Capitolo primo. La lunga storia della deumanizzazione
No, non erano inumani. Però, sapete, era questa la cosa peggiore,
e cioè proprio il sospetto che non fossero inumani. Si faceva strada a poco a poco.
Quando gli individui urlavano e saltavano, e si contorcevano, e facevano smorfie orribili;
ma quello che dava i brividi era il pensiero della loro umanità, un’umanità come la
tua,
il pensiero della tua remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato.
Joseph Conrad, Cuore di tenebra
Nel 1839 in una valle tedesca sono stati scoperti i resti fossili di quello che sarebbe
stato denominato Homo neanderthalensis. Per lungo tempo si è pensato che i neandertaliani fossero una specie di ominidi
prossimi alle scimmie, mancanti delle qualità tipiche dell’uomo: linguaggio, intelligenza,
capacità di usare strumenti. Per più di un secolo gli scienziati hanno creduto che
sapiens rappresentasse uno stadio evolutivo più avanzato di neanderthalensis e che per questo motivo lo avesse sostituito nel tempo. L’immagine deumanizzata dei
neandertaliani si è diffusa fuori dall’ambito scientifico: romanzi e film li hanno
presentati come scimmioni privi di razionalità e incapaci di sentimento. Eppure, se
andiamo nel museo di Aleppo e osserviamo lo scheletro di un bambino neandertaliano,
la cui sepoltura è stata ritrovata pochi anni fa in Siria, il riconoscimento è immediato:
è uno di noi. Guardandolo ci chiediamo cosa possa aver causato la sua retrocessione
dalla piena umanità.
Oggi sappiamo che i neandertaliani erano uomini di una specie diversa dalla nostra,
con una cultura sviluppata; sappiamo che sapiens e neanderthalensis hanno coesistito per millenni; sappiamo anche che, con tutta probabilità, neanderthalensis era meno aggressivo di sapiens e cominciamo a intuire che ciò che ha permesso alla nostra specie di sostituirli
è stata proprio la nostra superiore aggressività, la capacità di mettere l’intelligenza
al servizio della lotta e dell’annichilimento di chi di volta in volta consideriamo
nemico.
La deumanizzazione di Homo neanderthalensis può essere considerata l’esempio di una forma radicale di svalutazione che percorre
la storia dell’uomo, accompagnando conflitti e stermini (Lindqvist 1992). Deumanizzare
significa negare l’umanità dell’altro – individuo o gruppo – introducendo un’asimmetria
tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato privo o
carente.
La deumanizzazione è poliedrica, multiforme, flessibile. Si adatta ai luoghi, alle
persone, alle relazioni, assume di volta in volta i contenuti richiesti dal clima
culturale del momento. Reperire e documentare tutte le facies del fenomeno è impossibile; si può però tentare una ricognizione delle forme fondamentali
che si sono sviluppate nel corso della storia: l’animalizzazione, la demonizzazione,
la biologizzazione, l’oggettivazione, la meccanizzazione.
Parlare di deumanizzazione significa naturalmente parlare dell’umano e delle sue proprietà.
Deumanizzare vuol dire avere un’idea – implicita o esplicita – delle qualità che vengono
negate, avere quindi un’idea dell’umano e dell’essenza che gli si attribuisce. Nelle
lingue usate nella cultura occidentale, ma non solo, il termine «umano» è impiegato
con due significati principali. Nel linguaggio scientifico indica ciò che è tipico
dell’uomo in contrapposizione a ciò che è tipico di altre forme viventi. Nel linguaggio
comune, è sinonimo di buono, comprensivo, caloroso, competente in quella forma particolare
di competenza che è l’attenzione e la cura per le «creature» che compongono il nostro
universo, appartengano o meno alla nostra specie. Questa seconda accezione, la più
comune, quella che ci riguarda da vicino perché costituisce un tratto fondante della
vita sociale, racchiude in sé l’ideologia che ha permeato e permea la nostra civiltà:
l’idea che l’umano sia il bene, il vertice della vita sulla Terra, lo stadio più alto
dell’evoluzione, per i credenti l’essere più vicino a Dio. In un libro denso di spunti
e suggerimenti, Deconchy (2000) ha analizzato le strategie che quotidianamente impieghiamo
per costruire l’idea di uomo, un’idea che poggia sulla credenza che i determinismi
naturali non siano sufficienti a dar conto dell’umano, che l’uomo contenga in sé qualcosa
che lo differenzia, e lo innalza, rispetto agli altri esseri viventi. Da questo stesso
nucleo hanno origine le forme di deumanizzazione che rinviano al tradimento dell’umano
come discesa agli inferi costituita dalla perdita dell’umanità (Poliakov 1975).
Nell’antichità classica l’umano era definito come uno spazio intermedio tra divinità
e animalità, uno spazio organizzato in una gerarchia che vedeva al suo apice l’uomo
– maschio, adulto, greco, libero, abitante della polis, dedito all’otium. Più sotto, per difetto di razionalità, era collocata la donna e, nello strato inferiore
dell’umano che confina con l’universo animale, lo schiavo. Lo schiavo era considerato
tale per natura, appartenente a un gruppo prossimo a quello degli animali domestici, tanto che Senofonte
sosteneva che i metodi educativi adatti agli animali erano appropriati anche per gli
schiavi (Vegetti 1996). Lo schiavo era ritenuto privo di logos, il linguaggio-ragione. Proprietà personale e materiale del padrone, lavorava per
lui, dipendeva dal suo arbitrio, era collocato allo stesso livello degli oggetti materiali.
Nella filosofia post-aristotelica era chiamato semplicemente soma, corpo. Nel mondo greco, il concetto di schiavo era prossimo a quello di barbaro,
una contiguità che permetteva l’accostamento tra barbaro e bestia. Su questi slittamenti
concettuali si basava la categoria antropologica degli «uomini bestiali», menomati
sul piano della virtù e dell’umanità. La loro inferiorità rispetto ai liberi era tale
che le guerre combattute per sottometterli erano considerate necessarie battute di
caccia, come quelle effettuate per gli animali feroci (Vignolo 2009).
L’etnocentrismo del mondo classico delinea il paradigma del selvaggio, l’animale barbaro
– antropofago, privo di leggi, incapace di dedicarsi al lavoro agricolo, caratterizzato
da una sessualità bestiale – che diventa principio e modello di una teratologia morale
della specie umana. Per l’Aristotele dell’Etica Nicomachea il vizio estremo della specie umana è la «bestialità», definita dall’assenza del
principio di razionalità. Nell’Inferno di Dante, che all’etica aristotelica si ispira, i dannati macchiatisi delle colpe
più gravi – frodatori e traditori – sono descritti con paragoni animali (pensiamo
ai ladri serpenti) che segnalano la perdita dell’umanità. I traditori, in particolare,
che hanno commesso il crimine peggiore, sono raffigurati come bestie feroci. L’esempio
più noto è quello di Ugolino della Gherardesca, la cui belluinità è sottolineata dall’antropofagia.
La visione antropologica del mondo antico si trasmette al mondo medievale e informa
il pensiero moderno al momento della scoperta dell’America. Quando si recano nelle
terre al di là del mare, i conquistatori europei portano con sé l’immaginario antico,
nel quale il mondo degli antipodi era popolato di mostri. Essi mutuano le categorie
impiegate dalla cultura classica e medievale per definire le creature non razionali,
deumanizzando così i popoli che incontrano. Lo sterminio delle popolazioni americane
è sorretto da un’ideologia che appiattisce l’immagine dei nativi su quella delle bestie.
Gli esempi di deumanizzazione dei nativi pervadono le cronache della conquista e la
saggistica successiva. I conquistatori li definiscono bestie, creature barbare, prive
di intelligenza, cannibali. Sulla scorta di tali affermazioni, nasce la questione
dell’umanità dei nativi. I filosofi spagnoli discussero a lungo se gli indiani fossero
uomini o scimmie, semplici bruti o creature capaci di pensiero razionale e se Dio
li avesse creati allo scopo di fornire schiavi agli europei. Le discussioni culminarono
nel confronto tra Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de Las Casas, tenutosi a Valladolid
nel 1550, per volere di Carlo V. In tale occasione, Sepúlveda descrisse i nativi come
esseri selvaggi e ostili, di natura subumana, «homuncoli» privi della minima traccia
di umanità, destinati da Dio a essere sottomessi dai popoli civilizzati. Nel tentativo
di difenderli, Las Casas testimoniò che venivano trattati come animali e chiamati
«cani». Secondo Las Casas, venivano considerati così inumani che «il saggio può cacciarli
e ucciderli [...] nello stesso modo in cui caccerebbe gli animali selvaggi» (citato
in Stannard 1992, p. 339). La rappresentazione deumanizzata delle popolazioni americane
si diffuse rapidamente. Bernardino de Minaya sostenne, qualche tempo dopo, che la
gente comune era convinta che «gli indiani d’America non erano veri uomini, ma una
terza specie di animali, a metà tra uomini e scimmie, creati da Dio per servire al
meglio gli uomini» (citato in Stannard 1992, p. 340). La deumanizzazione costituì
il corollario ideologico del genocidio, il più terribile della storia umana. Aztechi,
Incas e Maja erano tra i 70 e i 90 milioni al momento della conquista. Un secolo e
mezzo dopo non erano più che tre milioni e mezzo.
L’immagine deumanizzata dei nativi si diffuse rapidamente in tutta Europa. Il primo
libro sull’America pubblicato in inglese, nel 1511, li descriveva come bestie cannibali,
prive di razionalità. Nel secolo successivo i lettori inglesi ebbero a disposizione
quasi unicamente opere che presentavano i nativi come bruti; Las Casas e i pochi che
tentarono di trasmettere una visione più positiva furono ignorati dal mercato editoriale.
L’idea era funzionale alla conquista dei territori d’oltremare. Nel 1609 Robert Gray
dichiarò che la maggior parte della Terra era «ingiustamente posseduta e usurpata
dalle bestie selvatiche [...] o da selvaggi senza ragione che, per la loro empia ignoranza
e blasfema idolatria, sono peggio di quelle bestie» (citato in Thomas 1983, p. 35).
Nel Sei e Settecento alle dissertazioni sull’essenza subumana dei nativi si unirono
quelle sui neri, soggetti alla tratta degli schiavi, sottoposti ai trattamenti tipici
delle bestie: vendite nei mercati, marchiatura a fuoco, lavori forzati. Secondo gli
storici, la schiavitù precede l’asserzione della semi-animalità degli uomini di colore:
il razzismo nei confronti dei neri fu una conseguenza, non una motivazione, della
tratta. La svalutazione dei neri, paragonati a scimmie, servì a legittimare il loro
status di schiavi. Nel mondo cristiano le legittimazioni ideologiche assunsero connotazioni
religiose, basate sull’episodio biblico della maledizione di Cam e sull’autorità dei
Padri della Chiesa. Nella Città di Dio (libro xix, cap. xv), ad esempio, sant’Agostino sostiene che la schiavitù va interpretata come sanzione
divina per una colpa individuale o collettiva (Pétré-Grenouilleau 2004). Quando, nel
secondo capitolo, parleremo dei processi di disimpegno morale, che rendono accettabili
azioni normalmente riprovate, citeremo, tra di essi, la colpevolizzazione delle vittime,
di cui la tesi sulla schiavitù di sant’Agostino costituisce un esempio pregnante.
Anche nell’America del Nord, dove nel corso di due secoli fu sterminato oltre il 95%
della popolazione nativa, la deumanizzazione concorse al genocidio, un genocidio più
tardi «spettacolarizzato dai film western e mitizzato come una pagina gloriosa della
storia americana» (Traverso 1994, p. 180). Per giustificarlo, i popoli dell’America
del Nord vennero considerati animali da cacciare. Gli scritti dei padri fondatori
della nazione americana sono in questo senso esemplari. Washington dichiarò, nel 1783,
che gli indiani erano simili ai lupi «essendo entrambi animali da preda, sebbene di
forma diversa» (citato in Drinnon 1990, p. 331). Jefferson sostenne, nel 1812, che
i bianchi erano obbligati a cacciare gli indiani «incivili [...] con le bestie delle
foreste», aggiungendo che il governo americano non aveva altra scelta che «perseguitare
gli indiani fino allo sterminio» (citato in Drinnon 1990, pp. 96-98). Jackson chiamò
gli indiani «cani selvaggi», vantandosi di conservare lo scalpo di quelli che aveva
ucciso; alla fine del mandato presidenziale, invitò le truppe americane a completare
lo sterminio uccidendo anche donne e bambini; fare diversamente sarebbe stato come
«andare sulle colline a caccia di un lupo senza sapere dove si trovano la sua tana
e i suoi cuccioli» (citato in Stannard 1992, p. 203). Il colonnello Chivington, comandante
delle truppe che compirono il massacro di Sand Creek, sosteneva che il suo obiettivo
era quello di uccidere e «raccogliere gli scalpi di tutti, piccoli e grandi» dato
che «le lendini fanno pidocchi», espressione che divenne l’urlo di guerra dei suoi
soldati. Gli indiani venivano abitualmente animalizzati dalla stampa come bestie ripugnanti,
sporche e inumane, porci, cani, lupi, serpenti, maiali, babbuini, gorilla, oranghi;
toccare un indiano creava «un senso di repulsione come quando si poggia la mano su
un rospo, una tartaruga o una grossa lucertola» (Stannard 1992, pp. 235-236).
Nel Nord America, la deumanizzazione di carattere subumano fu accompagnata dalla deumanizzazione
di carattere sovraumano. La cultura religiosa dei coloni inglesi contribuì alla fusione tra l’immagine dei
nativi e l’elemento satanico: da quel momento i nativi furono comunemente chiamati
«diavoli rossi». Ripercorrendo la «retorica dello sterminio», Svaldi (1989) ricorda
molti impieghi di tale definizione, che emerge in particolare nel timore dei coloni
di essere contaminati dalla presenza indiana. Su tale timore si basò il divieto di
rapporti sessuali, rapidamente interiorizzato e osservato anche nei periodi di scarsa
presenza di donne inglesi; esso fu formalizzato in leggi che vietavano «per sempre»
le relazioni inter-razziali, definite «unioni abominevoli» che avrebbero generato
«discendenze bastarde» (Stannard 1992, p. 369).
Gustav Jahoda (1999) ha mostrato come la cultura occidentale si sia servita dell’animalizzazione
degli «indigeni» in tutti gli scenari coloniali, in cui la diversità etnica è stata
rappresentata come barbarie, irrazionalità, carenza morale. Le descrizioni razziste
hanno accomunato gli africani alle scimmie antropomorfe, negando, nei casi più estremi,
la loro appartenenza al genere umano. Tali rappresentazioni, condivise da intellettuali
e gente comune, si sono tradotte in pratiche deumanizzanti, ogni volta che queste
fossero funzionali allo sfruttamento intensivo della manodopera o nei casi di insubordinazione
e conflitto. Gli esempi sono tanti. Nessuna potenza coloniale si è sottratta a tali pratiche.
Un caso estremo è dato dalla colonizzazione belga del Congo, in cui gli africani,
trattati come bestie da soma, venivano mutilati o uccisi quando la loro produttività
non si rivelava soddisfacente (Hochschild 1998). Un altro caso estremo fu quello dei
pigmei, che divennero oggetto di indagine scientifica e di curiosità popolare quando,
nel 1870, l’esploratore e botanico tedesco Georg Schweinfurth li incontrò nel Congo
orientale e dedicò loro pagine memorabili nel suo racconto di viaggio. Alcuni furono
portati in Europa e in America e pubblicamente esibiti come l’anello mancante dell’evoluzione,
una sorte che toccò ai due pigmei «di Miani», lasciati in eredità alla Società Geografica
Italiana e arrivati in Italia nel 1874 (Allovio 2010).
La deumanizzazione non è stata però confinata allo scenario coloniale e alla diversità
etnica. Nel corso dei secoli è stata impiegata per designare le donne, per marginalizzare
le classi povere e criminalizzarne le rivolte, per demonizzare avversari politici
e nemici. Le donne sono state animalizzate, oggettivate, demonizzate. Per secoli,
nel Medioevo e soprattutto in epoca moderna, la demonizzazione è stata la forma privilegiata
che ha provocato decine di migliaia di esecuzioni durante la caccia alle streghe.
Nel 1486 il Malleus Maleficarum spiegava lo stretto rapporto esistente tra stregoneria e natura femminile invocando
la naturale inferiorità delle donne che, per irrazionalità, debolezza e lascivia,
erano facile preda del demonio. Gli autori del Malleus notavano che le donne «sembrano appartenere a una natura diversa da quella degli
uomini», dato comprovato dal «difetto di origine» costituito dalla costola curva con
cui Eva è stata creata, cosa che l’ha resa un «animale imperfetto», come insegna l’etimologia:
«foemina viene da fe e minus, perché sempre essa ha ed è capace di conservare minore fede» (Romanello 1981, pp.
97-98).
I poveri erano considerati da nobili, borghesi e intellettuali gente ignorante, irreligiosa,
priva delle peculiari qualità umane. «La numerosa canaglia che sembra avere i segni
dell’uomo sul volto – scriveva nel 1693 Sir Pope Blount – quanto a comprendonio, è
fatta unicamente di bruti [...] li chiamiamo uomini soltanto per metafora, perché
al massimo sono degli automi cartesiani, strutture e figure mobili di uomini, e altro
non hanno, tranne l’aspetto interiore, che giustifichi il loro diritto alla razionalità»
(citato in Thomas 1983, p. 37). La Bruyère descriveva in modo analogo i contadini francesi: «Animali astiosi, maschi
e femmine sparsi nella campagna, scuri, lividi, arsi dal sole, attaccati alla terra
che dissodano e rivoltano con irriducibile accanimento; pronunciano frasi articolate
e quando si alzano in piedi mostrano un viso umano e, in realtà, sono uomini. Di notte
si ritirano nelle loro tane dove si nutrono di pane nero, acqua e radici» (citato
in Stannard 1992, p. 118). Coloro che vivevano ai margini della società, poveri, pazzi,
mendicanti, vagabondi, erano considerati la parte vile e bruta dell’umanità e come
tali trattati. Le tecniche per educare il popolo e per reprimere i delinquenti furono
mutuate dal’addomesticamento degli animali, seguendo la metafora paternalistica per
cui il capo è il buon pastore e i lavoratori un gregge obbediente. L’assimilazione
delle classi lavoratrici a una «razza inferiore» diventò un luogo comune della cultura
europea nell’era del capitalismo trionfante. Quando gli inferiori osavano ribellarsi,
la repressione politica veniva praticata come disinfestazione del corpo sociale da
un nemico biologicamente inferiore. Sono celebri i passi di Hyppolite Taine sulla
rivoluzione francese, che svela «l’istinto animale della rivolta» e fa emergere nel
rivoluzionario «il barbaro, peggio, l’animale primitivo, la scimmia smorfiosa, sanguinaria
e lubrica, che uccide ridendo e scorrazza sulle rovine che ha provocato» (citato in
Traverso 2002, p. 133). Altrettanto celebre l’interpretazione «zoologica» che Théophile
Gautier diede della Comune: «Ci sono, in tutte le grandi città, delle fosse dei leoni,
delle caverne protette da spesse sbarre di ferro nelle quali sono rinchiuse le bestie
feroci, le bestie puzzolenti, le bestie velenose, tutte le perversità refrattarie
che la civilizzazione non è riuscita ad addomesticare, quelli che amano il sangue,
che godono degli incendi come fossero un fuoco d’artificio, quelli che si deliziano
delle rapine, per i quali l’attentato al pudore rappresenta l’amore, tutti i mostri
del cuore, tutti gli storpi d’animo; popolazione immonda, sconosciuta alla luce del
giorno, sinistramente brulicante nelle profondità delle tenebre sotterranee. Un giorno,
capita che il domatore distratto dimentichi la chiave nella porta del serraglio e
gli animali feroci si disperdono nella città spaventata lanciando urla selvagge. Dalle
gabbie aperte, si lanciano le iene del ’93 e i gorilla della Comune» (citato in Traverso
2002, p. 132).
La psicologia delle folle ereditò tale prospettiva e considerò la folla una sorta
di patologia urbana. Per Tarde, la folla è il segno della riapparizione, nei popoli
civilizzati, di una «bestia impulsiva e maniaca, prigioniera di istinti e di abitudini
macchinali, a volte un animale inferiore, un invertebrato, un verme mostruoso, dalla
sensibilità diffusa, che si agita con movimenti disordinati anche dopo che gli è stata
tagliata la testa» (citato in Traverso 2002, p. 134).
Altri territori della deumanizzazione sono quelli della lotta culturale, religiosa
e politica. Per i primi, Keith Thomas (1983, p. 41) riporta una serie di citazioni,
da Milton che bollava i suoi avversari come «civette e cuculi, somari, scimmioni e
cani», a Marx che definiva Malthus un «babbuino». È soprattutto in guerra, però, che
descrivere un uomo come una bestia implica il suo trattamento come tale. Un esempio
particolarmente pregnante è dato dalle guerre di religione in cui traspare chiaramente
come la demonizzazione degli avversari sia l’atto mentale necessario all’esecuzione
delle peggiori atrocità (Zemon Davis 1975). Nel Novecento, l’enorme diffusione dei
mezzi di propaganda ha potenziato in modo esponenziale la negazione dell’umanità del
nemico. Già nel 1928 Arthur Ponsonby, uomo politico e pacifista inglese, aveva denunciato, in Falsehood in Wartime, le menzogne della propaganda bellica da parte di tutti i contendenti della prima
guerra mondiale. Nei conflitti del Novecento, lo sviluppo dei mass media ha fatto
sì che metafore e immagini deumanizzanti fossero impiegate con un’intensità fino a
quel momento sconosciuta. Analizzando le strategie di deumanizzazione impiegate dagli
alleati durante la seconda guerra mondiale, Paul Fussell (1989) ha posto in evidenza
un legame tra minacciosità del nemico e propaganda deumanizzante. I giapponesi, considerati
dagli americani il nemico più feroce, venivano programmaticamente animalizzati come
specie nana e maligna. Il corpo dei marines, ad esempio, cercò di diffondere il termine
Japes (Japs + apes, giapponesi + scimmie), senza avere peraltro molto successo per la concorrenza di
Japs, un monosillabo veloce, perfetto per gli slogan propagandistici (Rap the Jap, colpisci il giapponese; o Let’s Blast the Jap Clean Off the Map, spazziamo via il giapponese dalla mappa, che, come nota lo stesso Fussell, suona
ai nostri orecchi come una tragica profezia di Hiroshima). I tedeschi venivano invece
raffigurati come esseri aridi, perversi, privi di immaginazione, automi più che animali.
Un’altra frequente caratterizzazione invocava la patologia: i tedeschi erano una pestilenza
dilagante, tanto che Bastogne, dopo la liberazione, fu dichiarata «disinfestata dai
crauti» (Fussell 1989, p. 158). I tedeschi, dal canto loro, rispondevano parlando
di eserciti «imbestialiti dalla presenza di soldati di colore e persino di cannibali,
di patria di Kant e Beethoven minacciata da tribù antropofaghe in uniforme» (Traverso
2002, p. 111). Il nazismo, come vedremo nel prossimo capitolo, impiegò tutti i registri
della deumanizzazione per eliminare gli ebrei dalla scena europea.
Le affermazioni relative alla patologia richiamano una forma deumanizzante divenuta
via via più insidiosa: la biologizzazione. Il tema trova un antecedente importante
nel culto della limpieza de sangre della Spagna cinquecentesca, ma si è imposto in modo pervasivo solo con l’affermarsi
del razzismo scientifico, del darwinismo sociale, dell’eugenetica. In tale contesto
le metafore dominanti si sono organizzate intorno ai nuclei della malattia, della
protezione dell’igiene pubblica, della purezza, trasformando l’altro in microbo, virus,
bacillo, morbo, pestilenza, cancro, tumore, sporcizia, inquinamento. La teoria dei
germi ha sostituito il demonio come metafora del pericolo. Una minaccia da affrontare
con misure drastiche, come quelle necessarie in caso di emergenze ed epidemie, quindi
attraverso pulizia, eliminazione, estirpazione, disinfezione, purificazione. Metafore
ispirate a tali temi dominano il Novecento, sono reperibili in tutti i genocidi, dalla
Cambogia alla Shoah: Rudolf Hess dichiarò che il nazionalsocialismo altro non era
che biologia applicata (Savage 2007).
Tra Ottocento e Novecento la deumanizzazione trova una nuova espressione: la metafora
meccanicistica, che si sostanzia con paragoni tratti dall’universo delle macchine
e degli automi. Come sempre succede, gli spunti sono forniti dall’immaginazione artistica.
Nel 1817, Ernst Hoffmann in un racconto, L’uomo della sabbia, narra l’amore tra un uomo e una bambola meccanica. L’anno successivo, in Frankenstein, Mary Wollstonecraft Shelley immagina la creazione di un essere artificiale, primo
di quella lunga serie di contaminazioni tra mondo umano e meccanico che popoleranno
l’universo fantascientifico. Sarà il francese Villiers de l’Isle-Adam a impiegare,
invece, in Eva futura (1886), il termine «androide» per indicare la perfetta donna artificiale, creata
da Thomas Edison, protagonista del suo romanzo. Il cinema si impadronirà poi di tali
temi, decretandone il successo mondiale. È interessante notare che l’immaginario della
donna meccanica, presente fin dagli inizi in tale produzione, costituisce un’anticipazione
della tematica dell’oggettivazione sessuale, di cui discuteremo nel quarto capitolo.
La metafora meccanicistica trova comunque le applicazioni più importanti nel mondo
industriale. Agli inizi del Novecento, il taylorismo teorizza la sottomissione totale
degli operai, la separazione tra fase ideativa e fase esecutiva del lavoro, la segmentazione
della produzione. L’alienazione del lavoratore, descritta da Marx, assume forme estreme
con il passaggio dall’operaio di mestiere all’operaio-massa, non qualificato, sempre
sostituibile. «L’ideale di Taylor era un operaio decerebrato, privo di ogni autonomia
intellettuale e capace soltanto di compiere meccanicamente operazioni standardizzate:
per riprendere la sua definizione, un ‘gorilla ammaestrato’ (uno scimpanzé, scriverà
Céline nel suo Viaggio al termine della notte). In altre parole, un essere disumanizzato, alienato, un automa programmato» (Traverso
2002, p. 52), come denunciò nel 1936 Chaplin in Tempi moderni. In parallelo con la trasformazione dell’operaio si verificò la trasformazione del
militare: la propaganda nazionalista di fascismo e nazismo sostituì l’iconografia
tradizionale del soldato (fiero, umano, dai tratti classici) con una figura fredda,
meccanica, minacciosa, il cui volto sembrava fondersi con l’acciaio dell’elmetto.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, la retorica della meccanizzazione penetra
in tutti gli ambiti. In Bagatelle per un massacro (1937) Céline presenta l’intellettuale ebreo come un «letterato robot», sprovvisto
di spirito creativo. Gli è estranea l’emozione autentica, perché la sua vocazione
lo spinge a cercare «lo standard in tutte le cose», fatto che gli permette di dominare
la società, dato che «la civilizzazione moderna è la standardizzazione totale, anime
e corpi sotto il dominio dell’ebreo» (citato in Traverso 2002, p. 160).
Lo studio psicosociale della deumanizzazione
Come abbiamo cercato di illustrare nel nostro rapido excursus, le figure della deumanizzazione sono molteplici. Ogni società impiega metafore adatte
allo Zeitgeist: nel passato si invocavano animali, spiriti e oggetti, poi sono venute le metafore
biologiche, infine quelle meccanicistiche. A volte si usano più immagini deumanizzanti
per lo stesso soggetto; siamo di fronte allora ai casi più gravidi di conseguenze
sul piano dello sfruttamento (lo schiavo: animale e cosa) o della violenza (la donna:
bestia e strega, il pellerossa: lupo e diavolo). Ciò che accomuna comunque la gran
parte delle espressioni storiche della deumanizzazione è il loro essere strumenti
di oppressione sociale e psicologica, usati da gruppi potenti per sfruttare, umiliare,
annichilire gruppi più deboli.
La deumanizzazione si può esprimere in modi espliciti o sottili. I primi comprendono
le strategie che negano apertamente l’umanità di altri individui o gruppi, allo scopo
di giustificare sfruttamenti, degradazioni, violenze. I secondi comprendono i processi
di deumanizzazione quotidiana, che erodono in modo sottile e solitamente inconsapevole
l’altrui umanità.
Ciascuna metafora racchiude significati complessi e spesso ambivalenti; la metafora
animale, per esempio, può significare che i membri dei gruppi ritenuti subumani sono
considerati come animali domestici, il cui sfruttamento è utile alla società, oppure
come animali nocivi, da eliminare. Le conseguenze sono chiaramente diverse. Paragonare
i membri di gruppi estranei a spiriti, diavoli, mostri, ma anche a microbi e virus,
comporta la paura dell’invisibile, dell’ignoto, e porta a livelli intollerabili la
percezione di minacciosità del gruppo nemico. Considerare l’altro un oggetto rinvia
invece all’universo della mercificazione, all’uso strumentale del corpo, all’azzeramento
dell’anima.
Come si è visto, la metafora storicamente più frequente è quella animalistica. L’animale
accompagna da sempre l’umanità nel suo percorso sulla Terra; le immagini più antiche
tracciate dall’uomo raffigurano animali, si pensi alle incisioni delle grotte di Chauvet
o di Lascaux. Esse testimoniano che, fin dalla preistoria, l’animale costituisce un
punto di riferimento indispensabile che permette, con la sua presenza, di creare e
definire l’identità umana. Secondo Tommaso d’Aquino, nel Paradiso terrestre gli uomini
non avevano bisogno degli animali per nutrirsi, vestirsi, spostarsi, ma ne avevano
bisogno per «avere una conoscenza sperimentale delle loro nature» (citato in Le Bras-Chopard
2000, p. 10). L’animale costituisce quindi l’alterità necessaria all’affermazione
dell’identità umana. L’uomo si definisce attraverso il suo dominio su di esso e, contemporaneamente,
lo usa per giustificare la dominazione di altri esseri umani.
Bisognerebbe chiedersi, però, perché parliamo di bestialità pensando a episodi di
genocidio, quando non si conoscono esempi di genocidio tra gli animali e quando tutte
le evidenze mostrano che l’implementazione di un genocidio richiede programmazione
ed efficienza tipicamente umane. Perché se chiedo ai miei studenti di indicare il
prototipo dell’umano, molti citano Einstein e nessuno Hitler? Eppure i risultati ottenuti
da entrambi sono specificamente umani, vale a dire almeno finora irraggiungibili dalle
altre specie che popolano il pianeta. Ho sempre trovato illuminante il finale della
Fattoria degli animali quando il tradimento dei maiali è reso evidente proprio dal fatto che sono divenuti
indistinguibili dagli uomini.
Questo è uno dei motivi per studiare la deumanizzazione da un punto di vista psicosociale:
capire come viene costruita e decostruita l’immagine dell’uomo, capire a cosa servono
costruzione e decostruzione, capire i rapporti con le entità – umane e non umane –
che popolano il nostro universo e l’uso che di tali entità facciamo. Parecchi anni
fa Lévi-Strauss (1952, pp. 105-106) notava: «L’umanità cessa alla frontiera della
tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio; a tal punto che molte
popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa gli ‘uomini’
(o talvolta – con maggior discrezione, diremmo – i ‘buoni’, gli ‘eccellenti’, i ‘completi’)
sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipino
delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composti di ‘cattivi’,
di ‘malvagi’, di ‘scimmie terrestri’, o di ‘pidocchi’. Si arriva spesso al punto di
privare lo straniero anche di quest’ultimo grado di realtà facendone un ‘fantasma’
o una ‘apparizione’». Il passo è stato molto citato per dire che le relazioni intergruppi
sarebbero minate da un’ineliminabile diffidenza nei confronti dell’estraneo. Ricerche
recenti sembrano però smentire le inferenze più negative che si possono trarre dalle
parole di Lévi-Strauss, ponendo in luce che non necessariamente le differenziazioni
in termini di umanità provocano conseguenze severe nelle relazioni intergruppi. Studi
d’archivio sulle società che usano antroponimi (nomi che rappresentano il proprio
gruppo in termini di umanità, come «gli uomini» o «gli umani») hanno infatti dimostrato
che tali società non esprimono un potenziale di aggressività maggiore delle società
che usano etnonimi (nomi dati al gruppo di appartenenza) di altro genere, ad esempio
i toponimi (Mullen, Calogero e Leader 2007). Si può dedurre da tali risultati che
la definizione del proprio gruppo come prototipo dell’umano non implichi necessariamente
la degradazione degli altri gruppi.
Quali sono allora le condizioni nelle quali la deumanizzazione diventa un fenomeno
che ha conseguenze severe nella vita sociale? A questo tipo di interrogativi cerca
di rispondere la ricerca psicosociale. Come vedremo, gli studi psicosociali sulla
deumanizzazione sono relativamente recenti, hanno risposto a domande importanti, ma
altri interrogativi restano inevasi. Tali studi costituiscono attualmente un cantiere
aperto, in cui molto resta ancora da scoprire, molte connessioni sono ancora da stabilire
soprattutto con i risultati ottenuti in altri campi d’indagine. I processi di deumanizzazione,
infatti, proprio perché riguardano la negazione dell’umano, hanno bisogno, per essere
compresi nella loro interezza, di una visione globale dell’uomo e del suo percorso
storico.
La deumanizzazione è al tempo stesso un fenomeno sociale e un processo psicologico.
In questo libro affronteremo i processi di deumanizzazione dalla seconda angolazione.
Più esattamente, parleremo dei fenomeni di deumanizzazione in una prospettiva psicosociale,
come forme estreme di discriminazione intergruppi. Nella teoria dell’identità sociale,
Tajfel (1981) ha fornito una cornice teorica nella quale possono essere inquadrati
i processi deumanizzanti. Secondo tale teoria, le interazioni sociali possono essere
definite mediante il continuum interpersonale/intergruppi. In esso, il polo interpersonale descrive quegli incontri
in cui i partecipanti interagiscono unicamente sulla base delle loro caratteristiche
personali, mentre il polo intergruppi descrive quegli incontri in cui i partecipanti
entrano in relazione unicamente sulla base delle loro appartenenze categoriali. Tutte
le comuni relazioni umane sono rintracciabili all’interno del continuum; i comportamenti vicini alle polarità estreme rispondono infatti a un bisogno di
classificazione teorica, ma sono difficilmente riscontrabili nella realtà. Sono tuttavia
individuabili comportamenti tipici della polarità intergruppi: Tajfel cita come esempio
il comportamento dell’equipaggio di un aereo militare durante un’azione di bombardamento;
esso incide sui membri del gruppo nemico al punto di determinarne vita o morte, ma
si svolge nella completa assenza di rapporti interpersonali: i militari non vedono
le vittime né hanno alcuna percezione delle loro sofferenze. Nelle situazioni sociali
prossime al polo intergruppi, il comportamento dei membri di un gruppo verso i membri
di un gruppo contrapposto è uniforme, accompagnato dalla tendenza a trattare i membri
del gruppo estraneo come elementi indifferenziati di un’unica categoria. In queste
situazioni si verifica, secondo Tajfel, una depersonalizzazione dei membri dell’altro
gruppo, che può preludere a una loro deumanizzazione. Come sottolinea Billig (2002),
che sostiene la necessità di studiare la discontinuità tra forme quotidiane e forme
estreme di comportamento, Tajfel non ha approfondito l’intuizione del legame possibile
tra depersonalizzazione e deumanizzazione, né l’hanno fatto gli studiosi che hanno
proseguito l’analisi dei conflitti intergruppi nella direzione da lui tracciata. In
psicologia sociale, il termine depersonalizzazione ha anzi assunto un significato diverso, con lo spostamento concettuale introdotto
dai teorici della categorizzazione di sé (Self categorization theory; Turner et al. 1987), che hanno privato il concetto delle sue connotazioni negative e del legame
con la deumanizzazione. Nella teoria della categorizzazione di sé il termine non è
più riferito alla depersonalizzazione dei membri del gruppo estraneo, ma a quella
del sé e dei membri del proprio gruppo quando diventa saliente l’appartenenza categoriale.
L’intuizione di Tajfel torna però oggi di attualità, nel momento in cui gli studiosi
considerano la deumanizzazione una tematica di grande importanza sia dal punto di
vista teorico, sia dal punto di vista delle implicazioni sociali del fenomeno.
Per chiarezza, è opportuno distinguere il concetto di deumanizzazione che costituirà
la base del nostro percorso da concetti e accezioni vicine. Un termine prossimo ai
costrutti che ci interessano, largamente impiegato negli studi psicosociali, è deindividuazione. Esso indica una situazione di indebolimento della salienza dell’identità personale,
nella quale le persone non sono viste come entità specifiche, individuabili e responsabili,
ma vengono confuse in un aggregato anonimo; in tale situazione le consuete norme sociali
perdono di rilevanza, sia perché lo stato di relativo anonimato protegge l’individuo
dalle sanzioni, sia perché divengono più labili le forme interiorizzate di controllo.
In psicologia sociale, tali processi sono stati studiati da Zimbardo (1969), che ha
mostrato come la deindividuazione favorisca lo scatenarsi di comportamenti aggressivi,
dato che è accompagnata dall’indebolimento delle facoltà di auto-osservazione, dell’interesse
per la valutazione altrui, dei controlli basati su emozioni sociali quali senso di
colpa, vergogna, paura, dei freni che inibiscono i comportamenti distruttivi. La teoria
di Zimbardo ha stimolato varie ricerche, ma ha anche suscitato molti interventi critici,
partendo dai quali è stato proposto un modello alternativo che si richiama alla teoria
dell’identità sociale e che, in opposizione al modello tradizionale basato su una
concezione individualistica, sottolinea il ruolo giocato dalle identità collettive
nella costruzione dei comportamenti (Reicher, Spears e Postmes 1995).
Depersonalizzazione e deumanizzazione sono termini impiegati anche in psicologia clinica,
in psichiatria, negli studi sul burnout, per indicare situazioni nelle quali gli individui incontrano difficoltà nella percezione
di sé all’interno delle interazioni quotidiane. Si tratta di condizioni caratterizzate
da vuoto emotivo, apatia, difficoltà a organizzare in modo coerente i pensieri, accompagnate
sovente dalla perdita progressiva del senso di realtà. Di depersonalizzazione e deumanizzazione
parla anche Fanon (1961), per il quale costituiscono le conseguenze psicologiche dell’oppressione
coloniale. Secondo l’autore, chi ha subito la colonizzazione vive una situazione di
alienazione, fondata su un irreparabile sentimento di inferiorità, dovuto alla svalutazione
della cultura di appartenenza e all’imposizione di valori estranei.
In questo libro non indagheremo tali ambiti; evidenzieremo piuttosto i processi psicosociali
della deumanizzazione, vale a dire gli atteggiamenti, i comportamenti, le pratiche
sociali che discendono dall’esclusione dell’altro – l’oppositore, il nemico, il diverso
– dalla specie umana.
Nel prossimo capitolo parleremo di deumanizzazione esplicita, palese, manifesta; tratteremo
quei processi che escludono apertamente l’altro dal consesso umano, illustrando le
ricerche che hanno mostrato il legame tra deumanizzazione e fenomeni di severa violenza
intergruppi. Nel capitolo successivo – il terzo – analizzeremo invece i processi sottili
con i quali, quotidianamente e spesso inconsapevolmente, sovrastimiamo la nostra umanità
e diminuiamo l’umanità dell’altro. Passeremo in rassegna una serie di ricerche, realizzate
nell’ultimo decennio, che hanno cercato di individuare queste strategie sottili, le
loro funzioni e le loro conseguenze. Nel quarto capitolo affronteremo un caso particolare,
ma pervasivo, di deumanizzazione: l’oggettivazione sessuale. Ne vedremo modalità e
conseguenze sulla vita di donne, uomini, adolescenti, interrogandoci, in particolare,
sul ruolo che i mass media hanno nella sua diffusione. Nel quinto e ultimo capitolo
concluderemo la nostra panoramica, facendo cenno a settori di ricerca che hanno cominciato
a svilupparsi negli ultimi anni (le ricerche sull’antropomorfismo e le ricerche neuropsicologiche)
e alle tante domande che cercano ancora risposta. Come abbiamo detto, gli studi psicosociali
sui processi deumanizzanti costituiscono in questo momento un cantiere in fieri, in cui ricerche qualitative e quantitative, approcci sperimentali, correlazionali
e d’archivio tentano di costruire una conoscenza approfondita di fenomeni che hanno
pesanti ricadute sulla vita sociale.
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