Introduzione
Se l’obiettivo di questa “prima lezione” è aprire una finestra su un ramo del sapere,
secondo un punto di vista soggettivo, credo di poter iniziare dicendo che la sociologia
del diritto è stata per me un clima culturale, prima che una scienza con i suoi apparati
d’oggetto e di metodo. Un clima – dirò così – di scoperta illuminata dal dubbio. All’inizio
degli anni Sessanta, quando ne sentii parlare per la prima volta, la sociologia del
diritto semplicemente non esisteva nel nostro orizzonte di pensiero, ove a malapena
aveva fatto capolino – nelle pieghe più riposte dei manuali liceali di filosofia –
la stessa sociologia. I grandi autori che avevano affrontato il diritto dalla prospettiva
sociologica, come Émile Durkheim, Eugen Ehrlich o Max Weber, erano ignorati dalla
cultura italiana, tanto che nel 1960, alla fine del corso di sociologia che Renato
Treves teneva all’Università di Milano accanto a quello di filosofia del diritto,
non avevamo testi ufficiali su cui prepararci e all’esame rispondemmo delle ricerche
svolte durante l’anno (io mi ero occupato degli effetti della riforma agraria sui
comportamenti elettorali, ispirandomi soprattutto a un libro pionieristico) e del contenuto degli appunti presi a lezione.
A sua volta il diritto era concepito, praticato e insegnato non solo in forme dogmatiche,
cosa inevitabile, ma come se la dogmatica fosse l’unico modo di guardare alle regole, se non addirittura alla condotta umana. Ed era in se stesso
– sottolineo – un discorso affascinante, sia per la radice storica dei concetti (come
dimenticare le lezioni di Giovanni Pugliese sulla lex Aquilia?), sia per l’esercizio di logica imposto dalla concatenazione normativa. Non per
nulla, dopo aver ascoltato maestri come Enrico Tullio Liebman, Giacomo Delitala, Cesare
Grassetti, e pensando al mio futuro professionale, lasciai una tesi appena abbozzata
in filosofia del diritto per scriverne una in diritto processuale civile.
Eppure una inquietudine non mi abbandonava. La pratica forense appena iniziata metteva
in luce una visibile distanza fra norme e prassi soprattutto nel mio campo preferito,
quello del processo, mentre sotto la coltre rassicurante della dogmatica continuava
a lavorare il tarlo sottile della critica insinuatosi nelle nostre menti con i corsi
di Treves. Fu naturale capire che quella distanza era un fatto non patologico, da
valutare solo sul piano formale o su quello etico, ma fisiologico, che consentiva,
anzi imponeva, un’indagine scientifica.
Un’indagine – accennavo sopra – guidata dal dubbio e dal suo fascino sottile. Il dubbio
è il motore della ricerca. Si cerca perché non si sa; e più si cerca, più s’allarga,
accanto alle poche conoscenze acquisite, lo spazio di ciò che resta ignoto, ovvero,
in senso letterale, la consapevolezza della propria ignoranza di fronte all’universo
infinito delle cose conoscibili, per non parlare di quelle inconoscibili.
Di dubbio, Treves era maestro impareggiabile, come riconoscono i suoi allievi. La sua insistenza sul carattere parziale, relativo e prospettico della conoscenza
era anzitutto una lezione di umiltà. Quando nel 1974, col Centro nazionale di prevenzione
e difesa sociale, fondò «Sociologia del Diritto», la rivista che ci ha lasciato in
eredità, aveva alle spalle decenni di insegnamento, ricerche e politica della cultura
di alto impegno. Con tutto ciò, presentò la nuova pubblicazione sollecitando critiche
al programma che esponeva. Naturalmente le ottenne, rispose, e così fece di «Sociologia
del Diritto» un foro di aperto dibattito fra altri studiosi mossi dalla passione per
il dubbio, come Uberto Scarpelli, col suo solenne richiamo al rigore metodologico,
Giovanni Tarello, col suo corrosivo spirito realistico, Vittorio Denti, processualista
insofferente, e Vincenzo Tomeo, la cui poliedrica cultura sconfinava nello scetticismo
sulle capacità esplicative della scienza stessa – per citare i soli membri della direzione.
Il clima non era diverso in altri paesi. In Francia un civilista di alto rango, Jean
Carbonnier, apriva alla sociologia del diritto le porte della Sorbonne, vincendo le
resistenze di una cultura giuridica formalistica, legata al dato normativo e alla
sua analisi esegetica. Incaricato dal governo di scrivere le norme del nuovo diritto
di famiglia, fece svolgere indagini empiriche sul costume familiare: un anatema, in
quella cultura e ancor oggi, soprattutto in Italia, cosa molto rara. In Germania,
era la stessa divisione del paese a stimolare ricerche sul sistema giuridico, all’Est
e all’Ovest, con speciale attenzione verso il sistema giudiziario in via di riorganizzazione.
Negli Stati Uniti erano soprattutto giuristi e storici del diritto a scoprire le potenzialità
della sociologia empirica, a moltiplicare le ricerche sul campo e a spianare la via
a quella che sarebbe diventata la Law and Society Association, ispiratrice dagli anni
Settanta in poi della maggiore rivista della disciplina, la «Law and Society Review».
Nei paesi scandinavi erano già in corso dalla fine della guerra indagini che spaziavano
dalle funzioni simboliche della legislazione al diritto consuetudinario delle popolazioni
dell’estremo nord. In Gran Bretagna, con qualche anno di ritardo, fu la politica di
welfare a stimolare indagini socio-giuridiche sugli strumenti del cd. legal aid, volti ad agevolare l’accesso alla giustizia delle classi meno abbienti. Nell’Europa
dell’Est, soprattutto in Polonia, una generazione di giuristi antiformalisti aveva
preso l’avvio dalla destalinizzazione iniziata nel 1956 e prodotto ricerche su una
varietà di temi, per esempio sul prestigio del diritto, mal tollerate dai governi
per i loro spunti critici. In Giappone, infine, già dal 1946 esistevano corsi ufficiali
di sociologia del diritto, estese ricerche empiriche e una rivista, «Hoshakaigaku»,
che le raccoglieva e diffondeva. Così, già all’inizio degli anni Sessanta si era
avvertito il bisogno di un coordinamento di tutti questi sforzi con la creazione della
prima associazione internazionale di sociologia del diritto e pochi anni dopo si era già tracciato un bilancio della sua diffusione (Treves
1966; Treves, Glastra van Loon 1968).
La sociologia del diritto appariva dunque un luogo di scoperte e di sfide. I campi
in cui sperimentare la fertilità del metodo sociologico coincidevano con l’intera
area del diritto, cioè con l’azione umana in tutta la sua estensione. Un immenso terreno,
che ambivamo a coltivare, combinando teoria e osservazione empirica, svelando la realtà
soggiacente alle norme regolatrici.
Era poi importante misurarsi con gli ambienti culturali vicini, seppure di diversa
ispirazione metodologica. La “criminologia critica”, rappresentata in Italia soprattutto
da Alessandro Baratta, affermava le ragioni di una critica – appunto – soprattutto
assiologica e politica della repressione penale, riunendosi dal 1974 in poi attorno
a «La Questione criminale», battagliera rivista di analisi scientifica e testimonianza
civile. Altri rivendicavano con forza la necessità di costruire una teoria generale sociologico-giuridica
indipendente dalla ricerca empirica, sul modello delle allgemeine Theorien della tradizione germanica e del grand theorizing della sociologia americana, come nel caso della complessa visione sistemica di Niklas
Luhmann, influentissima in Italia. Poche cose sono state tanto fertili come il confronto
con questi ambienti culturali, da cui proveniva una visione parzialmente diversa,
ma complementare, dalla nascente (o rinascente) disciplina sociologico-giuridica.
Non meno rilevante era poi il confronto con le discipline affini, soprattutto la filosofia
del diritto, da cui provenivano molti dei fondatori della sociologia del diritto post-bellica.
La distanza fra norme e prassi, che soprattutto attirava allora l’attenzione, è infatti
implicita nelle grandi teorie filosofico-giuridiche, come quella di Hans Kelsen, fondata
sulla distinzione fra l’essere (Sein) dei fatti e il dover essere (Sollen) delle norme, o quella realistica nelle due versioni principali, scandinava e americana,
diverse nell’impostazione teorica, ma concordi nel concentrare l’attenzione sulla
concreta applicazione sociale, specialmente giudiziale, delle norme giuridiche. Non
per caso fu un grande gius-realista americano, Roscoe Pound, a sintetizzare la distanza
fra norme e prassi con una formula destinata a diventare famosa – «law in the books
vs. law in action» (Pound 1910) – e a configurarsi quasi come la ragion d’essere della
sociologia del diritto nella sua versione moderna o, per dir meglio, ufficiale: perché
va ricordato che nel corso dei secoli si incontrano molte grandi pagine di sociologia
del diritto sotto altro nome – dai retori greci e romani ai glossatori medioevali,
da Muratori a Beccaria e Filangieri, da Locke a Bentham e Stuart Mill, da Kant a Marx,
da Montesquieu a Rousseau e via dicendo – in tutte le più importanti culture.
Il fascino della scoperta, che ha accompagnato le prime fasi del mio impegno nella
sociologia del diritto, non è mai venuto meno, benché la materia si estendesse e si
consolidasse. Intanto è stato molto stimolante assistere e partecipare a questa crescita.
Nei decenni sono nate altre riviste specializzate nei più diversi paesi, fra cui ricordo
soprattutto la britannica «Journal of Law and Society», la francese «Droit et Société» e la tedesca «Zeitschrift für Rechtssoziologie».
Non meno significativo è stato l’influsso di tematiche e metodi socio-giuridici su
una moltitudine di pubblicazioni di settore: dalle professioni giuridiche ai diritti
umani, dalla litigiosità in giudizio agli strumenti alternativi di soluzione dei
conflitti, dal consumo all’ambiente. Soprattutto è stato impressionante l’aumento
della produzione scientifica. Negli anni Sessanta le bibliografie internazionali della
materia si riducevano a un migliaio di titoli (Pocar, Losano, s.d., ma 1970). Alla
fine degli anni Ottanta una ricerca bibliografica da me coordinata ne segnalava altrettanti
nei soli Paesi Bassi (Ferrari 1990). Oggi la biblioteca dell’International Institute
for the Sociology of Law di Oñati (País Vasco, Spagna)contiene circa 18.000 volumi, 500 titoli di riviste rilevanti per la materia (di cui
19 di sociologia del diritto in senso stretto) e un data base di circa 70.000 documenti bibliografici, fra volumi, articoli di riviste e contributi
congressuali. La stessa presenza di questo istituto scientifico, che ha pochi riscontri
al mondo, è un simbolo visibile del grado di sviluppo raggiunto da una materia che,
a parte i precursori, era sconosciuta pochi decenni fa nei circuiti accademici.
Ma a preservare intatta la sensazione originaria di aprire una via, ha contribuito
soprattutto l’evoluzione, o l’involuzione, del diritto stesso, anche sotto il profilo
di quella distanza fra diritto nei libri e diritto in azione che all’inizio ha dato
linfa alla nostra disciplina. L’immagine di un diritto rigido nella sua struttura
normativa generale, certo e razionale per quanto possibile, mutevole attraverso procedure
prefissate e garantite, che ci ha accompagnato dal Settecento in poi, sembra dissolta.
L’erosione dei confini statuali e l’intreccio tra fonti di varia provenienza ne hanno
modificato a fondo il quadro di riferimento. Ma non è solo questo. Negli anni, con
la rivoluzione nelle comunicazioni, il diritto si è fatto sempre più sfuggente, contingente,
occasionale. La miriade di norme effimere che ci avvolge dipende visibilmente dalle
esigenze della rappresentazione politica. Mentre l’efficacia della legge, anche penale,
è diventata casuale, è cresciuto a dismisura l’uso strumentale, mediatico, dei simboli
giuridici, spesso ridotti a mere apparenze, da parte di un potere politico incapace
ormai di controllare la realtà che fugge attraverso i meccanismi consueti della produzione
giuridica. In Italia questi fenomeni appaiono ingigantiti: non per caso da noi si
parla di «nichilismo giuridico» (Irti 2004), di «ceneri del diritto» (Ghezzi 2007)
e di «fine del diritto» (Rossi 2009). Ma in altri paesi, qual più qual meno, la situazione
non è tanto diversa. Oggi dunque non solo appare amplissima la distanza fra norme
e prassi, ma gli stessi termini della comparazione compaiono in una luce sfuggente,
complicando ma al contempo esaltando il compito del sociologo del diritto.
Possiamo dunque dire che la sociologia del diritto è lo studio scientifico del “diritto
in azione”? Una simile definizione avrebbe un pregio, quello di riferirsi al concetto
di azione, centrale nella sociologia a partire dalla grande lezione del maggiore fra tutti
i sociologi del diritto, il tedesco Max Weber (1864-1920), autore di quella Economia e società, uscito postumo nel 1922, che pone le basi teoriche essenziali della nostra disciplina.
Infatti la sociologia, cui si rapporta la sociologia del diritto, è rappresentata
da Weber precisamente come scienza dell’azione sociale (1974b). La società è un campo
di azioni umane fra loro interconnesse. Gli esseri umani agiscono – dice la tradizione
weberiana – “teleologicamente”, in quanto mirano più o meno lucidamente al conseguimento
di obiettivi che soddisfino le loro aspettative. La loro azione può coordinarsi con
l’azione altrui oppure opporvisi, ma in ogni caso vi influisce. E si svolge – come
vedremo – soprattutto attraverso lo scambio di messaggi comunicativi, la cui comprensibilità
dipende anzitutto dall’adozione di codici comuni da parte dei membri di un gruppo
sociale.
Che cosa vuol dire, tuttavia, “diritto in azione”? In realtà non è il diritto ciò
che “agisce”. Anche assumendo la prospettiva filosofica più formalistica, che presenta
il diritto come un’entità autonoma, vivente di vita propria, non può sfuggire che
ogni singola azione o decisione, pur se ispirata, espressa, giustificata, motivata,
spiegata in nome del diritto, proviene da esseri umani, persone che orientano il proprio
agire secondo il diritto, cioè secondo le norme di un ordinamento riconosciuto come
“diritto” da loro o da altri. Non necessariamente per rispettarle, ma anche per cambiarle
o persino violarle: secondo un famoso esempio ancora di Weber (1974b, I, p. 29), anche
il ladro che fugge con la refurtiva orienta la sua azione secondo il diritto, che
in questo caso teme. In breve, nella prospettiva sociologica il diritto compare non
come soggetto dell’azione, ma semmai come strumento d’azione o come motivazione all’azione. È un modo – fra altri – di agire socialmente. Per questo, definendo la nostra disciplina,
uso dire che la sociologia del diritto «studia il diritto come modalità d’azione sociale» (Ferrari 2006, p. 56; 2008, p. 3).
Naturalmente questa definizione riflette un modo personale di guardare al diritto,
alla società e conseguentemente alla sociologia. Partendo da altre premesse si adotteranno
definizioni diverse: “lo studio dei rapporti fra diritto e società”, “lo studio del
sistema giuridico come sottosistema del sistema sociale globale”, e altre ancora.
Ma andando sotto la coltre delle parole, si vedrà che alla fine vi è molta concordanza
sull’oggetto della materia. La posta in gioco sono sempre azioni, ciò che le produce
e ciò che ne consegue. Con le azioni si studiano gli “attori”, o i loro ruoli, quelle
maschere che s’indossano agendo giuridicamente: avvocato, giudice, contraente, testatore,
convenuto in un giudizio. Oppure le opinioni sociali sul diritto, che inducono all’azione
giuridica. E sempre, comunque, ci imbattiamo in quella distanza fra norme e prassi,
che dipende dalla fissità delle prime contro la mutevolezza della seconda e che per
questo, maggiore o minore che sia, appare inevitabile.
1. Premesse
Introducendo questo volumetto, ho ricordato il clima di «scoperta illuminata dal dubbio»
che in anni lontani sollecitò nei giovani studiosi di allora l’interesse per la sociologia
del diritto.
Per parlare ora di metodo, non posso che ricominciare appunto dal dubbio, che è il
motore della ricerca, della scienza e della conoscenza umana. Il dubbio accomuna epistemologie
diverse, che la tradizione filosofica usa opporre, come il razionalismo e l’empirismo.
Cartesio ha incentrato sul dubbio assoluto – salvo che sul pensiero autocosciente,
il cogito ergo sum – la ricerca della verità. Bacone, e poi Locke, Berkeley e Hume hanno puntato sul
dubbio congetturale, da rimuovere attraverso l’osservazione.
È sorprendente e perfino doloroso, in questi tempi, ascoltare voci che suggeriscono
anche allo studioso di abbandonare il dubbio, abbracciare una verità definita una
volta per tutte d’autorità e limitare la ricerca all’interno di questo quadro precostituito.
Non voglio qui discutere se questo richiamo alla verità assoluta abbia un fondamento
per quanto attiene alla dimensione ultraterrena, anche se la storia rivela chiaramente
che non solo fra l’una e l’altra delle dottrine religiose presentate come assolutamente
vere, ma anche all’interno di ognuna di esse, la libera ricerca ha prodotto una gran
diversità di opinioni fra loro incompatibili, tanto da far concludere che ognuna di
queste concorrenti verità di fede sia non assoluta, ma relativa all’autorità che l’ha proclamata, al suo tempo, al suo retroterra culturale, per
non dire ai suoi concreti disegni d’azione umana. Una constatazione, questa, che segnala
come esistano molti assolutismi, l’un contro l’altro armati, e per converso un solo
relativismo, disarmato per definizione.
Qui però non parliamo della dimensione ultraterrena, né di fede, ma di ricerca sulle
cose visibili ed esperibili. Cose umane, nel caso delle scienze sociali. In questo
campo, che si possa respingere il dubbio come principio gnoseologico primario è ancora
più sorprendente. Eppure accade.
Un modo per fare della scienza dogmatica, molto diffuso nella seconda metà del secolo
XX, è stato l’uso improprio del concetto di paradigma, che Thomas S. Kuhn elabora
nel suo notissimo La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1999) Per ‘paradigma’, l’autore intende un sistema di asserzioni teoriche riconosciute
valide da una comunità scientifica. La storia delle scienze, secondo lui, procede
per fasi, nel cui corso un paradigma si forma, si confronta con i problemi e con i
fatti, si consolida, entra in crisi e viene infine abbandonato con la formazione di
un nuovo paradigma, di solito a opera di una più giovane comunità di scienziati. Questa
concezione storico-epistemologica può prestarsi a diverse letture, anche in chiave
di estremo relativismo, come se l’autore volesse intendere che la scienza non è ricerca
volta alla scoperta di ciò che “esiste”, ma solo opinione sociale, contingente e caduca.
Ma la chiave di lettura di Kuhn, che si è spesso affacciata nelle scienze sociali
a fine Novecento, è stata ben diversa, associando l’elemento sociale e comunicativo
della concezione “paradigmatica” con una visione fideistica della teoria scientifica
di riferimento. Se questa è indiscutibilmente vera, allora si dovrà escludere dalla
comunità scientifica e quasi privare del diritto di ricerca e di parola chiunque metta
in discussione qualsiasi pur piccolo corollario della teoria.
In questo senso si sono mossi per lungo tempo alcuni circoli marxisti, in palese contraddizione
con lo spirito critico che anima le opere scientifiche di Marx, ma gli echi di una
concezione dogmatica della scienza, che esilia dalla comunità scientifica le voci
dissonanti, si sono udite anche fuori da quelle cerchie. Spesso ho segnalato che l’utilizzo
della sociologia sistemica di Luhmann da parte di alcuni fra i suoi seguaci correva
precisamente questo rischio, sempre contro lo spirito critico e ricostruttivo del
sociologo tedesco, il quale ha cercato di rifondare il funzionalismo sociologico su
nuove basi, sottraendolo alle critiche che ne avevano investito le voci più autorevoli,
come quella di Parsons, e avendo cura di ammonire i suoi lettori a non prendere la
sua teoria come un articolo di fede.
Sul dubbio bisogna intendersi. Come detto all’inizio del nostro discorso, si cerca
perché non si sa o, per meglio dire, si cerca qualcosa che non si sa, ma che si intuisce
alla luce di conoscenze già acquisite, da altri o da noi. L’Ulisse dantesco si proietta
oltre le colonne d’Ercole perché, esperto del mondo, immagina che anche là vi sia
appunto un mondo, sebbene «senza gente», e, forte di questo, sfida il divieto. Cristoforo
Colombo viaggia verso ovest – si dice – per andare nelle Indie, in quanto sa che la
terra è sferica e che pertanto, qualunque direzione si prenda, là si dovrà pur approdare.
Che sul suo cammino trovi un altro continente, non è frutto di errore, ma semplicemente
quell’evento inatteso, non raro nella scienza, che si usa chiamare serendipity. Si cerca qualcosa e si trova qualcos’altro, che può smentire le conoscenze acquisite,
o accrescerle, come nel caso di Colombo, la cui intuizione primaria era corretta:
dall’Europa si può andare nelle Indie orientali anche viaggiando verso ovest.
Dire che si cerca qualcosa che non si sa, ma si intuisce, significa dire che si pensa
che quel qualcosa “esiste”. Le “Indie orientali” esistevano al tempo di Colombo, così
come esistono anche oggi, sebbene vengano comunemente indicate con altri nomi (‘Cambogia’,
‘Thailandia’ e via dicendo). Che qualcosa “esista” e se ne cerchi conferma attraverso
la ricerca significa ipotizzare che quella cosa è “reale” o “vera” e che la supposizione
della sua esistenza – che chiamiamo ipotesi – sia, appunto, “verificabile” attraverso l’esperienza. Occorre dissipare il luogo
comune per cui chi è mosso dal dubbio non cerchi la “verità”, beninteso in senso fisico
e fattuale, non in senso morale che è altro problema. E occorre anche dissipare il
luogo comune per cui nessuna ipotesi fisica e fattuale può essere confermata dall’esperienza.
La possibilità di raggiungere quelle terre emerse, che convenzionalmente si possono
chiamare ‘Indie orientali’, anche viaggiando verso ovest è un fatto certo. Così pure,
che la terra ruoti attorno al sole e non viceversa, grazie ai calcoli di Niccolò Copernico
e alle osservazioni di Galileo Galilei può ritenersi “vero”. Non è immaginabile tornare
alla concezione geocentrica, perché significherebbe contraddire un fatto assodato
e confermato.
Lo stesso può dirsi nel campo delle scienze sociali. Che negli ultimi cent’anni il
numero di esseri umani viventi sul pianeta sia aumentato esponenzialmente rispetto
a tutta la storia umana precedente è un fatto certo. È anche certo che dagli anni
Sessanta in poi è diminuito l’indice di fertilità della popolazione italiana. Ed è
certo altresì che negli ultimi trent’anni è cresciuta in Italia la percentuale di
avvocati rispetto alla popolazione residente ed è anche cresciuta la quota di matrimoni
civili rispetto a quelli celebrati con rito religioso. Questi fatti sono indubbi,
precisamente nel senso che allo stato delle conoscenze non sembrano investibili dal
dubbio.
Ciò che distingue la metodologia del dubbio dunque non è lo scetticismo estremo rispetto
a quanto ci circonda, ma la rivendicazione della libertà di affermare pubblicamente
– per dire – che il calcolo matematico e l’osservazione empirica rivelano che la terra
ruota attorno al sole, senza incorrere in sanzioni. È rifiuto della verità imposta
d’autorità, anche se in nome di un principio superiore e di una teoria assunta come
inoppugnabilmente vera.
Sottolineo una teoria, che è qualcosa di più complesso della singola ipotesi controllabile. Una teoria,
come noto, è un insieme di asserzioni che cercano di dare ragione di una serie di
fenomeni fra loro correlati. Che la terra ruoti attorno al sole è un’ipotesi confermata.
Ma con questo non si è esaurito il compito dell’astrofisica. A partire da Copernico
e da Galileo la teoria eliocentrica ha subito importanti variazioni al proprio interno
(già Giovanni Keplero scoprì che le orbite dei pianeti sono ellittiche e non circolari)
e probabilmente ne subirà ancora; e soprattutto è stata coordinata con altre teorie,
da Isaac Newton a Albert Einstein sino alle ipotesi teoriche sull’universo in espansione,
o in accelerazione, o in retroazione, o sull’esistenza di altri universi.
Di fronte a sistemi complessi di asserzioni il dubbio, rimosso dalla verifica di uno
o più fenomeni, o frammenti della teoria, risorge con tutto il suo potenziale critico.
Quanto più una teoria è articolata, tanto più si presta a correzioni e smentite ovvero,
nelle famose parole di Karl Popper (1972), appare congetturale e confutabile. È dunque
non vera, ma verosimile. Resiste finché una prova logica, un calcolo matematico, un’osservazione
non la falsifica. Se la falsificazione è parziale la teoria si autocorreggerà; se
è totale, verrà abbandonata. In entrambi i casi i suoi sostenitori avranno imparato
dai propri errori. Perché errare humanum est. Nessun essere umano possiede una conoscenza infinita e inconfutabile.
Nella scienza dunque si procede per tentativi ed errori o, detto diversamente, si
procede all’infinito di ipotesi in ipotesi, giacché anche l’ipotesi confermata non
chiude il procedimento, ma apre la strada ad altre congetture, cioè restringe l’area
del dubbio, ma al tempo stesso la amplia, verso l’alto e verso il basso, per parlare
metaforicamente. Le scoperte in fisica ha
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