Avvertenza
Il testo è completamente autonomo rispetto ai rinvii alla corposa bibliografia posta
in fondo al volume, tesa a suggerire possibili linee di ricerca e di inquadramento
dei problemi. Chi non ha tempo o interesse per eventuali approfondimenti potrà non
tenerne conto. Pur rinunciando a valutare gli strumenti e le premesse del lungo lavoro
che ha condotto al libro, non perderà il senso del discorso. Sfrutterà, anzi, il vantaggio
di una lettura più fluida.
Il frequente uso delle citazioni risponde alla scelta di far parlare con la loro distinguibile
voce i partecipanti a quell’impresa comune rappresentata da ogni libro. I rinvii alle
fonti (inseriti tra parentesi quadre) rimandano alla bibliografia mediante il cognome
dell’autore, con l’aggiunta dell’iniziale del nome nei casi di omonimia, il numero
di pagina e – qualora siano citati più saggi dello stesso autore – l’anno di pubblicazione
dell’eventuale traduzione italiana.
Preludio. Quasi una fantasia
Con salutare effetto di straniamento, presento all’inizio alcuni testi di carattere
letterario, volutamente ambientati in epoche lontane, che ci aiuteranno a comprendere
la genesi dei nostri abituali rapporti con le cose. Lo faranno ravvivando il ricordo
della sensazione che si prova ogni volta che, svegliandoci, percepiamo gli oggetti
in maniera non ancora focalizzata, quando le cose, pur apparendo sprovviste dei loro
normali attributi, si mostrano disponibili a rivestirsi di quei molteplici strati
di senso di cui vengono successivamente spogliate quando le si tratta come entità
note o semplici valori d’uso e di scambio.
Mi riferisco dapprima a un poemetto del I secolo d.C., a lungo attribuito a Virgilio,
che rende efficacemente l’atmosfera del presentarsi delle cose nella loro iniziale
indeterminatezza, allorché rientrano sulla scena del quotidiano spettacolo prodotto
dall’irradiarsi della luce, che le sottrae alla notturna latitanza e le riporta a
noi.
Si tratta del Moretum (La focaccia o La pizza rustica), in cui un povero contadino, Simulo, svegliatosi al buio, «solleva il corpo, lasciato
scivolare pian piano giù dal misero lettuccio» e «con la mano esperta esplora le tenebre
inerti e cerca il focolare» per ravvivare, soffiando via la cenere, il tizzone ardente.
Scoperta la brace e accesa la lampada a olio, Simulo passa dall’esperienza tattile,
che può fare a meno della luce per riconoscere gli oggetti, alla vista che, inquadrandoli
e scandendoli, gli consente di preparare il frugale pasto, la focaccia che dà il titolo
all’opera.
Dopo l’intervallo del sonno, la vita pratica riprende i suoi diritti e i suoi ritmi:
ricomincia la diuturna lotta contro la fame e la miseria. Nel lucore latteo dell’alba,
assieme alla casa, anche l’orto riassume la consueta apparenza. La luce elenca ora
le cose, distinguendo le diverse coltivazioni: «Qui il cavolo, qui prosperano rigogliose
le bietole che stendono in largo le loro braccia [...] e cresce il ravanello a punte
e la zucca che scende pesante nel largo ventre» [(Virgilio) 1983, 5-8; 71-75].
Rinasce la meraviglia di fronte al sorgere del sole, alla sua vittoriosa riapparizione,
al graduale passaggio dal buio della notte al fulgore della luce naturale, che rivela
e dipinge il mondo nella molteplicità delle sue forme e colori. Quando le ultime stelle
impallidiscono e le fantasmagorie del sogno si dissolvono, la determinatezza del giorno
subentra a districare ciò che la notte aveva confuso.
Se prima le stelle brillavano palpitando nell’oscurità – «in obscura nocte sidera
micant» è scritto su uno stipite del monastero benedettino di Subiaco –, ora sono
scomparse e chi dormiva passa dal dissolversi dell’abituale solidità del mondo alla
sua ricomposizione in un noto e saldo assetto, dalla logica allucinatoria del desiderio
alla prevalenza dell’aspro principio di realtà. In ognuno l’elaborazione dei più intimi
timori, interessi, speranze, fantasie (che, come in una seconda vita, il sogno sgomitola
in storie parallele a quelle della veglia) cede il passo alla prepotente univocità
della coscienza diurna.
Il sogno è un fenomeno assolutamente comune e assolutamente sconvolgente, che non
smette di lasciarci perplessi sino a farci supporre che qualche potenza estranea ci
trasferisca in un’altra dimensione. Come attratti da una speciale forza di gravità,
siamo però ciclicamente ricondotti da un altro spazio e da un altro tempo all’ordine
e alla continuità della vita quotidiana e dalla perdita di noi stessi al nostro ritrovamento.
Per designare questo ricongiungimento con noi stessi dopo il rientro di ognuno dal
mondo notturno, Proust si è servito di una immagine che ricorda i soldatini dei giochi
infantili: «Si dice allora: un sonno di piombo. E sembra di esser diventati noi stessi,
durante i brevi istanti che seguono un tal sonno, nient’altro che un ometto di piombo.
Non si è più nessuno. E come mai, in tal caso, cercando il nostro pensiero, la nostra
personalità, come si cerca un oggetto smarrito, finiamo per trovare proprio il nostro
io, piuttosto d’un altro? Perché, quando ci rimettiamo a pensare, non accade mai che
un’altra personalità diversa dalla prima si incarni in noi?» [Proust, II, 89-90].
Dopo la parentesi notturna ogni cosa riprende gradualmente la solita posizione nello
spazio e rientra in una predisposta casella mentale. Rinasce l’ordine delle parole
e delle cose: noi rientriamo nella quotidiana routine, riallacciandoci a precedenti esperienze e ridestando sopite inquietudini, mentre
le cose recuperano la loro apparente impassibilità.
Il poter assistere quotidianamente allo sbiancarsi del cielo notturno, al momento
in cui la maggioranza degli esseri viventi esce dal proprio torpido raccoglimento
in sé per riprendere contatto con il mondo, è per noi un evento eccezionale. Nelle
società preindustriali a prevalenza contadina – quando la notte non era stata ancora
colonizzata dal diffondersi dell’illuminazione elettrica, dei turni di lavoro in fabbrica
o dalla protrazione degli svaghi – ci si svegliava, per lo più, al canto dell’«alata
sentinella» del mattino.
I classici della letteratura ci aiutano, ancora una volta, a ricostruire l’atmosfera
che circondava la millenaria esperienza di innumerevoli individui nell’assistere alla
transizione dal buio alla luce, dopo la loro quotidiana resurrezione dalla piccola
morte del sonno. Ascoltiamo prima come Virgilio e Ovidio descrivono il riposo di tutti
gli esseri nella natura in quiete. Dice Virgilio: «Era la notte, e in terra i corpi
stanchi / godevano il placido sonno, e s’erano acquietati i boschi / e il mare tempestoso,
quando le stelle si volgono / a metà del corso, e tacciono i campi, le greggi e i
variopinti / uccelli, e gli esseri contenuti dalle liquide / ampie distese e dalle
terre irte di rovi: composti nel sonno sotto la notte silenziosa / lenivano le pene
e i cuori dimentichi degli affanni» [Virgilio, Eneide, IV, 522-528]. Ovidio così riprende questo topos: «Quiete profonda aveva liberato nel sonno uomini, uccelli e fiere [...] senza brusio
alcuno immobili stavano e siepi e fronde; umida taceva l’aria: solitarie brillavano
le stelle» [Ovidio, Metamorfosi, VII, 185-187]. Molto più tardi, nella poesia di Nikolas Lenau [musicata da Felix
Mendelssohn Bartholdy, nei Lieder, con la titolatura di Schilflied op. 71, n. 4] il motivo ritorna con riferimento agli uccelli che fremono e si agitano
nel sonno, immersi nella profondità di un canneto, in un immobile stagno notturno
illuminato dalla luna.
Per l’evocazione del risveglio nelle società premoderne valga almeno questo intenso
passo tratto da La morte di Virgilio di Hermann Broch, dove l’imminente arrivo del giorno è annunciato dal tradizionale
risuonare delle cose del passato, dal respiro degli animali e dalle occupazioni e
preoccupazioni di uomini diretti al mercato: «La fila dei carri avanzava con assonnata
lentezza; si udiva il frastuono delle ruote sul lastrico della carreggiata, lo scricchiolio
degli assali, lo stridere dei cerchioni contro le pietre del margine, il cigolio delle
catene e dei finimenti; ma qualche volta brontolava lo sbuffante ansimare d’un bove,
qualche volta echeggiava un sonnolento richiamo [...] Il respiro delle creature viventi
attraversava il respiro della notte e con loro respiravano i campi, gli orti ed i
frutti, e il respiro dell’universo si apriva ad accogliere le creature» [Broch, 267].
Orientarsi nel mondo
L’ultimo testo letterario di cui mi servo, quale introduzione a questioni che si riveleranno
di maggior spessore teorico, è relativamente più noto. Si tratta di alcune pagine
iniziali della Recherche di Proust, dove il destarsi improvviso del protagonista in piena notte produce in
lui un completo disorientamento: non sa più dove si trova e non è quasi più in grado
di ricomporre l’unità e la consapevolezza del proprio io. Cerca allora di situarsi
nuovamente nello spazio e nel tempo, di rammentare le posizioni dei mobili e dei muri,
affinché «le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata»,
preparino il riconoscimento del posto in cui si trova, che si presenta all’inizio
confuso e ritagliato dai fluttuanti contorni dei luoghi ricordati. È un attimo, poi
la coscienza desta riprende il controllo della situazione e il pensiero e l’abitudine
fissano gli spazi e i tempi.
Come residuo appena percepibile resta però il sospetto, suscitato dalla non immediata
ricostruzione delle coordinate, che la presunta fissità delle cose non sia spontanea,
ma rifletta essenzialmente la nostra rigida organizzazione mentale: «Forse l’immobilità
delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non
altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti» [Proust, I, 8-9]. A
scopo pedagogico, per identificarle, le abbiamo scarnificate, compresse nella loro
polisemia e classificate. Isolandole dallo sfondo e dalla nostra attività, nel pensarle
abbiamo tolto loro ogni riferimento a noi, riducendole a entità materiali che ci stanno
semplicemente davanti secondo una tipologia elementare predefinita: «Le parole ci
presentano, delle cose, una piccola immagine nitida e consueta, simile alle figure
che s’appendono alle pareti delle scuole per dare ai bambini l’esempio di quel che
sia un banco, un uccello, un formicaio, cose concepite come uguali a tutte quelle
della medesima specie» [ivi, 468].
Nel crescere nominiamo le cose, le fissiamo nella memoria, le riconosciamo, le facciamo
spiccare su uno scenario dai tratti sfumati ed è solo la familiarità acquisita attraverso
questi processi a permettere di orientarci e di dar loro un significato. Impariamo
così a situarle in una mappa spaziale e temporale, a farne uso o a rinunciarvi, a
comprarle o a venderle, a dar loro valore o a trascurale, ad amarle, odiarle o rendercele
indifferenti.
Nel condurre tutte queste operazioni trascuriamo il fatto che già la percezione rivela
nelle cose innumerevoli differenze e sfumature. La descrizione di un semplice foglio
di carta posato sul tavolo potrebbe, ad esempio, non aver mai fine: «Più lo guardiamo,
più ci rivela le sue particolarità. Ogni orientamento nuovo della mia attenzione,
della mia analisi, mi fa scoprire un particolare nuovo: l’orlo superiore del foglio
è leggermente rialzato; alla terza riga, la linea continua finisce con l’essere soltanto
punteggiata...» [Sartre, 21]. Grazie a schemi culturali e a interessi personali, prendiamo
in esame solo ciò che ha senso e interesse per noi. Ritagliamo le cose dalla inesauribile
tela di fondo del campo percettivo e le circoscriviamo per mezzo delle forme suggerite
dai nomi della nostra lingua, dalle nozioni acquisite e dalle nostre personali proiezioni
(circola tra gli antropologi l’aneddoto del selvaggio che, condotto in una grande
città, non nota palazzi, tram e automobili, ma solo un casco di banane trasportato
su una carriola, perché solo questo episodio s’inserisce coerentemente nella trama
della sua esperienza).
Tenendo conto della condiscendenza degli oggetti della percezione, tracciare i contorni
delle cose significa spesso – in origine – compiere delle scelte: «la linea non imita
il visibile, ma ‘rende visibile’», dice Klee [cfr. Merleau-Ponty 1989, 32]. Nelle
diverse culture, l’attribuzione dei nomi alle cose e la struttura delle classificazioni
concettuali segue, infatti, percorsi specifici in base agli interessi dominanti e
ai criteri che servono da guida: per noi la neve è neve, mentre tra gli Eschimesi
vi sono decine di nomi per indicarla (distinguere le varie tipologie è per loro vitale).
Solo l’abitudine all’ovvietà ci fa quindi dimenticare i processi che conducono al
nome e all’identificazione della cosa.
Assegniamo alle cose un significato tendenzialmente univoco allo scopo di orientarci
nel mondo, favorendo la conoscenza teorica e pratica, ma raschiando dalle cose i loro
molteplici significati e dimenticando i valori simbolici e affettivi. Si pensi a quelli
del focolare (attorno al quale tribù o famiglie si sono raccolte nei millenni a commentare
gli avvenimenti del giorno e a raccontare leggende e fiabe) o, in altre culture, a
quelli della stufa, che nella Cina dell’Ottocento era stata addirittura divinizzata,
diventando «Dea Stufa», simbolo dell’unità familiare e del rango sociale di chi la
possedeva [cfr. Molotch, 13-14]. Diversamente dal calore del termosifone, che non
produce nessun piacere a guardarlo e non evoca nessuna fantasia, la fiamma non si
riduce a semplice fenomeno di combustione e la stufa, in Cina, a mera fonte di calore.
Fiamma e calore obbediscono, certo, a precise leggi fisiche, ma queste non ne esauriscono
il senso.
Imparare a distinguere
È illusorio immaginare che in questi interstizi temporali tra il sonno e la veglia
sia più facile cogliere, quasi di sorpresa, le cose alle spalle, prima che esse assumano
una loro precisa dislocazione mentale e reale? O si tratta, invece, di una mossa ingenua,
simile a quella dei bambini che si voltano di scatto per vedere se l’Angelo custode
esiste veramente? In ogni caso, di quali strategie teoriche bisogna servirsi per ridare
al mondo un senso più pieno, meno appiattito sulla routine della quotidianità o meno interessato al dominio sugli oggetti?
Il richiamo musicale al «quasi una fantasia» con cui ho descritto l’attacco di questo
libro serve non solo a indicare la presenza di un vago surplus di senso ancora da
allocare, che traluce prima che le cose siano normalizzate nel passaggio dalla logica
del sogno a quella della veglia o dal buio alla luce, ma anche a dimostrare che la
fantasia costituisce un fattore ineliminabile del nostro rapporto con le cose. Essa
accompagna l’incessante variare delle nostre proiezioni sul mondo e rielabora i molteplici
significati che la nostra specie ha seminato sulle cose. Questa avvertenza è necessaria,
non per tessere l’elogio del reincantamento del mondo o per invitare a una regressione
all’animismo, ma per aderire alla natura stessa delle cose.
Ho messo in evidenza il momento del risveglio – in apparenza così insignificante –
proprio per assecondare la comprensione del senso delle cose prima che l’abitudine
e la funzione prendano il sopravvento. Il ricorso a questa esperienza basta, tuttavia,
solo a rendere plausibile l’idea che a esse inerisce una virtuale e indefinita molteplicità
di significati, ma non spiega come ciò avvenga. Per capirlo, occorre in primo luogo
ricostruire analiticamente un vocabolario appropriato, teso a mostrare non solo come
i significati simbolici, cognitivi e affettivi si coagulino sulle cose, ma anche perché
– come ben sapeva la grande tradizione filosofica, mentre noi lo abbiamo dimenticato
– essi non formino un’aggiunta impropria ed estrinseca.
La cosa
Dopo aver esercitato un minimo di pazienza nell’affrontare alcune inaggirabili questioni
filologiche relative al restauro linguistico e concettuale del significato dei termini
da usare, sarà possibile chiarire meglio anche l’espressione «vita delle cose», dando
così una risposta al legittimo interrogativo su come gli oggetti inanimati possano
avere una vita autonoma, muoversi, sentire o addirittura pensare ed agire.
Tale paradosso si scioglie non appena dissipato l’equivoco che, nascosto nel linguaggio
quotidiano, si infiltra spesso anche nei concetti più sofisticati. Il malinteso dipende
dalla mancata distinzione tra «cosa» e «oggetto», parole che il tempo ha confuso,
provocando una serie di fraintendimenti a cascata che intorbidano tanto il pensiero
filosofico, quanto il senso comune. Data l’abitudine, da cui è difficile staccarsi,
a sentire questi due termini come sinonimi, è lecito cedere all’uso (qualche rara
volta lo farò io stesso) quando non si corra il rischio di aprire un varco agli equivoci.
L’italiano «cosa» (e i suoi correlati nelle lingue romanze) è la contrazione del latino
causa, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in
sua difesa (come mostra l’espressione «combattere per la causa»). Respublica non indica perciò una semplice proprietà comune, bensì l’essenziale di ciò che riguarda
tutti, che merita di essere discusso in pubblico e, di conseguenza, fonda il senso
di appartenenza dei cittadini alla propria comunità. L’aggettivo publica di respublica sembra collegarsi a pubes, che designa in latino la piena maturità dei ragazzi/uomini in grado di portare le
armi, di far parte dell’esercito (populus) e, per successiva estensione, di tutti i cittadini impegnati nella difesa e nell’incremento
del bene comune [cfr. Guess, 54-56].
«Cosa» è, per certi versi, l’equivalente concettuale del greco pragma, della latina res o del tedesco Sache (dal verbo suchen, cercare), parole che non hanno niente a che vedere con l’oggetto fisico in quanto
tale e neppure con l’uso corrente del tedesco Ding o dell’inglese thing (in contrasto con la loro etimologia, che rinvia all’atto del riunirsi per negoziare,
per trattare un determinato affare o affrontare una questione decisiva), ma che contengono
tutte un nesso ineliminabile non solo con le persone, ma anche con la dimensione collettiva
del dibattere e deliberare. Pragma, Sache, res (e, solo in origine, Ding e thing) rinviano tutti all’essenza di ciò di cui si parla o di ciò che si pensa e si sente
in quanto ci interessa. Res – che conserva la stessa radice del greco eiro, parlare, come del latino rhetor – rimanda nella sua radice a ciò di cui si discute perché ci coinvolge.
Il termine pragma ha in greco un ventaglio di significati che include la questione, la cosa che mi
riguarda, ciò in cui mi trovo implicato nella vita quotidiana, l’argomento da discutere
e da decidere specie in tribunale o in assemblea, il prendersi cura di qualcosa e
l’affare (nel senso proprio di cosa da fare). I suoi composti più rilevanti sono,
in campo politico, l’apragmosyne, l’astenersi dalla vita politica (un atteggiamento non solo deprecato, ma, in certi
periodi e Stati, sanzionato con la pena di morte), e la polypragmosyne (che, per contrasto, nelle città democratiche designa il darsi troppo da fare, l’occuparsi
di troppe cose, l’immischiarsi negli affari degli altri da parte degli intriganti).
Nel linguaggio filosofico, pragma viene da Aristotele inserito in una espressione, auto to pragma, «cosa stessa», che assume un significato specifico e pregnante. Designa sia i fatti
come effettivamente stanno, a prescindere dai nomi che si utilizzano in un’argomentazione
[cfr. Topici, 108 a, 20-25; e, più in generale, Romeyer-Dherbey], sia il processo mediante il
quale la «verità stessa» costringe il pensiero a indagare in una determinata direzione:
«quando gli uomini furono giunti fino a quel punto, le cose stesse aprirono loro la
strada, e li costrinsero a proseguire la ricerca» [Metafisica, 984 b 9; 984 a 18].
L’espressione hegeliana die Sache selbst è chiaramente un calco dell’auto to pragma aristotelico [cfr., tra l’altro, Ferrarin, 47-54], così come ne è una ripresa il
motto husserliano «Zu den Sachen selbst!» quale invito a ritornare alle «cose stesse».
Il ragionamento di Husserl riecheggia quello di Aristotele: «Noi non vogliamo affatto
contentarci di ‘pure e semplici parole’, cioè di una comprensione puramente simbolica
delle parole [...] Non ci possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane
e confuse, da intuizioni indirette – quando sono almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare
alle cose stesse» [Husserl 2005, 271; cfr. Catucci, 43-44]. Tale ritorno presuppone,
comunque, anche il percorso inverso, dai contenuti intenzionati all’analisi dei concetti,
metafore e simboli che permettono di comprenderli: «Zu den Sachen und zurück» [cfr.
Blumenberg].
L’auto to pragma aristotelico e la Sache selbst hegeliana sono entrambi legati all’idea di vis veri, all’esistenza di un istinto di verità che spinge gli uomini alla sua ricerca. Hegel
lo afferma con forza, citando Dante, che paragona l’intelletto umano a un animale
che trova spontaneamente la sua tana: «Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro
intelletto, se ’l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia. //
Posasi in esso come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner pòllo: / se
non, ciascun disio sarebbe frustra» [Dante, Paradiso, IV, 124-129 e cfr. Hegel 2007, § 440 Z]. Nel prospettare la vis veri, l’auto to pragma e la Sache allestiscono lo spettacolo del dipanarsi di una matassa di significati relativi all’essenza
di qualcosa. Ad esso, in maniera apparentemente passiva, il pensiero non ha che da
assistere. Questi tre termini rinviano, infatti, allo svolgersi automatico dei contenuti,
cui viene concessa la facoltà di articolarsi e dispiegarsi per conto proprio.
Tutto ciò avviene in contrasto con il cammino della coscienza individuale, che si
avvicina in maniera lenta e tortuosa alla comprensione dell’essenza della cosa, secondo
un moto a luogo che parte dalla sfera soggettiva e viene definito «per noi» (pros emas) da Aristotele e, con altro evidente calco, für uns da Hegel. L’auto to pragma e la Sache selbst rappresentano, invece, lo sviluppo conciso, ‘rettilineo’ e logicamente concatenato
del ragionamento a partire da assiomi o princìpi indimostrabili: il rovescio esatto
del «per noi», dell’andare a tentoni della ricerca con tutte le peripezie ed erranze
di una soggettività non ancora in sintonia con il vero.
Il modello più potente e coerente di auto to pragma è costituito dagli Elementi di Euclide, dove, nella dimostrazione di un teorema, è come se fosse la cosa stessa,
spinta dalla vis veri, a rivelare progressivamente la sua essenza a chiunque sia disposto a seguire i passaggi
imposti dal metodo (meta odos, cammino obbligato attraverso cui si perviene ai risultati).
Nella Fenomenologia anche Hegel mostra come, per cogliere l’automovimento della cosa stessa, occorre
«stare a guardare», sprofondando e perdendonsi nell’oggetto al fine di esprimerne
l’intima essenza: «Il conoscere filosofico esige che ci si abbandoni (sich übergeben) alla vita dell’oggetto o, che è lo stesso, che se ne abbia presente e se ne esprima
l’interiore necessità» [Hegel 1963, I, 44]. Il sapere che se ne ricava non coincide
affatto con la riproduzione mimetica dell’oggetto nel tradizionale, passivo specchio
della mente di cui sarebbe dotato un soggetto separato dal mondo. Il soggetto hegeliano
è attività, è energia che non si contenta dell’equilibrio statico tipico del rapporto
‘orizzontale’ soggetto-oggetto, rappresentato dalla «sostanza». Se, per indicare l’esigenza
di una rottura dinamica di tale equilibrio, Hegel si riferiva negli scritti giovanili
all’«unione dell’unione e della non-unione», l’indissolubile legame di soggetto e
oggetto viene nella Fenomenologia sottoposto al definitivo primato della soggettività: «tutto dipende dall’intendere
ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto» [ivi, I, 13].
A questo modello di sviluppo automatico della cosa rimandano anche i detti rem tene, verba sequentur e res ipsa loquitur: «se hai afferrato il nucleo essenziale del tuo argomento le parole verranno da sé»
e «la cosa stessa parla». È evidente che, in termini rigorosi, l’oggetto esterno alla
coscienza non è in grado di parlare: nel cogliere la cosa, nell’andare oltre l’oggetto
muto, il pensiero presta voce alla «sostanza», a ciò di cui si nutre nel comprendere.
Del resto, il termine greco ousia, sostanza, indica in origine il campicello da cui l’agricoltore trae non la sua sostanza,
ma il suo sostentamento. Un valore analogo conserva oggi lo spagnolo res, bue, bestia essenziale alla sopravvivenza della famiglia contadina (già dai tempi
di Esiodo l’oikos, casa e famiglia insieme, è costituito dal «padrone che comanda», dalla «donna» e
dal «bue per arare» [Le opere e i giorni, 405]).
Auto to pragma e Sache selbst si distinguono da pragma e Sache (oltre che da res e causa), proprio perché insistono sul processo di svolgimento automatico di una verità ormai
raggiunta, che parla in prima persona, mentre gli altri si riferiscono soprattutto
al momento della discussione e della ricerca in corso, quello in cui la cosa incorpora
i suoi attributi e prende progressivamente forma nella teoria e nella prassi.
In Hegel il senso di Sache e di Sache selbst assume una ulteriore curvatura, che conserva però il nocciolo dei significati presenti
in altri contesti e autori. Egli mostra come l’individuo si realizzi nell’operare,
ma anche come, armato della presunzione di essere l’unico a sfuggire alla malafede
e alla corruzione altrui, pretenda di rappresentare la «causa comune» (Sache selbst), mentre in realtà non rappresenta altro che il suo limitato interesse, la sua privata
causa (Sache).
La Sache selbst, esito dell’operare di tutti e di ciascuno, è appunto quel risultato anonimo di cui
ognuno vorrebbe appropriarsi in una sorta di hobbesiana guerra di tutti contro tutti
che si svolge sul terreno del «regno animale dello spirito», dove il singolo non si
accorge di essere condizionato dal mondo storico e agisce come se si trovasse in un
mero ambiente naturale. A differenza delle società animali, delle api o delle formiche,
in cui regna un ordine collettivo di spontanea cooperazione, gli uomini (ed è questa
la loro grandezza e la loro miseria) non si prefiggono però, spontaneamente, l’interesse
della società.
Come mostrano i modelli che Hegel ha in mente – la trasfigurazione dei vizi privati
in pubbliche virtù di Mandeville, la concordia discors di Kant e la «mano invisibile» di Adam Smith –, dal perseguimento del proprio vantaggio
scaturiscono effetti inattesi, perché l’ostilità e la concorrenza reciproche provocano
la mobilitazione delle energie individuali e la crescita e maturazione del singolo.
Accerchiato da ogni lato dai propri simili – che aspirano ad appropriarsi degli stessi
beni scarsi ai quali egli stesso mira –, ciascuno è costretto a elevarsi, a svettare
verso l’alto come una pianta cui è negato lo spazio per espandersi orizzontalmente.
Nelle moderne società basate sull’individualismo e sulla competizione, gli uomini
si situano quindi tra l’animalità dei bisogni e le superiori esigenze di collaborazione
nella società.
Non appena la Sache selbst conquista la propria autonomia – diventando oggettiva «compenetrazione» dell’individualità
e della realtà effettuale –, evapora l’autoinganno di chiunque pretenda di impersonare
la causa comune. Nel confluire, le molteplici cause private trascendono la loro particolarità
e si innalzano al livello collettivo del Geist («spirito», inteso come «lavoro universale del genere umano», civiltà). Esso sorge
dalla Sache selbst come suo prolungamento e supera, in un processo senza fine verso il bene comune,
le contraddizioni in cui si aggroviglia l’operare degli individui [cfr. Hegel 1963,
I, 328-348 e, in particolare, 345-347; e, da diverse prospettive: Bloch 1975, 88-89;
Agnoli e, soprattutto, Balibar]. Nella Fenomenologia l’opera di tutti e di ciascuno sfocia nel formarsi della «sostanza etica», spazio
pubblico, mentale e affettivo, che sta alla base di una determinata civiltà. Essa
è in grado di dirigere l’agire degli individui perché, separandosi dalle loro private
intenzioni e diventata oggettiva, si è caricata di valore, di esemplarità che li trascende
(è il caso delle «leggi non scritte» di Antigone e di quelle promulgate dalla polis di Creonte).
Più in generale, al di fuori della dimensione etica, la cosiddetta metafisica classica
riduceva la cosa agli elementi logicamente essenziali, al suo concetto: «Il vero,
per questa metafisica, non erano quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto
le cose elevate nella forma del pensiero. Quella metafisica riteneva perciò che il
pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti,
anzi fossero la loro essenza, ossia che le cose e il pensare le cose coincidessero
in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti, e la natura delle
cose, fossero un solo e medesimo contenuto» [Hegel 1968, I, 26 e cfr. I, 18]. In Hegel
tale metafisica si trasforma fondamentalmente in ontologia, in sistema in grado di
unificare essere e pensiero. Egli non si contenta quindi di conoscere, come in Kant,
i fenomeni che si manifestano ai sensi e all’intelletto a opera di una misteriosa
«cosa in sé» (Ding an sich); vuole conoscere la realtà effettuale, farla parlare con il linguaggio della Sache selbst. Sul piano logico, l’ontologia si articola in categorie che (con concetti come «divenire»,
«uguale» o «differente») sorreggono non solo ogni nostra rappresentazione, ma anche
ogni contenuto e orientamento della nostra mente, perché sono «la rete adamantina
– se si vuole – nella quale portiamo tutto il materiale e mediante la quale soltanto
lo rendiamo comprensibile» [Hegel 2007, § 246 Z].
Tra oggetto e soggetto
«Oggetto» è, invece, un termine più recente, che risale alla scolastica medievale
e sembra ricalcare teoricamente il greco problema, «problema» inteso dapprima quale ostacolo che si mette avanti per difesa, un impedimento
che, interponendosi e ostruendo la strada, sbarra il cammino e provoca un arresto.
In latino, più esattamente, obicere vuol dire gettare contro, porre innanzi.
L’idea di objectum (o, in tedesco, di Gegenstand, quello che mi sta davanti o di contro) implica quindi una sfida, una contrapposizione
con quanto vieta al soggetto la sua immediata affermazione, con quanto, appunto, ‘obietta’
alle sue pretese di dominio. Presuppone un confronto che si conclude con una definitiva
sopraffazione dell’oggetto, il quale, dopo questo agone, viene reso disponibile al
possesso e alla manipolazione da parte del soggetto. La cosa non è l’oggetto, l’ostacolo
indeterminato che ho di fronte e che devo abbattere o aggirare, ma un nodo di relazioni
in cui mi sento e mi so implicato e di cui non voglio avere l’esclusivo controllo.
Nessuna di queste espressioni – pragma, res, causa o Sache – si riferisce agli oggetti in maniera specifica ed esclusiva, mentre ciascuna rinvia
alla logica, alla ricerca, alla prassi o ai rapporti umani.
Come è noto, la parola «soggetto» ha in origine un senso diametralmente opposto a
quello che oggi siamo soliti attribuirgli: designa proprio ciò che attualmente chiamiamo
«oggetto». Il latino subjectum traduce il greco hypokeimenon e indica il sostrato che sorregge le qualità o gli accidenti della materia (oppure,
in senso logico, i predicati di un soggetto). Da Aristotele alla Scolastica, «soggetto»
è ciò cui si attribuiscono determinazioni o al quale tali determinazioni ineriscono.
A voler essere ancora tecnicamente più precisi, è l’oggetto reale cui si riferiscono
le determinazioni predicabili (come avviene nella Metafisica di Aristotele, dove «il soggetto è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che, a sua
volta, non può essere detto di nulla» [VII, 3, 1028 b 36]) oppure la sostanza in quanto
a essa ineriscano qualità o determinazioni [cfr. Tommaso, Summa Theologica, I, q. 29, a. 2]. Ancora in Locke [II, 23, 1-2] «soggetto» continua a designare il
substratum o sostegno.
Sebbene egli usi i termini «soggetto» e «oggetto» ancora in senso scolastico (e ciò
che più somiglia alla soggettività è quanto chiama sola mens nella terza delle Meditazioni), si considera Cartesio l’iniziatore della soggettività moderna. In realtà, quando
gli si attribuisce il gesto inaugurale della modernità, si ha in mente il cogito quale il luogo dell’evidenza incontrovertibile che fonda ogni sapere. A partire dalla
sua ammissione di recitare in maschera nel grande teatro del mondo («larvatus prodeo»,
dice), Cartesio viene però frequentemente presentato come un astuto Prometeo che fa
dono agli uomini della razionalità e della libertà di scegliere secondo evidenze razionali.
Si tratta, in realtà, di un obiettivo da lui considerato troppo ambizioso. Solo con
Kant e, soprattutto dopo Kant, la «soggettività» diventa sinonimo di consapevolezza
e autonomia individuale. Eppure, malgrado la distinzione tra i due poli della soggettività
e dell’oggettività si sia attualmente stabilizzata, può ancora succedere che il significato
dei termini «soggettivo» e «oggettivo» si inverta. Questo vale, soprattutto, quando
ci si riferisce alle società di massa contemporanee e al loro conformismo: «Oggettivo
è l’aspetto non controverso del fenomeno, il cliché accettato senza discutere, la facciata composta di dati classificati: e cioè il soggettivo;
e soggettivo è ciò che spezza quella facciata, ciò che penetra nella specifica esperienza
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