Premessa
Ha ancora senso parlare oggi del concetto di cultura? Riprendere in mano uno strumento
che alcuni antropologi non hanno avuto esitazione a considerare ormai un ferrovecchio,
logoro e persino politicamente compromesso? Per chi ha scritto questo libro ovviamente
sì. È un fatto curioso ciò che diversi antropologi hanno osservato, ossia che mentre
il concetto di cultura ha conosciuto una vasta estensione – dall’etologia, cioè la
descrizione di numerosi aspetti del comportamento animale, ai cultural studies, ossia la descrizione della cosiddetta cultura di massa delle società contemporanee
– gli antropologi culturali, coloro che per primi hanno usato questo concetto, ponendolo
al centro della loro attenzione, se ne ritraggono un po’ perplessi. Carla Pasquinelli,
che di recente ha scritto con Miguel Mellino un’Introduzione all’antropologia intitolandola proprio Cultura, nota che «non è la prima volta che questo concetto viene messo in discussione, è
però la prima volta che l’antropologia sembra poterne o volerne fare a meno» (Pasquinelli,
Mellino 2010: 23). Già negli anni Ottanta del Novecento – ricorda Pasquinelli – Ernest
Gellner affermava che la cultura è una specie di «protoconcetto», piuttosto povero
e impreciso (Gellner 1985: 178). Nella scia dell’antropologia sociale britannica –
diffidente nei confronti del concetto di cultura, almeno a partire da Alfred R. Radcliffe-Brown
– si pone un libro come quello di Adam Kuper (1999), anch’esso intitolato Culture. The Anthropologists’ Account, nel quale troviamo le seguenti considerazioni: 1) di questi tempi gli antropologi
sono piuttosto inquieti e nervosi, quando parlano di cultura, nonostante, o forse
a causa del successo di questo concetto (ivi: 226); 2) cultura è concetto troppo vago,
che va scomposto in una serie di ambiti, come il rituale, le credenze religiose, le
arti (ivi: 245); 3) la cultura tende a sottolineare ciò che differenzia gli esseri
umani, invece di portare l’attenzione verso ciò che essi hanno in comune, ovvero contribuisce
a erigere barriere, anziché «incoraggiarci a comunicare attraverso i confini nazionali,
etnici, religiosi e ad avventurarci al di là di essi» (ivi: 247); 4) la cultura non
è quindi un’arma per combattere il razzismo, ma – citando Walter Benn Michaels (1995:
129) – è essa stessa «una forma di razzismo» (Kuper 1999: 241).
Cultura come razza? Nello stesso anno in cui Kuper pone il problema della connessione
cultura/razza, ossia della possibilità di un uso razzistico della nozione di cultura,
l’antropologa norvegese Unni Wikan denuncia che qualcosa è «andato storto», che «‘Cultura’
ha preso una strada sbagliata», nel senso che diviene un «sotterfugio» mediante il
quale, sotto l’apparenza del rispetto, mascherare «abuso di potere» e persino «razzismo»
(Wikan 1999: 57-58). Anche la Wikan ritiene che la cultura abbia preso il posto di
razza, e che il «modello razzista» abbia fortemente condizionato l’uso della nozione
di cultura (ivi: 58). In che cosa consiste questo modello? Nel ridurre la persona
a un «prodotto» della cultura, nel pensare che essa sia presa «nella morsa della cultura»,
concepita questa, a sua volta, «come una cosa», dotata di un’esistenza fissa, stabilita
una volta per tutte e proprio per questo «riverita», cioè come una realtà statica,
oggettiva, condivisa in maniera uniforme da tutti i membri di un gruppo, congelata
nel tempo (ivi: 58, 57, 62-63). Ebbene, secondo la Wikan, vi è in tutto ciò una buona
dose di responsabilità degli antropologi, perché «è il nostro concetto di cultura» che ha subito questa deriva razzistica, e perché sono stati
gli antropologi a fare della cultura qualcosa di fisso e di uniforme (simile, appunto,
alla razza). Per cui, anche se non è il caso di «gettare via il bambino con l’acqua
sporca», occorre trattare la nozione di cultura con grande attenzione, e comunque
– di questi tempi – è opportuno «parlare contro la cultura», piuttosto che a suo favore (ivi: 58, 63 [corsivo mio]). Nel capitolo VII di questo
libro il lettore si imbatterà in un’altra antropologa, Lila Abu-Lughod, che all’inizio
degli anni Novanta aveva pubblicato uno scritto dirompente, che recava come titolo
Writing against Culture (Abu-Lughod 1991).
Il libro che qui presentiamo vuole essere invece una ‘difesa della cultura’, anche
se può davvero succedere che la nozione di cultura sia così compromessa politicamente
da essere usata addirittura al posto di razza. La proposta che qui viene avanzata
non è quella, allora, di usare le pinze, ma di rivedere in profondità questo concetto,
per così dire restaurarlo, e nel frattempo individuare con maggiore precisione le
cause delle derive razzistiche che tanto preoccupano, e giustamente, gli antropologi
più avveduti. In un altro testo, abbiamo già ritenuto di individuare la ragione di
ciò che Ugo Fabietti ha chiamato l’«imbroglio» della cultura (Fabietti 2000: 55):
la ragione non è nel concetto di cultura, ma nell’uso che eventualmente se ne fa,
ispirati – o meglio ossessionati – come siamo dalla nozione di identità (Remotti 2010:
105-106). Che cosa trasforma la cultura in una ‘cosa’, in una realtà fissa e congelata
nel tempo (Wikan), se non appunto l’identità? È l’identità che trasforma la cultura
in una sostanza, simile alla sostanza biologica in cui gli individui sarebbero intrappolati
e a cui è stato dato il nome di razza. È da questa morsa dell’identità che occorre
strappare il concetto di cultura, affinché non diventi qualcosa di antropologicamente
abominevole, come il concetto di razza. Il presupposto, certamente ambizioso, che
anima questo progetto è che la nozione di cultura non solo sia in grado di essere
riparata, liberata da impieghi e significati aggiuntivi, ma sia pure in grado di aprire
nuove piste di ricerca, che possono rivelarsi fondamentali tanto per il lavoro degli
antropologi, quanto per un’ampia e organica critica sociale: piste che hanno ben poco
a che fare con l’identità e con le sue chiusure, e che anzi al contrario ci incoraggiano
ad «avventurarci» al di là degli stessi confini culturali. Kuper ritiene che il concetto
di cultura ci faccia stare entro i confini che ogni cultura inevitabilmente traccia;
i saggi contenuti in questo volume hanno la presunzione di far vedere invece come
nella stessa nozione di cultura sia possibile trovare attraversamenti, sconfinamenti,
aperture, trascendimenti forse insospettati.
A pensarci bene, tutto parte da una considerazione biologica della cultura, come una
dimensione cioè non esclusivamente umana, ma zoologica, e quindi in fondo naturale;
tutto si origina dal rendersi conto di come gli esseri umani non siano l’unica specie
culturale, e tuttavia una specie che, molto più di altre, ha fatto dipendere la sua
stessa sopravvivenza dalla cultura. Quando si parla di imprescindibilità biologica
della cultura e quando si confronta la cultura, il suo essere ‘esterno’ e ‘sociale’,
con il patrimonio genetico, è difficile sottrarsi all’idea del paradosso in cui si
dibatte l’umanità, ovvero questo suo dipendere non da una sostanza, ma da qualcosa
di profondamente ‘precario’, fatto di ‘accordi’ e di ‘convenzioni’, la cui consistenza
è paragonabile a quella di una ‘materia fluida’, di uno spazio di condivisione aleatoria,
non di un’entità (capitolo I). È pensando a questa precarietà e fluidità originaria
che scaturiscono le esigenze di fabbricazione e di modellamento degli esseri umani,
ciò che chiamiamo antropopoiesi (capitolo II), e, nello stesso tempo, quelle esigenze
di ‘apertura’ e di ‘uscita’ che Adam Kuper auspica nella sua antropologia cosmopolita
e che invece gli antropologi farebbero bene a cominciare a intravedere nelle società
che essi studiano: si tratta della «breccia» che Raymond Firth aveva osservato nell’isoletta
di Tikopia (capitolo III). È di qui, del resto, dal ‘disagio’ insito in ogni cultura,
che scaturisce la comunicazione interculturale come fattore imprescindibile: Alexander
Lesser, Eric Wolf, più recentemente Jean-Loup Amselle, ci hanno invitato a pensare
le società come di per sé inserite in reti complesse di relazioni, nonostante tutti
i loro eventuali tentativi di chiusura (capitolo IV). Non è che le società siano tutte
naturalmente chiuse, né inevitabilmente aperte: sono però tutte strutturalmente incomplete.
Sul concetto di incompletezza (e di in/completamento) si gioca, in questo libro, la
grande partita della cultura, della sua fecondità e utilizzabilità sul piano antropologico:
di qui partono diramazioni che vanno per un verso nella direzione del riconoscimento
dell’incompletezza da parte delle stesse società indagate e, per l’altro verso, nella
direzione dei loro tentativi di affermare un’incontestabile completezza (capitolo
V).
È un po’ la stessa cosa della complessità: non la complessità della cultura, ma la
complessità della realtà, esterna e interna, fisica e organica, con cui tutte le culture
hanno da fare i conti, la complessità del mondo e la complessità del cervello umano.
Così, si rivela opportuno, da un lato, studiare le culture come tentativi di riduzione
(di padroneggiamento, di controllo) della complessità e, dall’altro lato, indagarle
nei loro momenti di riconoscimento e di ricorso alla complessità. Scopriremo in questo
modo che le società tradizionalmente considerate più semplici sono in realtà le più
votate alla complessità, mentre le società più complesse ci appariranno come quelle
più impegnate in una forsennata riduzione della complessità (capitolo VI).
In un libro dedicato alla cultura è importante rendersi conto che non tutto è cultura,
nemmeno ciò che è oggetto di studio da parte degli antropologi culturali. Difensore
critico del concetto di cultura (contro gli attacchi di Lila Abu-Lughod), Ulf Hannerz
ci fa comprendere che nel mondo umano non tutto è coperto dalla cultura: come la complessità
del reale ci suggerisce, la cultura è sempre una coperta troppo corta; ci sono infatti
forze, fattori, tendenze, che sfuggono alla sua presa, e gli antropologi farebbero
bene a studiare i fenomeni culturali e nello stesso tempo indagare «fin dove arriva
la cultura». Non solo, ma la coperta della cultura può essere qui più fitta e forte,
là più lisa e debole, qui più ricca e là più povera: ci è parso che il concetto di
densità culturale risponda bene all’esigenza, avanzata da Hannerz, di provvedere addirittura
a una misurazione quantitativa della cultura (capitolo VII). Stravaganze o velleità
antropologiche? Può darsi; e tuttavia non è forse manovrando sui criteri di «meno
cultura o più cultura» che ci si apre la strada verso un tentativo di comprensione
della violenza estrema, una risorsa a cui disperatamente si ricorre quando lo spazio
della condivisione si è in gran parte svuotato di risorse più propriamente culturali?
A proposito di densità, spesso si dà per scontato che la pienezza caratterizzi le
culture, come se tutte le società vogliano che i loro spazi di condivisione e le loro
vite siano sempre culturalmente ‘pieni’. Non è forse il ‘vuoto’ – come del resto l’incompletezza,
di cui abbiamo già parlato – una dimensione altrettanto essenziale per le culture?
L’idea della sospensione programmata, culturalmente prevista (ossia delle epoché, come potremmo anche dire), è venuta esaminando un caso etnografico particolare,
quello dei BaNande del Nord Kivu, i quali un tempo arrestavano periodicamente le attività
di disboscatori e di coltivatori, ossia le attività che maggiormente segnavano la
loro cultura e in cui soprattutto si riconoscevano, anche a costo della fame e della
carestia (capitolo VIII). Abbiamo interpretato tutto ciò come una forma di ‘decrescita’
indigena, come una volontà di imporre limiti alla propria cultura, di non trasformare
la propria cultura di abakondi («abbattitori di alberi») in un intervento modificatore senza vincoli e senza freni:
una saggezza precapitalistica che lo spirito del capitalismo, arrivato sulle colline
del BuNande, avrebbe poi fatto fuori.
Ed è così che il libro si conclude, proponendo come tema di riflessione per gli antropologi,
che ancora intendono utilizzare il concetto di cultura, i processi di impoverimento
culturale e individuando nel capitalismo il fattore ‘anti-culturale’ oggi più potente
e pervasivo: mercificando il mondo, le società, le relazioni, è il capitalismo che
‘parla’ e soprattutto agisce contro la cultura (capitolo IX). Forse gli antropologi che scrivono «contro la cultura» (per esempio
Matera 2004) non farebbero male a riflettere su questo nesso inquietante e sulla necessità
imprescindibile di ‘uscire’, di saltar fuori, dalla logica o dallo spirito del capitalismo,
allo scopo di inquadrarlo e soppesarlo nella sua enorme, e pressoché inedita, incidenza
antropologica. Certo, il mondo non è desolatamente e del tutto impoverito sotto il
profilo culturale. Nella collana in cui esce questo libro, all’impoverimento culturale
che Luca Jourdan ha descritto in relazione all’Africa dei Grandi Laghi (Jourdan 2010)
si oppone la creatività culturale che Adriano Favole ha posto in luce nell’Oceania
(Favole 2010). Ovviamente, non è questione di schieramento: i partigiani dell’impoverimento
contro i partigiani dell’arricchimento e della creatività. È questione invece di dotare
l’antropologia di strumenti per saper cogliere entrambi i tipi di fenomeni e di processi,
là dove si presentano e persino si intrecciano, e per saperli interpretare. A noi
pare che «cultura» sia un concetto da cui si possano trarre ancora strumenti e indicazioni
particolarmente utili per l’antropologia, anche per l’antropologia del presente e
dell’attualità, e non solo per gli angoli di mondo in cui prevalentemente si è formata.
Riferimenti bibliografici
Abu-Lughod, L., 1991, Writing against Culture, in Recapturing Anthropology. Working in the Present, a cura di R.G. Fox, School of American Research Press, Santa Fe (New Mexico), pp.
137-162.
Fabietti, U., 2000, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma (I ed. La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995).
Favole, A., 2010, Oceania. Isole di creatività culturale, Laterza, Roma-Bari.
Gellner, E., 1985, Relativism and the Social Sciences, Cambridge University Press, Cambridge.
Jourdan, L., 2010, Generazione Kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo, Laterza, Roma-Bari.
Kuper, A., 1999, Culture. The Anthropologists’ Account, Harvard University Press, Cambridge (Mass.).
Matera, V., 2004, Contro la cultura: note critiche su un concetto critico, in Oltre le culture. Valori e contesti della comunicazione interculturale, a cura di E. Bardone e E. Rossi, Ibis, Como, pp. 27-40.
Michaels, W.B., 1995, Our America: Nativism, Modernism, and Pluralism, Duke University Press, Durban.
Pasquinelli, C., Mellino, M., 2010, Cultura. Introduzione all’antropologia, Carocci, Roma.
Remotti, F., 2010, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari.
Wikan, U., 1999, Culture: a new concept of race, «Social Anthropology», 7, 1, pp. 57-64.
1. Concezioni diverse di ‘cultura’
È un dato acquisito e sotto gli occhi di tutti il fatto che esistono due concezioni
fondamentalmente diverse di ‘cultura’: una classica e tradizionale, la quale afferma
e propone un ideale di formazione individuale (come, per esempio, il concetto greco
di paideia), l’altra invece moderna e scientifica, nel senso che è stata fatta valere dalle
moderne scienze sociali. La prima è una concezione di tipo prescrittivo e normativo,
mentre la seconda è di tipo analitico e descrittivo (Rossi 1983: 3-28): la prima indica
un dover essere per alcuni individui di alcune società, la seconda invece illustra
una condizione che riguarda i membri di qualsivoglia gruppo sociale. Sul piano del
linguaggio comune, la prima concezione affiora in espressioni come ‘uomo di cultura’
(intendendo una persona che, per la sua formazione particolare, si distingue dalla
gente incolta), mentre la seconda concezione emerge in espressioni come ‘la cultura
maori’ o ‘la cultura dei giovani’ e così via (intendendo modi di comportamento che
prescindono dalla distinzione colto/incolto).
È tuttavia opportuno rendersi conto della radice comune alle due concezioni, così
da illuminare meglio le loro stesse differenze. Entrambe si fondano da ultimo su una
metafora agricola: ‘cultura’ deriva infatti dal verbo latino colere, i cui significati principali sono ‘abitare’, ‘coltivare’, ‘ornare (un corpo)’, ‘venerare
(una divinità)’, ‘esercitare (una facoltà)’. Alla base vi è l’idea di un intervento
modificatore, trasmessa subito dal gesto di chi si insedia in un luogo per abitarvi
e perciò stesso lo trasforma, così come lavora e trasforma l’ambiente circostante
al fine di coltivarlo. L’insediamento umano – e in particolare quello agricolo – è
in latino cultura; così come cultura è pure la cura rivolta al corpo, alle facoltà o alle divinità. Il concetto classico
di cultura è una sorta di specializzazione di queste idee di fondo. Quando Cicerone
nelle Tusculanae disputationes (2, 5, 13) afferma che «cultura animi philosophia est», intende la filosofia come
un intervento radicale sull’animo umano, il quale lo trasforma, come se fosse il terreno
del contadino, da incolto a colto. La metafora agricola si ripresenta poi ogni qualvolta,
nella storia del pensiero occidentale, si voglia conferire una particolare pregnanza
al concetto di cultura. È il caso della «doctrina de cultura animi», definita esplicitamente
da Francis Bacon nel De dignitate et augmentis scientiarum come una «georgica dell’animo» (Bacon 1623, trad. it.: 374); è pure il caso di René
Descartes, per il quale «coltivare la mia ragione» si configura come una scelta di
vita, esposta nel Discours de la méthode (1637, trad. it.: 308); così come è il caso della «cultura dell’umana ragione», teorizzata
da Immanuel Kant nella Kritik der reinen Vernunft (1781, trad. it.: 634) come un esercizio il cui scopo è l’ordine e il benessere della
repubblica delle scienze.
Da questi pochi accenni traspaiono almeno due elementi, i quali valgono a contraddistinguere
la concezione classica di cultura: da un lato la cultura separa aristocraticamente
l’individuo che si sottopone al suo esercizio dal volgo incolto e lo sottrae ai mores (costumi) della sua società particolare; dall’altro questa stessa cultura immette
l’individuo in una società diversa da quella locale, in una comunità di dotti, in
una repubblica delle scienze e delle lettere caratterizzata da valori di ordine universale.
La cultura intesa in senso classico si rivela quindi per principio incompatibile con
i ‘costumi’, sempre locali e particolari; e proprio per questo si combina con l’idea
di una società astratta e liberata dai condizionamenti locali e temporali (la comunità
dei dotti), la quale grazie a questa cultura senza costumi ritiene di poter realizzare
la vera humanitas, il senso più autentico ed elevato dell’essere umano.
Si può probabilmente sostenere che la concezione moderna di cultura sia una smentita
di questa pretesa di universalità. Beninteso, vi sono diversi tratti che accomunano
le due concezioni, tra cui la metafora agricola presente originariamente nella stessa
etimologia latina. Ma ciò che contraddistingue maggiormente la concezione di cultura
propria delle scienze sociali rispetto alla concezione classica e umanistica è la
dilatazione vistosa dei suoi contenuti e quindi dei suoi confini. In sintesi, si può
affermare che la differenza essenziale tra la concezione classica e quella moderna
è data dall’assenza o dalla presenza dei costumi come contenuti specifici della cultura.
Se la cultura in senso classico era costituita da ideali, verità e valori non condizionati
dai mores, e se la sua acquisizione coincideva con una liberazione dagli abiti e dalle consuetudini
locali, la cultura in senso moderno è invece costituita dai costumi, e un’analisi
in termini culturali comporta il riconoscimento della loro importanza e della loro
incidenza in una molteplicità di ambiti del comportamento umano.
Una delle prime espressioni della concezione moderna di cultura è rintracciabile nell’Essai sur les moeurs (1756) di François Marie Arouet Voltaire. Se nel Preambolo egli aveva sostenuto che
ciò che veramente vale la pena di conoscere è «lo spirito, i costumi, le usanze»,
sia pure delle nazioni principali, nella conclusione contrappone alla «natura», da
cui dipende l’unità del genere umano, la «cultura» (fatta di «costumi» e di «usanze»),
che ha invece sparso per il mondo la varietà (Voltaire 1756, trad. it.: 203, 402).
«Così – egli afferma (ivi: 402 – trad. it. modificato) – il fondo [naturale] è ovunque
lo stesso, mentre la cultura vi produce frutti diversi». Siamo esattamente alla metà
del Settecento e l’Europa sta completando il proprio giro attorno al mondo. Tra il
1768 e il 1780 avvengono le tre spedizioni nel Pacifico meridionale di James Cook;
e tra i pensatori della seconda metà del secolo, per i quali le relazioni di viaggio,
sempre più numerose e accurate, si configurano come fonti imprescindibili per la considerazione
del mondo umano nelle sue varie forme, la figura di maggiore spicco – sotto il profilo
dell’elaborazione del concetto moderno e poi antropologico di cultura – è senz’altro
Johann Gottfried Herder. Tipico di Herder (1769, trad. it.: 50) è il desiderio di
rimanere «costantemente in una sorta di viaggio attraverso gli uomini», raccogliendo
informazioni da ogni parte della terra, così da rimediare alla ‘piega’ particolare
impressa al suo animo dal fatto di abitare in un «angolo sperduto, scitico, del mondo».
Altrettanto tipico di Herder (1774, trad. it.: 34) è il rifiuto della troppa filosofia
di coloro che vogliono ritrovare «in un piccolo angolo della terra il mondo tutto».
Alla base di questi atteggiamenti vi è la percezione della pluralità irriducibile
delle ‘forme di vita’ che l’umanità può assumere, e quindi l’improponibilità della
‘cultura’ in senso classico – la cultura della comunità dei dotti – come modello esclusivo
e, nello stesso tempo, universale di umanità. In questo contesto è da collocare il
passo di Herder (1784-1791, trad. it.: 158) in cui la concezione moderna di cultura
trova una delle espressioni più incisive: «Se vogliamo chiamare questa seconda genesi
dell’uomo, che dura per tutta la sua vita, cultura, prendendo l’immagine dalla coltivazione
dei campi, o lumi, valendoci dell’immagine della luce, non ha importanza; ma la catena
della cultura e dei lumi si estende fino alla fine della terra». I ‘lumi’ o la ‘cultura’
non sono dunque circoscrivibili all’Europa del XVIII secolo. «Anche gli abitanti della
California e della Terra del Fuoco hanno imparato a fare e usare archi e frecce; hanno
linguaggio e concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati
noi, e pertanto anch’essi sono veramente inculturati e illuminati, sia pur in misura
minima». A questa decisiva dilatazione etnografica del concetto di cultura s’accompagna
inevitabilmente un suo mutamento interno: anche gli archi e le frecce, e non soltanto
la filosofia, sono ormai cultura.
In Herder è esplicita la rivendicazione antropologica del concetto di cultura contro
il suo uso riduttivo ed esclusivo da parte dei filosofi del tempo. La sua concezione
di cultura apre ormai la strada a prospettive di lavoro in cui l’etnografia assume
un peso rilevante. Le sue Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit si collocano in un filone di studi relativi alla storia dell’umanità in cui indubbie
ambizioni generalizzanti si mescolano a «una quantità di fatti concreti» (Kluckhohn,
Kroeber 1952, trad. it.: 35), e in cui la «filosofia della storia» (secondo un’espressione
creata qualche decennio prima da Voltaire) viene sottoposta a un intenso ‘attraversamento’
etnografico. In queste ricerche storiche, etnografiche e filosofiche di Karl Franz
von Irwing, di Johann Christoph Adelung, di Cristoph Meiners, di Daniel Jenisch, oltre
che di Herder, ricorre con significativa frequenza il concetto di ‘cultura dell’umanità’
(Kultur der Menschheit), il quale, proprio per i suoi contenuti fatti di utensili e di costumi e per i suoi
confini coincidenti ormai con quelli dell’umanità intera, non poteva non configurarsi
come divergente, alternativo, se non contrastante, rispetto al concetto di ‘cultura
della ragione’ o ‘dello spirito’, a cui ricorrevano un Kant o un Hegel.
Non dunque dalle correnti centrali della filosofia, bensì dalle zone filosoficamente
marginali del pensiero tedesco vediamo emergere questo concetto etnografico di cultura,
il quale verrà poi fatto proprio dagli sviluppi successivi delle scienze sociali.
Questo concetto assume infatti un ruolo determinante nell’etnografo Gustav Klemm,
la cui opera in dieci volumi, Allgemeine Kulturgeschichte der Menschheit, si apre con la tesi secondo cui la cultura costituisce «ciò che vi è di essenziale
nella storia» (Klemm 1843-1852, vol. I: 18). Del resto, questo concetto non più esclusivo
e ‘parziale’, come quello della tradizione classica, umanistica e filosofica, bensì
‘totale’ (Rossi 1970: x-xi), in grado cioè di abbracciare un insieme complesso di manifestazioni dello spirito
umano, compare pochissimi anni dopo (1860) nel titolo di un’importante opera storiografica,
Die Kultur der Renaissance in Italien di Jacob Burckhardt, e si ritroverà frequentemente in Friedrich Nietzsche.
La delineazione delle vicende che hanno condotto alla fruizione e valorizzazione di
questo concetto da parte delle scienze sociali richiede tuttavia che ci si sposti
dalla Germania all’Inghilterra, avvertendo che non si tratta di un salto, ma di un
legame diretto. L’inglese Edward B. Tylor, al quale dobbiamo indubbiamente la prima
definizione organica di cultura in senso antropologico, conosceva infatti, e apprezzava,
l’immane lavoro etnografico di Klemm, di cui condivideva del resto la tesi della centralità
della cultura nella storia. Secondo la ricostruzione di Kluckhohn e Kroeber, ciò che
Tylor avrebbe aggiunto, rispetto a Klemm, è quasi semplicemente una definizione più
esplicita e sintetica; ma essa rappresenta il punto terminale di un’elaborazione concettuale
forse rallentata dalla massa di fatti concreti a cui il concetto veniva fatto aderire
e, nello stesso tempo, il punto iniziale di un’analisi il cui obiettivo sono i fattori,
le articolazioni, il senso della stessa cultura. È dunque inevitabile concludere queste
vicende concettuali con la definizione con cui Tylor inizia Primitive culture del 1871: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di
una società» (Tylor 1871, trad. it.: 7). In sintesi, e alla luce delle considerazioni
precedenti, sarà facile notare nella definizione tyloriana quantomeno i punti seguenti:
a) l’imprescindibilità della dimensione etnografica, la quale dilata i confini della
nozione di cultura fino a renderla coestensiva con quella di umanità; b) l’idea che la cultura sia un ‘insieme’ che ingloba diverse attività (e non soltanto
quelle più propriamente razionali e intellettuali, privilegiate dalle definizioni
di tipo filosofico); c) il carattere acquisito (non geneticamente trasmesso) di questo insieme e delle attività
che lo compongono; d) la connessione del concetto di cultura con quello di società nel senso che l’acquisizione
della cultura avviene per il fatto stesso di far parte di un gruppo sociale.
2. Abiti, costumi, esteriorità
Le origini etnografiche del concetto di cultura hanno indubbiamente determinato alcune
conseguenze, di cui due possono essere subito esplicitate. In primo luogo, il compito
dell’elaborazione e del raffinamento di questo concetto è stato assunto da quella
tra le scienze sociali che ha individuato nelle esperienze etnografiche il campo peculiare
delle proprie ricerche, ossia l’antropologia culturale. Anche la sociologia e la psicologia
sociale hanno contribuito in diversi momenti del loro sviluppo – e specialmente nelle
fasi di più intensa teorizzazione (come è il caso, per esempio, di Talcott Parsons)
– alla definizione o alla specificazione di questo concetto: ma né la sociologia né
la psicologia sociale, e tanto meno l’economia o il diritto, hanno offerto un contributo
teorico decisivo quale quello dell’antropologia culturale. Anche quando il concetto
di cultura viene impiegato nei contesti teorici o empirici delle altre scienze sociali,
esso risente delle formulazioni ricevute dall’antropologia culturale, e non pare che
siano particolarmente rilevanti le correzioni a cui viene sottoposto da parte delle
altre discipline, se non nel senso di una restrizione del suo campo di applicabilità.
La seconda conseguenza riguarda i contenuti del concetto di cultura. Le origini etnografiche
di questo concetto hanno infatti portato a individuare come contenuti della cultura
soprattutto i costumi, ovvero quegli aspetti o dimensioni del comportamento umano
che sono sì dotati di regolarità – nel senso almeno della ripetibilità –, ma di una
regolarità variabile, nel senso che è tipico dei costumi variare da luogo a luogo
e da tempo a tempo, ossia tra società e società e, all’interno di una stessa società,
tra i momenti diversi della sua storia. Significativamente, nella definizione tyloriana
citata nel par. 1 troviamo in posizione centrale e critica proprio la nozione di costume,
ed è questa nozione, insieme a quella strettamente imparentata di ‘abitudine’, ciò
che, dal punto di vista dei contenuti, costituisce l’innovazione semantica più decisiva
rispetto al concetto tradizionale e classico di cultura. Abitudini e costumi si possono
etnograficamente rilevare anche nelle altre società, per quanto primitive esse siano
o possano apparire. Ma se costumi e abitudini hanno determinato il contenuto del concetto
etnografico e antropologico di cultura, questo contenitore ha a sua volta modificato
i propri contenuti. Considerati privi di cultura, costumi e abitudini – specialmente
quelli degli altri – sono sempre apparsi strani, bizzarri, senza un fondamento esplicitamente
riconoscibile, che non fosse quello ovvio della ripetitività. Al di fuori della cultura,
costumi e abitudini hanno costituito a lungo una selva disordinata e senza senso,
dominata o da una variabilità selvaggia e disorientante o da una regolarità ottusa
e cieca. L’aver dato a questi contenuti la forma della cultura ha significato il riconoscimento,
almeno preliminare e ipotetico, dell’esistenza di un senso, di un ordine, di un fondamento,
alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità quanto la regolarità
di costumi e abitudini.
Questo avvicinamento e questa fusione tra il concetto di cultura e il concetto di
costume-abitudine hanno prodotto un inglobamento dei costumi nella cultura. Una volta
accettato e diffuso il concetto antropologico di cultura nelle scienze sociali, la
nozione di costume ha perso immediatamente terreno e si è in gran parte eclissata:
da diversi decenni non si impiega più – se non quasi per un vezzo antiquario – l’espressione
‘usi e costumi’, soppiantata dal ricorso al concetto di cultura. ‘Usi e costumi’ è
un’espressione che tradisce un intento descrittivo e classificatorio, mentre l’impiego
della nozione di cultura significa indubbiamente un punto di vista più profondo, un
progetto volto a cogliere il senso e il fondamento di usi e costumi. Non v’è dubbio
che, ponendo a confronto ‘usi e costumi’ e ‘cultura’, i primi rappresentano per così
dire la facciata esterna, mentre la seconda si riferisce a elementi strutturali o
a momenti processuali costitutivi e interni. Eppure questo assorbimento-sparizione
dei costumi nella cultura ha prodotto una modificazione nello stesso concetto di cultura.
L’aver inglobato i costumi come propri contenuti ha fatto sì che la cultura si appropriasse
inevitabilmente di certe loro caratteristiche. Se il concetto di cultura elaborato
dall’antropologia e utilizzato dalle altre scienze sociali è relativo a una cultura
fatta di costumi, ciò comporta un condizionamento reciproco, ovvero un passaggio di
caratteristiche in entrambe le direzioni: e se la cultura offre ai costumi il senso
dell’ordine e della forma, i costumi danno in cambio alla cultura un insopprimibile
significato di esteriorità. Anche la cultura, nella sua accezione originariamente
etnografica e poi antropologica, è qualcosa che, proprio per la sua variabilità, l’uomo
indossa. Vi è una convergenza assai curiosa tra certi significati originari del termine
‘cultura’ e termini imparentati quali ‘costume’, ‘abito’, ‘abitudine’, ossia la ricorrenza
del tratto ‘abbigliamento’: esso è infatti già presente nel latino colere, oltre che in cultus e cultura, così come è presente in habitus (da cui ‘abito’ e ‘abitudine’) e nelle varianti linguistiche europee di ‘costume’,
per riemergere nella stessa nozione di ‘modello’, con cui di solito si designa l’incidenza
della cultura nel comportamento (come nell’espressione ‘modelli di comportamento’)
o l’aspetto più formale, generale, ma anche essenziale della cultura (come nell’espressione
altrettanto diffusa ‘modelli di cultura’).
Questa presenza costante e riemergente del tratto ‘abbigliamento’ nelle espressioni
che ruotano attorno al concetto di cultura richiederebbe certamente un’indagine circostanziata;
ma qui ci si può accontentare di utilizzarla come uno spunto o un indizio per porre
a fuoco il problema dell’esteriorità. In questa prospettiva sarà sufficiente ricordare
quante società umane intravedano nell’abbigliamento uno dei fattori decisivi di differenziazione
culturale – rispetto sia agli animali, sia agli altri esseri umani –, per cui l’attenzione
che tutte le società umane prestano all’abbigliamento, ben al di là delle sue funzioni
di protezione dall’ambiente, risulta essere una riprova inequivocabile del nesso che
viene simbolicamente stabilito tra abbigliamento e cultura.
Al fine di illustrare il concetto antropologico di cultura Alfred L. Kroeber fa ricorso,
nel saggio del 1917 The superorganic, a un esempio particolarmente significativo: si tratta del diverso modo di adattamento
a un ambiente artico da parte di gruppi umani e di altri animali. Mentre tutti i mammiferi
artici presentano un folto pelo, l’uomo copre il suo corpo con pellicce sottratte
agli altri animali. Il processo di adattamento di questi ultimi ha interessato un
numero molto elevato di generazioni, mentre l’adattamento umano è stato assai più
rapido. Questa differenza di velocità nei processi di adattamento si collega strettamente
a un’altra differenza, ossia al fatto che le modificazioni nel caso degli altri mammiferi
sono organiche, mentre nel caso dell’uomo lasciano inalterato il suo corpo. L’adattamento
animale è più lento proprio in quanto coinvolge gli organismi, mentre la rapidità
dell’adattamento culturale umano è consentita dalla circostanza per cui gli organismi
rimangono esclusi dal processo. Vi è però un risvolto della medaglia, nel senso che,
mentre le generazioni di mammiferi artici che si succedono nello stesso ambiente trattengono
nei propri organismi e in quelli dei propri discendenti le forme di adattamento collaudate,
i discendenti dell’Eschimese «nascono nudi e fisicamente inermi tanto quanto lui e
il suo centesimo ascendente» (Kroeber 1917, trad. it.: 46). Il coinvolgimento dell’organismo
nei processi di adattamento è per un verso un vincolo frenante, ma per un altro verso
è una garanzia di perpetuità. Puntare – come hanno fatto in buona parte gli esseri
umani – su forme non organiche di adattamento ha certamente assicurato una maggiore
rapidità, versatilità, mobilità e revocabilità delle forme di adattamento, ma ha pure
significato un accontentarsi di forme prive di garanzia di autoperpetuazione. Il «nascere
nudi e fisicamente inermi» è una condizione che si ripresenta invariabilmente negli
esseri umani, sotto qualsiasi latitudine e in qualsiasi società, nonostante tutta
la loro cultura.
Il non coinvolgimento dell’organismo nei processi e nelle forme di adattamento culturale
è la ragione del carattere di esteriorità della cultura. Sotto questo profilo tutta
la cultura appare come esterna. I gruppi umani che si sono adattati all’Artico fanno
uso di abiti appropriati, ossia forme di adattamento che si possono aggiungere o togliere
all’organismo; i mezzi di volo, mediante cui l’uomo ha acquisito una capacità di locomozione
aerea, sono ovviamente anch’essi «esterni al nostro corpo», così come «i nostri mezzi
di locomozione marina esulano dal nostro corredo naturale» (ivi: 43 e 45). Le forme
di adattamento culturale non comportano una trasformazione degli organismi; la loro
sede si trova fuori dagli organismi, giacché esse implicano una modificazione dell’ambiente
esterno, o meglio dei rapporti degli uomini con l’ambiente esterno. Fin dalle sue
manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si configura come un insieme
di forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno. Da questo punto di vista non soltanto le
osservazioni di Kroeber, ma anche le analisi di André Leroi-Gourhan appaiono assai
pertinenti. Tutti gli utensili, di cui gli esseri umani si sono avvalsi a cominciare
dalle epoche più lontane, costituiscono un prolungamento verso l’esterno, anzi nell’esterno – al di là dei confini degli organismi –, di potenzialità e facoltà sia fisiche
che mentali: la pietra scheggiata, il bastone da scavo, il propulsore sono ‘esteriorizzazioni’
extraorganiche che aumentano di molto le possibilità dell’adattamento umano all’ambiente.
Sia Kroeber sia Leroi-Gourhan non si limitano tuttavia a fornire esemplificazioni
tecnologiche. Accanto alla tecnologia affiora inevitabilmente l’altro grande ambito
della cultura umana, il linguaggio. Per Kroeber (ivi: 53-54) «il linguaggio è qualcosa
di completamente acquisito e non ereditario, di completamente esterno e non interno,
cioè un prodotto sociale e non il frutto di uno sviluppo organico». E per sottolineare
il carattere esteriore del linguaggio – e quindi di tutta la cultura – Kroeber analizza
l’exemplum fictum del neonato francese, il quale, nato in Francia da genitori e antenati francesi,
acquisirà completamente la lingua cinese e non conoscerà una parola di francese, se
trasportato in Cina subito dopo la nascita: la lingua francese o cinese – come qualsiasi
altra lingua umana – non è inscritta nell’organismo di quell’individuo, mentre vi
sono incisi i caratteri che renderanno i suoi occhi azzurri e i suoi capelli biondi.
Da parte sua, Leroi-Gourhan nota come non solo la mano, ma anche la parola e l’attività
simbolica conoscano un processo di esteriorizzazione, che si rende del tutto evidente
con l’invenzione dei mitogrammi e dei vari sistemi di scrittura. In seguito all’esteriorizzazione
della parola e dell’attività simbolica si determina pure l’esteriorizzazione del cervello
e della memoria, processo questo che caratterizza soprattutto il nostro tipo di civiltà,
fondato sull’impiego dell’elettronica. «Tutta l’evoluzione umana – afferma il paletnologo
francese (Leroi-Gourhan 1964-1965, trad. it.: 277) – contribuisce a porre al di fuori dell’uomo ciò che, nel resto del mondo animale, corrisponde all’adattamento specifico. Il fatto
materiale che colpisce di più è certo la ‘liberazione’ dell’utensile, ma in realtà
il fatto fondamentale è la liberazione della parola e quella proprietà unica posseduta
dall’uomo di collocare la propria memoria al di fuori di se stesso, nell’organismo sociale» (corsivi miei).
Il linguaggio – la parte più schiettamente simbolica dell’universo culturale – è spesso
considerato come la prova del carattere esteriore della cultura. E sono significative
le convergenze che su questo punto si vengono a determinare. Così, per esempio, Georg
W.F. Hegel (1807, trad. it.: vol. II, 60), il quale considera la cultura come estraniazione
dello spirito, concepisce a sua volta il linguaggio come la ‘forma’ che questa estraniazione
assume. In una prospettiva rovesciata rispetto a quella hegeliana, Karl Marx e Friedrich
Engels riconoscono nel linguaggio la condizione materiale di cui la coscienza o lo
spirito è «infetto» fin dall’inizio: non si può dare coscienza senza linguaggio, anzi
«il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e
che dunque è la sola esistente anche per me stesso»; proprio per questa coincidenza
tra linguaggio e coscienza «la coscienza è [...] fin dall’inizio un prodotto sociale»
(Marx, Engels 1932, trad. it.: 20-21). Il riconoscimento dell’esteriorità come dimensione
essenziale della stessa coscienza individuale, la quale si forma nelle relazioni e
negli scambi sociali, è un esito su cui torneremo più avanti e su cui concordano pensatori
diversissimi tra loro, come Marx ed Engels da un lato ed Edward Sapir dall’altro.
Per quest’ultimo «gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obiettivo, e neppure
soltanto nel mondo dell’attività sociale comunemente intesa, ma si trovano in larga
misura alla mercé di quella particolare lingua che è divenuta il mezzo di espressione
della loro società» (Sapir 1949, trad. it.: 58). Questo trovarsi «alla mercé» è in
effetti il punto di convergenza tra i molteplici sostenitori del carattere esteriore
della cultura.
L’esteriorità della cultura può tuttavia essere concepita in una pluralità di modi
e interpretata in una pluralità di prospettive. Per Kroeber il carattere esteriore
della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto: se quest’ultimo è qualcosa
di «inciso internamente», quasi fosse «un modello inalterabile [...], un modello indelebile
e inestinguibile», in quanto prodotto dall’eredità organica, la cultura, in quanto
tradizione, è qualcosa che «viene ‘dato attraverso’, passato di mano in mano dall’uno
all’altro» e si risolve in «un messaggio» trasmesso di generazione in generazione
(Kroeber 1917, trad. it.: 56). Vi è estraneità, per Kroeber, tra la sostanza del messaggio
e coloro che sono destinati a portarlo, proprio come vi è estraneità tra il messaggio
contenuto in una lettera, ovvero il significato delle parole che la compongono, e
la materia su cui queste sono scritte. La cultura come tradizione «è qualcosa di aggiunto
agli organismi che la trasmettono, qualcosa di sovrapposto ed estraneo ad essi» (ivi:
57). La concezione dell’estraneità della cultura si coniuga in Kroeber con una visione
stratigrafica della realtà umana: vi è prima di tutto l’uomo come «sostanza organica
che può essere considerata in quanto tale», e vi è poi l’uomo come portatore di cultura;
l’essere umano è perciò «anche una tavola su cui si può scrivere». Sul piano della
realtà organica umana si deposita la realtà culturale; si tratta di due piani distinti,
paralleli, sovrapposti e autonomi. L’esteriorità della cultura sta a significare esattamente
questa autonomia, traduce la separazione dei due livelli, indica il ‘salto’ che vi
è da un piano all’altro. In effetti, per Kroeber, prima l’evoluzione biologica porta
a compimento la sua opera – nel senso che produce la realtà organica che noi stessi
siamo – e poi su questa s’innesta l’evoluzione culturale. L’esteriorità della cultura
è, per Kroeber, non solo separazione di piani, ma anche distinzione di processi evolutivi.
Nella prospettiva di Kroeber, la realtà organica degli uomini è rappresentata davvero
da quegli esseri «nudi e fisicamente inermi» quali noi tutti siamo al momento della
nascita, e la realtà culturale coincide significativamente con l’abbigliamento e il
corredo tecnico e simbolico con cui ci si ripara, ci si protegge, si affrontano le
più svariate situazioni ambientali, ci si adatta ai tipi più diversi di habitat. In questa prospettiva, la cultura è l’abito che l’uomo indossa per aggirarsi e abitare
nel mondo.
3. Il differente peso della cultura e la sua imprescindibilità biologica
Sviluppi più recenti relativi alla teoria della cultura hanno perlopiù mantenuto l’idea
del suo carattere esteriore. Per Clifford Geertz la cultura è un insieme di «fonti
estrinseche di informazione», nel senso che «si trovano all’esterno dei confini dell’organismo
umano come tale» (Geertz 1973, trad. it.: 143), e per Roger Keesing gli stessi individui
in quanto attori sociali percepiscono spesso la propria cultura come una realtà «esterna
(e quindi come potenzialmente costrittiva e frustrante)» (Keesing 1974: 88). Ma il
mantenimento dell’esteriorità si coniuga in questi teorici con il rifiuto esplicito
di una ‘concezione stratigrafica’ della cultura e della realtà umana. Se in Keesing
troviamo la condanna netta dell’idea che si possano sollevare gli strati culturali
per trovare al di sotto di essi l’«Uomo primigenio», la «natura umana nuda» (ivi:
74), in Geertz questo rifiuto appare compiutamente argomentato; ed è significativo
che in questa argomentazione riemerga la metafora dell’abbigliamento. Si tratta infatti
di valutare la consistenza e il peso degli ‘abiti’ (cultura) che gli uomini indossano
per affrontare il mondo. Per diversi momenti della filosofia moderna occidentale –
che Geertz vede rappresentati soprattutto dall’illuminismo – la natura umana, permanente
e stabile, risulta nascosta da uno strato di ‘costumi’ che la ricoprono: l’obiettivo
è di eliminare analiticamente lo strato dei costumi per scoprire ciò che l’uomo effettivamente
è. Interpretata come coscienza, io, ragione, spirito, o come struttura di istinti
e di passioni, questa natura si rivela nella sua ‘purezza’ e autenticità soltanto
quando è liberata dall’impurità dei costumi. La natura umana, e quindi il senso più
profondo dell’umanità, si concentra del tutto nelle sue strutture permanenti; sono
queste la ‘sostanza’ pesante, l’essenza inalterabile dell’umanità. Costumi, abitudini
e usanze, confinati negli strati più superficiali, appaiono in questa prospettiva
come stravaganze, la cui incidenza in una ricerca antropologica, diretta appunto all’essenza
dell’umanità, si rivela quasi del tutto negativa: strati superficiali e leggeri, ovvero
ostacoli o schermi che la sagacia del pensatore deve essere in grado di rimuovere.
In questo contesto, se il concetto di cultura viene impiegato, esso è cultura animi, cultura della ragione o dello spirito.
L’elaborazione in ambito etnografico del concetto di cultura ha appesantito molto
lo strato dei costumi: essi non sono più strani e bizzarri, non costituiscono più
un «mucchio di spazzatura di svariate follie» (Tylor 1871, trad. it.: 27); il concetto
antropologico di cultura conferisce loro senso, ordine, forma, e quindi un peso considerevole
nell’immagine globale della realtà umana. Gli ‘abiti’ o ‘costumi’ che l’uomo indossa
grazie alla sua cultura hanno una loro ragion d’essere, che non è determinata – se
non negativamente – dal suo sostrato organico e che non è nemmeno del tutto chiara
ai loro portatori occasionali. Nella prospettiva primo-novecentesca di Kroeber il
peso della realtà umana viene equamente ripartito tra la sua componente o livello
organico e la sua componente o livello culturale: gli abiti culturali non sono più
stranezze senza senso, sono invece strumentali o funzionali, e soprattutto sono forme,
modelli. In questo stadio, l’impiego del concetto etnografico di cultura ha reso i
costumi elementi ineliminabili di una corretta visione antropologica, consentendo
di scorgere in essi l’ordine di modelli, il valore e il senso di forme. Ma questo
concetto di cultura s’inserisce pur sempre in una visione ‘stratigrafica’; anzi, la
cultura designa un livello (il livello superiore) di quella complessa e composita
realtà bio-sociale che è l’uomo. Nonostante il potente innesto della cultura, c’è
dunque una certa continuità tra la visione stratigrafica del pensiero illuministico
e quella dell’antropologia culturale del primo Novecento. Continuità e discontinuità,
somiglianze e differenze tra queste due concezioni possono essere riassunte assai
bene con le parole di Geertz (1973, trad. it.: 78): «All’immagine settecentesca dell’uomo
come puro ragionatore, il quale appariva quando si spogliava dei suoi costumi culturali,
l’antropologia del tardo Ottocento e del primo Novecento sostituì l’immagine dell’uomo
come animale trasfigurato che appariva quando invece indossava questi costumi». Se
i filosofi moderni hanno pensato l’uomo essenziale come ‘uomo nudo’, dotato naturalisticamente
della sua ragione (oltre che dei suoi istinti e delle sue passioni), gli antropologi
hanno invece ritenuto che la realtà più autentica e completa dell’uomo appaia quando
egli indossa i suoi ‘abiti’ culturali. Il peso di questi abiti è ovviamente diverso
nelle due prospettive, ma in un caso e nell’altro essi si depositano su strutture
(razionali o organiche, e comunque naturali) che conservano la loro autonomia e la
loro integrità.
Con gli sviluppi più recenti della teoria antropologica della cultura, il peso della
realtà umana si sposta invece decisamente sul versante dei costumi e delle abitudini.
Si predica allora l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità
di scoprirlo nudo nella sua ‘purezza’ originaria e preculturale. E questa impossibilità
sarebbe dovuta non già a un difetto di strumentazione analitica, che impedisce agli
antropologi di superare la foresta impenetrabile dei costumi, bensì a un presupposto
che pretende di essere più fecondo e meno distorcente di quello stratigrafico. Secondo
questo presupposto, i costumi non nascondono di certo l’uomo, e nemmeno si limitano
a completarne e a perfezionarne la figura, bensì foggiano direttamente quella variegata
e strana realtà che sono gli uomini nelle loro differenze culturali. I costumi sono
la realtà dell’uomo e, per dirla con Blaise Pascal, la sua vera «seconda natura»:
non al di là dei costumi, ma nei o tra i costumi va ricercata l’essenza dell’uomo.
Appellarsi ai costumi e alle usanze per ricercare in essi il senso più profondo dell’umanità
significa sì sottrarli alla superficializzazione e marginalizzazione prodotte dalla
prospettiva stratigrafica tipica della filosofia moderna, ma comporta anche non obliare
e non sottovalutare proprio la loro variabilità. «Coltivare l’idea che la diversità
di usanze nello spazio e nel tempo non è solo questione di vesti e di apparenza, di
scenari e di maschere, vuol dire credere che l’umanità è tanto varia nella sua essenza
quanto lo è nella sua espressione» (ivi: 77). Con questi sviluppi teorici più recenti
i costumi acquisiscono il peso maggiore nella configurazione della realtà umana; in
tal modo l’essenza ‘uomo’ viene separata dal principio dell’unità e della stabilità
e considerata compatibile, anzi consustanziale, con la variabilità. L’essere dell’uomo
non è una struttura che si ritrova intatta in ogni tempo e luogo; esso coincide invece
con la pluralità delle forme particolari e locali mediante cui inevitabilmente gli
esseri umani di volta in volta si realizzano.
In questa prospettiva i costumi, gli abiti, la cultura conservano pur sempre il carattere
dell’esteriorità; ma ciò che è al di qua dell’esteriorità – ovvero le strutture supposte
pure e autentiche – perde la sua autonomia, a tutto vantaggio dell’esteriorità extraorganica,
la quale prende in carico il senso e il peso dell’umanità. L’esteriorità della cultura
non è però segno o prodotto della superficialità dei costumi. Il permanere del carattere
dell’esteriorità della cultura nelle diverse formulazioni e prospettive è indice invece
dell’importanza che la stessa esteriorità viene ad assumere. Proprio nel momento in
cui l’essenza dell’uomo si allontana dal principio dell’unità e della stabilità (a
tal punto che risulta ormai difficile parlare di ‘essenza’), l’esteriorità dei costumi
perde il senso della superficialità. Nella più pronunciata prospettiva culturale,
esteriorità non comporta necessariamente superficialità, perché nell’esteriorità extrasomatica,
nello spazio extraorganico (o interorganico) si sviluppano processi e si realizzano
forme che non si limitano – come riteneva Kroeber – ad aggiungersi ai processi e alle
forme organiche. Se l’esteriorità culturale – con la sua estesa variabilità di costumi
– concentra il senso dell’umanità, ciò significa che il centro di gravità dell’essere
umano è esattamente in questa esteriorità. In questo spazio variegato ed esterno si
decide ciò che l’uomo è, o meglio ciò che gli uomini sono, o più precisamente ancora
ciò che gli uomini di volta in volta divengono. L’esteriorità superficiale dei costumi,
marginale rispetto alle strutture interne, pure e permanenti, si è trasformata dapprima
in uno strato di esteriorità consistente, tanto da pareggiare il peso della componente
organica, per poi risultare l’elemento preponderante della realtà umana. Questi passaggi
e queste trasformazioni sono la dimostrazione della diversa incidenza che il concetto
di cultura ha acquisito in vari momenti dello sviluppo del pensiero e delle scienze
sociali, ma sono anche la riprova che l’incidenza è tanto maggiore quanto più viene
richiamata e valorizzata la sua componente o origine etnografica, vale a dire l’attenzione
per i costumi.
L’accrescimento e l’espansione della cultura al di là dei confini con l’organico sono
in primo luogo dovuti allo smantellamento della visione stratigrafica. Entrambe queste
operazioni trovano in Clifford Geertz un attivo sostenitore e un efficace interprete;
ma le condizioni che le rendono possibili vanno rintracciate in alcune scoperte che
a partire dagli anni Venti del Novecento sono state compiute in ambito paleoantropologico.
Con l’Australopithecus africanus (la prima scoperta risale al 1924, in Sudafrica, ed è dovuta a Raymond Dart) e con
lo Zinjanthropus della gola di Olduvai (scoperto nel 1959, in Tanzania, da Louis S.B. Leakey) ci si
è resi sempre più conto che gli ominidi, antenati dell’Homo sapiens, disponevano di una qualche forma di cultura, nonostante che il loro cervello fosse,
come capacità volumetrica, un terzo di quello dell’uomo attuale. La conclusione del
profondo ripensamento indotto dalle scoperte paleoantropologiche è stata chiaramente
espressa dall’antropologo fisico Sherwood Washburn, secondo cui «è probabilmente più
corretto considerare gran parte della nostra struttura fisica come il risultato della
cultura, anziché pensare a uomini anatomicamente simili a noi, i quali piano piano
scoprirebbero la cultura» (Washburn 1959: 21). Insomma, la cultura appare sì come
qualcosa di esterno rispetto agli organismi individuali, ma essa interviene ben prima
che l’evoluzione organica produca l’uomo quale esso è attualmente. Più ancora dell’antropologia
culturale, è stata la paleoantropologia a porre in crisi i rapporti di successione
lineare tra l’evoluzione organica e l’evoluzione culturale, e quindi a scompaginare
l’ordine gerarchico tra i rispettivi livelli. Come non è più pensabile che l’evoluzione
culturale prenda piede soltanto dopo che l’evoluzione organica ha prodotto l’uomo
attuale, sia pure nudo e fisicamente inerme – come sosteneva Kroeber –, così non è
più accettabile uno schema di sovrapposizione di piani paralleli costituenti la realtà
umana (livello organico e livello culturale). Il rifiuto dell’ordine temporale e diacronico
costituito da un ‘prima’ (evoluzione organica) e da un ‘dopo’ (evoluzione culturale)
comporta pure il rifiuto dell’ordine gerarchico e sincronico di un ‘sotto’ (base organica)
e di un ‘sopra’ (sovrastruttura culturale). Non si tratta di ribaltare con gesto meccanico
l’ordine delle fasi in successione o la gerarchia dei livelli; si tratta invece di
concepire i rapporti tra le due componenti in modo meno semplicistico e secondo un’interazione
assai più profonda, tale per cui – almeno nel caso dell’uomo – la cultura non interviene
a cose fatte sul piano organico, bensì si innesta direttamente nell’evoluzione organica
quale sua componente imprescindibile.
V’è da dubitare che solo per caso le riflessioni di Geertz circa l’incidenza più profonda
della cultura si svolgano negli stessi primi anni Sessanta del Novecento in cui Leroi-Gourhan
pubblica Le geste et la parole. Non vi sono tra i due autori riconoscimenti reciproci, ma per entrambi è importante
lo sfondo delle scoperte paleoantropologiche ed entrambi giungono, su alcuni punti
centrali, a conclusioni assai simili. Uno di questi punti è il ruolo del cervello
nell’evoluzione biologica e culturale dell’uomo. Secondo una tipica visione stratigrafica
e di successione lineare, si è spesso indotti ad attribuire al cervello una posizione
prioritaria e una funzione trainante, o addirittura creativa, rispetto alla formazione
della cultura (prima il cervello umano perfettamente abilitato e poi la produzione
della cultura). Leroi-Gourhan scombina questo schema ponendo il cervello nelle ultime
posizioni dello sviluppo organico, anziché nelle prime. Se infatti per Leroi-Gourhan
è quasi inevitabile scorgere nell’evoluzione dell’uomo «il trionfo del cervello»,
è d’altronde impossibile non attribuire al cervello la posizione dell’ultimo arrivato:
da un punto di vista strettamente anatomico, valutando sia l’espansione cerebrale
che le modificazioni dello scheletro, «non si può fare a meno di ritenere che il cervello
‘segua’ il movimento generale, ma non ne sia l’istigatore» (1964-1965, trad. it.:
57, 96). Il rifiuto da parte di Leroi-Gourhan di privilegiare il punto di vista cerebrale
nella considerazione dell’evoluzione umana consente di rimettere l’uomo sui propri
piedi in un senso molto meno metaforico e assai più fisico di quanto non fosse previsto
dalla formula marxiana. «Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa – egli afferma
in seguito all’analisi degli Australantropi – ma non di essere stati cominciati dai
piedi» (ivi: 78).
Dall’inizio della stazione eretta allo sviluppo attuale della massa cerebrale umana
si estende un lunghissimo periodo di alcuni milioni di anni, durante i quali gli antenati
dell’Homo sapiens sfruttano le mani, che la stazione eretta rende totalmente libere dalla funzione
locomotoria, per la costruzione di utensili. In questo lunghissimo periodo si collocano
non soltanto quelle forme di esteriorizzazione della mano che sono gli utensili, bensì
anche l’esteriorizzazione della capacità simbolica che è il linguaggio. Anche il linguaggio
viene ricondotto, sia pure indirettamente, alla stazione eretta; se tale posizione
ha infatti liberato completamente la mano dalla funzione locomotoria, la mano a sua
volta ha liberato gli organi facciali dall’attività di prensione, rendendoli disponibili
per la formazione e l’uso della parola. Leroi-Gourhan cita a questo proposito Gregorio
di Nissa: «Se il corpo non avesse le mani, in che modo si formerebbe in lui la voce
articolata?» (ivi: 44). Ma non vi è soltanto un nesso meccanico; vi è pure una connessione
neurologica tra l’attività manuale e quella verbale. Anche in un cervello di dimensioni
inferiori a quelle attuali «si può benissimo supporre la presenza delle aree di associazione
verbale e gestuale» (ivi: 106). Secondo Leroi-Gourhan, fabbricazione di utensili e
fabbricazione di simboli possono essere concepite come operazioni che si sono originate
nello stesso periodo: «Esiste la possibilità di un linguaggio – egli afferma (ivi:
136) – a partire dal momento in cui la preistoria ci tramanda degli utensili, perché
utensile e linguaggio sono collegati neurologicamente e perché l’uno non è dissociabile
dall’altro nella struttura sociale dell’umanità».
Si è già avvisato che non si tratta affatto di ribaltare delle fasi in successione;
si tratta invece di riconoscere un’interazione più profonda e complessa di quanto
lo schema stratigrafico sia in grado di lasciare scorgere. Così, in seguito alle analisi
di Leroi-Gourhan, non si tratta affatto di far intervenire il cervello soltanto alla
fine del processo; si tratta invece di riconoscere che l’impressionante sviluppo cerebrale
che caratterizza l’evoluzione umana (da 500 a 1500 centimetri cubi in un arco di pochi
milioni di anni) è avvenuto in un ambiente già culturale. È ovvio che quella cultura
– utensili e parole – è il prodotto di un cervello; ma il modello d’interazione profonda
tra la componente organica e quella culturale suggerisce che anche il cervello sia
a sua volta prodotto di quella cultura. Si tratta infatti qui di decidere se quella
cultura fosse non più che utile agli organismi che la producevano o se fosse invece
indispensabile. Il modello interattivo sostiene che quella cultura era semplicemente
vitale; essa non era certo un lusso o un abbellimento, un’appendice o un’esteriorizzazione
di cui si sarebbe potuto fare a meno; essa era una «vera e propria secrezione del
corpo e del cervello degli antropiani» – come afferma Leroi-Gourhan (ivi: 109) –,
ma questa secrezione era vitale e indispensabile per tutti quegli esseri (organi e
organismi) che la producevano.
Come abbiamo già anticipato, Clifford Geertz si incarica di chiarire questo punto.
Scartando l’ipotesi kroeberiana dell’origine della cultura come coincidente con un
‘punto critico’, nonché l’idea del passaggio dal livello organico a quello culturale
come se fosse un ‘salto’, egli sottolinea che «ci fu una sovrapposizione di forse
più di un milione di anni tra l’inizio della cultura e la comparsa dell’uomo come
lo conosciamo oggi» (Geertz 1973, trad. it.: 89). Questo dato cronologico inconfutabile
(e persino dilatabile in seguito alle scoperte più recenti) induce a scartare qualsiasi
concezione che applichi l’etichetta ‘uomo’ a un determinato momento dell’evoluzione
organica prima, senza o comunque a prescindere dalla componente culturale. Quest’ultima
ha infatti profondamente caratterizzato l’ambiente entro il quale si è svolta la maggior
parte di quella stessa evoluzione organica che ha prodotto l’uomo attuale e che, ovviamente,
continua a modificarlo.
Per una specie fisicamente inerme e scarsamente specializzata sul piano organico,
qual è l’uomo, si è molto facilmente indotti a ritenere che la cultura sia stata qualcosa
di estremamente utile. Per un ominide dotato di stazione eretta, in grado di perlustrare
e di percorrere una savana con una certa facilità, il cui organismo tuttavia era privo
di armi di offesa e di difesa (zanne, artigli, fauci, ecc.), la capacità di costruire
utensili fu indubbiamente un grosso vantaggio evolutivo. Il prolungamento extraorganico
della mano ha consentito certamente una manipolazione e un controllo ambientali più
vasti e, nello stesso tempo, più versatili. In effetti, allorché si sostiene l’incidenza
della cultura nello sviluppo dell’umanità, si è portati a pensare in primo luogo,
e giustamente, agli utensili e in genere alla cultura materiale, senza la quale gli
antenati dell’uomo avrebbero stentato molto a garantirsi un efficace adattamento all’ambiente.
Ma la teoria culturale a cui ci si riferisce in questo capitolo ritiene che l’incidenza
della cultura sia ben più profonda di quanto possano farci presagire l’idea di utilità
e la testimonianza degli utensili preistorici. Con lo smantellamento della visione
stratigrafica, il modello interattivo concepisce l’incidenza della cultura non in
termini di utilità per un animale indifeso, bensì di indispensabilità per un essere
la cui formazione e il cui sviluppo dipendono sempre più dalla sua esteriorizzazione
culturale. In questa prospettiva, la cultura non si limita a fornire comodità, ad
agevolare l’adattamento, a prestare a organismi indifesi strumenti che rendano più
sicura e confortevole la loro sopravvivenza; la cultura viene rappresentata invece
come un elemento indispensabile per la loro stessa vita, proprio come lo è l’acqua
per i pesci o l’aria per gli animali che dispongono di polmoni. Che ne sarebbe di
questi esseri, se togliessimo l’acqua o l’aria? In diverse occasioni gli antropologi
hanno provato a pensare che cosa succederebbe a degli esseri umani se si togliesse
loro la cultura. Si tratta ovviamente di una sorta di esperimento intellettuale, il
cui scopo sarebbe quello di verificare la natura, e quindi l’incidenza, della cultura.
Privati della cultura, gli uomini non sarebbero semplicemente animali che incontrerebbero
maggiori difficoltà nel loro adattamento all’ambiente, bensì «sarebbero inguaribili
mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun
intelletto: casi mentali disperati» (ivi: 91). Il funzionamento del nostro cervello
è inconcepibile in un vuoto culturale, esattamente come quello dei polmoni in un ambiente
privo di aria. Il modello interattivo non soltanto ritiene che il nostro sistema nervoso
centrale – e specialmente la neocorteccia – sia «cresciuto in gran parte in interazione
con la cultura», ma da ciò trae una grave conseguenza, ossia l’incapacità del nostro
apparato nervoso e cerebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare la
nostra esperienza «senza la guida fornita dal sistema di simboli significanti», in
cui – per Geertz – consiste propriamente la cultura. La cultura non è un aiuto; è
la base della stessa sopravvivenza biologica dell’uomo.
4. Simboli condivisi
Chi limita l’incidenza della cultura a un semplice aiuto per la sopravvivenza dell’organismo
umano è portato a concepirla altrettanto limitatamente come cultura materiale: l’aiuto
della cultura coinciderebbe perlopiù o innanzitutto con l’apparato della strumentazione
materiale mediante cui gli esseri umani perfezionano, completano o potenziano i propri
organi. Il modello interattivo, sostenendo un’incidenza ben maggiore (non semplice
aiuto strumentale, bensì imprescindibilità biologica), intende la cultura non soltanto
come strumentalità, ma anche, e forse soprattutto, come simbolismo: la cultura incide
nella vita dell’uomo e si configura come ‘prerequisito’ della sua esistenza biologica,
psicologica e sociale (Geertz) in virtù non soltanto dell’apparato tecnologico che
sa fornire, ma anche della sostanza simbolica di cui è composta. Il simbolismo della
cultura non ha affatto un carattere esornativo, né è un’escrescenza che – sorta chissà
come e perché – finirebbe per disturbare il funzionamento dell’apparato strumentale
e tecnologico; esso è invece la qualità più precipua dell’ambiente in cui gli esseri
umani e il loro cervello si sono formati e continuano a svilupparsi. Beninteso, nello
stesso modo in cui si è rifiutata l’idea della cultura come prodotto aggiuntivo di
esseri umani già formati dall’evoluzione organica, così è da scartare l’alternativa
opposta, secondo cui la cultura con le sue forme sussisterebbe già prima dell’evoluzione
dei suoi portatori. Il modello interattivo sottolinea fortemente il carattere della
cultura come ambiente vitale degli esseri umani, ma proprio in base al presupposto
dell’interazione ritiene altresì che questo ambiente impregnato di simbolismo sia
a sua volta il prodotto, per molti aspetti inconsapevole, degli organismi umani. Vi
è insomma una circolarità di retroazione tra cultura e organismo umano (considerato
specialmente nella sua componente neurologica e cerebrale), e il simbolismo pare rendere
l’incisività della cultura più profonda e l’interazione assai più estesa e coinvolgente
di quanto non risulti dal mero apparato tecnologico.
Perché l’interazione organismo/cultura non si limita al livello più superficiale ed
esterno della tecnologia ed esige, per contro, quella maggiore incisività e profondità
dovute al simbolismo? Secondo una delle tesi più significative di questo modello d’interazione,
vi è stato tra l’inizio della cultura, che poi sarebbe diventata umana, e la comparsa
dell’uomo attuale un passaggio lento ma deciso (una sorta di deriva biologica) da
forme di controllo del comportamento umano prevalentemente genetiche a forme di controllo
prevalentemente culturali. Puntare sull’esteriorizzazione culturale per garantire
meglio la sopravvivenza biologica di quegli esseri che avrebbero dato luogo all’umanità
ha significato privilegiare in misura sempre maggiore la versatilità, la flessibilità
e la mutabilità delle forme di controllo culturale rispetto alla maggiore rigidità
e inesorabilità di quelle genetiche. È presumibile che il processo d’interazione abbia
avuto effetti cumulativi sempre più rilevanti; ma, comunque si sia originato ed evoluto,
è indubbio che l’intervento della dimensione simbolica – rappresentata innanzitutto
dal linguaggio – abbia costituito una fase decisiva di non ritorno. Secondo Geertz,
questo processo può essere descritto come un «crescente affidamento a sistemi di simboli
significanti» per il controllo del comportamento umano (Geertz 1973, trad. it.: 90)
e quindi come una sempre minor presa del controllo genetico. Affidarsi sempre più
alla cultura e sempre meno (pur entro certi limiti) alla base genetica per orientare
gli esseri umani nel mondo ha comportato – condizione ed effetto nello stesso tempo
– uno iato «tra quello che ci dice il nostro corpo» (le informazioni genetiche inadeguate
perché troppo generiche) e «quello che dobbiamo sapere per funzionare»: si tratta
di «un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni
(o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura» (ivi: 92). E queste informazioni
culturali, di cui l’uomo ha immensamente bisogno per vivere e sopravvivere, sono contenute,
conservate, trasmesse e rinnovate dalla sostanza simbolica della cultura.
Definire il simbolismo può rivelarsi un’impresa disperata, specialmente se il tentativo
viene compiuto in base a un presupposto, implicito o esplicito, di autonomia delle
forme simboliche. Ma concepire la sostanza della cultura in termini di simbolismo
non comporta necessariamente un processo di autonomizzazione della dimensione simbolica.
Il modello interattivo evocato più volte nelle pagine precedenti svela qui un aspetto
che è stato finora tenuto in ombra soltanto per motivi di organizzazione del discorso.
Questo modello – si è visto – implica il rifiuto dell’idea dell’uomo come essere naturale
che acquisisce, o produce, in un secondo tempo la cultura, il rifiuto quindi – nella
realtà umana – della separazione natura/cultura. Questo modello implica pure il rifiuto
della separazione individuo/società quali entità autonome. Come non vi è un uomo naturale
che poi inventa, scopre o produce la cultura, così non vi è neppure l’individuo che,
formatosi per conto proprio, entra successivamente nella società. Le due concezioni
che s’intendono rifiutare si corrispondono piuttosto bene: all’essere naturale e preculturale
fa riscontro l’individuo presociale e dunque naturale. Ma non si tratta soltanto di
analogie e di corrispondenze formali, per cui il rifiuto di una concezione evoca il
rifiuto dell’altra, giacché l’interazione organismo/cultura è resa possibile dal tessuto
sociale, così come il contesto sociale richiede l’uso di simboli per la comunicazione.
In altri termini, l’interazione organismo/cultura implica l’interazione sociale, lo
scambio di azioni, informazioni, prodotti. Ed è nel contesto sociale che si formano
tanto i simboli quanto gli individui che li usano. Il comportamento culturale dell’uomo
appare sempre mediato dall’uso di simboli; e proprio per questo occorre pensare la
capacità simbolica come un fatto originario della cultura umana. Ma, «dato che il
simbolismo è un sistema condiviso di accordi o di vincoli culturali, pure il comportamento sociale deve essere invocato
per spiegare come e perché gli esseri umani siano culturali» (Rindos 1986: 316). Il
simbolismo rinvia alla società, giacché esso consiste in una condivisione di accordi, convenzioni, limiti, presupposti, associazioni e distinzioni, e perché
esso affiora come prodotto e come condizione nello stesso tempo degli scambi o interazioni
di cui è fatta la vita sociale. Strettamente coniugati, simbolismo e vita sociale
vanno a collocarsi alle origini più profonde della cultura umana e – come Leroi-Gourhan
aveva già sostenuto – impediscono di pensare a uno sviluppo culturale scandito da
una fase prioritaria, tutta dominata dalla cultura materiale, dagli indeperibili strumenti
litici e da preoccupazioni di adattamento a un ambiente puramente naturale, e da una
fase secondaria e successiva, in cui, allentatasi la pressione dei problemi materiali,
si sarebbe stati liberi di dar luogo alla produzione simbolica. Per usare ancora le
parole di Rindos (ivi: 326), «la struttura simbolica esistente nella cultura non è
una mera appendice alle capacità di sopravvivenza acquisite evolutivamente dall’uomo,
bensì una delle modalità mediante cui gli uomini sopravvivono».
Riconoscere la dimensione originariamente simbolica della cultura non costituisce
una rivincita postuma dell’idealismo (l’«idealismo culturale» paventato e contrastato
da Marvin Harris [1979: cap. 9]); è invece, piuttosto, una sfida da raccogliere e
un problema da dipanare proprio da parte di chi attribuisce alla cultura un insopprimibile
significato di sopravvivenza biologica. Può essere interessante ripercorrere, in questa
prospettiva, l’analisi che Bronislaw Malinowski aveva proposto negli anni Trenta del
Novecento, proprio perché con la sua teoria dei bisogni aveva fortemente sottolineato
la funzione biologica della cultura. Per Malinowski (1931) la cultura è tenuta in
primo luogo a rispondere ai bisogni biologici; anzi, essa coincide con la risposta
a questi bisogni. Rispondere in modo soddisfacente ai bisogni primari è per Malinowski
la condizione di esistenza, di riproducibilità e di intelligibilità della cultura.
Ma per quanto definibili possano essere i bisogni primari – vale a dire i bisogni
che l’uomo condivide con gli altri esseri animali (la nutrizione, la procreazione,
la regolazione termica dell’organismo e così via) –, le possibilità di risposta a
questi bisogni sono molteplici. Se i bisogni sono indubbiamente fonte di uniformità
nella vita umana, così come in quella animale, le risposte nel mondo umano sono invece
caratterizzate da una fondamentale variabilità, giacché per Malinowski non vi è una
connessione automatica tra il bisogno e la sua soddisfazione. La cultura sopperisce
a questa carenza di automatismo (e forse anche la provoca e comunque la incrementa)
non tanto con il suo apparato materiale, quanto piuttosto con lo sviluppo delle capacità
simboliche e sociali. Il simbolismo culturale – quale si manifesta soprattutto, anche
se non esclusivamente, nel linguaggio – consiste nello stabilire connessioni e distinzioni,
nell’organizzare l’esperienza sulla base di convenzioni, intese, accordi perlopiù
taciti, vale a dire di presupposti condivisi. Se è vero che gli uomini non trovano
già confezionate nel loro organismo le risposte in grado di soddisfare direttamente
i loro bisogni, appare inevitabile che le risposte vengano forgiate, modellate e collaudate
nello spazio extra- e inter-organico occupato dalla società, ovvero lo spazio delle
azioni e dei simboli sociali. Per quanto indispensabile, la stessa cultura materiale
è di per sé inefficace («Non è [...] una forza» autonoma, afferma Malinowski [1931,
trad. it.: 136]), se non è inserita in un contesto di idee, di valori, di significati
che la rendono attiva e operante. Ci procuriamo il cibo mediante un apparato strumentale
che può essere più o meno complesso, ma persino un semplice bastone da scavo – tanto
per seguire l’esemplificazione malinowskiana (ivi: 144) – è soltanto «apparentemente
un’unità in sé conclusa»; in realtà esso implica nozioni e idee, quindi un sapere
che concerne la sua natura e le sue funzioni, oltre che l’ambiente da cui viene tratto
e in cui viene impiegato, e questo sapere implica a sua volta un mezzo simbolico mediante
cui possa trovare forma, essere comunicato, appreso, trasmesso. Neppure in una semplice
banda di raccoglitori la risposta al bisogno del nutrimento è meramente naturale;
come in tutte le società umane, è una risposta culturale, cioè è organizzata simbolicamente.
Si potrà obiettare che il bastone da scavo è un buon esempio per dimostrare una rilevante
uniformità delle risposte umane al bisogno dell’alimentazione, almeno a certi livelli
tecnologici; ma «ciò che è rilevante per lo studioso della cultura è la diversità
della funzione, non l’identità della forma» (ibid.). La forma è muta, o perlomeno significa assai poco, se non la possibilità di collocare
gli oggetti in una qualche teca museografica e classificatoria; la funzione invece
rinvia a un contesto culturale e simbolico specifico nel quale gli oggetti sono effettivamente
impiegati, risultando così definiti «dalle idee che a essi sono connesse e dai valori
che li circondano» (ivi: 145).
In definitiva, è il simbolismo, inteso come contesto di simboli condivisi, ciò che
determina il carattere sempre peculiare della cultura, ciò che la particolarizza in
modo specifico e locale, giacché se è vero che il bastone da scavo come apparato strumentale
e materiale per sopperire al bisogno dell’alimentazione si trova in numerose società
di raccoglitori, il suo significato culturale – la sua ‘funzione’ specifica (per usare
il termine malinowskiano) – è reperibile soltanto nei vari contesti simbolici e sociali
in cui è utilizzato. La forma museografica del bastone può essere la stessa, o molto
simile; ma il suo significato culturale è molto diverso, in quanto dipende dai simboli
condivisi all’interno delle singole società, ovvero dagli accordi taciti, dalle convenzioni
più o meno trasparenti, dai presupposti perlopiù impliciti mediante cui si formano
i gruppi sociali. La condivisione dei simboli è in effetti la base della vita sociale,
la condizione di possibilità degli scambi e delle azioni all’interno dei gruppi, la
giustificazione più profonda della loro identità e quindi anche il motivo della loro
differenziazione culturale rispetto ad altri gruppi sociali. Condividendo simboli
si produce un ‘noi’ (non importa quanto esteso o ristretto esso sia) e nello stesso
tempo si determinano le differenze tra noi e gli altri, tra il proprio ‘noi’ e quello
degli altri.
5. Reificazione e precarietà: l’‘in più’ culturale
Roger Keesing ha parlato di «magia dei simboli condivisi» (Keesing 1974: 88), intendendo
con ciò alludere al fatto che i simboli condivisi in tanto agiscono come presupposti
e come condizioni della vita sociale di un particolare gruppo, in quanto vengono scarsamente
o nient’affatto esplicitati, resi oggetto di riflessione o di analisi: essi rimangono
sullo sfondo, anzi sul fondo della coscienza sociale, e vengono perlopiù sottratti,
per mezzo della routine della vita quotidiana, alla presa dell’atteggiamento critico.
I simboli condivisi si trovano infatti nei costumi più inveterati, nelle consuetudini
più ovvie, negli atteggiamenti in apparenza più naturali, a cui di solito non si presta
– a cui da un certo punto di vista non si deve prestare – attenzione.
Proprio per questo stare sullo sfondo, ignorati dalla luce della consapevolezza e
protetti dall’erosione critica, i simboli condivisi esercitano la loro influenza sugli
uomini, dirigendo e plasmando il loro modo di agire, di pensare, di sentire. Ben prima
degli antropologi culturali, autori come Michel de Montaigne e Blaise Pascal hanno
chiaramente individuato questo potere nascosto, che è lo stesso potere di cui parlano
Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca, un «potere così misterioso» proprio perché si trova al di fuori del raggio della
coscienza e quindi del controllo degli individui, e ne è fuori in quanto è la condizione
e il presupposto del loro comportamento. Ma i simboli condivisi non vivono soltanto
nell’ombra della quotidianità, nelle azioni, nei pensieri e nei sentimenti in apparenza
più banali (nelle norme dell’igiene e dell’etichetta, nei gusti dell’abbigliamento
o nel senso dell’ordine a tavola). Essi vengono talvolta esaltati, trasfigurati, resi
più potenti, allorché si conferisce loro una più esplicita realtà sovra-individuale,
non solo proclamando la loro indipendenza, ma sottolineando con rituali e credenze
la dipendenza degli uomini da queste entità. La «magia dei simboli condivisi» è anche
questo: la trasposizione di presupposti in entità che dominano esplicitamente la coscienza
individuale, e alle quali ci si riferisce periodicamente per orientare le azioni proprie
e altrui, per motivare le scelte morali della società, per determinare in qualche
modo il futuro. Come ha suggerito Mary Douglas (1966), vi possono essere in effetti
connessioni profonde tra i più umili rituali della vita quotidiana, a cui gli esseri
umani dimostrano di essere tenacemente attaccati, e le costruzioni religiose più raffinate
e complesse, le quali insistono sul rapporto di dipendenza degli individui e dei gruppi
da entità sovraumane, illustrandola e spiegandola mediante l’ordine del mondo e della
storia. In un caso e nell’altro è la potenza dei simboli condivisi che agisce e viene
esaltata: naturalizzati nel primo e sovra-umanizzati nel secondo, i simboli condivisi
manifestano il loro potere nella misura in cui risultano intatti o sono considerati
intoccabili.
Questa sottrazione dei simboli condivisi alla presa della consapevolezza e alla manipolazione
sociale fa parte di un processo più vasto variamente denominato come entificazione,
sostanzializzazione, autonomizzazione, reificazione (Ceccarelli 1978: 272; 1982: 57),
il quale consiste nel conferimento ai simboli di una condizione di realtà autonoma
e indipendente. I rituali e le abitudini della vita quotidiana da un lato, le cerimonie
e le credenze religiose dall’altro, rappresentano esiti particolarmente ben riusciti
del processo di reificazione. Ma questo processo – assai ben rilevato a proposito
del linguaggio (Ogden, Richards 1923) – interessa buona parte del funzionamento della
cultura in generale (Herskovits 1948, trad. it.: 307). Proprio per questo appare alquanto
riduttiva l’idea che si tratti di ‘superstizioni’ relative alle parole, di un retaggio
di oscure età primordiali da cui nemmeno il pensiero del XX secolo sarebbe del tutto
in grado di liberarsi (Ogden, Richards 1923, trad. it.: 52 sgg.).
La tendenza alla reificazione – la tendenza a trasformare in cose ritenute indipendenti
e autonome i simboli di cui facciamo uso –, «in genere considerata una disfunzione
del linguaggio» e della cultura, «è invece uno dei suoi caratteri fondamentali» (Ceccarelli
1978: 271). La reificazione è infatti il processo che consente di consolidare i simboli
condivisi e, salvaguardandoli per quanto si può dal flusso esperienziale del loro
impiego, attribuendo loro un’esistenza a parte e stabile, consente pure di conferire
loro il ruolo di presupposti e di condizioni della comunicazione e della vita sociale.
I casi emblematici – a cui ci siamo riferiti prima – della naturalizzazione da una
parte e della sovra-umanizzazione religiosa dall’altra pongono bene in luce il ‘trucco’
della reificazione: trasformare i simboli condivisi, dunque eminentemente sociali,
in qualcosa che non ha a che fare con la società (qualcosa che precede la società,
in quanto naturale, o qualcosa che va oltre la società, in quanto religioso); trasformare
accordi e convenzioni sociali in realtà che si presume non possano e non debbano essere
coinvolte dalle fluttuazioni e dai cambiamenti della vita sociale. Il trucco della
reificazione dei simboli condivisi consiste quindi nella negazione del loro carattere
sociale, nel tentativo di nascondere la loro origine sociale; ma è un trucco vitale
per fornire presupposti al funzionamento della vita delle società e, al loro interno,
alla sopravvivenza degli individui.
Se è legittimo ammettere l’esistenza del processo di reificazione in ogni lingua e
in ogni cultura, in quanto fondamentale e costitutivo, è tuttavia concepibile che
gli esiti del processo possano variare da cultura a cultura, e da settore a settore
all’interno di ogni cultura, nel senso che la trama simbolica di cui ogni cultura
è intessuta può risultare qui più fitta, e quindi per certi aspetti più opaca, e là
più rada, trasparente, meno complicata. Non solo l’infittirsi del simbolismo, ma più
in generale l’esistenza del simbolismo costituisce un fattore di complicazione rispetto
alla linearità del funzionamento bisogno/risposta. Neppure Malinowski si sarebbe riconosciuto
in una visione semplicistica di questo genere, se è vero che il suo stesso tentativo
di riportare la cultura alle funzioni biologiche si trasforma nella tesi dell’impossibilità
di interpretare la cultura come una risposta diretta ai bisogni biologici e come una
realtà che si esaurisca in un semplice e immediato soddisfacimento. A tal punto può
spingersi la complicazione culturale da rendere spesso difficile «scoprire quali siano
i bisogni biologici che vengono soddisfatti» (Herskovits 1948, trad. it.: 329).
Anche nelle culture in apparenza più semplici è come se vi fosse sempre un ‘in più’
culturale, il quale offusca i nessi utilitaristici e le relazioni puramente funzionali,
un sovrappiù che rende il tragitto verso un obiettivo «più difficile di quanto non
sia necessario» (ibid.). La sostanza simbolica reificata è ciò che determina questo surplus culturale, questo ‘in più’ che rimane opaco, una volta esaurita una spiegazione di
tipo funzionalistico (Augé 1987: 11). Il riconoscimento di questo ‘in più’ culturale,
di questo fattore di complicazione e di opacità, costituisce uno dei momenti decisivi
di una teoria della cultura e può anzi dar luogo a una situazione di stallo, di arresto
teorico. In ogni caso, esso rende inevitabilmente riduttiva la tesi tipica del materialismo
culturale di Marvin Harris, secondo cui l’uomo, «posto di fronte a un dato compito,
preferisce portarlo a termine con il minore, anziché con il maggiore dispendio possibile
di energie» (Harris 1979, trad. it.: 71).
Per superare lo stallo, una teoria della cultura pare non possa fare a meno di chiedersi
il perché di questo surplus culturale, di questo «maggiore dispendio di energia»: rituali lunghi e complicati,
credenze e costumi in apparenza assurdi e talvolta angoscianti, spreco enorme e inspiegabile
di beni (quale economia non è anche un’economia del dispendio e dell’ostentazione?
[Poirier 1968]). Pure questo surplus culturale è «magia dei simboli condivisi»; ma è una magia che si può tentare di comprendere
e in qualche modo spiegare, se teniamo conto del fatto che la cultura è una sorta
di ‘supercervello’ esteriorizzato (cfr. par. 2), il quale «impone costi per proprio
conto» (Keesing 1974: 91).
La cultura non risolve soltanto – nella misura in cui li risolve – i problemi di sopravvivenza
degli individui; la cultura, intesa come corpo di simboli condivisi, ha le proprie
esigenze di sopravvivenza e mantenimento. La radice dell’‘in più’ culturale può essere
intravista proprio qui: nell’impossibilità di soddisfare i bisogni meramente biologici
degli individui e nell’ineluttabile necessità di provvedere alla riproduzione di ciò
che è adibito a soddisfarli. Se è vero che le «risposte» (Malinowski) o le «informazioni»
(Geertz), di cui gli individui hanno bisogno per sopravvivere, si trovano in gran
parte fuori dai loro organismi e dall’apparato genetico che li caratterizza, esse
devono essere contenute in un qualche mezzo, in un qualche supporto, in un ‘corpo’
appunto, come abbastanza spesso viene in effetti chiamata la cultura (Malinowski 1931,
trad. it.: 140; Herskovits 1948, trad. it.: 308, 314). Questo corpo ha i suoi ‘bisogni’,
e questi non si riducono ai bisogni di manutenzione di un apparato strumentale extraorganico.
Proprio in quanto non è un semplice aiuto (cfr. par. 3), la cultura non soltanto ha
i propri ‘bisogni’, che gli individui sono tenuti in qualche modo a soddisfare, ma
ha pure le proprie ‘ragioni’, che non sempre gli individui riescono a comprendere.
La reificazione è la risposta più globale alle esigenze della cultura come realtà
in sé, in quanto coincide con il processo costitutivo del corpo culturale. Ma si tratta
– come abbiamo visto – di un corpo simbolico, e questo significa che, per quanto il
processo di reificazione possa spingersi in avanti, la cultura non è mai una ‘cosa’
che possa mantenersi e sussistere indipendentemente dall’impiego che se ne fa. Proprio
in quanto corpo simbolico, non è sufficiente costituire la cultura e abbandonarla,
per così dire, al suo autonomo funzionamento: i simboli culturali non sussistono in
quanto tali, bensì esistono solo in quanto sono impiegati, condivisi, socializzati.
Se il corpo della cultura consiste in questa sostanza simbolica partecipata, in un
«traffico di simboli significanti» (Geertz 1973, trad. it.: 339), ciò significa che
la cultura deve essere non solo costituita, ma di continuo ricostituita. La reificazione
è sì un processo costitutivo; ma, per quanto vitale, essa non può superare del tutto
la condizione di precarietà che caratterizza nel profondo la sostanza simbolica della
cultura. Altrettanto fondamentale della reificazione, la precarietà accompagna costantemente
la produzione culturale. La precarietà del corpo simbolico della cultura è la condizione
che suscita le esigenze di ricostituzione continua della cultura, per far fronte alle
quali la risposta è appunto la reificazione, quella sorta di trucco o di «illusione»
(Freud 1927) che consente di porre fuori, al di là degli organismi individuali e delle
loro interazioni, i presupposti del loro agire. Senza questa ‘finzione’ nessuna società
potrebbe sussistere (Trubeckoj 1920, trad. it.: 55).
La reificazione è dunque una risposta alla precarietà. Ma per non rimanere invischiati
nelle trame ‘illusorie’ e fittizie – ancorché costitutive – della reificazione, per
non incrementare il mistero del simbolismo o rimanere abbacinati dalla sua magia,
una teoria della cultura deve ripercorrere all’inverso il cammino della reificazione,
e quindi riconoscere la precarietà delle forme culturali e chiedersi quale ne sia
la ragione. Quest’ultima può essere intravista nella dipendenza delle forme culturali
dalle interazioni sociali. Se i simboli sono reali ed efficaci nella misura in cui
sono «agiti» (Geertz 1973) oltre che pensati, coinvolti – nonostante gli sforzi della
reificazione – nel flusso delle azioni sociali, è sufficiente una qualche variazione
nella riproduzione delle forme culturali per insinuare l’idea della loro precarietà.
Collocata nello spazio extraorganico, nella sfera pubblica delle interazioni sociali,
affidata per la sua realizzazione alle azioni degli individui in società, la cultura
non attende la teoria degli scienziati sociali che ne riconoscano la precarietà, ma
contiene già in se stessa l’idea del proprio carattere precario.
Il riconoscimento della precarietà da parte dei teorici della cultura dovrebbe quindi
inglobare il riconoscimento, per quanto parziale e camuffato, della propria precarietà
da parte delle singole culture. Gli sforzi logici e le elaborazioni rituali, il dispendio
di energia e il surplus simbolico in cui ogni cultura sembra costantemente impegnarsi, acquistano forse il
loro significato se proiettati sullo sfondo della precarietà e della consapevolezza
più o meno esacerbata che l’accompagna. Accettare totalmente la precarietà da parte
di una cultura è come rinnegare se stessa, abdicare alle sue funzioni. Il riconoscimento
della precarietà si traduce di solito nei tentativi di farvi fronte; e questi tentativi
costituiscono il fattore di complicazione di cui si è detto.
Per la sua radicale precarietà, e per il riconoscimento che in modo più o meno celato
l’accompagna, una cultura non si risolve totalmente nel suo operare (nella costruzione
di utensili per l’adattamento o nell’imposizione di norme per il funzionamento della
vita sociale); ogni sua attività è invece accompagnata da un ‘in più’ di contenuto
culturale (miti, credenze, rituali), la cui funzione è quella di convincere e assicurare
circa la validità delle soluzioni adottate. Sotto questo profilo, è un po’ come se
la cultura contenesse in se stessa o producesse da se stessa dei livelli metaculturali,
assimilabili alle «operazioni metalinguistiche» che, secondo Roman Jakobson (1963,
trad. it.: 32), «lungi dall’essere riservate alla sfera della scienza [...] si dimostrano
parte integrante delle nostre attività linguistiche abituali». Esattamente come il
riconoscimento della precarietà è un fatto culturale, prima ancora che scientifico,
così la produzione di simboli, discorsi, ‘risposte’ ulteriori – mediante cui una cultura
pensa se stessa e interpreta le ‘risposte’ che essa fornisce per la sopravvivenza,
l’adattamento e il funzionamento – è una dimensione insita nel procedere normale della
cultura. L’idea di una radicale precarietà, mai del tutto superabile da parte dei
tentativi di reificazione, fa sì che ogni cultura sia anche una metacultura.