— epigrafe
In questa capitale l’aria si fa detestabile verso
la fine d’ottobre, e lo rimane per tutto novembre e per una parte di dicembre [...]
ho udito addirittura affermare che se in questa stagione si lascia un pezzo di pane
a impregnarsi, nell’aria della notte, dei vapori mortiferi sprigionati dalle nebbie
dell’Appennino, e lo si fa poi mangiare
a un cane, l’animale crepa immediatamente [...]
in generale penso che l’aria di Firenze sia malsana in tutti i periodi dell’anno [...]
d’altronde, per farsi un’idea della questione,
è sufficiente osservare la costituzione
degli abitanti. Essi sono in maggioranza magri
e pallidi, soggetti all’etisia, e hanno denti
e occhi in pessimo stato, al punto
che moltissimi hanno sempre gli occhiali
sul naso.
D.-A.-F. Sade, Viaggio in Italia
Se io resterò più a lungo nella grotta
Io non me lo ricordo. Ero troppo piccola, anche per arrivare alla finestra. Per questo
stavo in piedi su una sedia, di fronte ai vetri aperti. Guardavo la città passare.
Era la mattina del 4 novembre 1966, l’Arno aveva rotto gli argini e allagato la città.
Abitavamo in una casa che dava le spalle al fiume, a pochi metri dal ponte San Niccolò.
L’acqua si era portata via la nostra macchina, e tutto quello che conteneva la cantina,
ma eravamo stati fortunati. Non avevamo il fango a riempire le stanze.
Nelle case di Firenze si vede il segno lasciato dall’acqua del fiume nei due giorni
che ristagnò. Malgrado le imbiancature, sui muri continua ad affiorare dispettosa
una linea scura. O altri segni. Prese della corrente otturate per sempre, pavimenti
di legno che scricchiolano, le cui assi, bagnate e sventrate, non sono più riuscite
a compattarsi per bene. Porte che non chiudono, perché finite per sempre fuori squadro.
Molti palazzi espongono all’esterno la loro linea dell’acqua. Centinaia di lapidi
appese recitano: qui arrivò la piena del fiume quel giorno... Alcune, crescendo, le
ho quasi raggiunte. Allungando le mani verso l’alto adesso le posso toccare. Sono
quelle più lontane dal fiume, dove l’onda è arrivata già stanca. Se ci passo adesso,
è come entrare nell’ascensore di una casa che hai abitato da bambina. Ti sembra incredibile
poter spingere il tasto del quinto piano, che consideravi irraggiungibile.
Dove abitavamo noi, alle spalle dell’Arno, l’acqua aveva raggiunto quasi cinque metri.
E scrosciando si portava via macchine, mobili, alberi, carcasse di animali, biciclette,
il contenuto dei negozi le cui saracinesche erano state divelte dalla spinta della
corrente. L’alluvione non è lenta, non sono piazze trasformate di colpo in placidi
e incongrui laghetti. È un’enorme secchiata, uno tsunami la cui violenza strappa via
ogni ostacolo si frapponga alla sua corsa cieca.
Sotto le finestre dalle quali si affacciava una bambina bionda, tenuta stretta per
il vestitino dalla madre, l’onda vorticava. A galla nuotava una città sdraiata, poggiata
su un fianco. Come avessero invertito la prospettiva e per vederla dritta adesso bisognasse
piegare la testa, poggiarla su un cuscino. La città quella mattina era come il sogno
di una bambina coricata.
I fiumi a volte sono silenziosi. In alcune città quasi non li vedi. Altre volte sono
talmente scodinzolanti che non disegnano niente, nella topografia di una città, tranne
il loro andamento. L’Arno è un fiume volitivo e dritto, passa in mezzo come una sciabolata.
Più di ogni altra divisione, in città, funziona quella del fiume. Le due parti in
cui divide Firenze si chiamano Diquaddarno e Diladdarno.
Da molti anni non vivo più a Firenze, ma ci torno spesso. Arrivo col treno da sud,
conosco a memoria il percorso. Non mi serve controllare l’orologio per accorgermi
che stiamo arrivando, e neanche guardare fuori dal finestrino. So quando è arrivato
il momento di infilare le mie cose in borsa, tirare giù il cappotto. Coprirsi bene
perché sono di nuovo al nord, spogliarsi di tutto quando è estate, perché il caldo
di Firenze colpisce duro.
Quel segnale è il buio. Ci sono molte gallerie tra Roma e Firenze, lo sappiamo bene
noi telefonisti. Ma questa, l’ultima prima di entrare nella stazione di Santa Maria
Novella, è diversa. Sembra non finire mai. Dopo un tempo di buio al quale il nostro
organismo è abituato, una decina di secondi più o meno, inizi a sentire un po’ di
inquietudine. Anche se stai leggendo, o ascolti musica, è il corpo stesso che reagisce.
Alzi la testa, ti guardi in giro e neanche capisci bene perché. Faticosamente ti si
forma in testa un pensiero, poi affiora: ma quant’è lunga questa galleria? Prima che
arrivi il panico, torna la campagna.
Bagno a Ripoli, i campi da tennis del Match Ball, Firenze.
Sembra quasi che per entrare in città, almeno arrivando da sud, si debba passare attraverso
uno spazio sconosciuto. Come se dovessimo tutti quanti essere bendati, per non riconoscere
poi il percorso. Firenze è questa cosa in fondo al buio.
In una pagina del diario di Filippo De Pisis (riportata da Giovanni Comisso in Mio sodalizio con De Pisis) l’autore parla del cane della grotta di Pozzuoli. Che il guardiano faceva esibire
ogni giorno per i turisti, mandandolo a respirare le esalazioni dell’anidride fin
quando, dopo aver danzato ebbro sulle zampe, cadeva a terra di botto. La mia città,
scrive il pittore, è per me la grotta. «M’aggiro per le strade come intontito, tento,
faccio di tutto per liberarmi della pressione della sua aria. Ogni angolo è infetto.
Chi vi arrivi si sente subito afferrato dall’inerzia e dal sonno. Tutto perde colore
nel tempo vuoto se io resterò più a lungo nella grotta non avrò più neppur la forza
di fuggirne.»
Ogni tanto mi chiedo se sono davvero andata via.
1 www.psicosi.it
Quando ero piccola volevo esserci sempre.
Nella testa dei bambini, grazie a un innato istinto di sopravvivenza, si forma subito
il pensiero dell’abbandono. Per questo non dormono, si disperano se lasciati in una
stanza da soli. Sanno di essere appesi a un unico chiodo sospeso sul nulla, e quel
chiodo sono i genitori. E ci si aggrappano con tutta la loro forza.
Senza la ragnatela di relazioni, impegni, progetti dell’età adulta, dentro la quale
poi finiamo prigionieri e dalla quale passiamo il resto della vita a volerci svincolare,
siamo niente. È quell’inferno ingestibile delle responsabilità che ci garantisce di
essere vivi, che testimonia la nostra esistenza. Memoria e affetto, rancori, desiderio,
interessi. Le persone e le cose, amici, amori, compagni di classe, il dentista, la
maestra di yoga, il pusher, la donna delle pulizie, la signora da cui facciamo le
pulizie, il meccanico e poi contratti, fatture, bolli, ricevute, Sms, tabulati, impegnative,
assegni, post-it, badges dei congressi, messaggi in segreteria, targhe della macchina, prenotazioni alberghiere,
tessere di palestre, indirizzi email, fotografie.
La vita degli adulti può essere verificata da centinaia di controlli incrociati. Ma
se i genitori si scordano di un figlio o lo perdono, quel figlio scompare, viene inghiottito
nell’orrorifico indistinto dell’esistenza senza nome, bestiale.
Non sono scemi i bambini. Sanno di essere in pericolo, per questo vorrebbero esserci
sempre e piangono e si disperano prima di addormentarsi. Ma anche quando i genitori
escono di casa senza di loro, o se vengono esclusi da una conversazione, o semplicemente
lasciati dietro una porta chiusa.
O almeno era così negli anni sessanta, quando io ero bambina. Adesso che siedono a
tavola con i grandi e li seguono quasi ovunque, i bambini hanno nevrosi più raffinate.
Tutti abbiamo nevrosi più raffinate rispetto agli anni sessanta. C’è un sito – ce
ne saranno molti, ma questo si chiama proprio www.psicosi.it – dove se ne presenta
un repertorio.
Le lettere dei ciber-pazienti su www.psicosi.it ribadiscono ciò che l’esperienza di
chiunque di noi aveva già intuito: chi soffre, nell’epoca delle separazioni seriali,
soffre soprattutto per amore. «Che cos’è questo modo vertiginoso, angosciante, depravato
/ Di affrontare la vita formando e distruggendo coppie» si chiede Rodrigo García,
drammaturgo argentino, in un testo intitolato significativamente Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente.
Le nostre nevrosi si nutrono della sciagurata disorganizzazione sentimentale di questi
anni. Forse, quando abbiamo deciso che separarsi è lecito, avremmo dovuto pensare
a cosa fare di quella libertà ottenuta. Limitarsi, come facciamo adesso, a cercare
di ridarla indietro in cambio di un nuovo vincolo, prima possibile, come una palla
avvelenata, forse non è la migliore soluzione. Dal punto di vista della salute mentale,
voglio dire. Della morale non mi intendo e non mi immischio.
Ma questo succede adesso. Allora, al tempo in cui Gino Bramieri faceva la pubblicità
delle ciotolone colorate di moplèn e io abitavo in via Arnolfo, in una casa sotto
le cui finestre l’Arno sarebbe scrosciato portandosi via le macchine parcheggiate
e tutto quello che tenevamo in cantina, noi bambini eravamo più bambini di adesso.
Eravamo in un certo senso i primi veri bambini, i bambini prototipo. La nascente società
del consumo era a caccia di quelli che sarebbero diventati i «target». Tra questi,
ancora incerti sulle gambine da compratori, c’eravamo noi, la nuova gigantesca risorsa
del mercato. Squaletti nani, pronti a spalancare le fauci per inghiottire prodotti.
Bastava trovare il punto dove stimolarci e saremmo presto stati in grado di influenzare
con i nostri desideri le scelte dei genitori, persino su cibi e automobili.
Negli anni sessanta, mentre nella testa dei creativi della Nintendo si formava l’immagine
embrionale del bambino coi genitori lavoratori e i pollici sviluppatissimi, io e mio
fratello eravamo in camera nostra, a giocare ignari a Subbuteo o con il camper di
Barbie.
Per noi, bambini in fase sperimentale, non c’era ancora una produzione fascinosa di
abiti e dolciumi. Vestivamo come nanetti. Niente scarpe da ginnastica se non per fare
ginnastica, e per coprirsi cappotti come quello del nonno ma di taglia piccola. C’erano
gli smarties, e certe gomme da masticare lunghe e sottili, tipo calzascarpe piatto,
giallognole e incartate nella carta verde trasparente, o rossa. Altre erano rosa a
carro armato, morbidissime, ma se invecchiavano nei bar si coprivano di una equivoca
patina bianca, diventavano rigide e si spezzavano. C’era la spuma, la coca-cola (della
cui caffeina i nostri genitori pre-salutisti non si preoccupavano molto) e l’aranciata.
Per Carnevale, ci vestivamo da olandesina, zorro, pirata, pulcinella, fata, moschettiere,
cappuccetto rosso. Niente supereroi o cartoni animati. Nell’asilo dei miei nipoti
quest’anno ho visto due Teletubbies (Laa-Laa e Tinky Winky), Tigro, l’amico di Winnie
the Pooh, qualche Power Ranger e altra gente della quale io ignoravo l’identità. Le
nostre maschere erano antiche, uguali a quelle dei nostri genitori. Spesso erano addirittura
proprio quelle dei nostri genitori. Io, per esempio, conquistai il mio vestito da
fata alla soglia dell’adolescenza. Brandii la mia bacchetta magica un istante prima
di cominciare a vergognarmene. Perché per tutti gli anni in cui mi corrispose come
taglia, dovetti indossare invece un filologico costume da bavarese, un’eredità della
famiglia di mio padre (siciliana). Non fu divertente. Non mi piacque affatto dover
rispondere alla domanda: da cosa sei vestita? E più ancora sapere che stavo indossando
un costume senza alcun dubbio concepito per un maschio. A tre anni l’identità di genere
è vispa e del tutto sprovvista di ironia.

2 i giardinetti
Dopo via Arnolfo ci trasferimmo nella prima delle due case di via dei Della Robbia.
Indirizzo che mi dava molto da pensare, a livello di preposizioni articolate. Avrei
preferito senz’altro vivere in via Della Robbia, variante neanche tanto peregrina
essendo la robbia una pianta dalle cui radici si ricava una polvere usata per colorare
le pelli e le stoffe di rosso, polvere il cui commercio è all’origine della fortuna
della famiglia di ceramisti in questione, i Della Robbia.
Sfido infatti qualsiasi bambino di tre anni a dire «deidellarobbia» senza inciampare.
Avevo però ideato uno stratagemma. Alla domanda dove abiti rispondevo in «viadeidella»
e poi, staccato, «robbia». Mi veniva più facile, ma ovviamente non significava niente.
Sillabato in questo modo, il mio indirizzo diventava una filastrocca senza senso.
Era come avessi risposto che abitavo in via trullallero, in piazza perepepè. Odiavo
quell’indirizzo che mi metteva nelle condizioni di essere considerata una bambina
scema, che non sa quel che dice. Che poi era vero. Cos’era questa robbia, e deidella
era forse un nome proprio?
Sarebbe stato molto più generoso, da parte dell’amministrazione comunale, intitolare
una via a Luca, una ad Andrea, a Giovanni, a Girolamo... un bel reticolato di strade
per tutta la famiglia. E non solo per rendere la mia infanzia più serena. Non avrei
infatti avuto nessuna difficoltà a rispondere che abitavo in via Luca Della Robbia,
dal momento che nelle classi a Firenze non mancano mai un paio di nobilucci, sia pure
di basso lignaggio. In città, tutti abbiamo molta confidenza con dei o del o della.
Almeno l’avevamo negli anni sessanta. Forse adesso i rapporti sono diversi. I nobili
e nobiletti naturalmente fanno meno figli e le loro preposizioni articolate saranno
state fagocitate da un appello di Chung, Ajatashatru, Krystzof, Mutu, Pablo... Presto
saranno loro a dare i nomi alle nostre strade, e allora sì che saranno guai per i
bambini. Ma forse i nuovi bambini cresceranno con una consapevolezza linguistica migliore
della nostra. Saranno facilitati dal contatto fin da piccoli con tanti accenti, tanto
impaccio nel pronunciare le parole che produrrà una lingua nuova, più viva e allegra.
Là intorno, comunque, ci sarebbero stati benissimo tutti quanti i Della Robbia. Tra
Donatello, Giambologna, Masaccio, Andrea del Castagno e addirittura via degli Artisti,
se a qualcuno non fosse ancora chiaro di cosa stiamo parlando. Il quartiere a est
di piazza Donatello è infatti per gran parte occupato da vecchi studi di pittori,
soprattutto nella zona compresa tra via Masaccio e piazza Savonarola. Piazza che,
pur ospitando una statua del fratacchione, non fu il luogo del suo martirio. La pira
sulla quale fu arso il 23 maggio 1498 era stata eretta infatti in piazza della Signoria,
e un disco di granito incastonato a terra, vicino alla statua di Cosimo I, identifica
il luogo esatto. Più o meno nello stesso posto dove soltanto un anno prima, l’ultimo
giorno del Carnevale del 1497, il furibondo Savonarola aveva fatto ammucchiare barbe,
maschere e nasi finti, libri licenziosi tra i quali il Decameron e il Morgante del Pulci (oltre che rarissimi manoscritti e preziose pergamene), specchi, acconciature
e trabiccoli da donna, liuti, arpe, scacchiere, carte da gioco e infine ritratti di
donne celebri per la loro bellezza, da Cleopatra ad allegre signore dei suoi tempi.
E poi gli aveva dato fuoco. Chissà se mentre il fumo gli saliva agli occhi e le fiamme
gli lambivano i piedi ha maledetto la sua intransigenza e l’ironia del destino.
Sulla piazza Savonarola, alla destra della chiesa, c’è un palazzo, con grandi vetrate
affacciate sulla strada, evidentemente uno studio di artista. L’edificio potrebbe
essere ottocentesco, ma non si sa. Di certo la facciata è stata ricostruita intorno
al 1910, su progetto dell’architetto Enrico Lusini. L’artista Rinaldo Carnielo, nato
a Treviso, sembra vi si fosse trasferito verso la fine dell’ottocento. Il palazzo
è su due piani, ma la parte centrale è sovrastata ulteriormente da una specie di timpano,
illuminato da un finestrone tripartito, enorme e decorato da ghirlande. Ha un’aria
austera ma occhieggiante al Liberty, secondo le regole della stagione modernista.
Sulla piazza, alle estremità delle due ali, si aprono i due ingressi laterali, con
sopra un finestrone quadrato. Al primo piano c’è un cartiglio con la scritta «Onorate
l’arte che è vita della vita». Sopra l’ingresso centrale, un architrave regge un’iscrizione
in bronzo: «Non omnis moriar». Non tutto morirà.
Quando ero bambina, la tata mi portava in questa piazza, insieme a mio fratello. Questa
pratica veniva da noi chiamata «andare ai giardinetti». Chissà se era una specie di
lessico familiare o tutti i figli andavano «ai giardinetti». Del resto a casa non
c’era niente da fare, nei pomeriggi degli anni sessanta. La televisione, ancora nell’austero
bianco e nero, funzionava in maniera diversa da adesso. Per esempio aveva degli orari.
Come il cinema, o la scuola, la televisione iniziava a una certa ora e dopo una certa
ora finiva. Se ti capitava di avere un attacco di ansia la notte alle quattro, o un
vuoto di immaginazione in tarda mattinata, una crisi di solitudine prima di pranzo,
non potevi contare sul magico scatolone colorato. Fino alle ore in cui partiva la
sigla con le nuvole e il traliccio, il televisore se ne stava tranquillo e nero nel
bel mezzo del salotto, impossibilitato a reagire a qualsiasi provocazione del nostro
umore. Fin quando non calava il buio, taceva, come il telefono nelle giornate tristi,
quando il mondo si dimentica di te.
Già, chissà come accade. Per me, ad esempio, è il mercoledì. Ci ho fatto caso. Non
capisco per quale motivo, l’unica specialità del mercoledì è infatti quella di stare
grosso modo al centro della settimana, ma è poco per fare di lui un giorno funesto.
Il mercoledì di solito il mio telefono tace a lungo. Spesso per tutta la giornata.
Se sono con qualcuno, ogni tanto lo tiro fuori dalla tasca e lo guardo di sfuggita,
fingendo di voler controllare l’ora. A volte penso che è per questo che non porto
più l’orologio, per avere la scusa di controllare di sfuggita il telefonino il mercoledì.
Mi illudo di non aver sentito la suoneria, l’avviso di entrata di un Sms. Brutta storia
i telefonini. Non serve a niente lasciarli a casa, perché del loro pensiero non ti
liberi lo stesso. Bisognerebbe semplicemente che non fossero stati inventati.
O anche smettere di contare sull’attenzione degli altri per avere certezza della nostra
esistenza.
3 Galleria Rinaldo Carnielo
La Galleria Rinaldo Carnielo ha sede nell’edificio di piazza Savonarola dove l’artista
visse e lavorò. È aperta il sabato dalle nove alle tredici, e basta. C’è un bel gonfalone
rosso che lo annuncia, uguale in tutto e per tutto ai tanti gonfaloni che, appesi
ai muri in giro per la città, segnalano la presenza di un museo, di un luogo di interesse
storico. Decine, centinaia. Ogni tanto verrebbe voglia di operare in maniera contraria,
e, anziché storicizzare una bottega trasformandola in un museo, ritrasformare certi
musei in botteghe, negozi, abitazioni. Semplici edifici della vita quotidiana. Giusto
per non aver sempre paura di dove si mettono i piedi. So che sembra incredibile, ma
a Firenze non esistono le pizzerie al taglio. Ci sono i McDonald’s, l’inaugurazione
dei quali ha suscitato il consueto scandalo, ci sono paninifici in tutte le declinazioni
possibili, ma se vuoi mangiarti un pezzo di pizza, al centro, ti devi mettere seduto
a un tavolo.
Detto così sembra quasi bello, ma non è normale. Non è che io voglia fare una crociata
per la pizza al taglio. Trovo anch’io, come tutti, che quelle teglie coi carciofini
intirizziti e la fetta di prosciutto imbarcata siano struggenti. Per non parlare di
quando te la scaldano, e la pasta si insecchisce tutta, la mozzarella ti buca il dorso
della mano come piombo fuso. Ma la pizza è un indice. Nel mercato dello spuntino,
a Firenze, siamo fermi agli anni sessanta. Escluso McDonald’s, che non chiede permesso
ma è stato catapultato nel mondo imbottito di dollaroni. Le novità sono state tutte
bloccate da sentinelle isteriche al checkpoint di chissà cosa.
Perché Firenze ha un rapporto letterale con le sue risorse. Come la famiglia Della Robbia. Fosse nato un figlio, o un nipote,
sprovvisto del minimo talento, sarebbe stato comunque destinato a mescolar polveri,
a cuocere formine. Nessuna possibilità di scampare alla ceramica.
Così la città. Non sa sfruttare il patrimonio che ha a disposizione. Se i turisti
hanno fame, la città gli dà un panino. Come nelle colonie estive, o nelle scuole elementari
quando c’erano ancora i poveri. Sarebbe naturale pensare che nei secoli avesse acquisito
furbizia. Dato per scontato che i turisti avrebbero continuato ad affluire probabilmente
per sempre nelle sue strade, si sarebbe immaginato che i cittadini ne avrebbero approfittato
per vendere loro qualsiasi cosa, usando quella straordinaria vetrina per proporre
novità strabilianti, idee stravaganti, coraggiose. Come fanno nei tour mondiali i
grandi gruppi rock, quando usano dei gruppi spalla, giovani sconosciuti in cerca di
un palcoscenico, per aprire i concerti.
Nel 1995, per esempio, i r.e.m. si portarono in giro un gruppo di giovani matti che
suonavano una musica bellissima: si chiamavano Radiohead. Quando poi sono diventati
famosi, i Radiohead hanno suonato anche a Firenze. Due volte: nel 2000 a piazza Santa
Croce e nel 2003 a piazzale Michelangelo. Non c’ero. Abitavo già in un’altra città,
è vero, ma questo non mi giustifica. In effetti credo di aver lisciato tutti gli avvenimenti
cruciali che una della mia età avrebbe avuto a disposizione, persino quando si svolgevano
sotto le mie finestre. Non ho partecipato a uno solo degli accadimenti che hanno segnato
la biografia italiana dagli anni sessanta a oggi. Neanche io saprei dire perché. Una
naturale ritrosia, dovuta senz’altro a una mancanza di coraggio, a stare al centro
delle cose. Ho sempre faticato a coincidere con un tempo. Diciamo che provo un’invidia
sincera per quelle persone che, fotografate, finiscono per rappresentare il famoso
«spirito del tempo». Penso con infinito struggimento al seno nudo della ragazza tenuta
sulle spalle da un ragazzo, tra la folla dei cortei del Maggio francese. Immagine
della quale si è poi scoperta la totale artificiosità, avendo infatti l’astuto fotografo,
secondo la sua stessa confessione, usato una modella. Ma è uguale. O il ragazzo davanti
al carro armato in piazza Tienanmen, i quarantenni dei girotondi contro la legge Cirami
che si tenevano per mano sotto il Palazzo di Giustizia, i paninari col moncler seduti
sui motorini, le ragazze coi piercing e i tatuaggi dentro i centri sociali. Io non
incarno proprio niente. Forse proprio per questo scrivo i libri, per ristabilire una
gerarchia degli eventi a mio favore.
Ecco, la letteralità di Firenze rispetto a se stessa è forse il motivo principale
della sua attuale difficoltà a raccontarsi. Come dicevo, per una inspiegabile inerzia,
la città è come una bella donna che usa la sua bellezza soltanto per essere bella.
Come un meccanismo incantato. È questa attitudine, mi sembra, che le conferisce quell’aspetto
ingessato e polveroso, che spinge i talenti ad allontanarsi per far posto a talenti
che arrivano da fuori e prendono residenze di eccellenza nelle vie del centro storico,
portandosi via l’ispirazione senza dare niente in cambio. Come se, al fondo, ci fosse
un disprezzo aristocratico per l’economia di sé.
Uno strano paradosso. Firenze, città di mercanti, viene spesso accusata di essere
una città in vendita, un’enorme vetrina. Ed è vero, ma il problema è che Firenze vende
solo Firenze, come uno spaventoso gioco di specchi. Ma nessuna delle due invecchia,
né la città né la sua immagine da un tanto al chilo. Come un Dorian Gray al contrario,
cannibalizzandosi, mangiando se stessa, Firenze ha finito per avvelenarsi. Per creare
una diabolica endogamia, per forza sterile.
Ferma davanti alla Galleria Rinaldo Carnielo, mi accorgo che accanto a me ci sono
altre due ragazze che sperano di entrare. Mi sentivo già abbastanza eccentrica da
sola, in un freddo sabato mattina, in questo angolo defilato dalla bellezza a elemosinare
arte, altra arte. E invece siamo in tre. Nonostante la città, tre persone vogliono
vedere le opere di Rinaldo Carnielo, per il quale già prima avevo infinito rispetto
figuriamoci adesso. Purtroppo per noi la Galleria, come tutto il palazzo, è in restauro.
Ce ne andiamo un po’ meste, ognuna con la sua bicicletta. Chissà perché anche la bicicletta,
a Firenze, non diventa avanguardia. Fa subito Lido di Ravenna, piuttosto che Amsterdam.
Sono sicura che se domandiamo a un americano chi è il mostro di Firenze, risponderà
che dormiva al Bargello e si mangiò Beatrice Portinari.
4 il cimitero degli inglesi
Seguendo le case degli artisti si arriva in piazza Donatello. A differenza delle altre
piazze che si aprono tra le due corsie dei viali di circonvallazione, questa è storta.
Non è divisa a metà, come sarebbe naturale, dalla strada. Lì, nell’occhiello dei viali,
c’è infatti il cosiddetto «cimitero degli inglesi». I giardinetti con i giganteschi
capitelli corinzi di pietra, piantati a terra come un’opera di Pino Pascali, sono
invece di lato. Sembrano una specie di contrappeso, qualcosa alla quale il cimitero
si sia ancorato. Come se il cimitero fosse un’isola.
Il cimitero protestante, detto «degli inglesi», è di proprietà della Chiesa Evangelica
Riformata, e quindi giuridicamente è svizzero. Prima che venisse costruito nel 1827
– extra moenia, secondo i precetti napoleonici dell’editto di Saint-Cloud – i protestanti venivano
sepolti nel cimitero di Livorno. Le mura, in quel punto, si aprivano con la Porta
a’ Pinti, opera di Arnolfo. Dietro la quale c’era un convento di gesuiti che si dedicavano
alla fabbricazione di vetrate colorate. Pinti, appunto.
La collina sulla quale sorge il cimitero degli inglesi faceva parte di alcuni marchingegni
ideati da Michelangelo per la fortificazione di Firenze prima dell’assedio del 1529.
Quando nel 1827 il governo granducale cedette il terreno per costruirvi il cimitero,
l’incarico fu dato all’architetto Carlo Reishammer, di origine austriaca. Era giovanissimo,
aveva appena ventidue anni. Più avanti divenne l’architetto prediletto della famiglia
Lorena. Fu lui a progettare la chiesa di San Leopoldo a Follonica. È una chiesa «biomeccanica»,
costruita secondo criteri tradizionali ma con alcune parti in ghisa. Il pronao (colonne,
tetto e cancellata), il rosone della facciata, l’abside, la cima del campanile e alcuni
arredi interni. In ghisa è anche il cancello che dava accesso al gigantesco complesso
dell’ex Ilva, dove avevano sede le fonderie. Il lavoro fatto per il cimitero degli
inglesi è quasi invisibile, anche perché la palazzina, l’unico edificio degno di nota,
fu aggiunta solo più tardi. Forse, data la sua predilezione, si sarà preoccupato soprattutto
della inferriata che gira tutto intorno.
I primi morti a trovar posto nel cimitero furono svizzeri e inglesi. Gli svizzeri,
che venivano in gran parte dall’Engadina, erano quasi tutti commercianti, nel ramo
della ristorazione. Il Panone in Por Santa Maria era della famiglia Fent, mentre certi
Wital possedevano L’Elvetico di Borgo degli Albizi. Svizzeri erano, ovviamente, L’Elvetichino
in Piazza Duomo e il Caffè degli svizzeri in piazza Santa Croce, ma anche il caffè
Gilli, in via Calzaiuoli. Svizzero era Giovan Pietro Vieusseux, uomo di cultura ma
anche lui ex commerciante. Quando si trasferì a Firenze decise di aprire un gabinetto
letterario, dove si sarebbero potuti trovare libri, riviste, giornali italiani e stranieri.
In lettura, ma riservati agli uomini. Se ne lamenta, scherzosamente, Elizabeth Barrett
Browning. Sono custoditi dai draghi, dice, come i pomi d’oro del giardino delle Esperidi.
Elizabeth visse la sua vita a Firenze. Fino ad allora, fin quando non sposò segretamente
il poeta Robert Browning, la sua esistenza si era svolta dentro una stanza, sorvegliata
dal padre che la teneva prigioniera per proteggerla da misteriose malattie, minacce
di morte. Elizabeth, che aveva quarant’anni ed era già una poetessa famosa sebbene
appartatissima, ricevette un giorno una lettera da quello che sarebbe divenuto suo
marito, che le dichiarava ammirazione e amore per la sua opera. Si sposarono di nascosto
e partirono per l’Italia. Si fermarono a Pisa, ma si stabilirono presto a Firenze,
in piazza San Felice, in quella casa Guidi che divenne sfondo per le opere di entrambi.
Quando la moglie morì, Robert tornò in Inghilterra insieme al figlio, Pen. Elizabeth
è sepolta nel cimitero degli inglesi.
Tutti i suoi libri, e una ricchissima scelta di saggi sulla sua opera, si trovano
nella libreria allestita in due piccole stanze, nella casina all’entrata del cimitero.
È la biblioteca di Julia Bolton Holloway, ex insegnante di letteratura inglese, nata
a Londra ma vissuta a lungo negli Stati Uniti. Adesso Julia è una suora, ma io non
ne ero sicura. Vestiva in borghese, tranne un fazzoletto bianco sulla testa che poteva
essere una protezione per il freddo gelatinoso, crudele che premeva quel giorno sulle
tombe, immobilizzandomi. Ma poi me lo ha detto lei, con quell’accento che rende sempre
un po’ zitellesco l’italiano degli inglesi. Le tombe, dalle quali ero appena tornata
un po’ perplessa, sono circondate da un lunghissimo serpente di nastro giallo. Il
nastro divide il cimitero in due parti uguali, con un corridoio al centro. Due emisferi
di forma simile a quella del cervello, impraticabili. I monumenti sono pericolanti
e per precauzione i visitatori sono costretti a guardarli da lontano. Anche quello
di Elizabeth, una piccola bara di marmo sorretta da sei colonne. Ma questo, l’unico
di tutto il cimitero, è segnalato da un piccolo cippo bianco, con una scritta gotica
in nero. Sospetto che sia opera di Julia.
Il cimitero è una piccola collina, e il visitatore prima si arrampica e poi la scende.
È anche abbastanza ripida, perché è piccolo. Più che una collina, quando ci cammini
sopra, sembra la parte emersa di un’enorme palla, sepolta per metà. Sembra, forse
per via dell’aldilà, una specie di light side of the moon, il cui lato scuro sia rivolto ai misteriosi abitanti del sottosuolo. A meno che
non sia il contrario, e il lato giusto non sia quello interrato. Nel quale caso i
vivi sarebbero loro, o almeno quelli sui quali l’idea di esistenza sarebbe tarata.
«Io sono vivo e voi siete morti» dice Runciter in Ubik di Philip Dick. Ma lo dice dopo essere saltato in aria su una bomba, mandando messaggi
da chissà dove.
Un altro dei motivi per cui conviene andar via da Firenze, e che somiglia al torpore
che descrive De Pisis, è questa sindrome da palude oscura. Che ci stai talmente dentro
che pensi che quella sia la luce. Noi siamo vivi e voi siete morti. Frase che se arriva
dalla capitale della bellezza è assai pericolosa. Provate a dire che l’unica vita
possibile è quella che si vive a Catanzaro. E provate a dirlo invece di Firenze. Ecco
il pericolo.

5 «L’isola dei morti»
Ci sono alcune opere d’arte che, col tempo, hanno assunto un significato che va al
di là del loro valore estetico. L’urlo di Munch, La Gioconda, Las Meninas di Velázquez, L’onda di Hokusai. Sono grumi di coscienza, o cattiva coscienza, miracolosi ricettacoli
di emotività. Per qualche motivo che probabilmente trascende gli intenti del creatore,
piano piano sono diventati vibranti territori di confine che rivelano zone d’ombra,
frane, frammenti di inconscio al di là della tela. L’isola dei morti, che Böcklin dipinse in cinque versioni diverse per far fronte all’enorme successo
che ebbe fin dal suo apparire, è una di queste.
Fu commissionata al pittore da Marie Berna, poi contessa Oriola. La donna gli chiese
un quadro che esprimesse il dolore per la morte del marito. Nel 1880 Böcklin le scrisse:
«lei potrà sognare, immersa nel buio mondo delle ombre, fino a quando non crederà
di avvertire il leggero, tiepido alito che increspa il mare, fino a quando non esiterà
a turbare il solenne silenzio anche con una sola parola».
Un quadro per sognare. Un mare nero, una barchetta, due figure misteriose. La persona
che rema, dai lunghi capelli dorati, e un’altra in piedi, bianca come una statua,
o un morto, o qualcos’altro col quale comunque non desidereremmo avere a che fare
(anche perché ai suoi piedi c’è qualcosa che somiglia più di tutto a una bara).
L’opera di Böcklin, come ogni incanto collettivo, si è rivelata estremamente feconda.
Molti lavori di Salvador Dalí sono ispirate al quadro, e altri pittori, tra questi
Giorgio de Chirico e Max Klinger, ne furono suggestionati. Alcuni romanzi, una sinfonia
del compositore russo Sergej Vasil’evic Rachmaninov, Lasonata degli spettri e un frammento intitolato proprio L’isola dei morti, entrambi di August Strindberg. Dürrenmatt, che scrisse anche un testo intitolato
Play Strindberg (sulla Totentanz dell’autore svedese), nel suo primo romanzo, Il giudice e il suo boia, manda il suo protagonista nella casa di un amico appena assassinato e gli fa trovare
davanti alla camera da letto «un gran quadro in una pesante cornice dorata: era L’isola dei morti».
Nel 1945 Mark Robson firma la regia di un film, il cui protagonista è Boris Karloff,
intitolato Il vampiro dell’isola e ispirato al quadro di Böcklin. Ambientato in un’isola della Grecia durante la prima
guerra mondiale, racconta la storia di una comunità di persone trattenute per una
quarantena, tra le quali si insinua il sospetto che alcuni di loro non siano uomini
o donne ma vampiri. Fa parte di una serie di undici film, horror a basso costo, prodotti
dalla americana Rko che ne affidò la cura a Val Lewton, un russo naturalizzato il
cui nome vero era Vladimir Leventon. Colto, eccentrico, pieno di talenti, Val Lewton
mise in piedi un’operazione geniale. Pur comparendo ufficialmente soltanto come produttore,
fu spesso autore anche delle sceneggiature e quasi sempre ispiratore dei temi e delle
audacie narrative. Con lui nasce al cinema, per esempio, l’artificio della suspence.
Se c’è una bomba sotto un tavolo, diceva, il pubblico lo deve sapere. Perché il punto
non è l’esplosione, che dura un attimo, ma la paura, il tempo che passa, l’impossibilità
del pubblico di avvertire i personaggi e il panico che ne consegue. I suoi film horror,
bontà sua, erano ispirati a Stevenson, Maupassant, Charlotte Brontë, quadri famosi,
canzoni, poesie di John Donne, Shakespeare, scritti di Freud e Ippocrate.
Anche Freud teneva appesa nel suo studio una riproduzione dell’Isola dei morti, e Jung ne scrisse a proposito del suo paziente Henry, che ne era ossessionato.
Ma Lenin e Hitler furono i due fans più accaniti. Entrambi si inchinarono, con la
stessa reverenza, di fronte al mistero di quel viaggio. Di Lenin si sa che ne portava
una copia sempre con sé, tanto da averla appesa nella sua stanza anche durante l’esilio.
Hitler addirittura ne comprò una versione, la terza, di proprietà della famiglia Schön-Renz,
a un’asta del 1936. Di questo quadro non si sono avute notizie per più di trent’anni.
Sparì dal bunker dopo l’invasione russa e ricomparve a Berlino alla fine degli anni
settanta. Fu donato al museo di arte contemporanea da un uomo che volle rimanere anonimo.
Si dice che fosse un russo, un vecchio generale che lo aveva preso per ricordo e tenuto
nascosto fin quando non se n’era stufato.
Arnold Böcklin era nato a Basilea nel 1827. Si trasferì prima a Roma e dopo un lungo
peregrinare a Firenze, nel 1870. Qui, nel 1880, dipinge la prima versione del suo
quadro più celebre.
Dicono che per L’isola dei morti Arnold Böcklin abbia preso ispirazione dal cimitero degli inglesi di Firenze.
Di certo qui è sepolta sua figlia, morta a soli sette mesi. È stata l’ultima a essere
interrata, nel 1877. La collina è piccola, lo spazio a disposizione tutto occupato.
Dopo di lei, il cimitero ha accolto soltanto urne cinerarie. In un pieghevole che
mi consegna Julia, oltre a una breve storia del luogo, ci sono alcune indicazioni
su come aiutare economicamente l’opera di restauro. Il cimitero sta morendo. Mi rendo
conto che è un’espressione grottesca, ma è la più appropriata. È rimasto chiuso per
molti anni, senza alcuna manutenzione, e oggi le tombe sono in pessimo stato. Tra
le forme di aiuto concrete, la più agile è quella di firmare una petizione a questo
indirizzo: www.thepetitionsite.com/takeaction/471134975, con la quale si chiede che
il monumento entri a far parte del numero delle opere tutelate dall’Unesco come patrimonio
dell’umanità. Questo status garantirebbe una priorità nell’accesso ai fondi della
Comunità europea destinati alle opere d’arte. Una volta collegati a questo indirizzo,
troverete i link per il blog di Julia Bolton Holloway e il sito del cimitero. Curato
magnificamente e pieno di informazioni.
È un’impresa per animi coraggiosi. È come voler vendere birra nel Chianti. Nella città
dell’arte, chi ha tempo per un piccolo cimitero fuori dalle rotte turistiche, mai
riprodotto non dico su un grembiule o una maglietta, ma neanche su una cartolina?
Ma Julia è coraggiosa, e non è affetta dall’indolenza degli italiani verso se stessi.
Ha fatto stampare alcune copie della raccolta di poesie di Elizabeth Browning, i Sonetti dal portoghese, che si possono comprare per cinquanta euro. Con duecentocinquanta euro i più generosi
possono portare a casa un calco delle mani strette di Elizabeth e Robert. Donando
un libro l’anno si diventa soci di questa minuscola ma appassionata biblioteca, dove,
tra l’altro, si possono consultare alcuni volumi donati da Fioretta Mazzei, su don
Milani e Giorgio La Pira.
Mi chiede di questo libro. Le racconto che parlerà di Firenze, ed è iniziato tutto
da mio padre e da una vecchia fotografia del matrimonio dei miei genitori. Mentre
le parlo tengo in mano un libro, una biografia di La Pira scritta da padre Balducci.
Anche La Pira aveva un sogno, mi dice, per questa città.
6 «non omnis moriar»
Nel 1895, Böcklin acquistò villa Bellagio, sotto Fiesole, dove rimase fino alla morte,
avvenuta il 16 gennaio 1901.
Fu sepolto nel cimitero evangelico degli Allori, sulla via Senese. Che è enorme, quanto
quello degli inglesi è raccolto. Sembra potersi estendere fin quando ci saranno morti,
per sempre. Più ti allontani dal centro, più le sepolture diventano leggere. Gli ultimi
sono soltanto un mucchio di terra con una croce. Ma la cosa che colpisce di più è
la solitudine.
Più o meno da una trentina d’anni, gli uomini e
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