Prefazione
alla prima edizione

L’Europa si costruisce. È una grande speranza che si realizzerà soltanto se terrà conto della storia: un’Europa senza storia sarebbe orfana e miserabile. Perché l’oggi discende dall’ieri, e il domani è il frutto del passato. Un passato che non deve paralizzare il presente, ma aiutarlo a essere diverso nella fedeltà, e nuovo nel progresso. Tra l’Atlantico, l’Asia e l’Africa, la nostra Europa esiste infatti da un tempo lunghissimo, disegnata dalla geografia, modellata dalla storia, fin da quando i Greci le hanno dato il suo nome. L’avvenire deve poggiare su queste eredità che fin dall’antichità, e anzi fin dalla preistoria hanno progressivamente arricchito l’Europa, rendendola straordinariamente creativa nella sua unità e nella sua diversità, anche in un contesto mondiale più ampio.

La collana «Fare l’Europa» nasce dall’iniziativa di cinque editori di lingua e nazionalità differenti (Beck a Monaco di Baviera, Basil Blackwell a Oxford, Crítica a Barcellona, Laterza a Roma e Bari, Seuil a Parigi) e vuole gettar luce sulla costruzione dell’Europa e i suoi punti di forza non dimenticabili, senza dissimulare le difficoltà ereditate dal passato. Nella sua tensione verso l’unità, il continente ha vissuto discordie, conflitti, divisioni, contraddizioni interne. Questa collana non li nasconderà: l’impegno nell’impresa europea deve compiersi nella conoscenza del passato tutto intero e nella prospettiva dell’avvenire. Di qui l’intitolazione «attiva» della collana. Non ci sembra infatti che sia giunta l’ora di scrivere una storia sintetica dell’Europa. I saggi che proponiamo sono dovuti ai migliori storici odierni, anche non europei, già affermati e non. Essi affronteranno i temi essenziali della storia europea nei diversi campi – economico, politico, sociale, religioso, culturale – appoggiandosi alla lunga tradizione storiografica che si estende da Erodoto alle nuove concezioni che, elaborate in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente negli ultimi decenni, hanno profondamente rinnovato la scienza storica. Grazie alla loro volontà di chiarezza, questi saggi sono accessibili anche a un ampio pubblico.

E la nostra ambizione è di apportare elementi di risposta alle grandi domande che stanno dinanzi a coloro che fanno e faranno l’Europa, e a quanti nel mondo intero s’interessano all’Europa. «Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?»

Jacques Le Goff

1.
Posizioni a confronto sul mondo contadino

La politica agraria europea e i sempre maggiori problemi che investono l’azienda contadina di tipo familiare sono da qualche tempo nuovamente al centro dell’attenzione, e dominano il dibattito sul mondo contadino europeo. L’agricoltura della Comunità europea sta attraversando un profondo mutamento strutturale che diverrà ancora più evidente nel futuro mercato unico europeo. La minaccia portata all’equilibrio dell’ambiente naturale, un’agricoltura che tende alla sovrapproduzione e il degrado dell’ecosistema terrestre costituiscono alcuni dei problemi posti da queste trasformazioni socio-economiche; essi mettono a dura prova la capacità di risolverli da parte del contadino e del consumatore, del politico e dello scienziato. A ciò si aggiungono il declino delle aziende agricole e una insensata sovrapproduzione, l’inquinamento dell’ambiente e uno sfruttamento agricolo distorto dei paesi in via di sviluppo, riconducibili tutti a un’unica matrice e strettamente collegati tra loro. Queste sono le inevitabili conseguenze della meccanizzazione e della diffusione della chimica seguite alla rivoluzione agraria del XIX e del XX secolo, e dell’industrializzazione dell’agricoltura dei decenni passati. Il progresso dell’economia agraria, che sulla base degli alti incrementi produttivi che garantiva si presentava come una ambita meta futura, si rivela oggi controproducente; i suoi costi economici, sociali ed ecologici superano attualmente, nei maggiori paesi europei, i benefici iniziali e sollevano interrogativi circa le cause di fondo di questa evoluzione «fatale» per il ceto contadino europeo.

Il mondo contadino, però, attira già da lungo tempo l’interesse tanto dell’opinione pubblica quanto della ricerca scientifica. Evidentemente il possibile declino del tradizionale ceto contadino, il pericolo della scomparsa degli antichi villaggi e i problemi della salvaguardia della natura e dell’ambiente, hanno richiamato l’attenzione di una più ampia opinione pubblica sul problema costituito dal mondo contadino e rurale. La ricerca scientifica sul ceto contadino e sul fenomeno delle comunità rurali ha come sfondo lo sviluppo della moderna società urbano-borghese nonché il processo d’industrializzazione del XIX e XX secolo che modificò radicalmente l’economia europea. Nell’ambito di questo tipo di ricerca si individuano due posizioni contrapposte: da un lato una concezione tradizionalista del mondo contadino, dall’altro un orientamento critico che richiama i lati oscuri delle forme di vita rurali.

Sotto l’influsso di filosofi, storici e sociologi si è affermato un indirizzo conservatore che stigmatizza l’anonimità e il senso di solitudine della vita cittadina, contrapposti in modo netto alla particolare sensibilità per lo spirito di comunità e per la sicurezza riconosciuti al villaggio. Il villaggio tradizionale si innalza, nella contrapposizione, diventata celebre, di Ferdinand Tönnies a simbolo di «comunità», rispetto alla quale la moderna vita metropolitana si definirebbe come una forma di «società» in negativo. I mutamenti nelle forme di vita contadine vengono spiegati con punte di critica e di condanna come trasformazioni dalla comunità rurale alla società rurale. Lo sradicamento dell’individuo, durante questo processo, è messo in risalto nello stesso modo in cui viene sottolineata la primitiva stabilità nei rapporti sociali interpersonali e nei legami parentali o di vicinato tipici dei secoli precedenti.

Al centro di questo sforzo restaurativo da parte di ideologi conservatori troviamo spesso l’antico ceto contadino europeo di cui si idealizza il modo di vita, mentre le innovazioni nell’ambito industriale urbano sono considerate segni di una presunta decadenza. Diversamente dai critici liberali e socialisti, Wilhelm Heinrich Riehl elogia per questo motivo l’influenza conservatrice dei contadini durante la rivoluzione del 1848, grazie alla quale i troni dei principi tedeschi sarebbero rimasti intatti;

il contadino detiene nella nostra patria un peso politico che ha eguali in pochi altri paesi europei; il contadino rappresenta il futuro della nazione tedesca. Grazie ai contadini la vita del nostro popolo viene continuamente rinnovata e ringiovanita. Se noi non ostacoliamo la riproduzione biologica del proletariato rurale, allora non dobbiamo temere più di tanto quel proletariato artigianale ed intellettuale... Le scelleratezze più gravi che la burocrazia statale ha commesso negli ultimi cinquant’anni erano in essa talmente radicate da renderla incapace di comprendere il vero animo dei contadini tedeschi, e da farle dimenticare un principio fondamentale, ovvero che il potere conservatore dello Stato riposa sul ceto contadino. La rivoluzione del 1848 ci mostra, in realtà, come fosse sbagliato quel modo di vedere le cose¹.

¹ W.H. Riehl, Naturgeschichte, p. 221.

L’idealizzazione delle forme di vita contadine e l’elogio della persistente forza del ceto contadino, contrapposti alla decadenza del mondo moderno, non si ritrovano solo nelle opere di uno studioso del folclore tedesco come Riehl. Nella letteratura francese, inglese e italiana dei secoli XIX e XX troviamo numerosi esempi di un mondo rurale abbellito e paragonato con nostalgia alla difficile vita delle concentrazioni industriali. Aduggiati e gravati dalle esigenze e dalle costrizioni della vita cittadina, si vagheggia una rigenerazione nel ritorno alla campagna; ingoiati da questa grande società urbana, sentita come disumana, si fantastica un modo di vivere più semplice e meno disciplinato, che si spera di rinvenire nell’idillio campestre. Questa nostalgia si rintraccia nelle opere di numerosi scrittori, folcloristi e sociologi secondo i quali l’antica cultura della società rurale con i suoi villaggi sarebbe stata più umana e più utile al benessere fisico e spirituale dell’individuo rispetto alla moderna società industriale, soffocatrice delle tradizionali forme di vita dei villaggi.

A questa visione tradizionalista delle forme di vita contadine si contrappone un orientamento critico la cui tradizione, a partire dagli illuministi del XVIII secolo, passando per i riformatori sociali del XIX, arriva fino ai rappresentanti della Scuola di Francoforte. Questo indirizzo caratterizza il villaggio e la famiglia contadina come una società coatta e pericolosa, come germe gravido di atteggiamenti reazionari, nonché come strutturalmente incapace di emanciparsi. Tale forma sociale ostacolerebbe la propria emancipazione, impedendo altresì un atteggiamento più aperto e illuminato verso altre forme di convivenza; inoltre gli impulsi provenienti dall’esterno non contribuirebbero entro i limiti di questo scenario rurale ad un suo cambiamento qualitativo. Theodor Adorno, esponente di spicco della Scuola di Francoforte, rispetto al villaggio parla addirittura di un «dovere di sprovincializzarsi». L’immagine che questa concezione filosofica ha della popolazione del borgo rurale è spesso pessimistica e riduttiva: la figura del contadino risulta tipicamente alterata attraverso l’ottica del villaggio e gli aspetti negativi della sua esistenza vengono eccessivamente accentuati. Si ritiene che l’evoluzione socio-culturale e la «sprovincializzazione» siano incompatibili con il villaggio e i suoi abitanti: esse non possono che arrivare dall’esterno, oppure devono essere raggiunte attraverso la formazione e l’istruzione. A fronte di una simile caratterizzazione del mondo rurale, la società urbana e borghese rappresenterebbe indubbiamente la parte migliore della cultura umana.

Anche la letteratura socialista dei secoli XIX e XX non riconosce solitamente ai contadini capacità politiche progressiste e autocoscienza sociale. Karl Marx e Friedrich Engels furono talmente presi dal tema della emancipazione della classe operaia, che nessuno dei due prestò interesse al ceto rurale, anche perché essi erano convinti di una imminente, completa rovina dei resti del ceto agricolo pre-industriale. Già nel famoso Manifesto del partito comunista (1848), essi elogiano il progressismo della borghesia urbana, al quale contrappongono l’ottusità dei contadini: la borghesia avrebbe già strappato una parte considerevole della popolazione agricola all’«idiotismo della vita rurale». Per Marx ed Engels la proprietà fondiaria contadina rappresenta un fossile dei tempi trascorsi, è già condannata e destinata ad una graduale scomparsa. I contadini in quanto parte del ceto medio costituiscono, secondo Marx ed Engels, una forza conservatrice, anzi reazionaria; e volendo salvaguardare la propria esistenza come ceto medio da un possibile declino, essi combattono la borghesia progressista. Nel primo volume della sua opera maggiore, Il Capitale (1867), Marx designa i contadini nientemeno che come «baluardo dell’antica società», il quale grazie all’evoluzione storica sarà senz’altro spazzato via². Allo stesso tempo egli si manifesta del tutto contrario all’azienda familiare contadina, caratterizzandola con scherno, come una «delle aziende più irrazionali e pigre», la quale, parallelamente all’avanzamento della moderna tecnica agricola, sarà destinata presto a scomparire. Al riguardo bisogna tuttavia notare che Marx non conosceva la realtà dell’azienda contadina e la giudicava pertanto solo con l’ottica di un «cittadino» formatosi sui libri.

² K. Marx, F. Engels, Werke (da qui in poi MEW), vol. XXIII, p. 528 [trad. it. Il capitale, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 617].

Negli scritti dedicati da Marx ed Engels a tematiche contemporanee traspare continuamente un’aperta ostilità nei confronti dei contadini. Marx era esacerbato soprattutto nei confonti dei contadini francesi che durante la rivoluzione del 1848-49 sostennero il regime conservatore di Napoleone III. Tale atteggiamento della popolazione rurale francese rivelava inconfondibilmente, secondo il suo punto di vista, il vero volto di una classe rozza e reazionaria:

La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuol liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne, che vuol rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuol essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio³.

³ MEW, vol. VIII, p. 199 [trad. it. Opere, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 196 sg.].

Anche Engels biasimava allo stesso modo la «radicata ottusità», la «cecità» e la «cocciuta stoltezza» del contadino; sulla scia di Marx egli lo bollava come un barbaro del mondo moderno. Egli sarebbe stato tanto in Germania come in Francia un «selvaggio all’interno del mondo civile». Engels riconduceva questa specifica condizione contadina alla peculiare realtà della vita rurale, e nel farlo si serviva di modelli stereotipi:

L’isolamento del contadino in un villaggio remoto, con una popolazione poco numerosa che cambia soltanto con le generazioni, il lavoro faticoso e monotono che lo lega alla terra più di ogni schiavitù e che rimane sempre lo stesso da padre in figlio, la staticità e monotonia di tutte le condizioni di vita, l’ambiente angusto in cui la famiglia diventa per lui il rapporto sociale più importante e decisivo, tutto questo riduce l’orizzonte del contadino nei limiti più stretti che siano possibili nella società moderna. I grandi movimenti della storia gli passano accanto, di tanto in tanto lo trascinano con sé, ma senza che egli abbia un’idea della natura della forza motrice, della sua origine, della sua direzione⁴.

⁴ MEW, vol. V, p. 471 [trad. it. Opere, vol. VII, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 533 sg.].

Ma oltre tali innegabili attestazioni di antipatia e di scarsa considerazione per i contadini, in Marx ed Engels troviamo anche alcuni accenni alla funzione innovatrice che i contadini avrebbero potuto avere nella storia. Presupposto necessario era che il proletariato ridestasse le potenzialità rivoluzionarie della popolazione rurale fino ad allora imprigionata negli artigli della reazione attraverso false promesse. Ma si cercherebbe invano nei due maggiori esponenti del socialismo un equo giudizio sulle condizioni dei contadini: infatti il modo di vita rurale era per loro, da un lato estraneo, dall’altro anche insignificante, poiché i contadini sarebbero stati ben presto superati senz’altro dal progresso sociale. La piccola economia agricola rappresenterebbe un freno per lo sviluppo socio-economico, un «peso morto», in grado di frenare ovunque il movimento dei lavoratori, come la definiva un libello polemico coredatto da Marx (Eccarius, 1869); essa non avrebbe mai dato buona prova di sé in alcun luogo e quindi non risulterebbe affidabile nemmeno per l’industria o il progresso sociale.

L’assunto generale di una preminenza economica della grande azienda sulla piccola azienda con la conseguente inevitabile esclusione di quest’ultima dal settore economico-industriale, viene esteso dal marxismo senz’altro anche al settore agricolo. Quando nei congressi della Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864, ci si occupò dei problemi agrari, la tesi di una presunta superiorità della grande azienda agraria rispetto alla piccola azienda diventò un punto fermo della dottrina socialista. Nel Manifesto di Ginevra si esplicita dal punto di vista dottrinario quanto segue: «La piccola azienda contadina, a causa dell’onnipotenza del capitale e dell’influsso della scienza, e secondo il nuovo corso degli avvenimenti nonché nell’interesse dell’intera società è destinata irrimediabilmente e senza possibilità d’appello a un lento declino». Ai partiti socialisti si poneva quindi il compito di convincere i contadini e i braccianti di questa verità. Quanto più rapidamente gli agricoltori si fossero uniti all’organizzazione dei lavoratori cittadini, tanto prima si sarebbero liberati delle loro catene. Il successo della propaganda socialista tra i contadini fu pressoché nullo. I contadini proprietari respinsero con decisione la nuova teoria della proprietà collettiva della terra; cosicché il movimento socialista non solo non trovò sostegno nella popolazione agricola, ma in molte regioni creò un clima di ostilità al socialismo.

Il dissenso contro questo nuovo catechismo agrario giunse dal francese Pierre-Joseph Proudhon, anch’egli socialista e membro dell’Internazionale. Schernito da Marx come «piccolo borghese», egli vagheggiò una società futura composta da piccoli contadini liberi, autonomi grazie al loro lavoro indipendente ed alla loro libera proprietà. Ma poiché questa apertura di principio all’economia imperniata sulla famiglia contadina si opponeva alla dottrina marxiana, sorsero accese discussioni già al secondo congresso dell’Internazionale, tenuto a Losanna nel 1867. Nei due congressi successivi, nonostante le disapprovazioni dei proudhoniani, i delegati approvarono una risoluzione che si dichiarava apertamente per la «socializzazione della terra», e così Marx ebbe partita vinta su Proudhon.

Quando, alla fine del secolo XIX, furono mosse nuove critiche alla dottrina marxiana sulla questione agraria, mentre l’azienda familiare contadina dimostrava, contrariamente a tutte le infauste previsioni, di essere ancora vitale, Engels ritenne opportuno intervenire nella controversia. Nel suo articolo La questione dei contadini in Francia e in Germania (1894), egli assunse una posizione critica rispetto alle pretese dei socialisti per un programma in difesa dei contadini, sottolineando invece il dovere continuo di convincere i contadini a non nutrire speranze riguardo al loro futuro. A suo dire, «esiste l’assoluta certezza che la grande produzione capitalistica schiaccerà la debole e superata piccola azienda contadina come un treno farebbe con una carriola»⁵. L’azienda familiare contadina quindi non avrebbe futuro.

⁵ MEW, vol. XXII, p. 502.

La posizione dei marxisti rispetto al problema agrario si spiega chiaramente se si tiene presente la vita prevalentemente cittadina della maggior parte dei socialisti e quindi la loro inevitabile ignoranza delle condizioni di vita rurali. In una società industriale e urbana quale quella dei secoli XIX e XX riusciva difficile, specialmente ai professori e agli operai, comprendere fino in fondo le reali condizioni di vita dei contadini nelle campagne. Pertanto la maggioranza degli economisti, dei sociologi e degli storici si interessava soprattutto al mutamento nella civiltà urbano-industriale, ponendolo al centro delle loro ricerche. Così essi attribuivano la priorità a fenomeni come la genesi dello stato moderno e le connesse nuove forme sociali, allo sviluppo dell’industrializzazione e all’espansione delle città, nonché allo studio delle nuove norme e valori che ne derivavano; mentre si interessavano meno della società pre-industriale e della cultura contadina che, anzi, appariva ai loro occhi sempre più estranea e passava quindi in secondo piano.

Al contrario, a causa dei problemi pressanti del Terzo Mondo, nei decenni dopo la seconda guerra mondiale rinasce un nuovo interesse per le strutture delle società rurali e la storia del ceto contadino europeo. Soprattutto l’antropologia sociale e quella culturale si affermano in vari paesi come apprezzate discipline di ricerca contribuendo così ad una nuova visione della società rurale e lasciandosi alle spalle, con decisione, tanto un’immagine conservatrice e idealizzata del villaggio, quanto le prospettive proprie dell’Illuminismo e della Scuola di Francoforte, per giungere a una valutazione più esatta della vita contadina nei suoi molteplici aspetti. Questa svolta in senso socio-antropologico nell’approccio alla società rurale fu caratterizzata dal porsi di un’ampia serie di questioni e da una fruttuosa collaborazione interdisciplinare tra antropologi, etnologi, sociologi e storici. Il concetto di peasant society, sviluppato originariamente dagli studiosi R. Redfield, L.A. Fallers ed E.R. Wolf per i paesi dell’America latina, dell’Africa e dell’Asia, si addiceva particolarmente all’analisi strutturale di società rurali, e fu agevole adattarlo anche allo studio delle condizioni agrarie dell’Europa.

Ma quali sono gli elementi strutturali caratteristici di una società contadina? La peasant society si distingue strutturalmente sia dalla società tribale primitiva (tribal society) che da quella industriale moderna (industrial society). I contadini formano il gruppo principale di una società fondata sulla divisione del lavoro nella quale non tutti gli individui sono impegnati nell’agricoltura; oltre ai contadini troviamo soprattutto mestieri legati all’artigianato ed al commercio. La società contadina presenta quindi oltre ai villaggi anche mercati e città, presupponendo dunque un’interazione fra città e campagna. I prodotti della campagna costituiscono la maggior parte dei beni di consumo necessari; essi vengono prodotti dalla piccola azienda familiare contadina relativamente autarchica. La componente contadina di questo tipo di società è caratterizzata da un forte tradizionalismo e da saldissimi legami comunitari a livello locale, diversamente da quanto accade nella moderna società industriale. Un’altra caratteristica delle società contadine è il dominio esercitato da individui ad esse estranei. I contadini dipendono da potenti signori e sono obbligati al pagamento di tributi e a prestazioni di servizi in loro favore.

Secondo E.R. Wolf l’importanza storica delle società contadine risiede soprattutto nel fatto che le moderne società industriali si sviluppano essenzialmente a partire da quelle. Le società contadine si distinguono dalle società primitive soprattutto grazie alla loro caratteristica di avere rapporti di mercato. I contadini si recano a vendere le eccedenze dei loro prodotti in mercati, che spesso diventano città; inoltre sono integrati in un’unione politica i cui membri non-contadini possono avanzare pretese nei loro confronti e addirittura imporre sanzioni per soddisfare tali pretese. L.A. Fallers analizzò accuratamente il rapporto intercorrente tra i contadini e il resto della società. Le aziende agricole contadine, le quali costituiscono le cellule della peasant society, sono pertanto semi-autonome, perché se sono in grado di provvedere al proprio consumo interno, dipendono in parte anche dalla commercializzazione dei loro prodotti. Da un punto di vista politico le famiglie contadine e i villaggi sono altrettanto semi-autonomi, ed esiste pure, in ambito culturale, una cultura popolare contadina a fianco di una cultura alta urbana.

Il concetto socio-antropologico di peasant society coglie senza dubbio aspetti ragguardevoli delle società contadine, ed è valido anche per lo studio delle società rurali europee del Medioevo e dell’età moderna, nelle quali gran parte della popolazione contadina traeva il proprio sostentamento dalla economia agricola, era inquadrata secondo un ordinamento tradizionale e caratterizzata da una specifica forma economica, di mentalità e di modo di vivere. Tale nuova prospettiva considera da una parte la relativa autonomia dei rapporti rurali, riservando dall’altra una attenzione maggiore ai modelli di pensiero e di comportamento della popolazione contadina. Così possiamo comprendere meglio fenomeni come l’economia dell’azienda familiare contadina e i vincoli di stampo feudale, l’ordine tradizionale nella scala dei valori e le forme specifiche di resistenza, e formarcene un quadro complessivo omogeneo. L’autonomia della vita contadina non dovrebbe tuttavia essere sopravvalutata, giacché fino alla loro emancipazione i contadini del periodo medievale e moderno hanno subìto l’influenza del feudalesimo.

I crescenti problemi dell’economia a base prevalentemente agraria hanno favorito senza dubbio uno sguardo retrospettivo delle società industriali europee verso il loro passato agricolo, stimolando le ricerche relative al ceto contadino europeo. Fenomeni come l’aumento della popolazione, i cattivi raccolti, i disastri causati dalle carestie, la scarsità di terre ed i movimenti migratori di masse contadine che ritroviamo in molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo, sono comuni anche alle società agrarie dell’Europa pre-industriale. Uno sguardo ai paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina ci mostra che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è ancora composta da contadini e trae dalla terra e dall’allevamento i mezzi di sussistenza. In balia del tempo, del clima e delle oscillazioni della produzione agricola, essa è perciò molto spesso vicina al limite minimo della sopravvivenza.

L’ottimismo nella politica di sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, è stato frenato in tempi più recenti da gravi insuccessi. La politica agraria ha mostrato in particolare alcuni fallimenti nei paesi in via di sviluppo, imputabili sicuramente alla scarsa conoscenza delle forme tradizionali dell’economia rurale. La pianificazione economica nei paesi cosiddetti «sottosviluppati» ha dato la preferenza per lungo tempo ad una rapida industrializzazione: così il settore agricolo ha avuto un ruolo secondario rispetto a quello industriale. D’altra parte enormi capitali venivano profusi nell’agricoltura, consentendo grandiosi progetti come dighe di sbarramento e costosi impianti di irrigazione: tali enormi piani avrebbero dovuto modernizzare l’agricoltura «arretrata» e forzare così le tradizionali strutture socio-economiche.

Solo negli anni Ottanta con l’esplosione demografica, la difesa dell’ambiente e i primi insuccessi, la politica dello sviluppo ha iniziato a considerare con maggiore interesse le strette connessioni fra sviluppo economico, dinamica demografica e danni all’ambiente. Fenomeni spettacolari quali la distruzione dei boschi, l’impoverimento dei suoli e i terribili danni dovuti all’erosione, sono imputabili in parte agli errori di prospettiva della politica agraria, tra cui in primo luogo le previsioni intorno alla piccola azienda contadina, la cui intrinseca capacità di adattamento è stata sottovalutata. L’economia agricola contadina, predominante in molti paesi in via di sviluppo, è stata a lungo giudicata dall’agronomia, aprioristicamente, una forma economica superata. Tuttavia le ultime ricerche riscontrano anche nelle piccole aziende, dedite prevalentemente a una economia di sussistenza, una notevole flessibilità e un’apertura verso i meccanismi di mercato. Poiché l’85% della produzione agricola dei paesi in via di sviluppo proviene da piccole aziende familiari contadine, la politica dello sviluppo agricolo dovrebbe preoccuparsi soprattutto di sostenere i piccoli agricoltori. In molti paesi in via di sviluppo le piccole aziende sono chiaramente più redditizie delle grandi, e garantiscono migliori risultati. La rivalutazione dell’economia contadina su base familiare è da ascrivere negli ultimi decenni soprattutto agli scritti dell’agronomo russo A. Chayanov, che attraverso numerose ricerche sulle forme di azienda contadina elaborò una convincente teoria sulla conduzione economica di tale azienda. Essa sottolinea le strutture peculiari dell’economia contadina ed il carattere specifico della produzione e del consumo all’interno dell’azienda familiare.

Dal movimento ecologista giungono nuovi impulsi per una più ponderata riflessione sul ceto contadino europeo. Le notizie diffuse dai mezzi di informazione sul progressivo degrado dell’ambiente e la distruzione delle foreste, le calamità naturali e la desertificazione di vaste zone agricole hanno trovato nel frattempo vasta risonanza nell’opinione pubblica, suscitando un forte movimento per la tutela dell’ambiente e conseguentemente della salute umana, in cui le tradizionali forme di economia rurale trovino una loro appropriata funzione. L’impatto sull’ecologia dell’industria agraria e di un intenso sfruttamento agricolo del territorio non può più essere ignorato. Nitrati nelle falde acquifere, residui di pesticidi negli alimenti o le sofferenze degli animali negli allevamenti a ciclo continuo per le crescenti esigenze di mercato, sono solo alcuni dei temi trattati sui quotidiani degli ultimi anni, in materia di agricoltura e di ambiente. Tutti questi fenomeni hanno via via rafforzato le critiche alla politica agraria seguita finora e sono serviti a rivendicare il diritto a un’agricoltura in armonia con l’ambiente. Si è finalmente riconosciuto che in molte regioni l’agricoltura è fondamentale per la conservazione del paesaggio e delle risorse. Il contadino assume così il ruolo di garante e custode di un’economia agricola che possa conciliare produzione e difesa dell’ambiente. Dobbiamo allora chiederci su quali basi poggia il tradizionale ceto contadino europeo e quali elementi dovrebbero esser tenuti presenti per mantenere in vita l’assetto dell’azienda contadina e il paesaggio rurale improntato ad essa.

La politica agraria è entrata in profonda crisi non solo per i problemi di carattere ecologico, ma anche per quelli di carattere economico. Gli abnormi incrementi nella produzione agricola sono sfociati, all’interno della Comunità europea, in una elevata sovrapproduzione; i crescenti costi d’investimento nel settore, rispetto ai decrescenti profitti dei contadini, sono la conseguenza di questo sviluppo. Il mercato agricolo europeo determina, nel frattempo, costi così elevati da non poter venire finanziato più a lungo nella sua forma attuale. Per questo, lo si voglia o no, è necessario dar vita a una nuova politica agricola. Nessun settore economico è mutato in modo così rapido e profondo come quello agrario europeo: dai 15 milioni di persone occupate nell’agricoltura all’interno della Comunità dei Sei nel 1960, si è giunti nel 1987 a 5 milioni, appena un terzo. Parallelamente all’esodo dal settore agrario, si è ridotto il numero delle aziende agricole: dei quasi 6,4 milioni di fattorie nella Comunità dei Sei venti anni dopo, nel 1980, ne rimanevano appena 4,8 milioni. Questa mortalità di aziende agricole condusse contemporaneamente alla formazione di unità aziendali più grandi, nonché a una crescente specializzazione e meccanizzazione. Gli operatori orientavano sempre piú i loro sforzi verso poche produzioni specializzate, quelle che, considerando la natura dei terreni o le possibilità produttive, promettevano il rendimento migliore.

A causa dei mutamenti strutturali, molti villaggi sprofondarono in una grave crisi di sopravvivenza: invecchiamento della popolazione, aziende abbandonate, emigrazione giovanile e una riduzione sempre maggiore delle infrastrutture furono le conseguenze di tale processo, unito spesso alla perdita dell’identità locale e regionale della popolazione rimanente. Dinanzi a questo cambiamento dell’economia agraria e dell’habitat rurale si pone il problema della validità o meno dell’indirizzo della politica agraria europea seguito fino ad ora: un’economia agraria segnata dalla prevalenza dell’azienda agricola familiare. Se si vuole mantenere una struttura sociale equilibrata e un paesaggio rurale improntato alla presenza contadina, allora un’agricoltura rivolta alla coltivazione di estese superfici o la concentrazione in poche grandi aziende sono sicuramente da evitare. Il rischio di scomparire per le aziende familiari contadine interessa sin dal 1945 soprattutto un gran numero di fattorie piccole e medie: così si pone, in primo luogo, la domanda se e a quali condizioni l’agricoltura contadina su piccola scala, possa avere ancora una prospettiva nella Comunità europea.

La crisi agricola dell’Europa occidentale non può venire attenuata neanche dal confronto con la più gravosa congiuntura economica e sociale legata alla situazione agraria della sua parte orientale. Alla forzata collettivizzazione fondiaria ordinata da Stalin e alla connessa brutale e sistematica eliminazione dei kulaki, seguì nell’agricoltura sovietica lo sforzo, sotto una direzione centralizzata, di risolvere i difficili problemi legati all’approvvigionamento e alla produzione. La crisi dell’agricoltura russa è oggi evidente soprattutto nella produzione insufficiente al fabbisogno nazionale, e nella conseguente dipendenza da un’ampia importazione di cereali, nonché in elevate sovvenzioni per il settore agrario. Il limitato rendimento dell’agricoltura russa diventa palese specialmente se rapportato a quello statunitense: mentre in Russia ancora il 20% della popolazione attiva è impiegato nell’agricoltura, il settore primario degli Stati Uniti, sebbene occupi solo il 3% di forza-lavoro, fornisce una elevata sovrapproduzione. Il tenore di vita della popolazione agricola russa è relativamente basso e i mezzi di produzione di quei villaggi risultano insufficienti. Questa carenza infrastrutturale comporta per la Russia non solo perdite ragguardevoli in diversi settori produttivi al momento dei raccolti, ma anche la distruzione di prodotti causata da strutture insufficienti e inadeguate alla loro conservazione.

La condizione sociale dei kolchoziani e dei coltivatori è migliorata sotto la direzione dei segretari generali succedutisi dopo Stalin e poi grazie alle riforme iniziate da Gorbacëv; tuttavia la situazione della popolazione agricola rappresenta ancora l’anello debole della società russa. Accanto ai beni di proprietà statale (sovchozy) e alle cooperative (kolchozy), la gestione privata di piccole aziende rappresenta ancor oggi, stranamente, una voce importante per l’approvvigionamento della popolazione di prodotti agro-alimentari. Sebbene questa gestione privata «secondaria» assommi (1976) solo all’1,25% dell’intera superficie coltivabile, da essa si ricava il 64% dell’intera produzione di patate ed il 22% della carne e dei prodotti caseari. Solo con una maggiore produttività dei lavoratori agricoli sia dei sovchozy che dei kolchozy si assicurerebbe, per un prossimo futuro, un approvvigionamento sufficiente a soddisfare la domanda interna, a differenza di oggi, garantendo nel contempo il miglioramento del tenore di vita del popolo russo. La pratica inveterata di negare ai kolchoziani persino il passaporto era un indizio incontrovertibile che un esodo incontrollato dei lavoratori delle campagne avrebbe potuto trasformarsi facilmente in una fuga inarrestabile in grado di spopolarle. Il permanere di vincoli che legavano d’autorità alla terra era quindi una prova della lunga incapacità da parte dell’economia sovietica di trovare un bilanciamento del libero impiego tra il settore agricolo e quello industriale; anche per questo il tenore di vita degli agricoltori rimase a un livello estremamente basso.

Dopo la seconda guerra mondiale il modello sovietico della collettivizzazione agraria si trasmise ai paesi dell’Europa centro-orientale occupati dalle truppe sovietiche, ma in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia essa non venne perseguita con eguale coerenza. La collettivizzazione fu esaltata appassionatamente dai comunisti quale soluzione a tutti i problemi dell’agricoltura, tuttavia il collegamento tra essa e la riforma agraria incontrò quasi dappertutto una forte opposizione. Più energicamente essa veniva portata avanti e più aumentava il rancore dei contadini colpiti da tali provvedimenti: così la popolazione riuscì in generale a difendersi dal totalitarismo agrario della dittatura staliniana. La collettivizzazione venne perseguita energicamente con l’aiuto della coercizione statale, segnando per decenni la condizione agraria dell’Europa orientale. Ma i risultati furono deludenti per diverse ragioni: resistenza delle organizzazioni degli agricoltori a tali direttive, pessima organizzazione delle cooperative, insufficienza strutturale dei capitali delle fattorie, nonché brutalità nel soffocare l’iniziativa privata.

Nonostante tutte le sue carenze, la collettivizzazione rappresentò a lungo, nei paesi dell’Europa centrale e orientale, il fine ultimo della politica agraria «ufficiale». Ciò comportò una trasformazione profonda della struttura agraria e delle condizioni di vita rurali in quei paesi dove essa si affermò, ostacolandovi la possibilità di un ritorno alla gestione privata dell’economia agraria così come quella perseguita, in parte, con le riforme di questi ultimi anni. Con l’esodo della parte più valida della popolazione rurale dalla campagna, l’invecchiamento della parte rimanente e l’esigenza di un più elevato tenore di vita sentita dalle giovani generazioni, spesso è venuto a mancare il terreno per una ripresa delle aziende agricole. La maggioranza delle regioni agricole della Europa centro-orientale sperimenta un duplice processo di transizione: da un lato la parte collettivizzata e meccanizzata dell’economia rurale, sovvenzionata dallo stato e strettamente legata all’industria agraria; dall’altro un settore privato che diviene sempre più importante e produce una parte sorprendentemente grande di beni primari destinati all’approvvigionamento. Fino a che punto le aziende private contadine dell’Europa orientale posseggano realistiche prospettive future, si vedrà dai successivi sviluppi.

La situazione critica in cui versano l’agricoltura e i vari tipi di aziende contadine nell’Europa occidentale e orientale ci inducono a considerare la differente storia agraria delle singole regioni europee e a interrogarci sulle basi del mondo contadino europeo. Le conoscenze acquisite sulla peculiarità dell’antico ceto contadino e sui tratti principali della sua storia nei vari paesi europei possono forse suggerirci i rimedi per salvaguardare le forme tradizionali del modo di vita contadino. Così l’analisi storica del ceto contadino europeo dischiude prospettive per la soluzione dei difficili problemi che oggi lo affliggono. Nei capitoli seguenti tracceremo alcuni lineamenti dello sviluppo della popolazione contadina dei principali paesi europei, dall’alto Medioevo ai nostri giorni. Il differente stato della ricerca nelle molteplici aree geografiche, nonché la varietà nelle principali caratteristiche socio-economiche della vita contadina nelle diverse regioni d’Europa, ci rendono possibile seguire solo per grandi linee il suo sviluppo storico. Un’esposizione esauriente non è perciò perseguibile né realizzabile; già ci vuole coraggio per cercare di comprendere alcuni aspetti delle molteplici forme di esso. L’estensione della cultura popolare contadina, la quale ha prodotto nei vari paesi una grande varietà di usi, consuetudini e tradizioni, non potrà essere studiata più dettagliatamente. Le condizioni di vita dei contadini, i quali rappresentavano in genere nel periodo medievale e nell’età moderna più dell’80% della popolazione totale, in quest’epoca caratterizzata da una civiltà e da una società industriale ci sono divenute così estranee, da mettere a dura prova la nostra capacità di comprenderle.

2.
È mai esistito un ceto contadino europeo?

Gli emigranti europei arrivati in America prima e durante la seconda guerra mondiale, dovettero confrontarsi con una diversa realtà socio-economica. Tra le caratteristiche della società statunitense vi erano anche un’economia agraria particolare e un consolidato sistema di fattorie (farms) la cui peculiarità, rispetto al mondo contadino europeo, essi colsero con interesse. Gestite da abili agricoltori (farmers), le aziende agricole americane erano imprese capitalistiche come tutte le altre, il cui scopo principale era il conseguimento del massimo profitto. Un ceto contadino autoctono radicato nella famiglia, nel villaggio e in un’antica tradizione rurale, lo si sarebbe cercato invano nelle distese coltivate dell’America settentrionale.

L’agricoltura americana, rispetto a quella europea, era già allora notevolmente specializzata e meccanizzata. La formazione di estese superfici arative e la veloce introduzione di una tecnica agricola avanzata avevano condotto a un incremento della produzione e contemporaneamente a un calo irreversibile della forza-lavoro occupata nel settore primario. Rispetto al contadino europeo, il farmer americano era assai più dinamico, fortemente orientato verso una mentalità di profitto e maggiormente disposto alla vendita di terreno infruttifero; inoltre egli era più propenso a sperimentare, sulle terre di recente colonizzazione, migliorie colturali e differenti specie di piante. Si adottarono con entusiasmo nuovi procedimenti, si introdussero macchinari in grado di far risparmiare lavoro per ridurre i costi e si cercarono nuove forme di mercato. A ciò si aggiungeva come stimolo la prospettiva di realizzare una produzione industriale su larga scala, la copiosa disponibilità di capitale e una maggiore mobilità rispetto alla proprietà fondiaria.

Un europeo arrivato in America prima della seconda guerra mondiale che fece interessanti confronti tra le farms americane e la cultura contadina europea, e in generale tra lo sviluppo storico americano e quello europeo, fu lo storico Dietrich Gerhard. Allo stesso modo del francese Alexis de Tocqueville, arrivato in America cento anni prima, il quale nelle sue opere¹ aveva descritto la società americana come informata alle idee di uguaglianza sociale, Gerhard cercò di indicare al suo pubblico, accanto agli elementi comuni, quelli specifici della cultura americana e della cultura europea. Come ebbe cura di far comprendere, durante la sua permanenza negli Stati Uniti, le linee e le idee fondamentali della storia europea agli interessati americani, così, dopo il suo ritorno, si impegnò a spiegare agli studenti tedeschi le differenti strutture della politica, della cultura e della società americane.

¹ A. de Tocqueville, De la démocratie en Amerique.

Rispetto alla relativa disarticolazione ed alla notevole mobilità della società americana, figurano, secondo Gerhard, fra i connotati tipici delle forme di vita europee precise articolazioni sociali e limiti regionali². A differenza della società americana, caratterizzata dall’egualitarismo, dalla mobilità e dalla tecnologia, in Europa il legame con la terra, il radicamento localistico e le tradizioni culturali di marca cetuale-corporativa avrebbero rivestito un ruolo centrale; come apparirebbe evidente soprattutto nelle popolazioni rurali. Confrontato con i rapporti agrari esistenti in America o in Russia, il mondo contadino europeo sarebbe contrassegnato da una secolare staticità e da una solida tradizione comune. Esso si baserebbe con evidenza su una forma specifica di stanzialità che sarebbe stata il presupposto per il progressivo svilupparsi dell’ordinamento agrario e per «stati» in Europa.

² D. Gerhard, Regionalismus und ständisches Wesen als ein Grundthema europäischer Geschichte, in Id., Alte und neue Welt, pp. 13-39; Id., Die Entwicklung der amerikanischen Gesellschaft als ein Problem vergleichender Geschichtsbetrachtung, ivi, pp. 159-72.

Quando Alexis de Tocqueville, nel 1831, sotto lo choc della rivoluzione parigina di Luglio, partì per l’America per conoscere il nascente mondo dell’uguaglianza, vi trovò una società prevalentemente agricola, ma già in una fase di mutamento profondo, molto lontana ormai dall’antico ordine corporativo europeo. Nelle aree rurali il villaggio era indubbiamente esistito in alcune regioni del New England; ma, sotto la spinta della speculazione fondiaria e delle successive ondate migratorie esso sparì rapidamente. In questo paese di immigrazione e di colonizzazione interna non c’era posto per un forte legame con la terra e gli stessi immigranti si liberarono ben presto di questi vincoli. Lo sviluppo di un’agricoltura commerciale si fece strada nell’America settentrionale, dunque, soprattutto grazie all’influsso della espansione migratoria verso l’Ovest.

Il periodo della «frontiera», l’epoca temeraria del movimento pionieristico del XIX secolo mutò in breve tempo il paesaggio rurale del Nord America e lasciò la sua impronta sulla popolazione contadina. In questo periodo di fioritura del commercio mondiale, dai contadini e immigranti europei, insediati su nuovi territori e formati all’esperienza di vita del pioniere, nacque il farmer individualista americano. Scomparvero le tradizioni contadine tipiche del villaggio del vecchio continente e nacque una nuova figura di contadino, mobile ed abile negli affari. Sotto la pressione dei forti movimenti migratori dai sovrappopolati paesi europei, del mercato capitalistico e della nascente industria, si affermò un’agricoltura orientata verso il profitto che darà un forte impulso ai movimenti di colonizzazione, segnando le grandi regioni agricole americane. Solo nelle alte valli e in territori isolati, lontano da un’agricoltura commerciale, sopravvivranno ancora a lungo aziende contadine orientate prevalentemente all’autoconsumo. L’ideale di un farmer libero che produce sulle proprie terre, con una forza-lavoro libera, forgiò la struttura agraria del Nord, e questo ideale si impose nella guerra di Secessione americana sulla conduzione schiavistica delle grandi piantagioni del Sud.

In che modo il proprietario americano di una farm poteva diventare ricco e trasformarsi da piccolo colono in grande imprenditore agricolo? Soprattutto due strade portarono all’ascesa economico-sociale. Una era rappresentata dalla possibilità di rivendere dopo qualche tempo gli appezzamenti recentemente acquistati, traendone il massimo profitto speculativo possibile, grazie ad una vendita vantaggiosa rispetto al valore iniziale. In contrapposizione a questa speculazione fondiaria, molto rischiosa, si faceva strada, però, un modo più sicuro per incrementare il guadagno: i farmers aumentavano la produzione dei beni primari, cosicché, una volta soddisfatto il fabbisogno familiare, rimaneva ancora a disposizione una parte considerevole che essi potevano vendere ai mercati, allora in forte espansione. Lo sviluppo della rete stradale e ferroviaria, nonché la crescita della domanda nei centri industriali e urbani, crearono notevoli possibilità di smercio dei prodotti agricoli.

La nascita di questa nuova figura di contadino, volto al guadagno e al profitto, venne favorita dal fatto che il farmer spesso non era di origini contadine. Proprio il non essere un tipico rappresentante della tradizione contadina, ne faceva un efficiente pioniere delle terre di «frontiera». Questo nuovo agricoltore, pronto al rischio, intuì molto presto che doveva adeguarsi alla realtà economica in trasformazione, puntare alla conquista di nuovi territori, a mettere in opera nuovi metodi di coltura e moderni procedimenti, e a scommettere su nuove razze da allevamento. Egli era altresì alla continua ricerca di nuovi mezzi e di nuove strade che rendessero più redditizio il suo lavoro e permettessero l’applicazione delle sue capacità su appezzamenti più vasti, consentendogli così una resa più alta da destinare poi al mercato. Il farmer americano faceva parte indubbiamente di una società che dava assoluta priorità alla proprietà e a una imprenditorialità libera, fermamente convinta delle possibilità del progresso tecnologico.

La formazione di vaste regioni agricole specializzate per la coltura del grano, del granturco e di altre piante, come pure la rapida meccanizzazione, testimoniano l’abilità del farmer americano, che dimostrava di saper ben recepire gli stimoli provenienti dai mercati interni ed esteri. Spazi a colture specializzate e regioni dedite alla produzione di latticini e di carne erano le risposte adeguate ai crescenti bisogni alimentari conseguenti all’espansione delle città e ad un più efficiente sistema di trasporto. La meccanizzazione agricola mostrò inequivocabilmente di quali potenzialità poteva disporre una agricoltura moderna per la trasformazione del processo produttivo nel quadro dello sviluppo industriale. I farmers americani trassero subito profitto da tutte le possibilità legate alla meccanizzazione del processo produttivo. Inoltre trovarono rapidamente un’applicazione pratica per le scoperte scientifiche che permettevano nuovi metodi di fertilizzazione, coltivazione e foraggiamento.

Lo sviluppo di una moderna agricoltura da parte di farmers orientati verso il maggior profitto possibile, dipese nell’America settentrionale da condizioni socio-economiche diverse da quelle europee. Tra le forze sociali che incisero sulla società rurale americana, una fu la struttura familiare e in modo particolare le forme di rapporto con il vicinato. Sebbene si sia scarsamente indagato sugli sviluppi della famiglia del farmer americano e sulle sue caratteristiche, distinte da quelle della famiglia contadina europea, tuttavia è possibile fare qualche considerazione. La famiglia del farmer americano possedeva notoriamente una particolare coesione, poiché i singoli poderi di solito erano isolati e sparsi sul territorio; essa era anche meno autoritaria, giacché tutti i suoi componenti prendevano parte al lavoro; inoltre essendo la farm un’azienda familiare condotta da ambedue i coniugi, è evidente che la donna aveva un ruolo più indipendente rispetto alla famiglia contadina europea. La famiglia del farmer americano era contraddistinta, tra l’altro, dalle medesime norme etiche che regolavano la società americana in genere: un’austera ed intransigente morale del lavoro nonché un’alta valorizzazione del successo economico.

I villaggi, così come li ha conosciuti l’Europa nel corso dei secoli, non hanno mai fatto parte del paesaggio rurale americano. Al loro posto, l’America ha conosciuto un proprio sistema di rapporti sociali sviluppatosi tra i singoli farmers e una ben definita rete di vicinato. Non è nell’unione di una comunità di villaggio, ma nell’ambito di questo «insediamento sparso» che i farmers cercavano vicendevole aiuto per i lavori che richiedevano un intervento comune, come, per esempio, il trasporto dei tronchi, la raccolta di prodotti agricoli, la costruzione di edifici comuni e l’innalzamento di staccionate. La trebbiatura del grano, prima dell’introduzione della trebbiatrice, rappresentava un’importante attività in cui si manifestava la cooperazione tra vicini. Accanto a queste forme di aggregazione sociale, troviamo la chiesa, che giocava un ruolo importante nella società rurale americana. La chiesa non era solo luogo di incontro religioso, ma anche centro di aggregazione dove scambiare esperienze e notizie e intrecciare relazioni.

Se pensiamo a quanto detto sui farmers americani, dobbiamo ora chiederci: in cosa consiste l’essenza specifica del ceto contadino europeo? Sullo sfondo della figura del farmer americano, ci appare più chiara la diversità dei contadini europei nel corso della loro storia: cioè come essi abbiano caratteristiche che li distinguono dalla popolazione rurale americana e di altri paesi. Strettamente connessa a questa problematica è la definizione del concetto e della figura storica del contadino. Cosa significa essere un contadino? In cosa si distingue il contadino europeo dal farmer americano, e più in generale da un agricoltore con una mentalità di profitto tipica della moderna società industriale? E infine quali caratteristiche contraddistinguono il contadino da un abitante della città o da un nobile?

I contadini compaiono come ceto già dall’inizio del Medioevo maturo. È sorprendente la coincidenza fra questi aspetti e quelli riscontrati dalla antropologia culturale – precedentemente accennati – fra i contadini (peasants) e le società contadine (peasant societies) dei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina. I contadini rappresentano dunque il gruppo principale all’interno di un contesto sociale fondato sulla divisione del lavoro, nel quale esistono anche artigiani, commercianti, mercanti. In questa società i contadini sono dominati prevalentemente da individui estranei, hanno un atteggiamento fondamentalmente tradizionalista e vivono inseriti entro forme comunitarie locali.

R. Wenskus individua, secondo questa specifica forma economica e lavorativa, cinque criteri nel caratterizzare la figura-tipo del contadino³. 1) Il contadino è produttore di beni vegetali e animali, pratica quindi l’agricoltura e l’allevamento. In questo egli si distingue tanto dalla figura dell’allevatore nomade quanto da quella preistorica del raccoglitore o del pescatore. 2) Egli produce i suoi beni nell’ambito di un’unità economica autosufficiente. In ciò dunque egli si discosta dall’immagine tipica dello schiavo-coltivatore di latifondi del mondo romano come pure da quella del moderno agricoltore. 3) Il lavoro dei campi viene eseguito per mezzo dell’aratro, arnese essenziale soprattutto per il contadino europeo. 4) Il contadino lavora personalmente la sua terra: ciò lo distingue dal grande proprietario terriero che invece concede in affitto le proprie terre ai contadini. 5) Il contadino è aiutato nel lavoro dei campi dai componenti della sua famiglia e da lavoranti. A questo criterio, ovvero di contribuire con il proprio lavoro alla gestione dell’azienda agricola, si connettono alcune caratteristiche riguardanti l’intero assetto proprietario dell’azienda contadina. Un’unità economica contadina non può, da un lato, scendere al di sotto di una determinata dimensione, se vuole garantire alla famiglia contadina un sufficiente cespite d’entrata; d’altro canto, non può superare una determinata grandezza, poiché in tal caso non garantirebbe più, a causa dei crescenti problemi organizzativi e dell’insufficiente forza-lavoro, efficienza e funzionalità. Il manso rappresenta verosimilmente in origine una siffatta unità economica contadina, la cui dimensione variava sensibilmente a seconda dell’assetto fondiario.

³ R. Wenskus, «Bauer», pp. 13 sgg.

Generalmente alla nozione di contadino sono connesse, oltre questi criteri economici, anche alcune caratteristiche che riguardano soprattutto i modi di vita e di comportamento. Al contadino si attribuisce una tipica stanzialità; il radicamento alla terra appartiene dunque al primo orizzonte dell’esistenza contadina. Max Weber spiegava che questo radicamento era una conseguenza del progresso tecnico-economico e dell’intensificarsi dell’attività produttiva agricola, nonché dell’infittirsi degli insediamenti. La crescente occupazione nel lavoro dei campi comportò una crescente ruralizzazione dell’attività economica. In seguito a questo serrato avanzare della colonizzazione, l’allevamento verrà sempre più limitato a vantaggio dell’agricoltura. Evidentemente il legame alla terra del contadino veniva meno in quelle aree dove prevaleva l’allevamento.

A questa stanzialità si unisce anche l’immagine di un contadino dal carattere pacifico e non bellicoso. I molti e crescenti obblighi del contadino connessi all’attività produttiva e la progressiva importanza della cavalleria lo esclusero progressivamente, sin dall’alto Medioevo, dalla partecipazione alle attività militari; nella «tregua di Dio» disposta per i territori dell’impero nel 1152 venne addirittura promulgato il divieto, per i contadini, di portare armi. Nel lungo periodo un podere contadino di media grandezza non poteva garantire il mantenimento di un cavaliere armato, sicché si andò costituendo una classe di cavalieri specializzati per la guerra. Inoltre la lentezza tipica delle milizie contadine era uno svantaggio notevole rispetto alla rapidità e alla mobilità dei cavalieri, sicché nelle leve militari si fece sempre meno ricorso ai contadini. Gli insediamenti di contadini-guerrieri cosacchi, nel Sud della Russia, e gli avamposti militari austriaci situati lungo la frontiera dell’impero turco rappresentarono un’eccezione a questa figura del contadino pacifico, non adatto alla guerra.

È tipica della mentalità contadina una componente conservatrice; questa tendenza al tradizionalismo distingue il contadino dal cittadino e dai modi di vita e di pensiero tipicamente urbani. Rispetto alla città, il contadino persiste nelle forme di vita che gli sono trasmesse, ed è comunque più legato alle tradizioni; di conseguenza viene spesso bollato come persona retriva e nemica del progresso.

Ma il contadino è davvero avverso al progresso? Come bisogna interpretarne l’atteggiamento conservatore per non darne un’immagine falsata? I contadini del pieno Medioevo, rispetto ai primitivi cacciatori e raccoglitori di prodotti spontanei, sono sicuramente pionieri del progresso e hanno introdotto una serie di innovazioni nel mondo del lavoro, nei rapporti sociali e nella cultura. Le ricerche sulle società agricole del Terzo Mondo condotte negli ultimi anni hanno dato importanti indicazioni per una più aggiornata immagine del tradizionalismo contadino e della logica di una economia tradizionale, che dovrebbero valere anche per la storia sociale contadina della vecchia Europa.

I contadini risultano ben disposti verso innovazioni e riforme agrarie, se riconoscono di poterne ricavare vantaggi. L’attenersi dei contadini indiani ad una organizzazione territoriale strutturata in strisce fortemente parcellizzate dipendeva dal fatto che quei contadini intendevano premunirsi, in questo modo, contro le sensibilissime fluttuazioni nel raccolto e compensare le differenti qualità del suolo. Con ciò si evitava l’indebitamento, la perdita dei terreni e l’arretramento sociale nella gerarchia della comunità di villaggio, anche se ciò comportava la rinuncia ad ottimizzare la produzione. Invece di presupporre ciecamente un tradizionalismo contadino, si dovrebbe spiegarne l’intrinseca razionalità. Ad ogni modo è tempo di respingere la visione di un contadino vòlto al passato e saldamente ancorato nelle sue decisioni ad abitudini inveterate; dovremmo invece domandarci, di volta in volta, perché i contadini si mantengono fedeli a determinati comportamenti.

La comparsa di un ceto contadino con precise caratteristiche economiche, sociali e culturali si ebbe solo a partire dall’XI secolo, quando si verificò una differenziazione sociale fra cavalieri e contadini. Decisiva per tale differenziazione fu indubbiamente la costituzione di una classe di guerrieri di professione, basata su feudi, su grandi proprietà fondiarie e sulla disponibilità di sudditi. I vassalli nobili e il nascente ceto dei cavalieri (i milites), si andavano così distinguendo sempre più nettamente dalla maggioranza della popolazione contadina. Questo nuovo assetto del ceto contadino emerso in Europa con l’XI secolo si conservò per secoli e influenzò la storia dei paesi europei nel Medioevo e nell’età moderna. Ma quali sono le caratteristiche proprie di questo ceto, e in quali paesi e regioni d’Europa era diffuso?

La nozione di «Europa» qui sta a indicare un’area storica e non un’area geografica. L’Europa dei geografi si è definita una volta per tutte a partire dal XVIII secolo, quando la Russia di Pietro il Grande si aprì all’Occidente. Essa si estende dall’Atlantico agli Urali, da Capo Nord allo stretto di Gibilterra. Nei secoli precedenti, col concetto storico di Europa ci si riferiva solitamente all’Occidente europeo, ovvero a quella parte del continente legata alla Chiesa latina. I territori russi sotto l’influenza della Chiesa ortodossa, e le regioni islamiche, come il regno arabo di Spagna, non appartengono a questa Europa in senso stretto. La struttura dell’impero moscovita, sotto Ivan il Terribile, si distingueva radicalmente da quella dell’Occidente europeo; anche il regno arabo nella Spagna meridionale si sarebbe distinto, fino alla sua riconquista, per caratteristiche proprie che ne segnavano chiaramente le diversità rispetto al nucleo originario dell’area europea. Più difficile è tracciare una linea divisoria dell’area sudorientale europea, poiché qui l’impero bizantino dominò a lungo su gran parte dei Balcani e dell’Italia e vi dominò altresì l’impero turco, che nel XVI secolo si spinse fino alle terre ungheresi. Quando analizzeremo le caratteristiche del ceto contadino europeo, terremo soprattutto presente l’Europa occidentale. Ci si pone dunque il compito di individuare determinate peculiarità del mondo contadino europeo e contemporaneamente quello di tracciare una linea di demarcazione rispetto ad altri gruppi economico-sociali. A questo scopo saranno pertinenti i confronti con il sistema delle farms americane, come nelle pagine precedenti, ma anche accenni alla Russia e alle condizioni agrarie dell’Europa orientale.

Nel cuore dell’impero franco, tra il Reno e la Loira, comparvero già intorno ai secoli VIII e IX elementi fondamentali del mondo contadino europeo, che si rafforzeranno e diffonderanno ulteriormente nei secoli seguenti. All’interno dell’impero carolingio, che comprendeva i principali paesi dell’Europa centrale ed occidentale (cfr. tav. 2), avvennero significativi mutamenti nell’agricoltura e nel regime agrario le cui caratteristiche principali necessitano di un breve commento. Fanno inoltre parte di questo cambiamento una diffusa cerealicoltura e il passaggio a una forma di coltura più intensiva. In alcuni territori ebbe inizio già allora la transizione alla rotazione triennale, un metodo di coltura scandito dal ritmo ternario di una semina autunnale, di una primaverile ed infine del maggese; benché tale metodo abbia avuto larga diffusione soltanto a partire dal Medioevo maturo. L’introduzione della rotazione triennale andò di pari passo nei terreni intorno al villaggio con un nuovo raggruppamento delle parcelle, con la formazione di tre grandi aree (Schläge, Zelgen), che venivano coltivate secondo un vincolante sistema di rotazione «obbligata»*. Allo stesso tempo faceva la sua comparsa il manso; esso si era andato fissando come la dotazione normale di una famiglia contadina, comprendente terreno agricolo, pascolo e diritto di usufrutto sulle terre comuni e sui boschi. La rotazione triennale obbligata e l’ordinamento per mansi segnarono fin dal Medioevo maturo il villaggio europeo, agendo sullo sviluppo delle comunità di villaggio con i loro diversi diritti di autogoverno. Questo regime agrario si diffuse lentamente dai principali paesi europei, fino a raggiungere, anche se con ritardo, le regioni estreme dell’area europea occidentale come la Scandinavia ed il Baltico. Le ricerche di W. Conze sulla struttura agraria della Lituania e della Russia Bianca hanno mostrato che questi ordinamenti agrari si diffusero nei secoli XVI e XVII anche nei territori orientali del grande impero polacco-lituano, mentre nel limitrofo impero moscovita permanevano in linea di massima condizioni agrarie diverse. La rotazione triennale, il «regime dominicale» e villaggi con progredite regole comunitarie rappresentano perciò, secondo O. Brunner, gli elementi costitutivi della struttura agraria, definendo il mondo contadino europeo⁴.

⁴ Cfr. O. Brunner, Europäisches Bauerntum, in Id., Neue Wege, pp. 199-212.

A questo profondo mutamento nell’assetto agrario contribuirono particolarmente, nell’alto e pieno Medioevo, i signori fondiari, come dimostreremo ampiamente nei capitoli seguenti. Le nuove regole colturali richiedevano profondi mutamenti nella struttura degli insediamenti rurali. Esse portarono a un regime di campi a strisce e richiesero regolamenti restrittivi quanto ai lavori agricoli secondo un calendario valido per tutti, poiché dopo il raccolto la terra serviva come pascolo per il bestiame del villaggio. La rotazione obbligatoria di solito poteva essere introdotta solo con l’appoggio della signoria fondiaria, tanto più che i signori disponevano spesso in queste aree di grandi appezzamenti, e quindi variazioni nella coltura erano possibili unicamente grazie al loro consenso. La signoria fondiaria ha senza dubbio contribuito significativamente a questo decisivo mutamento del mondo rurale, concorrendo a porre le basi di una specifica struttura agraria europea che si conserverà sino alle riforme del XVIII e XIX secolo. I signori fondiari e i contadini a partire dal regime curtense saranno sempre in un rapporto di fruttuosa tensione e modelleranno insieme a partire dall’alto Medioevo il villaggio europeo e la sua struttura fondiaria.

La rotazione triennale che permise uno sfruttamento più intensivo dei terreni e una resa maggiore rispetto alle più antiche forme di sfruttamento del suolo come l’agricoltura a campi ed erba (Feldgraswirtschaft) o la rotazione biennale, fu per lungo tempo il più efficiente e progredito metodo di coltura, realtà che spesso è sfuggita ai riformatori agrari del XIX secolo. Questo sistema richiedeva la solidarietà di tutti i contadini della comunità di villaggio e sfruttava la capacità produttiva del terreno senza depauperarlo eccessivamente. L’intensa coltivazione di cereali nelle regioni centrali dell’Europa a partire dall’alto Medioevo permise un maggiore addensamento della popolazione nelle aree di più antica colonizzazione, mettendo a disposizione manodopera che provvide ad ampliare gli insediamenti grazie alla bonifica e ai dissodamenti. L’intensificazione dell’agricoltura e una diffusa cerealicoltura su parcelle lottizzate contribuirono a una crescente stanzialità della popolazione contadina. Rispetto alle altre forme di sfruttamento del suolo e alla prevalenza dell’allevamento nell’alto Medioevo, il passaggio alla rotazione triennale e alla coltivazione intensiva dei cereali nel Medioevo maturo ebbe come conseguenza una maggiore stanzialità della popolazione rurale europea, in quanto il contadino era maggiormente impegnato nel lavoro agricolo. In seguito a simili mutamenti nei metodi di coltura il contadino era sempre meno «disponibile» (Max Weber)⁵ per compiti politici o militari fuori del suo territorio, e rimaneva legato al villaggio e all’ambiente circostante.

⁵ M. Weber, Wirtschaftsgeschichte, p. 77.

A quale periodo si riferiscono dunque queste caratteristiche del mondo contadino europeo? I suoi tratti più significativi si ritrovano soprattutto nella Francia dell’alto Medioevo e nei maggiori paesi europei del pieno Medioevo. Signoria fondiaria, regime dominicale, rotazione triennale e ordinamento comunitario nacquero allora nel cuore dei territori europei, diffondendosi gradualmente verso le aree periferiche. Questa «società contadina» europea con i suoi tipici caratteri interessa soprattutto il periodo che va dalla formazione del sistema curtense in Francia all’emancipazione dei contadini nel secolo XIX, e abbraccia pertanto circa un millennio. In questo arco di tempo individuiamo nel mondo contadino europeo fenomeni comuni e fondamentali come la dipendenza dai signori, il sistema della rotazione triennale nelle comunità di villaggio, il prevalere dell’economia agricola familiare, una relativa autonomia nei rapporti comunitari e una sorprendente omogeneità nel sistema dei valori dei contadini.

Le caratteristiche del mondo contadino occidentale diventano evidenti, quando le si confronta con altre strutture agrarie. A tale scopo si presta bene il confronto con il mondo contadino dei paesi islamici, di cui bisogna però considerare le condizioni differenti. L’antico paesaggio agrario egiziano, siriaco e mesopotamico, con la sua tipica coltura irrigua, possiede infatti caratteristiche pedologiche e climatiche diverse da quelle europee. I territori contigui all’area mediterranea e le oasi, grazie a una sufficiente piovosità invernale nonché all’irrigazione artificiale, che facilita una coltura intensiva, garantiscono un’alta resa produttiva. I territori stepposi permettono, nella misura in cui siano dotati di terreni fertili o pianure, una sufficiente produzione cerealicola; e qui viene inoltre praticato anche l’allevamento su larga scala di bovini e di ovini. Le zone desertiche possono essere utilizzate solo temporaneamente per il pascolo: sono quelle aree abitate da beduini e da nomadi.

Nelle grandi aree fluviali e nelle zone costiere del Mediterraneo, le popolazioni nomadi si collocavano in posizione diametralmente opposta a quella degli agricoltori e degli abitanti delle città. Il successo dell’agricoltura nelle oasi dipendeva soprattutto da una distribuzione razionale dell’acqua; solo grazie allo sforzo congiunto dei contadini era possibile la sistemazione di grandi impianti irrigui e di un sistema di canalizzazione. La relativa anarchia delle aree quasi desertiche dei beduini contrastava con la rigida statalizzazione nelle regioni a sistema irriguo. La forza-lavoro per la terra veniva prestata prevalentemente dalla città, che però riceveva in cambio annualmente una cospicua parte del raccolto. Da questo rapporto di dipendenza si sviluppò il caratteristico ceto contadino orientale, i fellahin delle grandi oasi. Il potere giurisdizionale delle città orientali terminava da una parte ai limiti del deserto, da cui proveniva una permanente minaccia, e dall’altra ai piedi delle montagne, i cui abitanti, in presenza di condizioni favorevoli di coltura, potevano trasformarsi in comunità di villaggio indipendenti. I contadini delle oasi, i fellahin, distinti dai beduini e dagli abitanti della città, rappresentano invece un gruppo sociale che prima della conquista araba, discendendo direttamente dalla popolazione locale, conservava molto dell’antico patrimonio culturale. Il loro status sociale era, a confronto, inferiore, poiché in qualità di fittavoli erano maggiormente dipendenti dai proprietari terrieri.

L’allevamento aveva però, presso i fellahin, un peso minore che in Europa; e sebbene gli animali fossero necessari nei lavori pesanti e per la messa in opera delle macchine irrigue, l’Oriente ne faceva tuttavia un uso più limitato. Il pesante aratro a ruota serviva in alcune regioni alla lavorazione di suoli grassi, ma non era l’unico strumento nel lavoro dei campi, poiché, a parte gli orti, le zolle venivano smosse nella maggior parte dei casi ricorrendo ad un aratro a chiodo. La fertilità del terreno garantiva soprattutto in Egitto una resa superiore grazie ad una coltura più intensiva. In molti villaggi si lavoravano collettivamente i campi, distribuiti su sezioni di terreno, secondo un preciso regime colturale in rigido avvicendamento. L’unità di coltivazione corrispondeva spesso, come il manso in Occidente, alla forza-lavoro di una famiglia provvista di una coppia di animali da lavoro. Rispetto ai contadini europei, i fellahin si trovavano in una condizione più svantaggiata, in quanto disponevano di minori diritti comunitari, e svilupparono quindi un minor dinamismo sociale.

Vistose differenze rispetto al ceto contadino occidentale si individuano anche nell’antico ceto rurale russo, sebbene la situazione agraria nella Moscovia, limitandoci alle sole condizioni geografiche, sia più simile a quella dell’Occidente che a quella orientale. Ancora nel secolo XVI, i contadini russi che abitavano gli estesi territori boschivi dell’Europa nordorientale erano caratterizzati da una molto limitata stanzialità. Una popolazione non ancorata alla terra e dispersa su un ampio territorio possedeva una tecnica agricola arretrata rispetto a quella occidentale e si nutriva ricorrendo al raccolto di piccoli appezzamenti ricavati all’interno di estese aree forestali; tali zone venivano abbandonate dopo alcuni raccolti, per spostarsi alla ricerca di nuovi territori.

I villaggi russi erano relativamente piccoli, non erano soggetti a un rigido regime di coltivazioni e non conoscevano una comunità di villaggio come quella tipica dell’Europa occidentale. Il lavoro della terra veniva praticato ricorrendo al sistema della coltivazione a «campi ed erba» o ricorrendo al fuoco per dissodare i terreni, che in seguito venivano di nuovo lasciati alla vegetazione spontanea. Il villaggio russo rappresentava un’unità di lavoro e di soccorso reciproco così compatta da poter essere facilmente impiantata ovunque sia come organizzazione collettiva che nelle sue singole parti. Ciò avvenne anche su larga scala: dapprima durante il periodo della servitù della gleba ad opera dei signori fondiari nobili e dello stato zarista; poi, dopo le riforme dello zar Alessandro II, per mezzo di deliberazioni della comunità di villaggio.

Nella Russia zarista si costituì una forma più rigida di dipendenza contadina rispetto a quella diffusa nell’Europa centrale ed occidentale. Sotto questo profilo, una tale forma di servitù può difficilmente venir paragonata alla dipendenza del contadino europeo dalla signoria fondiaria. La servitù della gleba russa permetteva al signore fondiario non solo di legare alla terra i propri servi, ma anche di utilizzarli arbitrariamente per qualsiasi lavoro, di trasferire interi villaggi o di vendere intere famiglie. Questo particolare sviluppo del mondo contadino russo può venir spiegato dal fatto che lo stato moscovita rimase relativamente impermeabile a influenze esterne dal XIV alla fine del XVII secolo, ovvero fino allo zar Pietro il Grande (1689-1725). Nell’impero zarista del XVI e XVII secolo esisteva, come hanno riconosciuto I. Wallerstein e F. Braudel⁶, un’ampia «economia autonoma» che si svilupperà indipendentemente dall’Europa occidentale. Durante questo periodo, la servitù della gleba in Russia andò inasprendosi notevolmente e in questo la formazione dello stato russo ebbe un ruolo rilevante. Ivan il Terribile (1547-84), fondatore e modellatore dell’impero moscovita in età moderna, rese, da una parte, i nobili dipendenti, e dall’altra rafforzò la dipendenza dei contadini russi rispetto ai nobili e allo stato. Il nascente sistema della riserva signorile russa richiedeva ai contadini un carico crescente di servizi e prestazioni. Poiché il frequente spostamento di residenza dei contadini minacciava l’ordinamento della signoria fondiaria e metteva in pericolo la politica di stabilizzazione dello stato, nel 1580 lo zar Ivan abolì totalmente la libertà di spostamento dei contadini. Queste direttive sarebbero state in seguito ulteriormente inasprite, e qualsiasi trasferimento di contadini senza il permesso del signore sarebbe stato dichiarato contrario alla legge e quindi punito.

⁶ Cfr. I. Wallerstein, World-System, p. 320; F. Braudel, Civilisation, vol. III, pp. 380 sgg.

Oltre questi vincoli di dipendenza signorile, il contadino russo era soggetto al sistema dell’assegnazione dei campi stabilita dalla comunità (mir). Gli appezzamenti via via assegnati venivano periodicamente riaccorpati e di nuovo suddivisi tra i membri della comunità, in base alla consistenza numerica del nucleo familiare. Il contadino dell’Europa occidentale aveva avuto sempre un diritto personale di proprietà sul podere, che diverrà a partire dal XVIII-XIX secolo, di solito, piena proprietà, mentre il diritto di proprietà del contadino russo, nel mir, rimaneva molto limitato. Si dovettero aspettare le riforme agrarie di Stolypin, nel 1906-7, per abolire la maggior parte delle regole comunitarie relative alla ridistribuzione dei campi. Nel complesso la servitù della gleba in Russia rimase fino alla sua soppressione (1861) particolarmente gravosa. Nei confronti dei proprietari terrieri si faceva valere un «diritto consuetudinario» e non il diritto scritto. I doveri verso la terra prevalevano sul diritto alla terra, perciò la comunità garantiva solidalmente i tributi dovuti al proprietario terriero. I contadini russi erano quindi fondamentalmente diversi da quelli occidentali.

Il mondo contadino occidentale possedeva inoltre, rispetto alle condizioni agrarie della Russia e dell’Oriente, non solo caratteristiche proprie, ma anche assai diversificate tra di loro. Nella realtà contadina europea esistevano tra regione e regione e tra paese e paese grandi differenze pedologiche e climatiche, nella vegetazione e nei metodi colturali, nell’agricoltura e nel regime agrario. La diversità dell’agricoltura europea, nel passato come nel presente, riguarda non solo le condizioni ambientali, ma anche la dimensione delle aziende, la distribuzione della proprietà fondiaria e le tradizioni contadine. Questa diversificazione in un grande numero di zone agrarie è la conseguenza di numerosi fattori. Così esistono in Europa limiti climatici assoluti per la coltivazione di singole piante, come per esempio i cereali e la vite; inoltre hanno un loro ruolo fattori climatici quali la durata del periodo vegetativo, il fabbisogno di caldo o di umidità per le piante coltivate, nonché l’intensità delle piogge. Infine anche la fertilità del suolo, la vicinanza dei mercati, le possibilità di esportazione e le abitudini alimentari avevano qualche peso (cfr. tav. 1).

Tav. 1. Zone di vegetazione in Europa (disegno di A. Hermes su indicazioni di W. Rösener).

Rispetto alle condizioni di esistenza dei contadini, si distinguono in Europa quattro aree agrarie principali: settentrionale, centro-occidentale, meridionale e orientale. La frontiera dell’area coltivata a cereali, grazie all’influsso della Corrente del Golfo, si incunea all’interno estendendosi sino all’Europa settentrionale. L’orzo è il cereale più diffuso nelle regioni agricole del Nord, presente nella maggior parte dei territori scandinavi; l’area immediatamente a sud è caratterizzata dalla coltura dell’avena e della segale. Rispetto all’orzo, queste due piante abbisognano di una temperatura più elevata, inoltre la segale richiede un alto grado di umidità. Nell’Europa settentrionale incontriamo in genere una commistione tra economia silvo-pastorale e sfruttamento agricolo.

Le estese superfici arative dell’Europa occidentale e centrale (Inghilterra, Francia e Germania), sono caratterizzate da una differente coltura e dalla combinazione di diversi ambiti produttivi. Ad un’area di pascoli, nei territori prossimi alle coste, fanno seguito superfici coltivate quasi esclusivamente a segale e patate. Questo spazio agricolo si configura in Olanda sotto forma di un lungo e stretto corridoio, che estende poi il suo fronte verso est: il terreno leggero, unitamente al clima estivo più temperato e a una sufficiente piovosità, offre le condizioni ideali per la coltura intensiva della segale e di piante tuberose. Più a sud un corridoio di loess attraversa obliquamente da ovest ad est l’Europa centrale; a nord dei massicci centrali si distendono fertili pianure. Quelli di loess sono grazie alle loro proprietà naturali suoli di coltura ideali; oltre ai cereali vi si coltivano soprattutto barbabietole da zucchero, dunque piante che richiedono molto al terreno. Questa regione agraria è la più produttiva d’Europa. A sud-ovest si estende una vasta regione a coltura cerealicola invernenga che abbraccia un’ampia parte della Francia e una piccola area dell’Inghilterra.

Nell’Europa meridionale si estende la vastissima e relativamente compatta area agraria mediterranea. Essa copre un’ampia parte dei territori spagnoli, portoghesi, italiani, della Francia meridionale e dell’Europa sudorientale. In questi territori i cereali predominanti sono quelli invernenghi, prodotti concomitanti sono il granturco ed il vino. Le regioni mediterranee presentano rispetto alle aree centroeuropee, ad eccezione di alcune aree a coltura intensiva come quella praticata nella pianura padana, una agricoltura relativamente estensiva. I principali prodotti delle aree costiere dell’Europa meridionale sono soprattutto gli agrumi, il vino e le olive.

Il paesaggio agrario delle regioni dell’Europa orientale è molto meno marcato rispetto alle suddette zone agrarie. Dalla Polonia alla Cecoslovacchia e all’Ungheria e fino ai territori russi si estende un vasto territorio caratterizzato a nord dalla coltura della segale e dell’avena, e a sud, nella più fertile pianura, dalla coltura del grano e del mais. Nella terra nera dell’Ucraina prese piede, grazie alla sua fertilità, una coltura cerealicola che rese possibile l’approvvigionamento di gran parte della Russia centrale, le cui povere terre grigie non permettevano una sufficiente produzione. Il clima nelle regioni dell’Europa orientale è spiccatamente continentale; per questo motivo nelle zone settentrionali, a causa del lungo periodo di gelo, lo sfruttamento del terreno risulta molto condizionato. In queste quattro aree agrarie abbiamo un’equilibrata commistione tra agricoltura e allevamento. Zone dove si pratica l’allevamento intensivo si trovano nella Francia settentrionale, nei Paesi Bassi, in Danimarca, nella Germania settentrionale e nelle aree alpine. Un allevamento redditizio non si limita quindi solo a quelle regioni che a causa della cattiva qualità del suolo si prestano male alla coltura agricola; spesso l’allevamento e la coltura intensiva sono intrecciati. All’interno di queste zone agrarie incontriamo nelle aree più densamente popolate e favorite dal clima una orticoltura particolarmente redditizia e la frutticoltura. Per quanto riguarda l’allevamento si hanno settori specializzati nella produzione casearia ed altri orientati verso la produzione di carne. L’area a prevalente produzione casearia parte dalla Francia settentrionale, passa per l’Olanda e la Germania settentrionale arrivando fino alla Polonia. A causa di una crescente meccanizzazione dell’agricoltura, gli animali da lavoro e da trasporto sono drasticamente diminuiti, con gravi conseguenze per la coltura foraggera.

3.
Le basi del ceto contadino europeo nell’alto Medioevo

L’egemonia politica, economica e culturale dell’Europa raggiunse indubbiamente la sua massima espressione intorno al 1900, subendo poi forti scosse in seguito alla seconda guerra mondiale. Dove poggiava la supremazia di questo piccolo continente? Quali forze hanno plasmato l’Europa, che con la sua azione ha avvicinato sempre più i popoli della Terra? Fra tutti i grandi popoli della storia universale, infatti, gli europei sono stati coloro che per primi hanno stabilito sul globo terrestre un’unità del genere umano, dato di fatto incontrovertibile della vita moderna. La catastrofe della seconda guerra mondiale e la nuova volontà europea di imporsi tra le due superpotenze hanno riproposto alla nostra coscienza la domanda sulle origini storiche di questa Europa: come poté avvenire che l’Europa, nonostante la sua modesta base di partenza, ascendesse a centro del mondo civilizzato?

Il decollo europeo iniziò certamente non alle soglie del XIX secolo, ma già nel Medioevo, allorché l’Occidente s’impose all’impero bizantino e al mondo orientale, divenendo una civiltà significativa ed egemone. Questa problematica ha acquisito nella seconda metà del XX secolo un significato politico attuale soprattutto laddove ci si è interrogati sui rapporti del mondo islamico con l’Europa. Come poté accadere che quei miseri popoli che nell’alto Medioevo trascinavano la propria esistenza ai confini nordoccidentali del grande continente asiatico abbiano conosciuto a partire dal pieno Medioevo uno slancio incomparabile, tanto da superare gradualmente lo splendore spirituale e materiale della più avanzata civiltà islamica?

Il dinamismo dell’economia, della società e della cultura europee non si fondava solo sulle città e sulla sviluppata attività manifatturiera e commerciale, ma anche sull’agricoltura e sulle efficienti forze che vi operavano. La crescita dei centri urbani nei secoli XII e XIII e il fiorire dei commerci e degli scambi furono preceduti indubbiamente da decisivi mutamenti nell’agricoltura e nella società rurale che sostennero ed accelerarono tale sviluppo. Ma perché nel pieno Medioevo europeo nasce una fitta rete di piccole e medie città, mentre non vi è nulla di simile nei paesi islamici e nei territori dell’impero bizantino, che pur erano strettamente collegati all’Occidente da rapporti di scambio? L’espansione delle città si basa evidentemente sulle fondamenta gettate già nel periodo feudale-contadino dell’alto Medioevo, senza le quali non sarebbe stata possibile. La città europea dell’alto Medioevo si sviluppò nel quadro di una società feudale, alla quale era strettamente legata attraverso i suoi signori. Nel contrasto cittadini-signori si formarono gli elementi costitutivi della libertà delle città. Questa rigogliosa e pulsante vita consorziale, organizzata in gilde e corporazioni, e la libertà dei cittadini si svilupparono sulla base di antiche strutture.

Lo sviluppo delle città europee nel Medioevo maturo fu possibile grazie ad un sorprendente progresso nell’agricoltura e all’incremento della produzione, che garantì l’approvvigionamento di derrate alimentari per la popolazione urbana, anch’essa in rapido aumento. L’incremento della produzione cerealicola e un’agricoltura più intensiva contribuirono in modo decisivo allo sviluppo dell’urbanesimo del Medioevo maturo, e resero possibile un notevole aumento della popolazione nelle aree di più antica colonizzazione, rendendo così disponibile una eccedenza di manodopera che migrava poi verso le città, allora in piena espansione. Già a partire dal VII secolo furono estesi gli spazi coltivabili nelle aree prospicienti gli insediamenti già esistenti grazie ai dissodamenti di vaste superfici boschive e alle bonifiche di zone paludose. Simile processo raggiungerà un nuovo culmine nei secoli XII e XIII. I grandi dissodamenti e l’espansione degli stanziamenti rurali trasformarono in quei secoli il paesaggio agrario europeo; esso si conserverà a lungo e cambierà volto solo durante l’industrializzazione e l’urbanizzazione dei secoli XIX e XX. Le città europee si svilupparono quindi grazie a un intenso fenomeno di sfruttamento agricolo, cosicché tra la campagna e la città che aveva ripreso a ingrandirsi si sviluppò un rapporto reciproco di scambio.

Se prendiamo in esame le aree in cui nell’alto Medioevo si svilupperà il ceto contadino europeo, dobbiamo considerare anzitutto il grande regno franco. Esso non fu solo il centro politico d’Europa, ma segnò anche, e durevolmente, le realtà economiche e sociali degli stati europei. Questo regno, che a partire dall’incoronazione imperiale di Carlomagno nell’800 diventa il Sacro Romano Impero, costituiva, secondo J. Fleckenstein, «una articolazione intermedia tra la divergente unione di tribù germaniche nomadi e quella futura unità, nonostante i conflitti e le lotte, della nazione europea che nasceva nel periodo post-carolingio sul suolo o ai confini dell’impero franco»¹. L’impero carolingio comprendeva buona parte della Europa occidentale e trasmise ai paesi sottomessi comuni strutture giuridiche, economiche e culturali. Esso non conservò a lungo la sua unità, tuttavia divenne il nucleo di una comunità di popoli dell’Europa occidentale, cui si aggiunsero via via altri membri.

¹ J. Fleckenstein, Das Großfränkische Reich: Möglichkeiten und Grenzen der Großreichsbildung im Mittelalter, in Id., Ordnungen, p. 2.

Quali popoli furono inglobati nel regno franco, e quali territori europei furono durevolmente segnati dalla cultura dei Franchi? Osserviamo per prima cosa l’espansione di questo regno sotto Pipino e Carlomagno. Pipino riconquistò in Settimania l’ultimo avamposto islamico, sottomise l’intera Gallia e la ribelle Aquitania al suo dominio, imponendosi persino nei territori orientali. Una burrascosa espansione del regno franco ebbe inizio sotto Carlomagno. In Italia Carlomagno assunse il governo del regno longobardo ed estese la sua influenza politica allo Stato della Chiesa e di qui fino all’Italia meridionale. L’Aquitania venne stabilmente incorporata e fu costituita la nuova marca di Spagna a difesa contro i Mori. Dall’Ovest e dal Sud si accerchiarono i territori del temibile popolo degli Avari, e dopo la sua sottomissione il dominio franco si estese ulteriormente ai territori sud-orientali. Maggiori difficoltà presentò la conquista della Sassonia, che poté essere integrata nell’impero solo dopo estenuanti e lunghe guerre e alla quale si imposero poi assetti franchi sotto il profilo istituzionale e sociale. Altri conflitti si ebbero nella parte nordorientale con gli Slavi e a nord con i Normanni. Ciò si rese necessario per salvaguardare l’impero dalle invasioni dei popoli confinanti.

Il regno di Carlomagno aveva raggiunto intorno all’800 la sua massima estensione. Esso inglobava l’antica Gallia e la Germania, arrivando alla marca della Spagna settentrionale e ai confini dei territori slavi orientali; inoltre controllava, grazie alla conquista del regno longobardo, i territori strategici d’Italia. Il dominio di Carlomagno e dei suoi successori si estendeva così oltre i paesi principali della futura Europa: l’Italia, la Francia e la Germania; con l’Inghilterra, che rimaneva fuori dall’impero, si ebbero stretti contatti culturali e religiosi che si dimostrarono utili per l’evangelizzazione. Anche con i Normanni e gli Slavi stanziati a nord e a est dell’impero si svilupparono una serie di contatti che in seguito si dimostreranno utili ai fini dell’integrazione di quei popoli nella sfera della Chiesa latina.

L’incoronazione imperiale di Carlomagno nell’800 segnò il culmine nella storia del regno franco, mettendo contemporaneamente in luce la conflittualità nelle relazioni con l’impero di Bisanzio. Il conferimento della dignità imperiale poneva Carlomagno al di sopra di qualsiasi regno; così si costituì un impero in concorrenza con quello bizantino, e furono necessari lunghi negoziati per raggiungere infine un compromesso che permetteva ai due imperi di potersi considerare ugualmente legittimi successori di quello romano. All’impero orientale si affiancò così un impero occidentale. L’impero di Carlomagno ora coincideva con l’Occidente e abbracciava la stessa area d’influenza della Chiesa latina. Corrispondeva inoltre alla nozione di Europa. Il concetto «Europa» indicherà da ora in poi quell’impero franco che comprendeva la parte maggiore dell’area europea (cfr. tav. 2).

Tav. 2. L’impero carolingio nel IX secolo (disegno di A. Hermes su indicazioni di W. Rösener).

La molteplicità e l’unità furono fin dall’inizio i due princìpi sui quali si è fondata l’Europa. Ambedue risalgono al periodo carolingio, nella sua fase di espansione come in quella del suo declino, che condusse nel IX e X secolo a una frantumazione del regno in varie entità. Il regno franco fu dal suo nascere una unità stratificata, fondata sull’unione di più tribù e su aggregazioni regionali minori. In esso erano stanziate, oltre al popolo franco, anche altre tribù e genti che nel processo di integrazione persero la loro indipendenza politica, mantenendo, però, la loro legge nazionale. Le antiche consuetudini di stirpe mantennero così la loro validità.

Nonostante queste diversità di razze e regioni il regno dei Franchi sotto il dominio carolingio costituì un’unità che si espresse in molti settori. Il senso dell’opera di Carlomagno dal punto di vista della storia universale non si limitò all’ingrandimento dell’impero e alla conquista di nuovi territori. Parallelamente all’espansione esterna venne portata a termine una penetrazione interna che riuscì a comporre in unità le diversificate realtà presenti nell’impero. Sono da considerare in questa logica i risoluti sforzi di Carlomagno per unificare la Chiesa e la religione, il diritto e l’istruzione, la moneta, il commercio ed i rapporti economici e sociali. Anche nella vita contadina e nella struttura fondiaria vennero introdotti nel regno dei Franchi importanti elementi comuni che sopravviveranno allo sfacelo dell’impero, segnando per secoli il mondo contadino europeo. La signoria fondiaria, l’organizzazione per mansi, e le strutture vassallatico-beneficiarie, che presentano aspetti comuni in tutta l’Europa, ebbero origine e si diffusero a partire dal nucleo originario dei domini franchi. Prima di trattare del regime agrario e delle condizioni di vita dei contadini faremo alcune osservazioni sul feudalesimo occidentale.

Il concetto di feudalesimo inteso in senso ampio mette generalmente in stretta relazione la rete dei rapporti vassallatico-beneficiari con quella della signoria fon

I contadini nella storia d'Europa

L'autore

Werner Rösener

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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