediante la riorganizzazione del sistema fiscale e la creazione
della Camera stellata, un tribunale di diretta dipendenza regia che consente al sovrano
un’ampia giurisdizione su reati di natura politica. Questa vigorosa strategia, che
punta anche su un’espansione commerciale e marittima sostenuta da una robusta flotta
militare, sarà ripresa dal figlio, Enrico VIII Tudor (1509-47), che mirerà a fare
dell’Inghilterra una protagonista dello scenario europeo e che separerà la Chiesa
d’Inghilterra da quella di Roma, dando vita a un’autonoma via al protestantesimo,
con la creazione della Chiesa anglicana, posta sotto lo stretto controllo della corona
(cfr. infra, cap. 5).
I processi di ricomposizione politico-territoriale sotto autorità monarchiche interessano
anche la penisola iberica, divisa in quattro grandi aree: a ovest il regno di Portogallo,
al centro il regno di Castiglia, a nord il regno di Navarra e a est la corona di Aragona,
a sua volta comprendente diversi regni e principati: l’Aragona propriamente detta,
la Catalogna, Valencia e le isole Baleari, la Sardegna (formalmente dal 1297), la
Sicilia (dal 1409) e Napoli (dal 1442).
Il Portogallo, sotto la dinastia degli Aviz, aveva intrapreso tra Quattro e Cinquecento
l’esplorazione a scopi commerciali della costa atlantica dell’Africa. Legando strettamente
la propria crescita economica ai traffici commerciali dalla corona, il Portogallo,
attraverso la creazione di basi lungo le coste africane, dà vita, secondo un modello
tradizionale sperimentato nel Mediterraneo, a una rete marittima di scambi fra l’Europa
e l’Africa occidentale (cfr. infra, cap. 3).
Gli altri regni iberici – a seguito di complesse vicende – intraprendono un percorso
che culmina nell’unione dinastica derivante dal matrimonio (1469) del sovrano di Aragona,
Ferdinando II, con Isabella, regina di Castiglia. Tale evento unisce le sorti dei
due regni, che peraltro mantengono leggi e istituzioni distinte, e permette a Ferdinando
e Isabella (conosciuti come «i re cattolici») di creare un potente esercito comune
e di condurre così a termine il processo di reconquista, letteralmente di riconquista, ma più propriamente di conquista militare di quella
parte della Castiglia meridionale ancora rimasta sotto dominio arabo musulmano. Con
la presa di Granada, nel 1492, viene abbattuto l’ultimo regno arabo della penisola
iberica, ma i re cattolici si trovano a governare su una popolazione composta da cospicui
gruppi etnici e religiosi che professano religioni diverse dal cristianesimo (ebraismo
e islamismo). Grazie anche alla creazione, nel 1478, di uno speciale tribunale ecclesiastico
inquisitoriale per i regni spagnoli – e detto perciò Inquisizione spagnola –, che
papa Sisto IV ha posto alle dirette dipendenze della corona, i due sovrani puntano
a imporre l’uniformità religiosa cristiana, non esitando a usare la forza nei confronti
delle minoranze etnico-religiose. Di qui le decisioni di procedere all’espulsione
degli ebrei (1492) da tutti i domini dei re cattolici e di convertire con la forza
al cristianesimo la popolazione di fede musulmana presente in tali territori (1502).
Ciononostante, rimane relativamente alta la percentuale di ebrei convertiti (marranos) e di musulmani convertiti (moriscos) e questa è la ragione, unita al clima di guerra, di odio religioso e di discriminazione
razziale creato dalla lunga stagione della reconquista, dell’esplodere del timore per la «contaminazione» etnica. Ne consegue la diffusione
della spasmodica preoccupazione per la cosiddetta limpieza de sangre, cioè la «purezza di sangue» cristiano, garantita – secondo un’idea razzista – dall’assenza
di antenati di religione ebraica e/o musulmana. Tale vera e propria ossessione è assai
importante nelle società iberiche, in quanto la purezza di sangue acquista un ruolo
essenziale per la certificazione della nobiltà (cfr. infra, cap. 2).
Con l’acquisizione da parte di Ferdinando di gran parte del regno di Navarra, spartito
con la Francia, la penisola iberica viene in pratica a essere dominata, ad eccezione
del Portogallo, da un’unica entità dinastico-territoriale, che comincia a essere denominata
comunemente come Spagna.
1.2. ... e le «vecchie» realtà
La crescita delle «nuove» monarchie (Francia, Inghilterra e Spagna) avviene in un
continente, quello europeo, dominato per gran parte da realtà statuali caratterizzate
da un minor tasso di innovazione istituzionale, territorialmente assai meno vaste
di quelle sopra descritte e variamente organizzate. Si tratta di una variegata galassia
composta da regni, principati indipendenti, città autonome e repubbliche, ma anche
dagli ampi territori soggetti all’autorità del Sacro romano impero della nazione germanica
e di quelli, circoscritti all’Italia centrale, che fanno parte dello Stato della Chiesa.
Laddove le «nuove» monarchie mirano, con alterne fortune, a imporre il controllo regio
su vaste aree relativamente omogenee, il restante universo delle organizzazioni statuali
appare frammentato e multiforme. Così, chi guardi la carta politica dell’Europa degli
inizi del XVI secolo può vedere, a fianco di alcuni nuclei territoriali ben definiti
(e che saranno all’origine di talune moderne nazioni), una realtà sfrangiata e complessa,
composta di minuti pezzi irregolari, simile a un mosaico o, se si preferisce, a un
puzzle.
Si prenda il caso della Germania, che all’epoca è sotto la sovranità nominale del
Sacro romano impero, il quale come si è detto non costituisce affatto un’entità statuale
vera e propria, quanto piuttosto una confederazione di entità politico-territoriali
dalle dimensioni più diverse: dalle piccole città-Stato, come Norimberga, ai grandi
principati laici ed ecclesiastici, come il ducato di Sassonia e l’arcivescovado di
Brema. Due sono le principali differenze tra l’impero e una qualsiasi delle «nuove»
monarchie. La prima è il carattere elettivo (e non ereditario) del titolo imperiale:
infatti, sulla base della procedura stabilita con la «bolla d’oro» dell’imperatore
Carlo IV di Lussemburgo (1356), l’imperatore viene scelto da un corpo elettorale non
modificabile composto da sette grandi elettori, quattro laici (il re di Boemia, il
duca di Sassonia, il conte del Palatinato renano e il margravio del Brandeburgo) e
tre ecclesiastici (gli arcivescovi-principi di Colonia, Magonza e Treviri). La seconda
è l’esistenza in tutto il territorio dell’impero di poteri autonomi formalmente soggetti
all’autorità imperiale, ma in sostanza svincolati dal suo potere. Quest’ultimo si
risolve più in una serie di attribuzioni simboliche di grande prestigio, nell’esercizio
di fondamentali prerogative giuridiche (ad esempio l’imperatore può «creare» feudi,
titoli nobiliari e legittimare in linea di diritto signorie e poteri autonomi già
esistenti di fatto) e in una qualche capacità di coordinamento politico-istituzionale
e diplomatico nei territori dell’impero, che in una vera e propria capacità di governo.
A ogni modo, la forza del «nuovo» modello regio si fa sentire anche nelle terre dell’impero.
Ciò è evidente nella strisciante e informale trasformazione della carica imperiale
da elettiva a quasi-ereditaria. Infatti, a partire dal 1438, l’imperatore viene eletto
sempre fra i membri di una sola dinastia, quella degli Asburgo, signori dell’area
austriaca e in seguito eredi di una porzione significativa del ducato di Borgogna.
Infatti l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo (1493-1519), grazie al matrimonio con
Maria di Borgogna, figlia e unica erede del duca Carlo il Temerario, riesce, dopo
la dissoluzione del ducato borgognone e in seguito di lunghe guerre con la Francia,
ad acquisire la sovranità sulla Franca Contea e sui Paesi Bassi. Nel corso del Quattrocento,
la politica degli Asburgo è dunque duplice: da un lato essi puntano a mantenere il
titolo imperiale all’interno della famiglia (per quanto possibile con un meccanismo
che rimane comunque elettivo) e a rafforzare i poteri di coordinamento e di legislazione
ad esso connessi; dall’altro tendono ad ampliare i propri domini diretti e ad accrescere
in essi il proprio potere, così da trarne le risorse indispensabili a rafforzare l’autorità
imperiale. Tale strategia, sostenuta da un’accorta politica di alleanze matrimoniali,
ha soprattutto lo scopo di acquisire le corone di Boemia e di Ungheria – obiettivo
che peraltro viene raggiunto solo nel 1526 – creando un forte blocco territoriale
nell’Europa centro-orientale capace di costituire un argine verso oriente all’espansionismo
dell’impero ottomano e verso mezzogiorno al peso politico-economico della repubblica
di Venezia.
Il Sacro romano impero, tuttavia, non è l’unica entità a fregiarsi del titolo imperiale.
I sovrani della Russia, ad esempio, a partire dal 1493 – allorché Ivan III (1462-1505)
si proclama autocrate di tutte le Russie – utilizzano il titolo di czar, derivato dal latino Caesar, in quanto anch’essi pretendono di essere i legittimi eredi dell’impero romano e
«Cesare» sin dall’impero romano era l’appellativo con cui ci si rivolgeva all’imperatore.
La sovranità dell’impero romano d’Occidente, estintosi formalmente nel 476 d.C., era
infatti sopravvissuta a lungo nell’impero romano d’Oriente, con sede a Costantinopoli,
l’antica Bisanzio. Nel 1453, con la conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani
guidati dal sultano Maometto II (1451-81), anche l’impero romano d’Oriente (o bizantino)
era scomparso: i sovrani russi ne rivendicarono l’eredità, indicando nella propria
nuova capitale, Mosca, la terza Roma, erede sia di Roma sia di Costantinopoli.
A Costantinopoli, ribattezzata Istanbul, si erano insediati i sultani ottomani, che
avevano edificato nel Mediterraneo orientale e nei Balcani un vasto aggregato statuale,
l’impero ottomano, che faceva perno sull’attuale Turchia e comprendeva al suo interno
province e potentati semiautonomi, ma tributari del sultano dal punto di vista fiscale
e tenuti a fornire uomini e mezzi per le esigenze militari della politica di espansione
nel bacino del Mediterraneo (Siria, Palestina ed Egitto furono conquistati nel 1516-17).
Dal punto di vista religioso l’impero ottomano è di fede musulmana, ma al suo interno
sudditi di religione diversa e perfino culti differenti vengono ampiamente tollerati
(cfr. infra, cap. 6).
Nell’impero ottomano si ritrovano dunque alcune delle debolezze strutturali che affliggeranno
storicamente sia il Sacro romano impero sia la Russia. Esse si possono sintetizzare
nella difficoltà a governare grandi estensioni territoriali molto diversificate al
loro interno e spesso non contigue territorialmente, aventi istituzioni e tradizioni
differenti. Territori abitati da popoli di diversa radice etnica, con lingue, culture
e fedi religiose diverse, ivi comprese le varianti di una stessa confessione. Infatti
anche nel mondo musulmano, come in quello cristiano, esistono diversi credi: alla
religione musulmana ufficiale adottata dai sultani ottomani (il credo cosiddetto sunnita)
si contrappone il credo sciita, una versione per certi aspetti più rigida della fede
musulmana, radicata soprattutto nell’impero persiano (nell’area dell’attuale Iran)
che preme ai confini orientali dell’impero ottomano.
Al di là degli imperi, comunque, la grande maggioranza dei poteri pubblici che governano
le società europee sono organizzati in regni o principati. Molti regni, ad esempio
nell’Europa orientale e settentrionale, non presentano tuttavia le caratteristiche
che abbiamo attribuito alle «nuove» monarchie. In alcuni casi, come in Polonia, la
monarchia non riesce a divenire ereditaria, restando elettiva e perciò molto più debole
e condizionata dai suoi elettori, i grandi nobili. In altri casi i processi di aggregazione
su base dinastica non sono seguiti dal radicamento di sentimenti e di interessi comuni,
ma da fenomeni centripeti. È il caso di Svezia e Norvegia, riunite in un solo regno,
sotto il dominio danese, agli inizi del XVI secolo, che progressivamente daranno vita
a monarchie autonome.
Molti signori europei, alla guida di Stati di dimensione media e piccola, non possono
neppure fregiarsi del titolo di re, ma solo di quello di principe, duca o marchese
(denominazioni che discendono dagli appellativi usati per i nobili nell’antico regno
dei franchi). Nei fatti tuttavia questi principi esercitano nei propri domini di dimensioni
ridotte gli stessi poteri che un re esercita in una grande monarchia. In qualche caso
i territori che formano principati o signorie (così sono chiamati genericamente in
Italia i potentati autonomi privi del titolo regio o principesco che solo il papa
o l’imperatore possono conferire) raggiungono una discreta estensione di scala regionale.
Tali entità politiche sono frammiste, specialmente nella penisola italiana, a città
indipendenti che si reggono in forma di repubblica, eredi della stagione medievale
dei liberi comuni. La repubblica è una forma di governo rinata nel Medioevo sulla
scorta della suggestione degli esempi delle antiche città-Stato della Grecia classica
e della Roma prima dei Cesari. I governanti di tali repubbliche cittadine sono eletti
da liste di cittadini più o meno ampie e che, in genere, non comprendono l’insieme
della popolazione, ma solo i suoi strati superiori, la sua parte più ricca e prestigiosa.
In alcuni casi queste élites definiscono criteri rigidi di inclusione/esclusione dalle cariche di governo civico,
le quali conferiscono agli inclusi anche una patente di nobiltà (cfr. infra, cap. 2). In Italia tra le repubbliche più importanti si contano Venezia, che oltre
a costruire un vasto impero commerciale (che include molte isole adriatiche e greche
più le grandi isole del Mediterraneo orientale, Cipro, Rodi e Candia) aveva allargato
i propri confini in direzione della cosiddetta Terraferma, parte degli attuali Veneto,
Lombardia e Friuli; Firenze, che aveva realizzato in Toscana uno Stato di dimensione
regionale, assoggettando altre città concorrenti come Pisa, mentre i centri di Lucca
o Siena sono rimasti repubbliche autonome; Genova, infine, che aveva anch’essa creato
una serie di basi commerciali sparse nel Mediterraneo, ma che, a differenza di Venezia,
non le aveva trasformate in veri domini (ad eccezione della Corsica), preferendo avere
solo avamposti commerciali (cfr. infra, cap. 10).
Al di fuori della penisola italiana si reggono in forma repubblicana i cantoni svizzeri,
uniti da una confederazione che, dal 1499, aveva posto termine a un’ormai solo formale
dipendenza dal Sacro romano impero. I cantoni elvetici sono una serie di piccole repubbliche
che hanno messo in comune la conduzione della politica estera, mantenendosi largamente
autonome per tutti gli altri aspetti. In generale, come ben si vede nel caso italiano
e svizzero, la forma repubblicana ha storicamente favorito la partecipazione collettiva,
almeno quella degli strati più abbienti delle società, alla gestione della cosa pubblica,
e ha in generale prodotto politiche più attente alla difesa degli interessi economici
comuni e alla crescita della ricchezza collettiva che alla competizione dinastico-militare
per l’accrescimento territoriale.
Malgrado ciò, gli autori coevi ritenevano in genere la repubblica una forma statuale
adatta esclusivamente a comunità cittadine o a piccoli Stati. Condizionati dall’idea
della democrazia diretta di tipo greco, esemplificata dall’antica Atene o per meglio
dire dal modo con cui le tradizioni politiche ateniesi erano state raccontate e tramandate,
essi ritenevano la democrazia praticabile solo su una piazza ideale (l’agorà) in cui tutti si conoscono. Per definizione, dunque, essa è ritenuta inadatta al
governo dei grandi Stati, cui si pensa attagliarsi perfettamente, invece, la monarchia.
1.3. Le guerre d’Italia
La rivelazione di quanto più potente e attuale fosse il modello delle «nuove» monarchie
rispetto alle altre formazioni statuali si ha con le cosiddette guerre d’Italia, quel
cinquantennio (1494-1554) cioè in cui l’Italia diviene un vero e proprio campo di
battaglia. Un terreno di scontro in cui i contendenti non sono più, come in passato,
solo potentati italiani, ma anche le «nuove» e «vecchie» monarchie europee. Questo
periodo è stato visto tradizionalmente dalla storiografia italiana di impostazione
nazionalistica come lo sciagurato inizio di un lungo periodo di dominio straniero:
nella perdita della cosiddetta «libertà d’Italia» tale storiografia individuava, infatti,
la ragione di fondo della tardiva unificazione politica del paese. Più recentemente
le guerre d’Italia sono state ritenute piuttosto come le prime vere guerre europee,
conflitti in cui, attraverso un gioco di alleanze e di schieramenti, si viene creando
un sistema diplomatico continentale. Effettivamente, la posta in gioco è alta: l’Italia
non è solo a quel tempo la più ricca e colta nazione d’Europa, ma anche il luogo dove
risiede la massima autorità spirituale del mondo cristiano, il papa. Chi avesse dominato
la penisola avrebbe di conseguenza avuto l’egemonia sull’intero continente europeo.
Alla fine del Quattrocento, l’Italia risulta politicamente divisa in numerosi Stati
di dimensioni medie e piccole, ciascuno dei quali appare incapace di assoggettare
gli altri, ma è sufficientemente robusto da evitare di essere assorbito dai vicini.
Solo per citare i principali, nell’Italia settentrionale si contano, da est verso
ovest, il ducato di Savoia, a cavallo delle Alpi (comprendente gli attuali Piemonte
e Savoia); la repubblica di Genova (grosso modo l’attuale Liguria); il ducato di Milano,
governato prima dai Visconti e poi, dal 1450, dagli Sforza (che include buona parte
dell’attuale Lombardia e alcune terre emiliane); la repubblica di Venezia. Nell’Italia
centrale vi sono la signoria di Firenze, sotto il governo dei Medici, che dal 1434
avevano trasformato il comune fiorentino in uno Stato regionale formalmente repubblicano,
ma in sostanza principesco (comprendente la Toscana, eccetto le repubbliche di Lucca
e Siena), e lo Stato della Chiesa (che occupa le attuali regioni del Lazio, dell’Umbria,
delle Marche e parte dell’Emilia-Romagna). Nell’Italia meridionale, infine, vi è il
regno di Napoli, governato da un ramo cadetto, ma autonomo, della dinastia aragonese,
mentre i regni di Sicilia e Sardegna dipendono direttamente dalla corona d’Aragona.
Dopo una lunga fase di guerre che aveva segnato la prima metà del XV secolo, i maggiori
Stati della Penisola (Milano, Venezia, Stato della Chiesa, Firenze e Napoli) avevano
stipulato con la pace di Lodi (1454) un accordo basato sul rispetto del principio
dell’equilibrio, cioè sul mantenimento dello status quo. La situazione italiana rimane almeno formalmente stabile, anche grazie all’azione
accorta del signore di Firenze, Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico (1469-92), abile
diplomatico, oltre che eminente umanista e protettore delle arti e delle lettere.
Tutto però cambia nel 1494, allorché Carlo VIII, re di Francia, interviene militarmente
nei contrasti in atto in Italia, chiamato dal signore di Milano Ludovico Sforza, detto
il Moro. Dopo essersi assicurato la neutralità di Ferdinando il Cattolico con la cessione
della Cerdaña e del Rossiglione e dell’imperatore Massimiliano I al quale cede la
Franca Contea e l’Artois, il sovrano francese valica le Alpi nel settembre 1494 alla
testa di un esercito assai potente per l’epoca. Il suo obiettivo è l’acquisizione
del regno di Napoli, del quale rivendica la sovranità in quanto erede dell’estinta
casa regnante degli Angiò. La cosiddetta «discesa» di Carlo VIII rimarrà famosa per
la totale mancanza di resistenza che egli incontra nell’attraversamento della penisola,
sino all’occupazione di Napoli nel febbraio 1495. L’Italia si dimostra così una facile
preda per chi possa mettere in campo un esercito di quella portata (15.000 fanti e
altrettanti cavalieri), dotato oltretutto di pezzi di artiglieria montati su affusti
trainati da cavalli, i quali, benché siano più rumorosi che efficaci, impressionano
notevolmente i contemporanei.
Tuttavia, di fronte al rischio di un’egemonia francese in Italia, il pontefice Alessandro
VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503), originario di Valencia, promuove un’alleanza antifrancese
che include Venezia, Milano, l’imperatore e i re cattolici e costringe Carlo VIII
a effettuare una non agevole ritirata (1495). Se la spedizione di Carlo VIII può a
prima vista apparire un evento occasionale, destinato a non ripetersi, essa, a ben
vedere, mette in luce i gravi elementi di instabilità e di debolezza che caratterizzano
la realtà italiana e fanno dell’intervento del monarca francese il primo anello di
una lunga serie.
Tra i fattori d’instabilità vi sono non solo le pretese del sovrano francese sul regno
di Napoli, ma anche i contrasti fra i potentati italiani sollevati dall’azione di
Ludovico il Moro. Questi, proprio nell’ottobre 1494, succede nel titolo di duca di
Milano al nipote Gian Galeazzo Sforza, in un modo poco chiaro: tenuto prigioniero
dallo zio, Gian Galeazzo era infatti morto in circostanze misteriose. A ciò si aggiunge
la conflittualità creata nello Stato della Chiesa dalla tendenza dello spregiudicato
papa Alessandro VI a usare il proprio potere per creare una vera e propria dinastia,
aiutando il figlio Cesare, detto «il Valentino» (dal titolo di duca del Valentinois
concessogli da Luigi XII di Francia nel 1498), a costruirsi un principato fra Romagna
e Marche. L’improvvisa morte di Alessandro VI e l’ascesa al soglio pontificio, nel
1503, di Giulio II (Giuliano Della Rovere, 1503-13), nemico giurato dei Borgia, stronca
tuttavia le ambizioni di Cesare. Anche a Firenze il potere della famiglia Medici,
dopo la morte di Lorenzo, è sempre più fragile fino a essere rovesciato, nel 1494,
in occasione del passaggio dell’esercito di Carlo VIII, da una rivolta di impronta
repubblicana che fa leva sulla predicazione di stampo radicale ed egualitario di un
frate domenicano, Girolamo Savonarola. In nome del ritorno allo spirito del vangelo
e della purificazione dai peccati di una Chiesa corrotta e di una città dilaniata
dai contrasti politici, Savonarola propugna un intenso rinnovamento della società
e delle istituzioni ecclesiastiche. Egli riesce per breve tempo a influenzare il governo
repubblicano della città nel nome dell’adesione ai rinnovati principi religiosi e
dell’alleanza con la Francia. Tuttavia il conflitto con Alessandro VI, che scomunica
il frate, e la morte di Carlo VIII, uniti ai rovesci militari, fanno perdere a Savonarola
l’appoggio delle autorità cittadine; queste ultime, nel 1498, lo consegnano agli inviati
papali che lo condannano al rogo come eretico. La drammatica fine del frate non impedisce
che la repubblica fiorentina sia, a sua volta, travolta, nel 1512, dalle forze ispano-pontificie
che ristabiliscono la signoria dei Medici.
Tutti questi elementi di conflittualità e di debolezza interna degli Stati della penisola
finiscono per fondersi nelle drammatiche vicende delle guerre d’Italia. Nel 1499 il
nuovo re di Francia, Luigi XII, dapprima occupa il ducato di Milano, del quale rivendica
la sovranità a causa della propria discendenza da una Visconti, e poi sigla un accordo
con Ferdinando il Cattolico per spartirsi il regno di Napoli (1500). Tuttavia ben
presto scoppia la guerra fra i due sovrani, che si conclude con la vittoria delle
forze spagnole nella battaglia del Garigliano (1504) e la conseguente rinuncia francese
al regno, che passa nelle mani di Ferdinando il Cattolico.
Da parte sua papa Giulio II intraprende un’energica azione per salvaguardare il traballante
potere territoriale della Santa Sede, sconquassato dalle imprese del Borgia e dall’affermarsi
di piccole signorie semi-indipendenti e minacciato dall’espansionismo della repubblica
di Venezia in Romagna. Egli dà quindi vita, con l’imperatore Massimiliano e Ferdinando
il Cattolico, alla lega di Cambrai, che infligge una pesante sconfitta alle forze
veneziane nella battaglia di Agnadello (1509). Allorché l’esistenza stessa della repubblica
di Venezia sembra in forse, Giulio II muta repentinamente strategia e costituisce
una nuova alleanza di potenze italiane ed europee, la cosiddetta Lega santa, per scacciare
i francesi dall’Italia. Sconfitto nelle campagne militari del 1512-13, Luigi XII è
costretto ad abbandonare Milano e la penisola.
Per il suo successore sul trono di Francia, Francesco I, il controllo di Milano, «chiave
d’Italia», è un obiettivo prioritario. Con una nuova spedizione, il sovrano conquista
il ducato sconfiggendo a Marignano (1515) i mercenari svizzeri al servizio di Massimiliano
Sforza, erede della dinastia ducale. Il trattato di Noyon (1516), stipulato tra Francesco
I, il giovane e potente Carlo d’Asburgo, nuovo sovrano di Castiglia e Aragona, la
Confederazione elvetica e il papa, assegna Milano alla Francia e Napoli alla Spagna.
La fragile tregua finisce però nel 1521, allorché Carlo d’Asburgo, ormai divenuto
imperatore con il nome di Carlo V, alleato del papa e di Enrico VIII d’Inghilterra,
muove guerra alla Francia. Sotto le mura di Pavia, nel 1525, le truppe francesi subiscono
una disastrosa sconfitta da parte di quelle ispano-imperiali, superiori nei reparti
di fanteria (detti tercios) armati di picche e soprattutto di archibugi. Lo stesso Francesco I viene fatto prigioniero
e verrà rilasciato l’anno seguente solo dopo aver firmato il trattato di Madrid (gennaio
1526), con cui rinuncia a ogni pretesa sull’Italia e cede a Carlo V i territori dell’ex
ducato di Borgogna annessi alla Francia cinquant’anni prima e rivendicati dall’imperatore
quale parte della propria eredità familiare.
A questo punto papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1523-34), resosi conto che il
pericolo maggiore per la libertà d’azione dei potentati italiani era ormai costituito
non dai francesi, ma dagli ispano-imperiali, opera un rovesciamento delle alleanze
che tuttavia non dà i frutti sperati. La coalizione antiasburgica (Lega di Cognac),
animata dal pontefice con Francia, Venezia, Milano, Genova e Firenze, si mostra infatti
incapace di far fronte alla potenza dell’esercito imperiale, che irrompe in Italia
nella primavera del 1527 puntando su Roma e occupandola il 6 maggio, mentre Clemente
VII si rifugia a Castel Sant’Angelo. Grande emozione suscita il fatto clamoroso che
i mercenari tedeschi (i lanzichenecchi) di fede protestante al servizio di Carlo V,
rimasti privi del loro soldo, saccheggiano la città eterna. L’evento provoca un terremoto
nella politica italiana: a Firenze viene nuovamente abbattuto il governo dei Medici
e ripristinata la repubblica, mentre a Genova l’abile uomo politico, finanziere e
ammiraglio Andrea Doria porta la repubblica a schierarsi con Carlo V abbandonando
la tradizionale alleanza con la Francia (settembre 1528).
L’eco del sacco di Roma, con la rapida diffusione di racconti e notizie circa la ferocia
dei lanzichenecchi che profanano i luoghi sacri, razziano ogni oggetto di valore,
commettono violenze ed efferatezze di ogni genere, suscita in tutta l’Europa cattolica
orrore e sconcerto, contribuendo ad alimentare ansie apocalittiche o, a livello colto,
l’idea che un’epoca sia ormai finita. Ciò tuttavia non muta la cruda sostanza degli
avvenimenti: si tratta dell’amaro suggello dell’affermazione dell’egemonia spagnola
in Italia, sancita dalla pace di Cambrai (1529) con cui Francesco I deve riconoscere
il ritorno del ducato di Milano al duca Francesco II Sforza, sotto tutela ispano-imperiale,
e l’assegnazione a Carlo V del regno di Napoli, delle Fiandre e dell’Artois. D’altra
parte, il sacco di Roma mostra al papato che non è più possibile tenere aperta la
porta d’Italia ai francesi in funzione antiasburgica. Nello stesso anno, con il trattato
di Barcellona, Carlo V e Clemente VII si accordano perché l’esercito imperiale ripristini
la signoria medicea a Firenze, mentre il pontefice riconosce a Ferdinando d’Asburgo
(1503-64), fratello dell’imperatore, i titoli di re di Boemia e d’Ungheria (le cui
corone ha acquisito nel 1526).
Il conflitto franco-asburgico per il controllo della penisola italiana non è però
concluso. Nuove campagne militari hanno luogo nel 1535-37 e nel 1542-44. Tuttavia
Francesco I ricava modeste acquisizioni territoriali in Savoia, e oltretutto perde
definitivamente il ducato di Milano, che, nel 1535, alla morte dell’ultimo duca della
dinastia sforzesca, in quanto feudo imperiale ritorna nelle mani di Carlo V. Anche
il nuovo sovrano francese, Enrico II, intraprende a partire dal 1552 altre campagne
contro Carlo V su scala europea, alleandosi con i principi protestanti tedeschi e
con papa Paolo IV (Gian Pietro Carafa, 1555-59). Egli però subisce una pesante sconfitta
nella battaglia di San Quintino (1557) che, con la bancarotta della corona, spiana
la strada alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). I francesi sono definitivamente espulsi
da un’Italia in cui Filippo II (1527-98), figlio e successore di Carlo V sui troni
iberici, governa direttamente Milano (essendo stato investito dall’imperatore del
titolo ducale), Napoli, Sicilia e Sardegna, nonché alcune piazzeforti strategiche
lungo la costa toscana (tra cui Orbetello), ed esercita una notevole influenza sul
resto della penisola, dove può contare sulla stretta alleanza del ducato di Savoia
di Emanuele Filiberto e del ducato di Toscana di Cosimo I de’ Medici (che viene ricompensato
per la sua fedeltà con l’annessione della repubblica di Siena).
Oltre a significare la fine delle libertà italiane, le guerre d’Italia rappresentano
per l’intero continente europeo un momento fondante del sistema diplomatico-militare
delle potenze. Inoltre esse sono la prova del fuoco per le nuove monarchie, da cui
emerge la sproporzione tra le forze che queste ultime sono in grado di mobilitare
e quelle tradizionalmente poste in campo dalle vecchie realtà statuali. Sul piano
più strettamente italiano tali guerre sono la consacrazione dell’egemonia politico-militare
spagnola sulla penisola, un’egemonia destinata a durare quasi duecento anni.
1.4. Il sogno infranto
A Bologna, nel 1530, Carlo V viene trionfalmente incoronato imperatore da papa Clemente
VII. Per un momento l’idea di unificare l’intera cristianità sotto un unico scettro
nelle mani del secondo Carlo Magno appare una prospettiva reale. Il medesimo pontefice
che era stato costretto ad assistere impotente al sacco di Roma suggella simbolicamente
l’egemonia degli Asburgo.
Carlo d’Asburgo era stato eletto imperatore nel giugno 1519 a soli diciannove anni,
con il voto dei sette grandi elettori, ma solo adesso che gli eserciti ispano-imperiali
dominano l’Italia e sono temuti in tutta Europa il peso di quella scelta appare in
tutta la sua rilevanza. Non era stata, del resto, un’elezione facile. Dopo sette decenni
di successione quasi automatica nell’ambito della famiglia degli Asburgo, alla morte
del nonno, l’imperatore Massimiliano, Carlo aveva dovuto affrontare l’agguerrita competizione
del re di Francia Francesco I, che si era fatto forte dell’allarme suscitato in tutta
Europa dal rischio di un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani del giovane
sovrano. La «bolla d’oro» che regolava l’elezione del «re dei tedeschi e imperatore
dei romani» non poneva limiti all’eleggibilità: chiunque poteva essere eletto, bastava
che fosse considerato «giusto, buono e idoneo alla carica».
La battaglia per l’elezione imperiale era stata aspra e costosissima. Se Francesco
I aveva dato ordine ai propri banchieri di fiducia, sparsi tra Lione, Milano, Firenze
e Genova, di non badare a spese per comprare i voti dei grandi elettori, Carlo V aveva
mobilitato i banchieri di Firenze, Anversa e Augusta, tra cui i famosi Fugger, ritenuti
i più ricchi finanzieri d’Europa, riuscendo a offrire una somma maggiore (cfr. infra, cap. 10). Alla fine gli Asburgo l’avevano spuntata e Carlo era stato eletto imperatore.
Governare un insieme così vasto ed eterogeneo di territori, tuttavia, si rivelerà
presto un’impresa ardua. In Spagna, e in particolare in Castiglia, l’ascesa al trono
imperiale del figlio della regina Giovanna la Pazza suscita timori e resistenze da
parte di tutti coloro che temono l’emarginazione degli interessi castigliani in un
conglomerato politico dal baricentro tedesco-fiammingo; un insieme dinastico, oltretutto,
guidato da un sovrano, Carlo, nato a Gand e che risiede preferibilmente a Bruxelles.
La successione di Carlo sui troni che erano stati dei re cattolici è, per queste ragioni,
contrastata, sia nei domini d’Aragona sia soprattutto in Castiglia, dove la divisione
politica tra fautori e avversari della successione «austriaca» si trasforma in una
sorta di guerra civile e in una generale sollevazione delle città che esplode dopo
la partenza del sovrano (1520). Radunate in una confederazione, detta dei Comuneros, le comunità urbane castigliane tentano di arrogarsi il diritto di parlare a nome
del regno, minando le basi di rappresentatività dell’aristocrazia feudale, che a questo
punto, superate le sue tradizionali divisioni interne, finisce per schierarsi totalmente
dalla parte di Carlo. Nell’aprile del 1521, a Villalar, le truppe lealiste dell’aristocrazia
castigliana sconfiggono le milizie cittadine e ristabiliscono l’ordine.
All’inizio degli anni Trenta del Cinquecento, una volta stabilizzata la situazione
spagnola con l’affermazione della propria legittima autorità in Aragona e Castiglia,
dopo aver battuto i francesi in Italia ed esser stato incoronato dal papa, Carlo appare
in grado d’instaurare quell’ordine imperiale europeo che il suo cancelliere, Mercurino
Arborio di Gattinara (1465-1530), aveva teorizzato. Un impero capace di richiamarsi
tanto al modello della Roma imperiale, quanto a quello carolingio e medievale, ma
anche segnato dalla forte impronta degli Asburgo, quella dinastia che, secondo la
visione di Carlo e dei suoi consiglieri e propagandisti, è chiamata da Dio a una missione
universale. E tuttavia una serie di fattori minano alla base il sogno – più accarezzato
e propagandato che davvero progettato concretamente – di una monarchia universale.
Il primo elemento destabilizzante è rappresentato dall’espansionismo ottomano nel
Mediterraneo. Guidato in quegli anni da un sultano abile e intraprendente come Solimano
II detto il Magnifico (1520-66), l’impero ottomano realizza una duplice offensiva:
nei Balcani, con la conquista di Belgrado (1521) e di due terzi dell’Ungheria (1526),
fino a porre l’assedio a Vienna (1529), e nel Mediterraneo orientale, dove viene occupata
l’isola di Rodi (1522). Al medesimo tempo, la pirateria barbaresca del Nord Africa,
la cui base principale è Algeri, sostenuta dall’impero ottomano compie numerose scorrerie
a danno delle popolazioni cristiane rivierasche del Mediterraneo occidentale, specialmente
di quelle sotto il governo di Carlo V (Italia meridionale, Sicilia, Sardegna, penisola
iberica). Per un momento la lotta contro gli ottomani «infedeli» sembra far rivivere
lo scontro delle crociate e i combattenti spagnoli sono visti come la spada del cattolicesimo.
Tuttavia, malgrado l’impegno diretto di Carlo, che decide di guidare personalmente
le forze ispano-imperiali nel tentativo di debellare la pirateria, e nonostante la
conquista dell’importante base corsara di Tunisi (1535), non vi sono successi risolutivi.
Anzi le armate asburgiche sono costrette sulla difensiva tanto in Mediterraneo quanto
nei Balcani. Non solo nel 1536 Solimano II stabilisce un accordo di alleanza con il
re Francesco I di Francia in funzione antiasburgica, ma la lega cristiana formata
dall’imperatore, dal papa, da Venezia e da Genova subisce una decisa sconfitta nella
battaglia navale di Prevesa (1538), cui si aggiunge il fallimento della spedizione
imperiale contro Algeri (1541). Lungo la frontiera danubiana Ferdinando d’Asburgo
è costretto a chiedere al sultano una tregua nel 1545 che, due anni dopo, porterà
alla conclusione di una pace quinquennale in cui Ferdinando riconosce le conquiste
ottomane e accetta di pagare un tributo annuo a Istanbul.
La presenza di un avversario tanto potente come l’impero ottomano assorbe una parte
rilevante delle risorse finanziarie e militari dell’impero di Carlo V e gli impedisce
di concentrare le sue energie nella guerra con la Francia, il tradizionale avversario,
il vero bastione contro cui si infrange il sogno di egemonia continentale degli Asburgo.
Alle guerre in atto contemporaneamente con Francia e impero ottomano si somma poi
un altro elemento non meno rilevante, costituito dalla nascita e dalla diffusione
della Riforma protestante in Germania, con la dura conflittualità religiosa e politica
che ne consegue (cfr. infra, cap. 5). A partire dagli anni Trenta, la Lega di Smalcalda, l’alleanza politico-militare
dei principi protestanti tedeschi, rappresenta una spina nel fianco per la politica
di Carlo V. Nei due decenni successivi l’alleanza fra la Lega e i sovrani francesi,
disposti a stringere accordi anche con infedeli ed eretici pur di infrangere il sogno
di potenza asburgico, costituisce un pericolo mortale per l’esistenza stessa del Sacro
romano impero. Carlo si impegna a fondo nello scontro, giungendo anche a un certo
punto a cogliere una vittoria militare che pare decisiva, a Mühlberg, nel 1547. Quattro
anni dopo, tuttavia, il rinsaldarsi dell’unione tra principi protestanti tedeschi
e corona francese ripropone il problema negli stessi termini e Carlo risulta incapace
di sconfiggere la coalizione dei suoi nemici, cui dà indirettamente man forte il sultano
ottomano.
Di fronte a tale situazione Carlo V si rende perfettamente conto dell’impossibilità
di realizzare nel corso della propria vita l’agognata egemonia continentale. Egli
immagina il proseguimento della missione imperiale affidando a un unico erede, il
figlio Filippo, l’insieme dei propri domini. Questa ipotesi, però, l’unica, a ben
vedere, che avrebbe consentito all’idea imperiale di riprendere vigore, grazie a un’indispensabile
stabilità dinastica, finisce per naufragare. Non è solo l’ostilità di Ferdinando d’Asburgo,
fratello di Carlo V, cui era stata promessa la successione al soglio imperiale, a
impedire tale soluzione, ma anche l’avversione dei principi tedeschi (sia cattolici
sia protestanti), che vedono di cattivo occhio un imperatore troppo potente.
Alla metà degli anni Cinquanta, l’evidente impossibilità di vincere i troppi conflitti
intrapresi convince Carlo V di trovarsi di fronte all’unico avversario contro cui
in nessun caso avrebbe potuto vincere; egli ritiene infatti che il mancato trionfo
su tutti i propri avversari sia diretta conseguenza della volontà divina. Questa convinzione
produce in lui prima un turbamento profondo e poi una vera e propria crisi spirituale
che lo conducono all’abdicazione e infine al ritiro in uno sperduto monastero spagnolo,
a Yuste. Nel giro di pochi anni, Carlo chiude tutte le partite aperte sul tavolo della
politica europea. Nel 1555, con la pace di Augusta, siglata dal fratello Ferdinando,
viene sancita la convivenza nell’impero del cattolicesimo e del luteranesimo. Nel
1555-56, attraverso un complesso meccanismo di successive abdicazioni, Carlo cede
al figlio Filippo i Paesi Bassi e la Franca Contea, le corone di Castiglia (con le
colonie americane) e d’Aragona, i domini italiani (Milano, Napoli, Sicilia), mentre
al fratello Ferdinando, già re di Boemia e d’Ungheria, Carlo attribuisce il governo
dell’Austria e quindi ne promuove l’elezione a imperatore, nel 1558, poco prima di
morire.
La decisione di Carlo di cedere a Filippo II i Paesi Bassi e gli altri domini asburgici
ereditati dalla casa di Borgogna risulta apparentemente incongrua, tanto più alla
luce del fatto che tale mossa avrà profonde ripercussioni sulla successiva storia
europea. Sia per ragioni logistiche (la maggior vicinanza agli altri possedimenti
asburgici in area tedesca), sia per logica dinastica (l’appartenenza a quello stesso
asse ereditario degli Asburgo attribuito a Ferdinando), i Paesi Bassi e la Franca
Contea sarebbero dovuti andare a quello che si viene configurando ormai come il ramo
«imperiale» o «austriaco» degli Asburgo. La scelta di assegnare tali domini al ramo
«spagnolo» è legata, oltre che a ragioni sentimentali – essendo la terra natia di
Carlo V e il cuore dell’eredità borgognona, culla della tradizione cavalleresco-imperiale
a lui tanto cara – al fatto che tali terre erano fra le più ricche ed economicamente
fiorenti del continente europeo. La cessione al figlio Filippo dei Paesi Bassi e degli
altri domini borgognoni testimonia l’attaccamento di Carlo, costretto ad arrendersi
di fronte al fallimento del suo sogno imperiale, a un ideale egemonico basato su una
potenza dinastica, che di quel sogno costituiva certamente la parte più concreta e
moderna.
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2. Ordini, ceti e forme della rappresentanza politica
Alle soglie dell’età moderna, nell’Europa cristiana, l’universo naturale è ritenuto
essere preordinato e predisposto da Dio per la salvezza dell’uomo. Ne discende che
anche il mondo sociale, sentito come parte integrante dell’universo, è visto come
un insieme che funziona, o dovrebbe funzionare, entro un disegno divino. Da qui la
tendenza a immaginare la società, analogamente agli organismi viventi, come organizzata
in parti che, gerarchicamente disposte, dipendono l’una dall’altra e hanno un preciso
ruolo nel creare l’equilibrio dell’insieme. Questo orientamento, che chiamiamo organicistico
e/o funzionalistico, ispira una divisione basilare della società in tre gruppi chiaramente
distinti fra loro: gli oratores, quelli che pregano, e cioè il clero; i bellatores, quelli che combattono, ovvero i guerrieri; i laboratores, quelli che lavorano, tutti gli altri. Queste tre funzioni sociali sono immaginate
come complementari e, al contempo, disposte gerarchicamente: il primato, la funzione
sociale più importante è attribuita al ruolo religioso. Coloro che sono il tramite
con la sfera del sacro vengono distinti dagli altri individui e costituiscono un gruppo
sociale separato – il clero – che si occupa di garantire all’intera comunità la benevolenza
della divinità e di schiudere a ciascun essere umano le porte di accesso alla vita
eterna. A causa della scelta della Chiesa di imporre al clero il voto di castità,
questo gruppo sociale di norma non si riproduce e i suoi membri vengono perciò selezionati
a ogni generazione tra membri degli altri ordini.
Il riconoscimento della primazia del clero come gruppo sociale distinto comporta importanti
conseguenze: gli uomini di Chiesa o ecclesiastici devono essere anzitutto nutriti
e curati a spese della società, ma, ciò che più conta, bisogna riservare loro le dignità
e gli onori sociali principali, in ragione di una funzione collettiva ritenuta decisiva.
Il clero è perciò nella società europea occidentale di antico regime il primo ordine
o primo stato.
Data la pervasività della visione cristiana nel mondo medievale e in quello della
prima età moderna, gli ecclesiastici non si limitano alla pur fondamentale cura delle
anime. Il clero secolare, vale a dire che vive nel secolo, inserito nella società
(formato da sacerdoti, parroci e vescovi inquadrati in diocesi) e quello regolare,
quello cioè che vive separato dal mondo in monasteri e conventi, seguendo una «regola»
(formato da monaci, frati e da tutto il multiforme mondo degli Ordini e delle Congregazioni
religiose) assolvono a importanti funzioni sociali. Oltre alla sfera sacra, basata
sull’amministrazione dei sacramenti e sulla predicazione, le diverse componenti ecclesiastiche
amministrano ingenti patrimoni, sono titolari di poteri pubblici, ovverosia governano
in prima persona città e territori (è il caso dei vescovi-principi nel Sacro romano
impero, ma anche dello Stato pontificio e di molte altre realtà minori), gestiscono
istituzioni educative, sanitarie e assistenziali, consigliano e guidano le coscienze
di politici e sovrani.
Quest’insieme di funzioni spiega perché il primo ordine o primo stato sia presente,
come vedremo, nelle principali istituzioni politiche rappresentative dei ceti proprie
del continente europeo (Parlamenti, Cortes, Stati generali).
A fianco del clero anche i guerrieri svolgono una funzione vitale, quella di proteggere,
mediante le armi, le vite e i beni di tutti. E, anche in questo caso, attorno a una
funzione sociale ritenuta decisiva si forgia e si legittima nell’Europa medievale
la costituzione di un gruppo ben individuato, una scelta che ha conseguenze decisive
sull’assetto sociale successivo. Come il clero, i guerrieri devono essere mantenuti
e anche ad essi vanno riservati particolari onori. Ma, diversamente dal clero, i guerrieri
sono un gruppo sociale che si riproduce, che perpetua non solo i propri beni e privilegi,
ma anche il ricordo delle proprie genealogie, fatte risalire, miticamente, ad antichi
progenitori, spesso appartenenti al ceppo dei conquistatori barbari. Il che frappone
una barriera, non invalicabile ma tangibile, tra loro e gli altri.
2.1. Nobili
Anche la nobiltà affianca ben presto al proprio originale ruolo militare compiti di
direzione politico-amministrativa. Si tratta in pratica di una delega da parte del
sovrano di funzioni di governo, politiche, amministrative e giudiziarie (giurisdizione).
Tale delega, prevalentemente connessa alla concessione di un titolo e di un feudo
abitato, finisce per divenire perpetua, costituendo perciò la base di un ordinamento
quasi separato e su cui il potere del sovrano si viene molto riducendo. Un feudo,
infatti, non è una proprietà privata, ma nel corso del Medioevo i nobili hanno acquisito
la facoltà di trasmetterlo in via ereditaria; inoltre la riconferma regia della concessione
tende a ridursi a un atto dovuto, mentre la confisca e il ritorno del feudo al patrimonio
della corona rimangono eventualità remote, possibili solo in caso di reati gravi quali
la lesa maestà, l’offesa alla persona del monarca, o la fellonia, il tradimento a
favore del nemico.
Inoltre, lentamente, si afferma nell’universo nobiliare una scala gerarchica che prende
le mosse dai titoli feudali concessi dai sovrani (principe, duca, marchese, conte,
barone ecc.). Questi titoli sono simili in tutta Europa perché derivano più o meno
direttamente dai nomi con cui la monarchia dei franchi, nel VII e VIII secolo, aveva
organizzato il suo nuovo dominio territoriale sulle basi della preesistente struttura
romana.
Occorre, però, tener presente che l’universo nobiliare non è stato mai completamente
a disposizione del potere dei re. Nell’esperienza europea, in altre parole, la legittimazione
di questo gruppo sociale, la sua forma e disposizione non sono stati sempre e del
tutto dipendenti dal volere dei sovrani. Certo, i re possono concedere titoli o anche
crearne di nuovi, elevare alcune famiglie nobili, ostacolare l’ascesa di altre. E
tuttavia tre fattori limitano la pretesa regia di disegnare a proprio piacimento la
scala delle dignità. In primo luogo, tra le più prestigiose famiglie nobiliari si
coltiva l’ideologia della comune discendenza dai conquistatori barbari. Questa ideologia
comporta l’idea di un sovrano commilitone, semplice primus inter pares, primo tra eguali, membro di un gruppo di guerrieri che originariamente avevano scelto
o eletto uno di loro per guidarne le azioni belliche. In secondo luogo la nobiltà
costruisce parametri della propria dignità, soprattutto l’antichità, che non coincidono
necessariamente con il grado nobiliare. Si è tanto più nobili, cioè, quanto più la
propria famiglia ha una discendenza nobiliare antica e acclarata, ovverosia riconosciuta
universalmente come tale. In terzo luogo, infine, la nobiltà nasce non solo dalla
concessione di un titolo, ma anche dall’esercizio concreto del potere signorile (delegato
formalmente o meno dal sovrano) e da processi di selezione delle famiglie più importanti
la cui ascesa sociale è cominciata nelle città. In realtà, cioè, che spesso sfuggono
al potere dei sovrani, perché assumono la forma di libere repubbliche o sono comunque
fortemente intrise di idee repubblicane di reggimento civico.
Per tutte queste ragioni l’ordine nobiliare non è stato nella società europea occidentale
un gruppo sociale chiuso e impermeabile. In Europa nobili non solo si nasce, ma anche
si diventa: in teoria attraverso lente pratiche sociali nobilitanti, come l’esercizio
di alte cariche politiche e amministrative ovvero attraverso il servizio della corona,
cioè quale ricompensa per attività meritevoli a favore del sovrano in campo militare
e/o civile; in pratica, la nobilitazione si raggiunge più frequentemente attraverso
la ricchezza. Soprattutto a partire dal XVI secolo, in ragione dell’enorme crescita
dei bisogni finanziari della macchina statale, i sovrani iniziano infatti a vendere
massicciamente titoli nobiliari, uffici e onorificenze che conferiscono lo status nobiliare (cfr. infra, cap. 10).
La ragione di questa rincorsa all’essere nobile è che la nobiltà non è soltanto un
gruppo sociale preminente, ma anche un linguaggio della distinzione, e cioè l’insieme
dei discorsi che esprimono (e permettono di pensare) la preminenza sociale. Discorsi,
perciò, attraverso cui si legittimano e si fissano i confini dell’élite sociale e si distingue chi è dentro e chi è fuori, chi ha accesso alle risorse materiali
e simboliche connesse a quella condizione e chi no. Discorsi, anche, che consentono
di discriminare tra coloro che sono nobili, modellando, attraverso un sistema di precedenze,
una scala gerarchica che permette di stabilire chi viene prima (simbolicamente, ma
anche fisicamente, nelle processioni religiose e nelle manifestazioni pubbliche) e
chi dopo, ovvero – utilizzando uno schema di derivazione cristiana che contrappone
il basso materiale all’elevato spirituale – chi sta più giù e chi più su nella scala
sociale.
2.2. Le corporazioni
Ogni città d’antico regime europea è popolata da una quantità di gruppi definiti rispetto
al lavoro che svolgono. Centrale è il ruolo sociale ed economico delle corporazioni,
che nascono e si sviluppano a partire dalla seconda metà dell’XI secolo e la cui parabola
si concluderà solo alla fine del XVIII secolo. Non tutti i lavoratori ne fanno parte:
esistono artigiani i quali, operando nelle aree rurali, non hanno alcun contatto con
esse. Le corporazioni hanno nomi diversi a seconda dei paesi o delle regioni: nella
penisola italiana si possono chiamare arti – termine più comune, in uso a Firenze
– oppure collegi, compagnie, corpi, matricole, scuole o università; nell’Europa centrale
Amt, Innung o Zuft; in Inghilterra craft o guild; in Francia métier o jurande. L’origine di tali associazioni è legata al desiderio degli artigiani o dei mercanti
di uno stesso settore produttivo di unirsi per difendere i rispettivi interessi. Ciò
significa anzitutto mantenere l’uguaglianza fra i membri della corporazione, impedendo
con statuti e regolamenti che qualcuno di essi diventi troppo ricco e potente a danno
degli altri iscritti. In secondo luogo, le corporazioni mirano ad acquisire di fatto
e possibilmente di diritto il monopolio nei diversi ambiti manifatturieri o commerciali
a danno dei concorrenti che non ne sono membri. Di conseguenza, nel corso del Medioevo,
le corporazioni divengono istituzioni in grado di controllare minutamente i rispettivi
settori di attività, stabilendo le regole cui ciascun artigiano deve attenersi nella
produzione e ciascun mercante nel commercio di un determinato manufatto, i prezzi
minimi e massimi delle merci, i salari da corrispondere ai lavoranti, l’orario che
essi devono rispettare e così via. All’interno delle città europee, generalmente,
le corporazioni vengono distinte in arti maggiori, che raggruppano i mestieri che
godono di maggior prestigio economico e sociale, e arti minori, che accolgono i mestieri
più umili. A partire dalla seconda metà del XIV secolo le corporazioni conoscono un
progressivo irrigidimento delle normative di accesso: s’incrina così il meccanismo
tradizionale di ricambio all’interno delle corporazioni con l’ingresso di nuovi membri;
gli apprendisti stentano a raggiungere il rango di maestri, in quanto privi del denaro
necessario ad avviare una propria bottega e per pagare le tasse sempre più elevate
per l’iscrizione alle corporazioni e sono quindi costretti a diventare semplici salariati.
La struttura interna delle associazioni corporative è di tipo rigidamente gerarchico.
All’apice di essa si trova la direzione collegiale composta dai maestri oppure, nel
caso dei mercanti, da coloro che vantano un’attività affermata e le maggiori entrate.
L’assemblea dei maestri elegge i capi della corporazione, rinnovabili generalmente
ogni uno o due anni, e fissa le regole cui ogni maestro deve attenersi nell’esercizio
della propria attività e nella formazione degli apprendisti. Coloro che governano
le corporazioni sono chiamati giurati nella Francia del Nord, consoli o baiuli nella
Francia del Sud, sindaci, abati o priori in Italia, Meister nelle regioni di lingua tedesca. Per verificare il rispetto delle norme emanate,
ciascun maestro ha la possibilità di ispezionare i luoghi di attività (laboratori,
botteghe, magazzini, banchi ecc.) degli altri membri della corporazione per verificare
l’osservanza delle normative: ad esempio, se le merci vengano prodotte in maniera
conforme alle disposizioni corporative oppure se gli apprendisti siano trattati bene
e gli insegnamenti relativi al mestiere vengano loro impartiti in modo corretto. Le
corporazioni sono spesso affiancate da organizzazioni religiose di laici, le confraternite,
che aiutano a costruirne e cementarne l’identità, ponendone i membri sotto la protezione
di uno specifico santo. A ciascuna corporazione è inoltre sovente legata una società
di mutuo soccorso. Ogni membro, infatti, versa una quota in un fondo comune destinato
ai momenti di bisogno o di malattia di un maestro o al sostentamento di vedove e orfani
degli iscritti. La cassa comune serve inoltre a finanziare attività caritatevoli o
di comune interesse e a coprire le spese giudiziarie in caso di controversie fra gli
associati.
Le corporazioni acquistano, in virtù del loro peso economico, sociale e politico all’interno
delle realtà urbane, un notevole grado di controllo sulle attività produttive e sul
mercato del lavoro: in molte realtà europee, esse esercitano, tramite propri tribunali,
la giurisdizione sulle controversie fra i loro membri e spesso decidono direttamente
– o sono in condizione d’influenzare le autorità cittadine – in tema di emigrazione
e immigrazione di manodopera, innovazioni tecnologiche e conservazione delle conoscenze
tecniche relative ai procedimenti produttivi.
Inoltre esse assumono spesso funzioni di difesa delle città dai pericoli esterni e
compiti di tutela dell’ordine pubblico o viceversa sono potenziali motori di rivolte.
Partecipano con un ruolo di spicco, a seconda della loro importanza, al complesso
sistema delle cerimonie cittadine, siano esse di natura secolare (come l’ingresso
di sovrani e principi) o religiosa (come le feste dei santi patroni e le principali
celebrazioni liturgiche). Esse in sostanza organizzano, distinguendola e gerarchizzandola,
una parte importante dello spazio sociale dei non nobili e dei non ecclesiastici.
2.3. Una società di ceti e privilegi
Alla funzione religiosa e militare corrispondono gruppi sociali separati, ciascuno
dei quali ha una propria scala sociale interna, una gerarchia, e che fanno riferimento
rispettivamente al potere religioso (il papa) e a quello politico (il monarca, sia
esso imperatore o re). A questi gruppi vengono perciò attribuiti specifici ruoli sociali,
un complesso di risorse simboliche e materiali e, come si vedrà, specifiche rappresentanze
nei massimi organismi politici.
Ma come si distinguono, tra loro e rispetto agli altri, la gran massa degli individui
delle società d’antico regime che non sono né ecclesiastici né nobili? È evidente
che il succitato schema tripartito non offre una descrizione della maggioranza della
popolazione, accomunata da una troppo generica funzione lavoratrice. Le persone che
compongono il cosiddetto «terzo stato» si differenziano perciò secondo il ceto di appartenenza. Il ceto è un gruppo sociale specifico, giuridicamente riconosciuto
e creato per svolgere un ruolo sociale particolare. In ordine crescente, dai meno
ai più prestigiosi, è possibile distinguere i vari gruppi artigianali, suddivisi in
corporazioni, e poi i titolari di professioni (avvocati, medici, notai), i titolari
degli uffici pubblici e infine i mercanti. Occorre sottolineare che solo attraverso
l’appartenenza a uno di questi gruppi istituzionalizzati (e cioè facendo parte di
un corpo collettivo, ad esempio la corporazione dei ciabattini) un individuo può praticare
legittimamente un mestiere e avere voce pubblica (ed esercitare così una qualche influenza
sulla vita della comunità). In altre parole, nelle società di antico regime, ciascuno
nasce alla vita collettiva in quanto entra a far parte di un corpo sociale che gode
di riconoscimento giuridico. Da quel momento in poi le qualità connesse a quel corpo,
dette privilegi, rivestono e proteggono anche l’individuo suo membro. Ciò che contraddistingue
i diritti dei corpi sociali (o più raramente anche delle famiglie) e li fa diversi
tra loro in una società in cui la legge non è uguale per tutti, ma è diversa per ciascuno
(a seconda dell’appartenenza sociale, del ceto), è il privilegio. Da questo punto
di vista, ovviamente, clero e nobiltà possono essere considerati come dei grandi ceti,
anzi sono i ceti privilegiati per eccellenza.
I privilegi sono, nelle società di antico regime, di diverso tipo. Esistono anzitutto
privilegi giurisdizionali, attinenti cioè alle caratteristiche, ai confini e ai limiti
di estensione dell’autorità giudiziaria, quali ad esempio il diritto a essere giudicati
in processi penali o civili con particolari, specifiche modalità. Vi sono perciò tribunali
speciali detti «fori», non solo per ecclesiastici e nobili, ma anche per soldati e
membri di corporazioni, ceti o gruppi particolari. Inoltre, siccome far parte di un
ceto significa godere anche dei privilegi della comunità cittadina, era tradizione
che ci si potesse valere del diritto di essere giudicati nella propria città da giudici
concittadini.
I privilegi hanno poi degli importanti risvolti economici. Se ecclesiastici e nobili,
in ragione dei propri rispettivi ruoli, vengono in tutt’Europa parzialmente o completamente
esentati dalla tassazione, vi sono anche città o specifici gruppi che hanno il privilegio
di non pagare un certo tipo di imposte o di godere di particolari beni. Quasi sempre
questo godimento rappresentava un monopolio, e cioè il diritto di usufruire di una
risorsa pubblica escludendone gli altri.
Ma soprattutto i privilegi contribuiscono a determinare il rango di un gruppo sociale,
e cioè la sua posizione sociale relativa, ovvero in rapporto agli altri gruppi. Per
questa ragione una parte importante della conflittualità dell’antico regime è originata
dalla tendenza dei ceti a difendere le proprie posizioni e preminenze, a sorvegliarne
i confini, controllando i nuovi accessi, a rivendicarne puntigliosamente le attribuzioni
(o a garantirsene di nuove) a scapito dei ceti concorrenti.
Questa conflittualità si estende ovviamente anche agli individui. È evidente che –
laddove la legge non è uguale per tutti, ma diversa a seconda dei ceti – tutte le
questioni di precedenza divengono cruciali. Non è in gioco infatti una mera infrazione
delle regole condivise, ma una profonda violazione dell’identità individuale e di
gruppo. Se, ad esempio, oggigiorno a un incrocio qualcuno alla guida di un’auto passa
con il semaforo che indica il rosso o senza dare la precedenza a destra, egli viola
il codice della strada e si rende responsabile di un comportamento scorretto, o forse
anche pericoloso, ma non direttamente insidioso nei confronti di coloro che ha disinvoltamente
superato. In antico regime, viceversa, il passare avanti con una carrozza senza cedere
il passo alla carrozza di un individuo appartenente a un ceto superiore rappresenta
un atto profondamente ostile: significa infatti mettere in dubbio la veridicità della
condizione sociale di chi è stato scavalcato e sfidare indirettamente la sua capacità
di difenderla.
Nell’ordine nobiliare, che coltiva la pratica delle armi e l’ideologia del proprio
ruolo militare, l’attenzione a tutte le questioni di precedenza è proverbiale e sfocia
non di rado nel duello, e cioè nel tentativo dell’offeso di ristabilire con il giudizio
delle armi un valore sociale, una posizione di precedenza messa in dubbio. Questo
perché l’appartenenza a un ceto sociale stabilita dalla legge o dalla consuetudine
deve accompagnarsi a una corrispondente reputazione, e cioè al necessario riconoscimento
sociale della giustezza della propria collocazione esistenziale in quella determinata
posizione. Il nobile infatti deve corrispondere in ogni suo atto a ciò che lui crede
essere l’essenza della condizione nobiliare. Come usa dire per indicare il condizionamento
di uno status sulle azioni di un individuo, noblesse oblige, espressione francese che significa che la nobiltà, l’essere nobili, obbliga.
Il linguaggio che esprime questo sottile gioco della reputazione è il linguaggio dell’onore.
Se per le donne esso si declina prevalentemente nel senso della virtù, ossia dei comportamenti
– specie sessuali – appropriati al proprio rango, al proprio livello sociale giuridicamente
definito, per gli uomini esso tende ad avere più chiaramente due distinte accezioni.
Da una parte, come per le donne, l’onore consente di delineare le virtù (in questo
caso virtù virili come la capacità di mantenere la propria famiglia o la bravura nel
proprio mestiere), mentre dall’altra esso permette di articolare il difficile gioco
sociale della precedenza e della reputazione.
Il processo di inflazione dei ranghi nobiliari, dovuto alla propensione dei sovrani
a monetizzare il desiderio dei propri sudditi di acquisire titoli, mettendo questi
ultimi, più o meno nascostamente, in vendita, tende ad accentuare questi problemi
ingolfando i ranghi superiori della società. Un conto è, infatti, essere uno dei dieci
o dodici duchi di un regno, un altro trovarsi insieme ad altri duecento pari grado.
Poiché il rango è determinato soprattutto dalla rarità della condizione privilegiata,
è necessario inventare, in quest’ultimo caso, ulteriori elementi che consentano alla
nobiltà più antica di distinguersi da quella di più recente investitura. A partire
dalla metà del XVI secolo, per questa ragione prendono ad avere un grande ruolo le
onorificenze, riconoscimenti che distinguono solo i più degni di essere onorati. Nell’Inghilterra
del primo Seicento, a causa della vendita di titoli nobiliari minori, quali quelli
di scudiero e cavaliere, è necessario creare un titolo nuovo, il baronetto, per soddisfare
la fame di distinzione dei folti ranghi della nobiltà minore.
Un’importante funzione viene svolta in questo senso dagli ordini militari e cavallereschi.
Sorti spesso nel Medioevo per combattere gli infedeli e svolgere le funzioni connesse
all’immagine del guerriero generoso e caritatevole – figura tipica della tradizione
cristiana – tali ordini, nel corso dell’età moderna, servono in pratica per venire
incontro alla richiesta sociale di distinzione, creando una sorta di aristocrazia
internazionale. Il più prestigioso tra essi è quello religioso-cavalleresco di San
Giovanni di Gerusalemme, fondato agli inizi del XII secolo in Terrasanta e quindi
stabilitosi a Rodi e, dal 1529, nell’isola di Malta, da cui il nome di Ordine di Malta.
Assai prestigioso è poi l’Ordine del Toson d’oro, istituito dal duca di Borgogna Filippo
il Buono nel 1430, il cui titolo di gran maestro passerà agli Asburgo dopo la morte
di Carlo il Temerario (cfr. supra, cap. 1). Di origine medievale sono anche i tre ricchi e potenti ordini militari
castigliani di Santiago, Calatrava e Alcántara, del cui controllo, alla fine del Quattrocento,
si impadroniscono i re cattolici. Nel corso del XVI e XVII secolo tutte le monarchie
europee si dotano di nuovi ordini militari e cavallereschi o utilizzano in maniera
massiccia quelli già esistenti per soddisfare le richieste di distinzione dei gruppi
aristocratici. Tipico è il caso dell’Ordine di Santo Stefano, istituito dal duca di
Toscana (1562), e di quello dei Santi Maurizio e Lazzaro, creato dal duca di Savoia
(1572).
Il ricorso a tale strumento si spiega con il fatto che l’aumento dei titoli nobiliari
finisce per creare problemi anche nelle fasce più esclusive della nobiltà. Nella Castiglia
cinque e seicentesca, ad esempio, la scala nobiliare culmina con la qualifica di grande. I cosiddetti grandes, oltre ad avere la precedenza nelle cerimonie pubbliche, godono del privilegio di
rimanere con il cappello in testa in presenza del re, laddove tutti gli altri devono
restare a capo scoperto in segno di sottomissione, ma soprattutto hanno il diritto
di essere trattati con familiarità dal sovrano, costretto ad esempio a rivolgersi
a loro per iscritto con l’appellativo di cugini e ad invitarli in varie occasioni
ad accedere a particolari momenti della sua vita privata (come i pasti). A seguito
però dell’inflazione del titolo di grande, che diviene relativamente comune, la più antica e reputata nobiltà richiede e ottiene
un’onorificenza che la distingua dall’aristocrazia più recente: proprio il titolo
di cavaliere del Toson d’oro, con la relativa esibizione della preziosa catena aurea
con medaglia, viene concesso con estrema parsimonia solo a coloro tra i grandes che meritano un trattamento speciale, un segno di distinzione da esibire nelle cerimonie
pubbliche.
2.4. Le forme della rappresentanza politica
Questa società che pensa se stessa come parte di un ordine dato, immutabile in quanto
divino, si rappresenta secondo forme prestabilite, che prevedono che un individuo
partecipi della vita politica non in quanto tale, cioè come persona, ma in quanto
parte di un ordine o ceto. Organismi sopraindividuali cioè, dotati di un riferimento
preciso all’ordine voluto da Dio, detentori di conseguenza di propri diritti e organizzati
autonomamente in funzione dei fini collettivi a cui sono naturalmente preposti. La
società politica nasce perciò dalla composizione di questi corpi sociali, immaginati
come gerarchicamente disposti, ma anche come funzionalmente legati l’uno all’altro
in modo da comporre un organismo unitario.
Nelle monarchie europee tali idee comportano la presenza, a fianco del sovrano, di
corpi rappresentativi più o meno ampi che si richiamano alla Magna Curia, l’assemblea
dei rappresentanti dell’antico regno franco. In tutte le principali monarchie europee,
medievali e poi moderne, il re è così affiancato da un’assemblea dei rappresentanti
del regno. Non si tratta però di un’assemblea elettiva, come avviene nelle moderne
democrazie, in quanto tale istituzione è composta da rappresentanze di ciascun ordine
e svolge un’importante funzione, quella del consiglio politico, e ha la rilevante
prerogativa di autorizzare l’imposizione di nuove tasse. Secondo un orientamento diffuso,
infatti, il sovrano decide su tutte le più importanti questioni (anzitutto la pace
e la guerra) solo dopo aver ascoltato il parere dei rappresentanti degli ordini del
regno.
In Inghilterra, in Scozia, a Napoli e in Sicilia questa assemblea si chiama Parlamento.
Nel caso inglese il Parlamento è diviso in due Camere: la Camera dei lord o dei pari
del regno (detta anche camera alta, non elettiva) dove siedono i signori cui il sovrano
ha concesso titoli di nobiltà e delegato la giurisdizione sulla popolazione dei feudi
loro assegnati, oltre a un certo numero dei vescovi e abati del regno. Nella Camera
dei comuni, invece, siedono i rappresentanti delle città e delle terre abitate non
infeudate. In Francia e nei Paesi Bassi questa assemblea, divisa in tre Stati di cui
fanno parte i rappresentanti dei tre ordini, si chiama «Stati generali». In Francia
tuttavia, oltre agli Stati generali, riuniti di rado, esistono alcune corti di giustizia,
chiamate Parlements, tra le quali la più importante è quella di Parigi, che ha il privilegio, tra l’altro,
di verificare la congruità degli editti regi alla tradizione giuridica del regno e
quindi di effettuare o negare la loro registrazione fra le leggi ufficiali. In Castiglia
viceversa le riunioni dei rappresentanti del regno, chiamate Cortes, non prevedono l’obbligo dei sovrani di convocare nobili e clero, di modo che esse
vedono la presenza dei soli procuratori delle città. Viceversa in Aragona, Catalogna
e Valencia le assemblee, dette Corts, sono organizzate secondo la tripartizione degli ordini in camere, dette bracci.
Nei territori del Sacro romano impero, infine, esiste un’assemblea cui spetta l’approvazione
delle leggi, il Reichstag (dieta), cui partecipano i sette principi elettori, numerosi prelati, principi e
signori di vario grado e i rappresentanti di 85 città imperiali.
In via generale, non si tratta di assemblee permanenti, bensì periodiche che si riuniscono,
a seconda dei casi, una volta all’anno o ogni tre-quattro anni, oppure anche solo
all’occorrenza. In queste riunioni le assemblee dei ceti o dei loro rappresentanti
hanno facoltà di presentare al sovrano richieste e rimostranze, mentre quest’ultimo
chiede di approvare l’imposizione di tributi, permanenti o temporanei, per le sempre
esauste casse della corona. Infatti molti monarchi europei possono aumentare le imposte
esistenti, ma sono obbligati a chiedere l’espresso consenso delle assemblee per imporre
nuove tasse sui consumi (indirette) e sulle proprietà (dirette) (cfr. infra, cap. 10).
A fronte di queste concessioni, formalmente gratuite e perciò dette spesso donativi, i rappresentanti chiedono al sovrano un contraccambio. Nel farlo ci si appella insistentemente
a due delle principali caratteristiche della sovranità. La prima è la munificenza,
ovverosia la capacità del sovrano di elargire titoli, pensioni, privilegi, riconoscimenti.
Il sovrano è infatti comunemente immaginato, a somiglianza di Dio, come generoso elargitore
di una grazia terrena, fatta di riconoscimenti materiali e simbolici, ai propri fedeli
servitori. La seconda caratteristica è la giustizia. Il sovrano è pensato, ancora
una volta a immagine di Dio, come il garante ultimo dell’equità, colui cui è demandato
il compito di restaurare un mondo turbato da atti iniqui, riportandolo al giusto equilibrio
insito nell’ordine divino delle cose. Poiché gli atti del sovrano o dei suoi ministri
e funzionari possono avere urtato i privilegi, le leggi e le consuetudini del regno
o di un suo ordine, o essere giudicati addirittura in contrasto con la legge divina
e con quella naturale, occorre che il monarca compia i debiti atti di riparazione,
restaurando l’ordine violato.
Spesso queste procedure comportano un defatigante lavorio di mediazione, un tira e
molla che fa sì che le sedute parlamentari si prolunghino nel tempo, durando talora
settimane o anche mesi. In alcuni casi, come ad esempio nei territori della corona
d’Aragona, il diritto di rimostranza per atti regi compiuti a detrimento dei privilegi
acquisiti (fueros) è particolarmente garantito e ciò rende le sedute assai difficili da gestire. Nel
caso del Parlamento inglese, poi, le attribuzioni dei rappresentanti del regno includono
il diritto a chiedere la modifica di decreti e a proporre specifiche normative, nonché
un potere giudiziario di ispezione e di giudicatura nei confronti di funzionari della
corona.
Non è dunque un caso se, a fronte di queste difficoltà di gestione delle assemblee
rappresentative, i sovrani tendano a convocarle il meno possibile e solo in caso di
necessità. Vedremo come una delle tendenze delle «nuove monarchie» sarà quella di
tentare di fare a meno dei Parlamenti, cercando altrove i mezzi finanziari necessari
alla loro politica.
2.5. I due corpi del re
Durante le riunioni delle assemblee rappresentative degli Stati monarchici, il sovrano
usa stare seduto sul trono, una sedia riccamente addobbata che denota, anche per la
sua posizione soprelevata (per lo più poggiata su una pedana o su un palco), la superiorità
di chi è legittimato a sedervisi, di chi cioè viene a rivestire il ruolo sovrano nell’ambito
di una dinastia (una successione di padre in figlio di individui della stessa famiglia)
designata da Dio al governo del regno. Sul trono il sovrano riceve, seduto e a capo
coperto, le richieste, i consigli o le proposte di coloro che sono ammessi al colloquio,
in piedi e a capo scoperto. Ma anche in assenza del sovrano, il trono rimane presente,
vuoto, a testimoniare la continuata presenza della monarchia.
Come l’uso di questo simbolo dimostra, i sovrani dell’Europa di antico regime tendono
a legittimare il proprio potere attraverso l’idea che sia Dio a volere che un determinato
esponente di una precisa famiglia regnante governi, così come avevano fatto i suoi
predecessori e così come avrebbero fatto i successori. Ne deriva la tendenza delle
monarchie a fare della persona del re l’immagine del potere pubblico, e anzi l’incarnazione
della respublica, cioè della cosa pubblica; al contrario delle repubbliche, nelle quali il potere
non appartiene a persone determinate, ma a cariche pubbliche che possono essere ricoperte
da diversi individui.
La tendenza all’innalzamento sacrale della dinastia regnante ha un preciso scopo.
Si tratta di allontanare lo spettro della monarchia elettiva, e cioè di un sovrano
eletto dai nobili e magnati, o comunque dai rappresentanti del regno, un modello che
conta remoti precedenti nella tradizione delle tribù germaniche, ma che è presente
nei sistemi elettivi dell’imperatore e del papa. La monarchia elettiva, pur sporadicamente,
fa la sua comparsa in Europa, ad esempio nel regno di Polonia, dove viene ristabilita
dal 1572.
La costruzione di una legittimità dinastica, sottratta all’alea dell’elezione e stabilmente
fissata, è così al centro dell’affermazione della monarchia. Il regno di un sovrano
viene inteso come parte di una più ampia missione, quella di una dinastia cui Dio
ha affidato le sorti di un regno per il benessere dei sudditi e la difesa della fede.
Contribuisce a ciò una concezione della sovranità ammantata di tratti soprannaturali,
di cui il segno forse più vistoso è la credenza, diffusa in epoca medievale e nei
primi secoli dell’età moderna, che i re di Francia e Inghilterra fossero addirittura
in grado di guarire con il tocco magico della loro mano una diffusa malattia infettiva,
la scrofola.
È parte integrante di questo processo di legittimazione sacrale una teoria della monarchia,
studiata dallo storico tedesco Ernst H. Kantorowicz, che prevede una sorta di sdoppiamento
della figura del sovrano, che finisce, a imitazione delle due nature di Cristo, umana
e divina, per avere anch’egli due corpi. Da una parte vi è la persona del re, il suo
corpo fisico e mortale, caduco e destinato a perire; dall’altra, vi è la figura del
re che incarna simbolicamente un corpo immateriale, politico e spirituale, che si
estende ad abbracciare il suo regno e che non muore né può morire mai. Esso rappresenta
l’eternità del potere monarchico, indipendentemente dalle vicende terrene dei singoli
sovrani regnanti. Al re in carne e ossa si affianca così il corpo spirituale o «mistico»
del sovrano che, come figura della monarchia, perde le sue caratteristiche di finitezza
umana per ascendere a una funzione semidivina di garante dell’ordine terreno. Quel
che più conta è che questo secondo corpo abbraccia e raccoglie in sé la comunità politica
e offre ad essa un principio di unità e un sentimento di continuità e identità.
Bibliografia
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3. La scoperta dell’America e gli imperi coloniali
3.1. Commerci extraeuropei, rotte atlantiche e tecniche della navigazione
Nel corso del XV secolo, l’intensificarsi dei traffici fra i maggiori centri mercantili
del tempo, Venezia e Genova, e i porti dell’Europa settentrionale, favorisce lo sviluppo
di alcune città iberiche affacciate sull’Oceano Atlantico. In particolare, Cadice
e Lisbona rappresentano gli scali ideali per una fiorente navigazione di tipo costiero:
le navi genovesi o veneziane, adatte a solcare il più tranquillo Mar Mediterraneo,
seguono infatti le rotte prossime alle coste atlantiche della penisola iberica e della
Francia per raggiungere Londra, Bruges e Anversa. Durante il Trecento e il Quattrocento
non sono però solo i vascelli di Venezia e Genova a percorrere le rotte atlantiche.
Infatti, sin dal XII secolo, i mercanti portoghesi si sono inseriti nelle correnti
di traffico fra Mediterraneo e Atlantico esportando vini, olio e sale e importando
tessuti, metalli vili e preziosi, cereali e corallo. Molto attivi nei traffici con
l’Europa settentrionale sono anche i gruppi mercantili catalani: Barcellona è un importante
snodo commerciale del Mediterraneo occidentale, nonché la capitale di un regno, quello
d’Aragona, che nel XV secolo ha assunto il controllo della Sardegna, della Sicilia
e di Napoli.
I traffici sempre più intensi fra l’area mediterranea e quella atlantica del continente
europeo ripercorrono, in maniera inconsapevole, il cammino delle esplorazioni che
catalani e genovesi hanno condotto nell’Oceano Atlantico nel corso del XIII e XIV
secolo. Costoro hanno infatti cercato senza successo la via per circumnavigare l’Africa,
allo scopo di aggirare il Levante dove il commercio delle spezie è in mano agli intermediari
veneziani ed è reso spesso difficoltoso dalle tensioni politiche fra i diversi regni
musulmani. Un altro monopolio, questa volta dei mercanti arabi dell’Africa settentrionale,
che gli esploratori trecenteschi tentano di spezzare è quello dell’oro. Per tutta
l’età medievale, infatti, le modeste quantità di questo metallo prezioso che circolano
nel continente europeo provengono dalle miniere del Senegal e del Niger. I sovrani
di queste terre ne fanno, infatti, oggetto di scambio, insieme agli schiavi, con tessuti
e sale portato dai mercanti arabi del Nord Africa; sono questi ultimi a immettere
l’oro nei circuiti commerciali del Mediterraneo e dell’Europa.
In tale contesto, tra il 1336 e il 1341, due navigatori genovesi al servizio della
corona portoghese hanno scoperto le Canarie, un arcipelago a circa 160 chilometri
a largo della costa africana, abitato da una popolazione indigena. La scoperta non
dà, però, luogo ad alcuna forma d’insediamento, a causa delle drammatiche vicende
della peste nera di metà Trecento. Solo nel 1403 una spedizione castigliana occupa
le Canarie: una volta sterminati gli indigeni, verrà impiantata nell’isola la coltivazione
della canna da zucchero.
Una questione assai rilevante è quella dello sviluppo delle tecniche navali e degli
strumenti di navigazione. Per solcare il Mediterraneo lungo le linee costiere le imbarcazioni
utilizzano più i remi che le vele. Nel Quattrocento, l’introduzione di innovazioni
provenienti dall’Europa settentrionale, quali la velatura composta (ossia formata
da più di un albero e di una vela) e il timone unico dritto di poppa al posto del
tradizionale remo, rendono più manovrabili e meglio governabili le imbarcazioni più
diffuse a quel tempo: la galera mediterranea, una nave lunga in media circa 40 metri,
larga 5 o 6, con limitate capacità di carico (circa 100 tonnellate), mossa soprattutto
dall’azione dei remi, e la nave tonda settentrionale, lunga dai 23 ai 27 metri, larga
circa 10, dotata di alberi e vele, che può trasportare grandi carichi. I navigatori
genovesi sono fra i primi a rendersi conto che, per affrontare con pesanti carichi
di mercanzie le onde dell’Atlantico, seppure lungo le rotte costiere, occorre disporre
di navi di grande stazza in grado di navigare in maniera sicura. Ecco quindi come,
nella seconda metà del XV secolo, grazie all’innesto degli elementi indispensabili
alla navigazione costiera atlantica sulle navi mediterranee viene superata la tradizionale
distinzione fra galera e nave tonda e viene concepito un nuovo tipo di imbarcazione,
fornita di un complesso sistema di vele, armata di cannoni per difendersi dalle aggressioni
dei pirati e dotata di grandi capacità di carico. Appartengono a questo nuova tipologia
navale la caracca e la caravella, entrambe imbarcazioni a tre alberi, nonché il galeone,
una grande nave a quattro alberi.
Contribuiscono infine allo sviluppo della navigazione e delle esplorazioni atlantiche
la diffusione di strumenti quali la bussola dotata di un ago magnetico che indica,
insieme alla stella polare, il Nord e il perfezionamento, fra XIV e XV secolo, dell’astrolabio
– conosciuto sin dall’antichità –, che serve a misurare l’altezza della stella polare
o del sole rispetto all’orizzonte. La triangolazione effettuata rispetto al punto
in cui si trova la nave consente ai navigatori di stabilire la latitudine in cui si
trovano. Tutte queste innovazioni creano peraltro non poche difficoltà: ad esempio,
la bussola indica il Nord magnetico e non quello geografico, di modo che sono necessari
attenti calcoli per correggere tale discrepanza. In sostanza la pratica della navigazione
atlantica pone ai naviganti, siano essi esploratori, mercanti o pescatori, il problema
di abbandonare le stime delle distanze basate sull’esperienza a favore di calcoli
e misurazioni. O, per meglio dire, di passare dalle approssimazioni all’uso della
geometria, dell’algebra e dell’astronomia per calcolare posizione e rotta delle navi.
Anche lo sviluppo della cartografia riveste un ruolo di primo piano. Questa è infatti
l’epoca dei portolani, rudimentali mappe che descrivono le coste mediterranee, del
tutto prive delle caratteristiche di attendibilità e precisione scientifica delle
carte nautiche odierne, ma pur sempre in grado di fornire utili notizie ai naviganti.
L’avvio delle esplorazioni atlantiche produce una vera e propria domanda di rappresentazioni
efficaci di terre e rotte. Sono la riscoperta e la traduzione latina, nel 1409 (cui
farà seguito l’edizione a stampa nel 1479), di un testo di età ellenistica fino ad
allora ignoto, la Geografia, opera dell’astronomo e geografo Tolomeo di Alessandria (110-160 d.C.), a fornire
nuovi e preziosi elementi alla nascente scienza della cartografia. A Firenze, nel
clima culturale di un Umanesimo che guarda con particolare attenzione alla cultura
greca ed ellenistica, il matematico, astronomo e geografo Paolo dal Pozzo Toscanelli
(1397-1482), sulla scorta dell’opera di Tolomeo, elabora una carta nautica che invia
al re del Portogallo con una lettera in cui spiega il percorso più breve da seguire
per giungere alle favolose Indie, come vengono definiti i territori dell’Estremo Oriente
da cui provengono le spezie. Questo testo sarà in seguito inserito nell’opera storica
di un altro umanista, la Historia rerum ubique gestarum di Enea Silvio Piccolomini (in seguito papa Pio II), sulla quale il navigatore genovese
Cristoforo Colombo (1451-1506) formerà le sue conoscenze geografiche.
3.2. Alla conquista dell’Oriente: il Portogallo fra Quattro e Cinquecento
In Portogallo, la crisi demografica causata dalla peste nera e dalle guerre civili
della seconda metà del Trecento ha consentito l’ascesa sociale dei ceti mercantili
a danno dell’aristocrazia feudale. La stessa nuova dinastia regnante, quella degli
Aviz, si mostra particolarmente sensibile alla tutela degli interessi dei gruppi mercantili
che l’hanno sostenuta. In particolare, il principe Enrico (1394-1460) – detto in seguito
il Navigatore – promuove attività commerciali ed esplorazioni, nelle quali investe
il proprio denaro. Spirito di crociata contro i musulmani e interessi economici si
mescolano in maniera inestricabile nella politica degli Aviz: nel 1415, le forze lusitane
occupano Ceuta, in Africa settentrionale, di fronte a Gibilterra. Inoltre i portoghesi
avviano, rispettivamente nel 1419 e nel 1427, la colonizzazione di Madera e Porto
Santo, a circa 500 chilometri dalla costa del Marocco, e delle isole Azzorre (in pieno
Atlantico, a circa 1.800 chilometri da Lisbona). A Madera i colonizzatori europei
introducono la coltivazione della canna da zucchero e la produzione di vino dolce.
Lo stesso principe Enrico impianta a Madera uno zuccherificio e, nel 1456, le esportazioni
dall’isola arrivano a ben 87.000 chilogrammi di zucchero. A quell’epoca, lo zucchero
è considerato una spezia esotica e quindi preziosa: viene importato in Europa dal
Levante e gli unici europei a possedere piantagioni di canna da zucchero sono i veneziani
(nelle isole di Creta e Cipro). Il clima delle Azzorre risulta però poco propizio
a tale coltivazione, spingendo i colonizzatori portoghesi a concentrarsi sul grano
e sul guado, una pianta da cui viene estratto un colorante naturale utilizzato nella
produzione tessile.
L’intensa attività di esplorazione delle coste dell’Africa occidentale svolta dai
portoghesi è legata alla necessità di approvvigionarsi di oro e, soprattutto, di schiavi
africani per le piantagioni di canna da zucchero di Madera e delle Azzorre, evitando
la mediazione dei trafficanti arabi. Nel 1445 le navi portoghesi approdano alle isole
di Capo Verde e quindi si spingono sempre più a sud in Sierra Leone (1460) e nel golfo
di Guinea (a partire dal 1469). Qui, nel 1482, viene costruita la stazione commerciale
fortificata di São Jorge de Mina, dalla quale i mercanti lusitani possono attingere
al mercato dell’oro del Sudan e della Costa d’oro. Comincia allora a maturare l’idea
di raggiungere le Indie aggirando via mare il continente africano, del quale, peraltro,
non sono note le reali dimensioni.
Le esplorazioni geografiche fra Quattro e Cinquecento
Nel corso delle loro spedizioni lungo la costa dell’Africa, i portoghesi fondano basi
commerciali costiere che rappresentano allo stesso tempo indispensabili punti di rifornimento
di cibo e acqua per le navi ormai troppo lontane dalla madrepatria. Inoltre le difficoltà
del ritorno in Europa, ostacolato dai venti contrari e dalle bonacce stagionali, costringono
i navigatori lusitani a esplorare nuove rotte, allontanandosi dalle coste africane
verso l’alto mare. Essi infatti si rendono ben presto conto che, per viaggiare agevolmente
alla volta del Portogallo, le navi devono sfruttare venti e correnti diversi da quelli
utilizzati all’andata, compiendo un’ampia svolta in direzione nord-nord-est. Vengono
così inaugurate le due rotte che permettono di raggiungere con relativa facilità le
coste atlantiche dell’Europa dall’Africa occidentale: la volta da Guiné e quella da Mina, in uso rispettivamente a partire dal 1443 e dal 1471.
Le esperienze accumulate nel corso delle esplorazioni delle coste africane e delle
prime navigazioni in alto mare consentono alla marineria lusitana di raccogliere preziose
informazioni nautiche e geografiche. Ciò rende possibile il progetto di circumnavigazione
dell’Africa per arrivare alle Indie al fine di impadronirsi del commercio delle spezie
(pepe, cannella, chiodi di garofano ecc.). Alla fine del 1487, la punta estrema del
continente africano viene doppiata da una spedizione guidata da Bartolomeo Díaz, il
quale la battezza Capo di Buona Speranza. Ci vogliono però dieci anni prima che, nel
luglio 1497, un altro portoghese, Vasco da Gama, parta da Lisbona con una flotta di
quattro navi, riesca a circumnavigare buona parte dell’Africa e ad attraversare l’Oceano
Indiano, approdando infine a Calicut (nell’odierna India) nel maggio 1498.
La scoperta della nuova rotta per l’India pone però non pochi problemi. Infatti Calicut,
così come gli altri territori di quest’area, dai quali partono i carichi di spezie
– contrariamente alle leggende europee del tempo –, è abitata da popolazioni di religione
musulmana. Inoltre il commercio delle spezie è saldamente in mano ai mercanti arabi,
che le trasportano via mare fino ai porti del Golfo Persico o del Mar Rosso, da dove
giungono – attraverso itinerari terrestri – nel Mediterraneo orientale. Viene quindi
a cadere l’illusione dei portoghesi di saltare l’intermediazione dei mercanti «infedeli».
In secondo luogo, l’intera area compresa fra l’Oceano Indiano, il Golfo Persico e
il Mar Rosso è un vero e proprio crocevia di commerci e civiltà, antiche quanto quelle
mediterranee. Qui, a differenza che in Africa, i portoghesi hanno molto poco da offrire
in cambio del prezioso pepe e delle altre spezie, soprattutto stoffe, miele, zucchero
e corallo. Il solo mezzo di pagamento accettato dai mercanti orientali – a parte il
corallo, assai ricercato in Asia – è l’argento.
L’atteggiamento portoghese diventa quindi da subito aggressivo, al fine di imporre
prezzi bassi alle spezie ai produttori indiani. Per riuscire a battere il sovrano
di Calicut, essi mettono in pratica una tecnica cui i conquistatori europei faranno
spesso ricorso in seguito: approfittano dei contrasti politici ed economici esistenti
fra i principi della zona. Pertanto nel 1500 riescono a insediarsi a Cochin, città
rivale di Calicut, dalla quale intraprendono il commercio delle spezie con l’Occidente.
Nel 1502 arriva una nuova spedizione lusitana formata da 14 navi armate di cannoni,
le quali bombardano Calicut e ne obbligano il sovrano ad aprire le porte agli scambi
con il Portogallo. Nel 1504 la corona portoghese pone termine alla fase di piena libertà
di commercio delle spezie, decretando che queste ultime debbano essere obbligatoriamente
ammassate presso la Casa da Mina di Lisbona, la quale provvede a rivenderle a un prezzo
prestabilito.
A partire dal 1505 i portoghesi creano una serie di stazioni commerciali fra le coste
dell’Africa orientale e quelle dell’India occidentale, volte ad assicurare il controllo
delle rotte commerciali dell’Oceano Indiano. L’ideatore di questo sistema è il viceré
Francisco de Almeida – il primo rappresentante della corona portoghese nelle Indie
–, il quale considera un’impresa inutile e costosa qualunque occupazione territoriale
diretta delle aree interne e privilegia l’installazione di basi fortificate in corrispondenza
delle città costiere di maggiore utilità, che pagano solo un tributo al Portogallo,
ma mantengono governi relativamente autonomi.
I portoghesi cercano inoltre di bloccare le vie tradizionali del commercio delle spezie
che attraverso il Mar Rosso e il Golfo Persico conducono al Levante mediterraneo.
Non si fa attendere la reazione militare del sultanato d’Egitto, che interviene per
tutelare gli interessi dei mercanti arabi gravemente colpiti da tale politica. Dietro
gli egiziani vi è peraltro la mano della repubblica di Venezia, i cui interessi sono
ugualmente in pericolo a causa della pressione militare portoghese. La strategia aggressiva
del nuovo viceré Alfonso de Albuquerque coglie importanti successi con la vittoria
sulla flotta egiziana a Diu nel febbraio 1509 e la conquista di Hormuz (1515), porto
di enorme rilevanza strategica per il controllo dei traffici del Golfo Persico.
Il progressivo insediamento di basi lusitane nei gangli principali delle rotte dell’Oceano
Indiano fa parte di una strategia economica e militare che mira a imporre con la forza
una sorta di monopolio portoghese nel commercio delle spezie. A differenza di quello
veneziano, basato sulla vendita a prezzi assai elevati, il sistema creato dai portoghesi
fa di Lisbona il maggior emporio europeo per le spezie (in primo luogo il pepe), vendute
a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati sulla piazza di Venezia. Infatti essi,
da una parte, impongono bassi prezzi ai venditori asiatici e, dall’altra, eliminando
l’intermediazione araba e veneziana, nonché le imposizioni fiscali che gravano sulle
merci nel loro itinerario fra l’India e il Levante mediterraneo, riescono a vendere
in Europa a prezzi competitivi che consentono comunque ottimi margini di profitto:
ad esempio, nel 1504, 100 libbre di pepe costano sul mercato del Cairo 192 ducati,
mentre su quello di Lisbona solo 20.
La rete delle basi lusitane viene irrobustita dal viceré Albuquerque, che stabilisce
nella città di Goa (1510), al centro della costa occidentale dell’India, il principale
snodo mercantile e amministrativo portoghese in India, cui si aggiunge l’importante
porto di Malacca, cerniera dei traffici fra l’Oceano Indiano e il Mar della Cina.
Goa diventa il cuore dell’impero commerciale portoghese, che si amplia ulteriormente
con la creazione di un insediamento a Macao, sulla costa meridionale della Cina, nel
1557. Nella città indiana risiedono il viceré, massima autorità civile e militare,
e il vedor da fazenda, addetto a sorvegliare le merci e i traffici, nonché preposto all’arsenale navale,
alla zecca e ai magazzini del pepe. Inoltre, a partire dal 1506, le spezie vengono
sottoposte al monopolio reale: è la corona che, da allora sino al 1570, si assume
l’onere di acquistare le spezie in Asia e di rivenderle in Europa, con i relativi
enormi profitti, attraverso la Casa da India – come viene ribattezzata la Casa da
Mina – e i propri rappresentanti ad Anversa, la maggiore piazza commerciale europea
d’inizio Cinquecento. La corona si riserva infine il monopolio dell’esportazione verso
l’India dell’argento e del corallo.
Ciononostante, la strategia dei viceré portoghesi d’impedire con la forza il commercio
lungo le vie che conducono al Mediterraneo orientale si rivela vincente solo per un
breve periodo. Infatti nei primi due decenni del Cinquecento la conquista di Siria
ed Egitto da parte dei forti eserciti della popolazione turca detta degli ottomani
comporta una ripresa dello sforzo militare per riaprire la via del Mar Rosso. L’alleanza
del nascente impero ottomano con Venezia è un dato di fatto che, a partire dal 1520,
rende sempre più problematico per i portoghesi il blocco delle rotte tradizionali
delle spezie. Senza contare l’esistenza di un fiorente contrabbando di spezie, la
corona lusitana, nel quadro dell’alleanza con la Persia in funzione anti-ottomana,
è costretta a rinunciare al controllo del Golfo Persico e a consentire la ripresa
dei traffici con l’India. Ciò spiega perché il flusso delle spezie dall’Oceano Indiano
al Levante raggiunga negli anni centrali del XVI secolo livelli mai conosciuti prima:
fra il 1554 e il 1564, ad esempio, arriva ad Alessandria dal Mar Rosso un flusso di
pepe calcolato in ben 30-40.000 quintali annui.
3.3. Scoperta e sfruttamento delle risorse del Nuovo Mondo
Negli ultimi anni del Quattrocento, mentre le navi portoghesi costeggiano l’Africa
per raggiungere l’Oceano Indiano, la corona di Castiglia promuove una spedizione nell’Oceano
Atlantico di enorme portata storica. Dopo che il trattato di Alcáçovas (1479) ha sancito
il riconoscimento della sovranità castigliana sulle Canarie e di quella lusitana sulle
altre isole atlantiche e sulle coste dell’Africa occidentale, la Castiglia ha portato
a termine la reconquista della penisola iberica (1492). In questo contesto, il genovese Cristoforo Colombo
propone alla regina Isabella di Castiglia di organizzare e di finanziare una spedizione
navale, che deve arrivare al Catai – ossia la Cina, terra favolosa, ricca di spezie
e sete preziosissime – navigando verso occidente, basandosi sulla convinzione della
sfericità della terra. Il progetto di Colombo è stato peraltro già bocciato, in quanto
irrealizzabile e troppo dispendioso, dal re del Portogallo, tanto più che questi ha
impegnato le sue risorse nel sostenere la circumnavigazione dell’Africa. Un identico
parere viene espresso dai consiglieri della regina Isabella. Alla fine, però, Colombo
ottiene il denaro necessario a equipaggiare tre caravelle, in parte dalla corona castigliana
e in parte dai mercanti genovesi che hanno già finanziato la conquista e la colonizzazione
delle Canarie.
Il 12 ottobre 1492 le tre navi, dopo oltre due mesi di navigazione, approdano sulla
terraferma: si tratta di un’isola delle attuali Bahamas, alla quale Colombo dà il
nome di San Salvador, prendendone possesso a nome della corona castigliana. Quindi
la spedizione tocca Cuba ed Española (Santo Domingo). Il genovese è convinto – e lo
resterà fino alla morte – di avere raggiunto non una terra sconosciuta, ma le propaggini
di Cipango, come è chiamato a quel tempo il Giappone. Poiché infatti scopo primario
della sua impresa è l’apertura di una nuova via per i traffici con l’opulento Oriente,
è comprensibile come Colombo cerchi di sovrapporre alla nuova realtà «scoperta» le
poche notizie, spesso leggendarie, disponibili su Catai e Cipango.
Con il rientro di Colombo in Spagna, nel 1493, si apre la fase delle esplorazioni
delle terre a occidente dell’Oceano Atlantico. Sin dall’inizio, la scoperta delle
nuove rotte atlantiche pone alla corona portoghese e a quella castigliana il problema
della delimitazione dei rispettivi diritti. L’espansione della fede cristiana rappresenta
per entrambe la motivazione ufficiale e, per così dire, propagandistica delle spedizioni
alla ricerca di una via diretta per l’Estremo Oriente. Di qui il ricorso al pontefice,
somma autorità spirituale e al contempo giuridica della cristianità, perché elimini
ogni ragione di contesa tra i sovrani di Castiglia e Portogallo. Nel 1493, papa Alessandro
VI emette tre bolle in cui stabilisce una linea di demarcazione corrispondente a un
meridiano a 100 leghe di distanza (circa 330 miglia nautiche) dalle isole Azzorre.
Tutte le terre conquistate e scoperte che si trovano a ovest di tale linea vengono
attribuite alla corona di Castiglia e quelle a est ai sovrani del Portogallo. Tale
pronunciamento non è però ritenuto soddisfacente dalle due parti che, con il trattato
di Tordesillas (giugno 1494), si accordano per spostare la linea di spartizione a
370 leghe dalle isole di Capo Verde. Con questo atto, le due corone si arrogano in
pratica il diritto di sovranità su buona parte della terra, incuranti del fatto che
i territori in questione siano abitati da altre popolazioni. Effetto inaspettato del
trattato di Tordesillas è l’attribuzione dell’odierno Brasile alla corona lusitana.
Infatti nel 1500, effettuando un’ampia manovra verso ovest per raggiungere l’Africa
meridionale, una flotta portoghese al comando di Pedro Álvares Cabral viene spinta
dai venti sulle coste brasiliane e prende possesso del territorio a nome della corona
lusitana.
Solo con il viaggio compiuto dal fiorentino Amerigo Vespucci, nel 1501, prende corpo
l’idea che le terre scoperte da Colombo non facciano parte dell’Asia, ma siano un
vero e proprio Nuovo Mondo. Una volta assodato che si tratta di un nuovo continente,
i navigatori al servizio della corona castigliana riprendono la ricerca di una rotta
per l’Oriente. È Ferdinando Magellano, un portoghese al servizio dell’imperatore Carlo
V, a cimentarsi con la circumnavigazione dell’America: nel 1519 Magellano salpa da
Siviglia e, superato lo stretto che da lui prenderà il nome, giunge due anni dopo
nell’arcipelago che sarà in seguito battezzato Filippine. L’impresa di Magellano è
però coronata solo parzialmente da successo, non solo per la durata e l’alto costo
del viaggio in termini di vite umane e navi – fanno ritorno solo il 10% degli uomini
e una sola nave –, ma anche perché, ad eccezione delle Filippine, buona parte dei
territori asiatici, ivi compresi le isole Molucche, grandi produttrici di spezie,
rientrano, in base al trattato di Tordesillas, nella sfera d’influenza portoghese.
Nel frattempo la corona castigliana autorizza lo sfruttamento delle nuove terre americane:
le isole di Santo Domingo e Cuba si riempiono di alcune migliaia di soldati, nobili
decaduti e avventurieri spinti dalla brama di oro. Gli indigeni vengono presto obbligati
a cercare le pagliuzze di metallo prezioso presenti nei fiumi e sono sottoposti a
uno sfruttamento disumano. Lo sfruttamento e le malattie (come il vaiolo e il morbillo),
sconosciute nel Nuovo Mondo e giunte con gli europei, provocano il crollo della popolazione
di Santo Domingo da circa 600.000 persone nel 1492 a 27.000 del 1514, fino a 10.000
del 1530. Il ciclo delle risorse aurifere delle Antille si esaurisce negli anni 1513-18
e di conseguenza i castigliani avviano la coltivazione della canna da zucchero, sull’esempio
delle Canarie. Anche le piantagioni necessitano però di molta manodopera e, vista
la progressiva estinzione delle popolazioni autoctone, i dominatori cominciano ad
acquistare schiavi negri dai mercanti portoghesi che controllano i traffici del golfo
di Guinea. Si tratta comunque di un commercio di alcune centinaia di schiavi all’anno,
che raggiungerà le dimensioni di una vera e propria tratta solo nel XVII e, soprattutto,
nel XVIII secolo (cfr. infra, cap. 20).
La ricerca dell’oro è la molla per l’ulteriore espansione castigliana sul continente
americano. Mentre in Asia i portoghesi hanno incontrato civiltà con cui l’Europa ha
rapporti da secoli, nel Nuovo Mondo i castigliani entrano in contatto con civiltà
del tutto ignote, assai diverse fra loro per livelli di sviluppo. In alcune zone le
popolazioni indigene vivono organizzate in tribù, praticando la caccia e la pesca,
nonché la coltivazione del mais – un cereale sconosciuto nel continente europeo –,
che richiede assai meno cure del grano e fornisce rese assai maggiori. In altre e
vaste zone del Nuovo Mondo sono presenti società assai evolute sotto il profilo dell’organizzazione
politica, comprendenti popolazioni così diverse da poter essere definite imperi dagli
europei. Tuttavia gli imperi azteco e incaico non dispongono di una tecnologia sufficiente
a resistere all’urto con la civiltà europea. Le armi da fuoco – unite a notevoli dosi
di spregiudicatezza e crudeltà – danno ai conquistadores castigliani una superiorità schiacciante. Nel 1519, una spedizione di alcune centinaia
di uomini, guidata da Hernán Cortés, sbarca in quello che verrà ribattezzato Messico
e riesce ad abbattere l’impero azteco nel giro di due anni. Allo stesso modo, nel
1532, Francisco Pizarro distrugge l’impero degli Incas, nell’attuale Perù, anche se
solo nel 1548 la conquista di quest’area dell’America meridionale può dirsi conclusa.
Tanto nel Messico azteco quanto nel Perù inca, l’arrivo da oriente dei conquistadores viene letto come il concretizzarsi di antiche profezie, accompagnate da prodigi,
circa la fine di quei regni in seguito al ritorno delle divinità che li avevano fondati.
L’atteggiamento iniziale dei sovrani di aztechi e inca è condizionato da tali credenze
e rappresenta il tentativo di civiltà vissute isolate per secoli di razionalizzare
l’imprevedibile (l’esistenza di un’altra civiltà più forte), «l’irruzione dell’ignoto»
nella loro vita. Le ragioni profonde della sconfitta delle popolazioni americane da
parte di poche centinaia di conquistadores non risiedono però in questo aspetto. Molto rapidamente, infatti, maya, aztechi e
inca prendono coscienza della natura del tutto umana e aggressiva dei nuovi venuti.
Né il panico legato alla tecnologia dell’acciaio e all’uso dei cavalli (sconosciuti
in America) rappresenta una spiegazione sufficiente, dal momento che, dopo le prime
drammatiche sconfitte, gli indigeni riescono ad adeguare i propri metodi di combattimento.
Un peso assai maggiore nel fiaccare le resistenze hanno le malattie arrivate dall’Europa,
contro le quali le popolazioni americane sono prive di difese immunitarie. Inoltre
un ruolo centrale gioca la concezione essenzialmente rituale della guerra: per i diversi
popoli americani scopo del combattimento non è uccidere l’avversario, ma catturarlo
per poi sacrificarlo agli dei. Il modo di combattere dei castigliani risulta del tutto
incomprensibile da un punto di vista psicologico e culturale per le diverse popolazioni
americane. Inoltre, per la loro cultura, alla sconfitta militare deve far seguito
una sottomissione che si manifesta con il pagamento di un tributo, accompagnata però
dal mantenimento degli usi e costumi tradizionali, non dal saccheggio e dall’annientamento.
Altro elemento essenziale per spiegare la fragilità degli imperi autoctoni di fronte
agli invasori sono le divisioni e i conflitti politici interni che li caratterizzano
– come ad esempio la guerra civile in atto fra gli inca al momento dell’arrivo di
Pizarro –, che i conquistadores sono abilissimi a sfruttare per i loro fini.
La brama di oro e pietre preziose rappresenta la principale preoccupazione dei conquistadores, che si dedicano alla sistematica e violenta spoliazione di città e popolazioni.
Vengono inoltre avviate attività di estrazione dell’oro nelle miniere già note agli
indigeni, che sono spesso ridotti in condizioni di schiavitù per lavorarvi.
Più tarda è la decisione del Portogallo di procedere alla colonizzazione del Brasile.
Secondo la tecnica consueta, infatti, fin verso il 1530 la corona lusitana preferisce
utilizzarne le coste per istituirvi punti di approdo per le navi dirette verso le
Indie. Tuttavia l’interesse di mercanti privati di varia origine (castigliana, fiamminga,
veneziana e francese) spinge il re Giovanni III ad allontanare con la forza possibili
rivali e di avviare la colonizzazione del Brasile. Lo strumento prescelto è quello
di suddividere la costa in feudi concessi a esponenti dell’aristocrazia lusitana,
incaricati di assicurarne la difesa e di avviare l’espansione verso l’interno. Nel
1549, la corona decide però di riacquistare il controllo diretto del Brasile con la
nomina di un governatore generale.
3.4. La nascita della società coloniale americana
Prima conseguenza della conquista è la distruzione dell’universo religioso e culturale
delle popolazioni americane: secondo la loro visione, la sconfitta militare dei loro
regni e imperi ad opera di semplici esseri umani implica la sconfitta delle divinità
che ne sono considerate le fondatrici e le tutrici soprannaturali. La distruzione
di templi e statue delle divinità locali condotta dai conquistatori, nel nome del
loro unico dio, comporta l’azzeramento delle credenze religiose e un vero e proprio
trauma psicologico per le popolazioni, derivante dal tramonto dei tradizionali punti
di riferimento religiosi, culturali e mentali.
Al saccheggio delle risorse e allo sterminio delle popolazioni indigene operato dai
conquistadores si aggiunge l’azione della Chiesa volta a evangelizzare gli indios, estirpando le loro credenze tradizionali e imponendo valori religiosi, culturali
e di comportamento propri della società europea. La lotta all’idolatria e alle superstizioni
che sono ritenute caratteristiche degli indigeni americani viene condotta dai primi
missionari con uno zelo fanatico dagli esiti disastrosi: le popolazioni americane
sono vittime non solo di uno sfruttamento spietato, ma anche dello stravolgimento
del mondo sociale, dei valori e della mentalità.
A fronte dei religiosi che giustificano i massacri e la riduzione in schiavitù degli
indigeni vi è però anche chi, come Bartolomé de las Casas, il primo sacerdote ordinato
in America (1512), conduce una quarantennale battaglia culturale a favore del riconoscimento
dei diritti umani degli indios, negando la legittimità dell’occupazione delle loro terre e dello sfruttamento cui
essi sono sottoposti. Le denunce di Casas – la più famosa è quella affidata alla Brevísima relación de la destruyción de las Indias, scritta nel 1542 e pubblicata nel 1551-52 – restano inascoltate, perché cozzano
contro i cospicui interessi economici dei conquistatori. Paradossalmente lo stesso
Casas si mostra favorevole all’importazione in America di schiavi africani, pur di
risparmiare alle popolazioni indigene il lavoro nelle miniere e nelle piantagioni.
Superata la fase delle esplorazioni e della conquista vere e proprie, ha inizio nei
decenni centrali del XVI secolo il consolidamento della sovranità della corona castigliana,
per mezzo della creazione di istituzioni preposte al governo degli immensi territori
dell’America centrale e meridionale. Anche lo sfruttamento delle risorse naturali
comincia a perdere quei tratti di mero saccheggio che, accompagnato da crudeltà di
ogni genere, ha caratterizzato la prima fase della conquista, per trasformarsi in
un’attività relativamente organizzata che coinvolge tanto i privati quanto la corona.
Nella seconda metà del secolo la notevole diminuzione demografica degli indios spinge le autorità castigliane a raggruppare con la forza i superstiti in villaggi
e a procedere alla vendita delle loro terre ai coloni. Il lavoro forzato degli indigeni
viene quindi utilizzato nelle grandi fattorie dove si praticano l’allevamento e l’agricoltura
(viene introdotta con successo la coltivazione delle banane, del tabacco, del caffè
e della canna da zucchero). Le preesistenti forme di riscossione dei tributi, basate
sulle prestazioni di lavoro e la fornitura di prodotti, si perpetuano fino alla metà
del Cinquecento. Da questo momento si diffonde la pratica del pagamento in denaro
delle tasse dovute ai dominatori, da cui discende l’obbligo per gli indios di partecipare all’economia monetaria, ricevendo un salario per le attività che viene
loro imposto di svolgere.
A differenza dei portoghesi, i conquistadores cercano di dar vita in America a forme di organizzazione del territorio secondo gli
schemi della loro terra d’origine. Una volta sottomesse le popolazioni indigene, essi
organizzano città e villaggi e istituiscono municipi che, data la lontananza dalla
madrepatria e dal controllo della corona, assumono notevoli poteri. Ecco perché la
monarchia castigliana cerca di ottenere un certo controllo della vita coloniale: come
freno ai continui conflitti fra i conquistadores intorno allo sfruttamento delle ricchezze americane nasce l’istituto giuridico dell’encomienda de indios. In una situazione nella quale i diritti di proprietà sulla terra tolta con la violenza
agli indigeni sono talvolta labili, tale strumento consente di regolare i rapporti
fra i conquistatori. L’encomienda non riguarda affatto il possesso della terra, ma prevede semplicemente che il sovrano
affidi a ciascun colono un certo numero di indigeni americani (encomendar vuole dire infatti affidare), ai quali questi s’impegna a insegnare i principi della
fede cattolica. In cambio, gli indios sono tenuti a prestare il proprio lavoro nelle case, nelle miniere e nelle terre
dell’encomendero. Sebbene il dominio sulla manodopera indigena non nasca dalla proprietà della terra
da parte del colono, esso finisce per acquisire alcune caratteristiche tipiche del
feudalesimo europeo. In primo luogo, il lavoro nell’encomienda è obbligatorio e non retribuito. Inoltre i conquistatori stabiliscono il proprio
dominio su determinati territori, con i relativi villaggi, che sono tenuti a versare
tributi in natura, oltre alle prestazioni di lavoro. Da parte loro, gli encomenderos sono obbligati a fornire alla corona castigliana il proprio servizio militare.
Sin dalla sua prima comparsa, contemporaneamente alla colonizzazione delle Antille,
l’encomienda diviene tuttavia oggetto di tensioni fra la società coloniale e il sovrano, poiché
quest’ultimo avverte il pericolo della nascita di un’aristocrazia nel Nuovo Mondo,
nel quale l’autorità regia è assai debole. Nel 1512-13 Ferdinando d’Aragona – reggente
del trono di Castiglia dopo la morte di Isabella – promulga le leggi di Burgos (dal
nome della città in cui si trova la corte), con le quali accetta l’encomienda, ma sottolinea la dipendenza diretta degli indigeni americani dal sovrano. La corona
non possiede però gli strumenti concreti per dare attuazione a queste leggi. Le terre
conquistate sono di fatto sotto il controllo di un ceto formato dai conquistadores o dai loro discendenti. Per tale motivo, il tentativo di Carlo V di riaffermare l’autorità
regia in America con le Nuevas Leyes del 1542-43, in questa e altre materie – fra le quali il trattamento disumano degli
indios –, cozza contro l’ostilità delle città coloniali e dello stesso Hernán Cortés, diventato
uno dei maggiori proprietari della Nuova Spagna (Messico). In seguito allo scoppio
di rivolte contro ogni limitazione dell’autonomia dei municipi e del potere degli
encomenderos, tali leggi vengono revocate nel 1545-46. Malgrado i successivi tentativi dello stesso
Carlo V e poi di Filippo II per ridurre progressivamente il ruolo delle encomiendas, esse restano l’asse portante delle società coloniali. La forza di questo strumento
giuridico si esaurisce solo alla fine del Cinquecento, a causa del tracollo demografico
delle popolazioni indigene per via delle malattie giunte dall’Europa e delle pessime
condizioni di vita: nel viceregno della Nuova Spagna gli indigeni passano da circa
25 milioni nel periodo 1519-30 a solo 1,1 nel 1601-1605.
Anche per quanto riguarda i rapporti economici con le colonie americane, la corona
castigliana cerca di creare strumenti efficaci per assicurarsi i più ampi benefici
possibili. Sin dal 1503 essa istituisce a Siviglia la Casa de Contratación, un ufficio
regio che ha il monopolio dell’organizzazione dei traffici commerciali con le colonie,
ivi compreso quello dei metalli preziosi. Per il resto ampie sono le possibilità d’investimento
per